Dipartenza a tempo parziale e poco (si spera)

E di cosa dovrei scrivere oggi, di quegli altri morti d’annego che ormai ad assuefazione collettiva non paiono più qualche decina ma solo trafiletto a cronaca locale, di bomba che diventa superbomba per partecipazione corale a guerra di corsa ad arma, di acqua che s’asciuga per termosifone acceso, o ad imbarazzo per sovvenzione a banca di speculo forte? Scrivo solo che fra poco smetto di scrivere per qualche giorno che c’è spiegazione precisa a questo. Pure, però, a voi vi leggo e se posso lascio commento. Ma io, adesso non posso più di tanto che altro me m’ha catturato a castigo di suo imperituro impegno tutto a fronte di tutto.

Insomma, egli – altro me dico – s’è messo su calendario cose da tremore di vene ai polsi che s’affatica a sindacato, a comizionzo e conferenzuccia a dove lo chiamano, si presenta libro suo (che almeno si paga qualche spesa per il resto che sempre fu gratis et amore dei), scribacchia per questa e quella rivista di cosa serissima, si affanna per lavoro di scuola che pare si versa tale lavoro da cornucopia degli abissi, pure se pare tela di Penelope che non v’è né fine nemmeno costrutto per scuola a similitudine d’ufficio disbrigo pratiche. Ed io, che m’ero ricavato spazio di nessunitudine definitiva per libertà conclamata a bloghettino di sassi che parlano, vengo trascinato in siffatto modo ad affanno imperituro. Ma egli pure, a girar come trottola, a mangiar panino al volo a fronte di consumo di fegato e riverso di bile, a non farsi fermo se non a semaforo per trasbordo da parte ad altra, a ricavar spazio a muraglione di tempo per caffè e sigaretta al massimo, pure non sposta virgola, al più mette punti ad esclamazione di disfatta autentica. E io, a notte che fu inoltrata, gli dissi che va bene, che mi limito a scrittura a quando passò la buriana e lo seguo, ma feci appuntino preciso preciso, che riporto qui tale a come lo concepii. A vedere bene – che mi rivolsi ad egli con tu perentorio di confidenza, crescemmo e convivemmo insieme, financo in corpo medesimo sì da che venne vagito a nascita in illo tempore – ti sbatti e ti risbatti a consapevolezza che il mondo mai cambiasti, nemmanco mi pare ce la farai di pelo appena, di più t’accollasti tale mole d’incombenza a costo esattamente zero, pure con carico di debito conto terzi che finisti quasi a far fame. Ma non t’avvedesti di fatto che c’è capitalismo brutale e cinico? E se tale energia a spreco si volge, pure a tempo determinato, ad accumulo di doblone, si può poi mollare tutto e farsi bilocale frontemare a località deserta, magari isolonza a scarsa o nulla di popolazione. E ci si va ad armo di canna, e zampirone, che a lanciar lenza con boccone amaro per sfratto di sfrattante Bernardo l’eremita c’è speranza che ci si consola con cena di cerniotto e sarago.

Che a contorno ci si pensa con armo d’orto a produzione di pomodoro che per sale di vento si fece a meno di condimento. E unico contatto con mondo fu con corriere per consegna di librino ogni tanto e per arrivo di grande nave cisterna per consegna di vino rosso. Che musica ce n’è e pure abbastanza da recar con noi e il resto fu pace, scoglio, sale e vento, infinito di sguardo, silenzio di tempesta.

Manco a dirlo, mi ignorò. E comunque, se ce la faccio torno tra qualche giorno. Fate cose buone voi che passate di qui, che io mi dimenticai come si fa.

Scorreva piano

“Dalla creazione del mondo, la barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progresso. Nel corso dei secoli, l’abbiamo soltanto ricoperta con una mano di vernice, nient’altro.” (Jack London)

Pure vi fu scoperta clamorosa che quella mano di vernice non servì solo a ricoprire la rugginosa natura dell’uomo, la sua permanente decadenza allo stadio più degenerato, era pure tossica. Ché pare, l’uomo, l’unica creatura che anela al proprio stesso sterminio ed ogni animale, dalla più screanzata delle meduse che sbeffeggia il tutto d’intorno coi suoi tentacoli urticanti, sino all’elegante zebra, guarda quella strana creatura con sospetto in permanenza, quasi vi si legge nello sguardo desiderio salvifico che faccia in fretta a condurre a termine la sua opera innata, a sospiro di sollievo di resto del creato. Me ne sovvenne certezza di detta mia sensazione ad osservazione precisa del fiume che mi scorre ai piedi e che ora non vedo più, rigagnolo putrescente lì dove un tempo fece storia di memorie dantesche, sostentamento d’interi popoli. Oggi, a consultazione precisa di corrente sua in forma di sputacchio, non condurrebbe bottiglia con messaggio al mare mio adorato. Si rifiuterebbe per stanchezza di sostenere peso ulteriore, nemmeno, credo, mi concederebbe la promessa di provarci che m’ascrisse alla specie che lo prosciugò e ridusse a vena d’infinita stanchezza. A far quattro chiacchiere non credo basterebbe a far cambio d’idea, che par rassegnato a lambire civiltà morente, e se anelito di vita vi scorre dentro è pure ad esso quello di speranza d’estinzione di massa di suddetta specie di barbara essenza.

Oggi lessi con frastornata distrazione ultime notizie, tali che mi fecero venir voglia di farmi fiume secco pure io. A guerra non c’è scampo che se taluno vuole e propone pace è a venir d’orticaria che viola patto precostituito, e a corsa ad armo di bombarda tutti si fanno a chi primo arriva che non si dica che non partecipammo a destino glorioso d’estinzione di massa, quale dinosauri goffi di ubriacatura. Altro disgraziato a fascio morì d’annego che notizia non fu tale più, a giornalettume preoccupa che non si giunga a pace e che, dunque, s’intraveda scorcio per chiacchiera su banca che quella pure affoga per mio ostinato ed incomprensibile chissenefrega. C’è promessa di salvataggio per caveau che a farla breve si riempie di provento di bomba, per morir d’annego non si fece barriera di salvataggio che liberissimi si è a non partire per morir di fame o sotto colpo di cannone. E a secco di fiume risposi che a barchetta per navigazione paciosa sostituirò infradito che bastò a sostegno di corrente.

“Al largo, cielo e mare erano saldati senza una giuntura e nello spazio luminoso le vele conciate delle barche che salivano con la marea sembravano immobili fastelli rossi di tele appuntite tra luccicori di aste verniciate. Sulle rive basse che correvano piatte a perdersi nel mare si era posata una nebbia leggera.” (Joseph Conrad) Quella, la nebbia, si fece d’improvviso pesante come cintura di piombo.

Ponti di parole

Ci appartiene quello che scriviamo? Chi lo sa? Penso che ognuno risponda per sé, decide cosa farne delle sue parole, di quelle che dice in confidenza, di quelle che urla ai quattro venti, di quelle che scrive in lettera riservata, o libera nella rete (che ossimoro vertiginoso). Io sono nessuno, dunque le mie parole sono di nessuno, chi le vuole se le prenda pure, che le scrissi liberamente, dunque sono libere, non anelano a proprietà. Vado un tantinello di musica, così, come atto liberatorio.

Scrivo per desiderio di rendere libere le parole, consentire loro di volare. Talora ne trovo già scritte, che volano da altri quaderni, e che somma soddisfazione quando paiono esattamente quelle che avrei voluto scrivere io. Capita che le trovi esatte e giuste nel momento stesso in cui concepii quello stesso pensiero, e chi se ne frega se non ne ebbi l’imprimatur, che a me “l’ho scritto io” non importa. Proprio ora m’attrezzavo a buttar giù una cosarella e la trovai d’altro. Che meraviglia le convergenze tra gente lontana nel tempo, nello spazio.

“Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l’ evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell’ omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poichè con le isole il punto è questo: sono di per sè parchi naturali e riserve dove lo “specifico” indigeno resiste più a lungo: sicchè rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale… Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benchè non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l’ Alitalia e l’ Autostrada del Sole. Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. Proprio su la Repubblica (31 agosto) Arbasino ci attribuiva una smania di staccarci dalla nazione e ce ne concedeva licenza. Obietto che, dai tempi di Salvatore Giuliano, fra le maschere sanguinose della mafia il fantasma del separatismo non è più ricomparso: e che oggi un eventuale referendum secessionista non raccoglierebbe in Sicilia più di mille o duemila suffragi… La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d’ Italia, dall’ Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d’ Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina… Con tutto ciò, come negare l’ esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’ esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l’ aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.” (Gesualdo Bufalino)

La catena

L’isola è già un ponte, ché s’è messa in mezzo tra blu e blu, si fece porto salvo per chi cerca altra sponda ed essa fa trampolino d’accoglienza, a limitar morto d’annego per viaggio di disperazione. Da una parte s’approda dall’altra si riparte, questo è destino d’isola. S’io tolgo blu da una parte, quella a quella parte dove blu venne meno appartiene e manufatto di cemento fu come catena a definire proprietà e prevalenza. Così ponte non unì, piuttosto disse è roba mia, dunque da qui non si passa. Ma di ponti già dissi, ma di quelli che reputai giusti, che tali altri mi parvero pretesto ancora di separazione.

Nazarene bianche, Nazarene nere.
Del fiume a le rive
si guardan da tanto i conventi,
si guardan con occhio di vecchia amicizia
le piccole torri, una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Due volte s’incontran, le bianche e le nere,
sul ponte, sul ponte che unisce i conventi,
li unisce da tanto per vecchia amicizia,
le piccole torri si guardan ridenti
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Le piccole chiese al crepuscolo s’aprono,
ne sortono leste le suore ed infilano il ponte;
nel mezzo s’incontran, s’inchinano
le bianche e le nere,
si recan l’un l’altre a la piccola chiesa al saluto;
vi fanno una breve preghiera
e leste rinfilano il ponte.
Di nuovo s’incontran, s’inchinan le file,
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
” (Aldo Palazzeschi)

I ponti li fecero generosi operai, pietra su pietra, bilichi delicati, arcate sorprendenti, manovalanze esperte di volontà a congiungimento di sponde di fiumi impetuosi, ed isole che divennero promontori. I ponti furono di progetto fatti ad unire da geniali architetti, su valichi di frontiera, sentieri di capre, terreni d’acquitrinio, paludi di creature fameliche che non fecero più paura.

Furono fatti di povere corde, di barche impilate, legni e pietre raccattati in un qualsiasi dove. Pure ce ne furono d’ingegnosi, che resistettero a millenni di barbarie, taluni si fecero immagini da cartolina, simboli, sperimentarono ardite soluzioni d’equilibrio. Tali altri furono fragili, si fecero a crollo drammatico, ma divennero metafora sorprendente di necessità di consolidamento di punti di contatto, allarme che non se ne mettesse a discussione l’esistenza, non se ne facesse per distrazione occasione d’abbattimento e rovinosa caduta. Solo nelle guerre, – allorché scorre il sangue di vinti e vincitori – come nella barbarie, s’abbattono i ponti.
Talora vi sono ponti che di progetto fecero a meno. Oceani a navigazione libera non sono forse ponti? Vette elevate non ebbero esse stesse, che d’animo impervio si tinsero, capacità di congiungere più che di far di divisione, a consentire all’occhio la curiosità dello sguardo che vaga sino all’oltre? Non furono financo i deserti nati quali ponti per essere attraversati in lungo e largo, per giungere d’oasi ad oasi, coste su coste? Non ebbero isole lontane sembianza di ponte, che fecero da ristoro per navigazioni senza precisa meta che non fosse di esclusiva scoperta?
Questa è dei ponti la natura più intima, l’unica necessaria, siano i ponti che abili manovalanze eressero dal nulla, solo armate di mani e sogno d’andare, desiderio di viaggio e sorpresa, siano anche fatti d’oro di nemico che fugge, e i ponti che non paiono ponti, come le vaste pianure, i grandi monti, le sterminate praterie, i mari infiniti. La storia degli uomini è la storia dei loro ponti, di quelli che costruirono, di quelli che elessero a tali, quelli che non ci furono. E se oggi quei ponti, come canali e fazzoletti di mare, qualcuno vuole chiudere, abbattere, doganare e seppellire, allora quel qualcuno nega volontà d’umanità di mille mila anni, di superamento di costrizione, della mente di trovare legittimo congiungimento con l’altrove. Dunque, nega se stesso quale ad appartenenza all’umana genia, se ne espulse, si mise a gattabuia e manco se ne rese conto, mentre provava ad assembrarci pure gli altri che si fecero gregge mansueto.

Isole insulari

E visto che si fa festa grande, che ponte farà a cessazione di cosa d’isola, vi riciclo cosa antica, per memoria di perduto amor di terra matria che s’appresta a diventar cosa altra, praticamente ferma a gancio, incementata che non ebbe abbastanza disgrazia, pare, che non gliene si doveva affibiare altra.

Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio”. (Manlio Sgalambro)

Mi capita tutte le volte che me ne vado da lì, a valigie non ancora pronte che strugge d’essere isola forse pure io.

Aveva voglia Nisticò a classificare i siciliani in siciliani di scoglio e di mare, gli uni abbarbicati al substrato come una cozza, un dattero, un riccio spinoso, incuranti della natura claustrofobica dell’appartenenza. Gli altri, con la valigia in mano, fermi non ci stanno, e appena la prima brezza lo consente, prendono il largo a vele gonfie. Ma tutti si portano dentro la stessa insularità, che è condanna del viaggio e nostalgia struggente per il porto di partenza. Solo che ai primi arriva subito, ci soffrono di più, basta che si mettano poco fuori l’uscio di casa, si vadano a sbrigare un documento nel capoluogo. I secondi, al più, con la lacerazione del distacco ci si sono abituati a convivere. Ma tanto tornano, prima o poi vedi se tornano e non passa minuto che con la testa non si organizzano per farlo. Mi pare che questo desiderio di ritorno sia proprio il risultato della paura atavica che l’isola non la ritrovi più, che qualcuno, mentre ti allontani giusto un attimo, se la possa portare via. Forse lo tsunami o li turchi, anche se – ed è evento inconfutabile -, qualunque cosa arriva, dopo un primo attimo di sgomento, gli si apre la porta di casa e, passati al più cinque minuti, ti scordi che è arrivata allora allora, e ti pare che sia lì da sempre, ci fai l’abitudine. Tuttavia, poiché non si sa mai ed a scanso di equivoci, metti in giro strane voci, che lì ci sono i Lestrigoni, i Lotofagi, forse Circe, che giù per lì Scilla e Cariddi hanno un brutto carattere, che quei sassi, isole essi stessi, ce li lanciano Ciclopi a basso tasso di socievolezza, e che le figlie di Kokalos avvelenano gli ospiti. Di più, se per ragioni di modernità te ne devi andare per qualche giorno, che ne so, a Poggibonsi, San Giovanni in Persiceto o a Cormano, saluti parenti e amici, fazzoletto in mano, come se stessi andando a sfidare i cannibali del Borneo.

Ad ogni buon conto, mettetela come vi pare, uno che nasce su un’isola sta già viaggiando. Perché il mare, tutto intorno, fermo non ci sta, e si muove di correnti e flutti, in definitiva, viaggia conto terzi. Non merita citare chissà chi per comprendere che il viaggio è una precisa connotazione antropologica, e pure se ha talune accezioni di ingegneria nautica, non è solo uno spostamento da e per. Alla fine “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)

Nell’insularità è connaturata la pigrizia più atavica, quella persino trascendente, che si fa connotazione definitiva ed archetipo illustrativo di genti. E del resto che ti agiti a fare se sei proprio dentro il gorgo più gorgo, il tutto che si muove permanentemente? Fatica sprecata. Per altri quella è ignavia, accidia, in realtà è saggia contemplazione del mondo che non sta fermo, dunque perché inseguirlo nell’apoteosi dell’operatività? Il mare vortica così tanto che ti fa dono ora del primato di paradiso terrestre, ora d’inferno in terra, né fu creato per compiacere chi vi si trova circondato senza scampo; inutile cercare di opporvisi. Se serve qualcosa, servissero tre secoli e più, prima o poi un’onda bislacca te la schiaffa davanti, spiaggiata a pancia rivolta al sole. Né si tratta d’un fiume che scorre in un unico verso, cosicché sai già cosa t’arriva a valle se conosci il monte. Il turbinio è pluridirezionale, dipende dalle stagioni, talora dall’umore nero della burrasca o talaltra accondiscendente d’un venticello virato a bonaccia. Sfidare quel tutto che si muove per provare a spostarsi in altra direzione è atto temerario. Ed in tutto quel bailamme agitato meglio star fermi giacché, prima o poi, da qualche parte arrivi, e se non arrivi – quella data parte, intendo – presto o tardi, t’arriva lei. Ma l’isola, quella, da dentro non te la togli nemmeno se ti metti a pizzo di montagna. Non c’è niente da fare, t’entra in valigia, col sale e tutto il resto.

Senza titolo (per vaga insofferenza)

Quando sono stanco delle solite facce,

quando non c’è il vento giusto per partire,

quando non ho voglia di ascoltare inutili parole,

cammino e me ne vado lontano,

mi siedo fra le rocce che guardano il mare…” (William Butler Yeats)

Fu fortuna che non ebbi la TV da tempo immemore che ciò mi impedisce di guardarne d’altre facce, quelle torve della brava gente, che si commuove e s’illumina d’incenso, poi digrigna gengie di rancore al tale che chiede obolo a carrello di spesa. Mi viene di pensare che non ho tregua a dove mi giro giro che non appare imbecille di saccenza rigenerato, colui o colei che tutto sa e parla senza sapere di ciò che è giusto per tal de tali che patisce ad oltranza. Trova cura medica per pandemia, si fa mediatore a far di guerra più guerra ancora e, ad indice teso che pare escrescenza fallica ad ingravidare mondo intero di seme di sublime verità, categorizza nemici ad ogni dove, che tali sono se patiscono fame e a miseria imperitura s’affratellarono. Detesto tal brave persone che s’acchitano a dolore che si fecero a perdita di glorioso conto bancario e pure svizzero, che tremolio di ginocchia s’era fatto a rilevamento di scala Richter.

Detesto schifezze che non trovano schiavo a giusto prezzo che è prezzo a tozzo di pane e detesto chi, a sommo gaudio, si fece orgoglio d’aver trovato prezzo più basso a cassa di supermercato che tale fu solo a stillar ultima goccia di sangue a disgraziato che non morì d’annego. Detesto corone di fiori e scintillii d’urgente intervento contro trafficanti e di converso si fa strada aperta a superiore necessità che sia ad assoluzione collettiva rubo a quattro ganasce e frodo stato e a disgraziato che tira fiato coi denti. Detesto chi s’affila lama d’ordine e sicurezza e abbandona città e strade a vandalica esecuzione di saccheggio a mano di decerebellato per palla che gira. Detesto faccia aulica che benedice svolta green e simposio fa da parte all’altra di globo (terracqueo?) ad aereo a reazione che consuma fossile a prezzo di sfamo dieci villaggi di sud più sud per anno intero. Detesto singolar banchetto a mille mila persone a calca disordinata e vestito a festa che parlano per non parlare e ascoltano solo se stesse che hanno orecchia a boomerang. Detesto grandi democratici che dissero a povero disgraziato ci penso io che non fecero un giorno a saltar cena e mai si preoccuparono di sentir voce di grande massa di sciagurato e consentirgli pubblica parola a dire “io vorrei questo”. Detesto che il mio scoglio sia troppo lontano che pare che feci tradimento a mia lontananza da onda di risacca. D’ultimo sono stanco pure della mia faccia che specchio non fece fine di TV, ancora giace intonso, non so fino a quando che feci precisa minaccia a non far da pappagallo ad immagine scomposta.

La guerra è finita

Ora che pure la Svizzera è a tremore, frontiera extracomunitaria s’apre pure a nord che è fatto necessario pure a fronte alpino alzare muro elevatissimo, quasi quasi pure blocco navale a bosco fitto. Comunque m’è a memoria altra cosa che scrissi, a testimonianza che di banca che scoppia, che pare sotto a bombarda di guerra, ne so cosa poca e ad altri m’affido.

Lo spettacolo è il brutto sogno della società moderna incatenata, che infine non esprime che il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il custode di questo sonno (…) Lo spettatore più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio.” (Guy Debord)

Che vado ancora di musica, ch’è meglio.

Io, con le cose di finanza, ho poca dimestichezza, praticamente so che esiste la vil moneta, ma lei mi evita, e pure io non la cerco che non saprei dove. Poi, da che mi sono fatto prof, questo rapporto è divenuto assai più evanescente, ancorché la cosa sia a concreta spiegazione in mutui più spese varie.

Che l’ultima volta ch’ebbi a che fare con banca, mi ci trovai a sportello con direttrice una zia, donna devota, cortese e garbata che, come altre congiunte, causa mia scelleratezza riguardo alle cose del mondo, ma anche alle vicende mie di spirito, mi diseredò ad libitum. Tra le tante nefande cose da me compiute, di cui mi rendo conto e mi dolgo con desiderio di contrizione prolungata, vi fu quella che feci allora allorché la pia donna mi invitò ad accomodo nel lussuoso ufficio di cui era comandante suprema. Premetto che, a quel tempo, operando in qualità di pennivendolo, godevo di miglior fortune economiche, tanto da potermi garantire, qualora avessi insistito, ruolo su questa terra qual ricco e spietato, pari a Conte di Montecristo. Optai, com’è noto, per depilazione da pelo allo stomaco, finendo per professoreggiare in attesa di rinnovo contrattuale come deserto attende pioggia. Ma in banca c’ero per versare assegno di lauto compenso professionale per scrittura a cottimo, che Ella, la pia zia, mi richiamò all’ordine, che parevo – mi rimproverò – che avessi soldi a libretto postale, come becero pensionato a procaccio di favori di cassa mutua. Mi paventò destini aulici di arricchimenti sorprendenti con colpi d’obbligazioni, titoli e derivati. Io, irrispettoso, egoisticamente legato al tirare a campo più che a destini fulgidi, optai per chiusura di conto immediata con esito finale del risparmio a libretto postale. Poco importa se la banca, da lì a poco, si sorprese gambe all’aria, che questo è prezzo che si paga a progresso, che la pia zia, piè veloce, si sottrasse a disfatta con pensione d’anticipo. Riconosco, però, virtù di competenza d’alta finanza a taluni che non siedono ad alto scranno. Tra questi, il mite Giorgio, storico centralinista di Camera del Lavoro, lo è a spanna sopra gli altri. Che con lui, bicchier di vino e fiasco poco distante, cercai di capire se guerra fosse. Ch’egli mi disse di no, che non sarebbe stato necessario che l’obiettivo era raggiunto, la guerra già vinta ed il nemico domo. E io, già ad elmetto, mi schernii per notizia di spiazzo. Che mi spiegò che in realtà virtuale, la guerra annunciata a reti unificate, significava schizzo di prezzi, dunque casse di stato piene ad IVA ed accise d’ogni bene, a ripianar debiti da pandemia, a risalita di PIL per bonus a bandito maggiore, per sgonfio di bolla. Che mi sfuggiva chi fosse il nemico domo, ch’egli, saggiamente rispose: “non t’avvedi di colpo d’obice ad alzo uomo ricevuto a buca della lettera e a cassa di spesa?”.

La scoperta dell’acqua calda, ovvero l’alternativa a fave e vino.

E al fine venne incredibile scoperta d’acqua calda che tale mi pare fu esternazione lucidissima che dice che migrante parte causa mercenario. Eccerto che così fu, che se c’è mercenario c’è guerra, ma anche è vero che mercenario è tale che fece guerra a doblone di concessione di potentato, sia stato grande e grosso che multi iper sodalizio di caveau pienissimo per ulteriore riempimento a sfrutto popolo e terra fino ad esaurimento scorte. Pure, se pago mercenario, non paio troppo ad interesse se c’è vittima collaterale, e vittima collaterale non c’è solo se questa scappa.

Pure è vero che potentato non è uno solo, taluno altro si conosce bene ma non si dice che stimola PIL per acquisto di bomba a fabbricazione civile per milizia non proprio autorizzata e dittatore vampiresco. E poi se c’è guerra pare che gente scappa che non ha ombrello adatto a protezione di bomba che è cosa che fa stupore e pare complotto di Spectre. Dunque, se voglio che non parte prendo ad orecchio preciso potentato e gli dico ora basta che se no faccio che ti metto a far pulizia forzata a discarica di suburbia e ti sequestro bene per pagamento di mercenario.

Mercenario non si paga per ammortizzatore sociale che creo posto di lavoro.Io, se voglio che s’aggiusta rubinetto d’acqua calda non chiamo mercenario ma idraulico, anche se l’ultimo che chiamai si prese soldo che parve mercenario che va a far guerra. La prossima volta mi faccio tutorial di riparazione e sistemo da solo tubatura ad avanzato disfacimento.

Stavo facendo divagazione che, mentre banca soffre, – che non ci sia legge d’eutanasia per limitare sofferenza mi pare cosa poco civile a caso specifico – mi capitò a ricordo recente che taluni mi strinsero e mi fecero a persuasione che era ora di andare a provare ristorante di cosa tipica che fa collezione di stella di firmamento. Che ci andai a ripetuto sollecito e ad accusa di asocialità, che la prossima volta me la prendo a capo cosparso di cenere tale accusa. E mangiai per pagamento con tasso di mutuo a strozzo, cifra da capogiro da far nutrimento a profugo a centinaia. E mi venne servito piatto grande quanto portaerei che recava a colorazione di fondo ipotesi d’essenza di purea di fave quale tradizione volle chiamarsi macco. Io se la tradizione volle così non lo so, ma fu tradizione negletta ch’io non conobbi. Poi, a beveraggio, sempre per cifra di PIL di paese a disperazione, mi fu concesso disseto assai parziale con tal ipotesi di vino che colorava appena fondo di calice che a dimensione pareva betoniera. Io, asociale contro modernità e spesa social, decisi per fare concorrenza precisa a siffatta prosopopea di esaltazione del gusto e misi a mollo a giorno prima trecento grammi di fave secche. A giorno dopo, a pazienza di certosino, le sbucciai una ad una, poi, dopo soffritto di cipolla, le versai con acqua precisa a pentola per cottura lunga sino a sfaldamento che accompagnai con altrettanta acqua che non s’asciuga tutto, sale quanto basta. Poi versai a piatto ancor caldo la purea ottenuta a sfamar tribù, detta – questa si – macco di fave, con trito finissimo di prezzemolo, due foglioline esatte di menta e filo d’olio.

Aggiustai pure di peperoncino arrabbiato a guisa arma di distruzione di germe. Accanto fetta di pane su fetta di pane con olio di mistero assoluto per profumo a ritenzione. Pure mi ci bevvi sopra vino rosso che sa di sale e terra che non fu capace a farsi imbottigliare, ma che tinse budella in modo irreversibile e non solo fondo di calice. Tanto più che io non ebbi calice mai e mi feci a svuotar damigiana con secchiate di bicchierozzo preciso di cantina.

E mi venne da pensare che tali che fanno guerra e profugo a milione di milione, morto ammazzato e d’annego ad ogni dove, che pensarono a sfrutto schiavo e ad arricchir banca che esplode, mai si fermarono a farsi macco di fave con vino giusto. Che se a quello avessero teso, e non a farsi carnefici d’umanità, se taluno rischia annego lo vanno a prendere per desiderio profondo loro che è quello di condividere fave e vino.

Fluidità di salvagente.

Siamo fluidi, acqua che scorre. Ora è qui, fra un qualche po’ se ne va da altra parte che non la vedo più, quella di prima intendo. Io l’acqua l’avrei lasciata stare, ma non mi veniva altro di meglio per esprimere pensieri comunque confusi, pure, a crisi climatica, è a sottolineatura che questa cosa dell’acqua è metafora e basta. Che è così che siamo, scorriamo per gravità, ma tale cosa, la gravità, non pare va nella direzione sua giusta, nemmeno dove la porta il cuore, l’occhio o la ragione, che pare che c’è direttorio che dice “va di qua, anzi no, va di là!” Io, al massimo, vado di musica.

Insomma, siamo sempre a far discussione di salvataggio, però facciamo spesso di cosa altra, ché il morto d’annego un attimo può attendere, mica si può parlare sempre di quello. E poi, a caso ultimo, che c’entriamo se è morto d’annego che non ebbe rispetto per linea ritta che tracciammo a lapis su carta precisa di globo terracqueo, che quella parla chiaro e dice che fece morto da parte sbagliata, dunque non è a competenza che si butta salvagente?

Ma siamo fluidi, liquidi come chiare, fresche, dolci acque, e c’è ora cosa più impellente che occorre a salvataggio di subito e adesso, che quello fece a metto d’accordo tutti, i belli e i brutti, ché lì non si vide confine esatto, è cosa che dogana non è data a elevazione, nemmanco ci fu petizione a costruzione di muro elevatissimo. E si, perché banca di silicone, che è valle che rese globo terracqueo assai fluido, dunque più globacqueo, pure se a secco di cosa esatta d’accadueo, tracima da serbatoio suo e se ne va a giro di mondo che rischia che fa effetto domino. Ma qui nessuno dice vai a rovinare a casa tua che non si parte da là. Ma come, ancora, ma non s’era detto basta? Che se c’è cristoncroce a disperazione che annega si dice io che c’entro, se affoga banca c’è crisi globale e tutti a straccio di vesti. Sarà che sono scemo e non capisco. Si, lo so, c’è il mercato, l’impresa e quella dà lavoro… ma non sarà che c’è tasso d’avidità un tantino che spinge a certe operazioni che paiono da scafisti a carico di disgraziato? Che mi racconta collega che lui va in pensione ma che la liquidazione subito lo stato non gliela dà, pure se sono soldi suoi. Ma stato caritatevole dice che ha fatto accordo con banca precisissima di stupefacente solidità, che i soldi te li dà lei pure se sono soldi tuoi e tu gli paghi interesse cospicuo. Ma quelli sono soldi suoi e se se li deve pagare mi pare cosa da strozzo. Ma io di queste cose elevatissime ci capisco poco. Pure poco ci capisco che uno si fa mutuo e gli dicono questa è rata, un po’ cambia, ma si spera che è a cosa di meno e invece si fa rata da sequestro di persona. Dunque, operazioni tali e altre, pare si configurano come salvagente. E quella, banca, intendo come sistema, annega uguale. Quando verrà tempo mio dirò aspetto tempi negletti di stato democratico per liquidazione, e a banca faccio tiè, che il salvagente non glielo compro. Però poi, a vedere bene siamo a gettare salvagente sempre a codesta strana gente che non ebbe nome, o da qui o da lì. Pure ce lo gettiamo noi detto salvagente, che ce lo frugano a tasca vuota. Che è gente che trascina ad annego tanti altri a disgrazia definitiva per mondo intero. Insomma, se a scafista dico che lo becco, a questo che gli devo fare? Si, lo so, questa è gente che davanti alla giustizia soffre assai di più che povero derelitto. È che siamo fluidi, passiamo da cosa di passione ad altra che ci interessa di più, ma io, d’ultimo, è meglio che mi concentro a fluido di vino rosso, pure qua ho messo un paio di canzoncine che mi tengo ad impegno altro di mente per mezzoretta buona e mi sbuccio le fave secche.

Oltraggiosa partenza

Ondeggia, Oceano nella tua cupa
e azzurra immensità
A migliaia le navi ti percorrono invano;
L’uomo traccia sulla terra i confini,
apportatori di sventure,
Ma il suo potere ha termine sulle coste,
Sulla distesa marina
I naufragi sono tutti opera tua,
è l’uomo da te vinto,
Simile ad una goccia di pioggia,
S’inabissa con un gorgoglio lamentoso,
Senza tomba, senza bara,
senza rintocco funebre, ignoto.
Sui tuoi lidi sorsero imperi,
contesi da tutti a te solo indifferenti
Che cosa resta di Assiria, Grecia, Roma,
Cartagine?
Bagnavi le loro terre quando erano libere
e potenti.
Poi vennero parecchi tiranni stranieri,
La loro rovina ridusse i regni in deserti;
Non così avvenne, per te, immortale e
mutevole solo nel gioco selvaggio delle onde;
Il tempo non lascia traccia
sulla tua fronte azzurra.
Come ti ha visto l’alba della Creazione,
così continui a essere mosso dal vento.
E io ti ho amato, Oceano,
e la gioia dei miei svaghi giovanili,
era di farmi trasportare dalle onde
come la tua schiuma;
fin da ragazzo mi sbizzarrivo con i tuoi flutti,
una vera delizia per me.
E se il mare freddo faceva paura agli altri,
a me dava gioia,
Perché ero come un figlio suo,
E mi fidavo delle sue onde, lontane e vicine,
E giuravo sul suo nome, come ora.

(George Byron)

Quando partii fu strazio autentico, che a non farlo sarei rimasto sepolto. Eppure non partii nemmeno con bomba sulla schiena, finsi di farlo ché mi piaceva. E il distacco fu dolore lancinante, che non passò giorno che non pensai al mio scoglio, che non ebbi intenzione di chiacchiera con amico antico, che non ne passò nemmeno altro che non ebbi mancanza di posti miei e di altro che m’appartenne. Se taluno m’avesse detto non far viaggio d’assenza lunga lustro dopo lustro mi sarei nutrito di speranza a costa.

Ma dopo di me altra miriade partì che ritorno a casa per festa comandata pare a rimpatriata di scappati via. Dunque, penso che mondo ha cinquanta guerre e più, donna che non scioglie capelli, bambino ch’ebbe sorte a destino segnato di morto di fame, tra sofferenza vera ed autentica, mica scappa da umiliazione per sussidio di disoccupato e basta. E paese su paese vive a sofferenza per sfrutto di fare a funzionamento preciso per materia prima giusta PC e cellulare, pure parte d’economia green, a volerla dire tutta, e macchina che viaggia a batteria per miniera a mani nude, ed oro che luccica a collo di madama per sasso pigiato a mano nuda e cratere aperto a posto di piantagione di pomodoro e cipolla. In tal paese truppa d’ascaro spara ad aumento di PIL nostro con corollario di guadagno per primi a digrignar dente a sfregio d’umanità. Che tal paese è fatto a saccheggio per adipi nostrali, e chi parte, parte che non ce la fa più, che piacere non ebbe a lasciar affetto antico. E allora, che insieme di tal paese ha PIL che pare borgo di montagna nostro a mezzo disabito, facciamo che diciamo non ti piglio più terra, non te l’asciugo che devo far lavatrice a metano, che non ti faccio bomba a prezzo d’usura, e faccio solo che decisione di questo si prende a Nazione Unita, non a simposio di grande e potente G qualcosa con numero che segue a seconda di circostanza per importanza. E che associazione di Nazione Unita sia che non pare associazione di circolo della bocciofila che diritto umano è al massimo non pesto piede e rispetto fila per piatto di baccello e pecorino a prossima sagra. Facciamo che ad etichetta di quello che mangio metto ingrediente preciso, pure certificazione che non fu fatto a sfrutto di braccia quale schiavo di paese disgraziato, manco di armata di caporale. Facciamo che dico a dittatore “ora m’hai divertito”, ma non lo dico io, glielo faccio dire a tale associazione se è non a veto incrociato di miserabile potente ed ha finalmente egida di diritto umano per rispetto assoluto con casco blu che partecipano tutti a voce grossa ed interposizione. Mica mando truppa cammellata di mercenario a pagamento a cottimo pure ad arruolo involontario se no t’ammazzo nonna, nonno, mamma e pure zia e nipote se di fame non morirono prima? Certo, mi vien pensiero che forse psicocellulare per social poi costa quanto viaggio interplanetario, e messaggino di potente che so tutto io finisce a parcheggio di discarica. E io vi dico chissenefrega.