Papillon

Gliel’ho detto a quell’altro me che così non va più bene. Che tra quarantene, lockdown et similia, pare che siamo diventati Papillon per quanto ci piacerebbe scappare da qui, portandoci dietro solo la musica.

Però, capisco lui, – o meglio, cerco di capirlo, pure se non mi riesce – ma io che c’entro? Che sono nessuno conclamato tale? Io, poi, che sono incline alla solidarietà, gli sto pure accanto, ma se è troppo stroppia. Glielo avevo detto, financo implorato, di rimanere a fare i pescatori, ma pure di frodo, s’era necessario. Ma lui niente, che pare non volesse deludere il mondo, quello stesso che lo imprigiona e butta via la chiave, che poi non solo di quarantena si tratta. C’è, pure, che la convivenza forzata tracima di dialettiche serrate, che a me non m’aggradano, m’annoiano, di più, mi irritano. E irritato io, irritato lui, finisce che chiedo la separazione, almeno pro tempore. Me ne vado, scappo di casa, mi viene l’egoismo compulsivo, che io d’anagrafica d’altri non rispondo, non ci ho mica la tessera sanitaria, a nessuno non la rilasciano. Mi faccio le valigie – sporta di pane e pomodoro, e fiasco, a lui gli lascio la parmigiana che Stefano, che ha banchino a mercato sotto casa mia, m’ha lasciato a uscio melanzane fuori stagione dignitose – e mi faccio un viaggio, dove mi pare e come mi pare, che a lui lo lascio con le sue prescrizioni, pure morali, corpo e mente. Se ha spirito lo porto con me, al guinzaglio, come si compete a chi nasce schiavo e tal vuol rimanere. Mi metto a seguire il fiume tra trote e carpe che saluto con riverenza, niente contro di loro, ma non mi fermo più di tanto.

Raggiungo il mare in fretta, mi seguo corrente, pure corrente mi faccio, talora scoglio, che di riverbero di sole e d’onda traslucido d’immenso. D’abisso mi dipingo, e prendo un caffè con sirene astemie, di cicchetti mi finisco con pirati fenici, mi scaldo al fuoco d’Argonauti, doppio Zanzibar, le Bermude le triangolo, e nel Borneo colleziono Monsoni che metto in agenda per il viaggio prossimo venturo. Spiego vele e le accartoccio, sia di bonaccia, sia di tempesta, m’approdo a deserti marini, di cristalli di sale m’adorno le barbe, telefono con le conchiglie e m’agghindo di stelle di firmamento e di fondo.

Di derive mi faccio approdo, e ogni isola che non c’è mi diventa casa che un Venerdì che m’offre una sigaretta ed un frittino di pesce ce lo trovo sicuro. E cavalco ippocampi, m’accendo un cubano, mi prescrivo rum antibiotici e strascico il cammino di Patagonia. Di ghiacciai m’acceco al tramonto, con pinguini vestiti a prima alla Scala, e ballo coi delfini, griglio con le orche, ed ogni fiera d’oceano sfido a tressette. Carambolo su tappeti verdi d’asfodelo e ruchetta, m’addormento in terra di Lotofagi, dentro caverne scavate da Lestrigoni. Con ciclopi a tre occhi canto canzoni perdute e tratteggio storie sul fondo d’un pozzo, accanto al riflesso di luna. Poi mi fermo, sull’ultimo scoglio, che non vè altra libertà se non quella di starsene a fronte d’orizzonte, che t’apre lo sguardo, pure mentre chiudi gli occhi.


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