Grandi fortune

Mastro Don Gesualdo Bufalino aveva a dire «questo luttuoso lusso di essere siciliani» se ci azzecco a memoria. Ma egli si sbagliava di grosso, che pure io pensavo fosse così, fatto di lutto, ancorché condito da quella nostalgica devianza d’un lusso sepolto da polverosa coltre di storia. E invero si trattava di fortuna che quella polvere crebbe ad essere raffinatissima fortuna, secca ed arida come un tormento che appartiene a pochi eletti, quelli ch’ebbero, appunto, fortunata sorte di nascere a furor di sole.

Ed a gradimento di detta fortuna che vi rigiro una cosarella che già ebbi a pubblicare tempo addietro, non senza prima sollecitarvi fantasie con un’immagine che invece la precedette di poco tempo per fantasia di com’eravamo e più non siamo, semmai verrà giorno che risaremo.

«Qualche volta dispongo la prua verso l’interno, non per distacco verso il mare, piuttosto per desideri di riscoperta. L’altopiano è luogo dell’anima, con i suoi silenzi e i maestosi carrubi che paiono vigilare sul viandante, cheti, ombrosi, antichi. Immensi monoliti di roccia bianca solcati da rughe, talune talmente profonde che le chiamano cave, percorse sul fondo da torrenti che talora ancora sopravvivono, e s’aprono strade turchesi riparate dal sole, tra il verde smeraldo d’ogni essenza. Sono fiumi che hanno nomi da divinità antiche, forse sono davvero quelle divinità, tramutate in lacrime per il fallimento d’ogni loro progetto planetario, soverchiato dal dio più feroce che s’alberga tra noi. M’intrattengo spesso sulle rive di quelle lacrime, che i profumi s’inseguono ai colori, ed i sensi si confondono gli uni con gli altri, in una sorta di stupefacente percezione psichedelica. Quando il tramonto rende il rosso alle pietre, ed i sassi cominciano a far sentire la loro intonazione, la predica definitiva d’una storia che ha dimenticato il tempo, m’intrattengo ad ascoltarli che c’è da imparare da quel racconto. Lunga narrazione, del tempo quando non c’era il tempo, terra di Lestrigoni e d’ombre, di ninfe e semidei. Cacciatori cortesi d’avventure, si scavano nascondigli per pudore d’esser sgamati nella loro più intima essenza. Il silenzio è capace di rimbalzare ogni dettaglio di quella storia senza levare un sopracciglio, solo che s’abbia voglia di percepirne il bisbiglio di vertigine.

Ed il pascolo è d’oro e le mucche, che non amano assembramenti, a distanze di sicurezza l’un dall’altra, s’accostano all’erba sopravvissuta all’afa del giorno. Lassù pare che si trovino a loro agio sopra ogni cosa, pur se m’avvedo di qualcosa che non funziona, che quel pascolo, che sa d’Arcadia, lì non c’entra. Dall’alto mi spingo con lo sguardo oltre il punto di vista della mucca, che ancora mi pare avere dignità, che non intendo sottovalutare. Sinché non m’avvedo delle ragioni dello stridio, che quello spettacolo, in altro contesto, m’avrebbe illuminato d’immenso ed ora m’inquieta. Che quel pascolo lì non doveva esserci, poiché, sino a qualche settimana fa, lì, c’era il lago che porta il nome della Santa. Pure lei – mi sa – non deve avere lavorato granché bene. Accetto, si l’accetto, il punto di vista felice della mucca e delle sue consorelle, ma tinche e trote? Evaporate anch’esse.

Qualcosa che non va c’è. Che poi se la cerco la trovo pure, che d’acqua da certe parti si muore, d’altre, per sua assenza, si crepa.»

Nostalgie fuori rotta

Parlar di cose che passano per quotidiana abiezione mi venne a noia. Pure prima ne avevo noia ma non frenai dita sui tasti a dir qualcosa. Che ad istante in cui lo feci ne ebbi quasi pentimento ché a struggersi per destini infami d’umanità sepolte, si finisce a scavar tombe insieme ad altri. Pratica che non mi fece mai troppo bene, ch’ebbi desiderio, piuttosto, d’altro che non fu altro che infinito e basta. Così, a rievocar altro mi faccio musica buona, tale che mi trascino da giovane età, pure dopo come conseguenza di lancio pregresso, musica altra rispetto al consueto mio che è a mono tema di jazz, ma che non si fece mai troppo in disparte nei miei pensieri. E l’accompagno con un pezzettino preso da qui, forse pezzo d’autobiografia, forse no. Ma che importa che lo sia o no, giacché è sempre perduto il tempo per scrivere autobiografie di nessuno.


«E giunse il tempo che desiderio di vertigine m’appare solo a sistemar chiappe a scoglio comodo, a favor di tenue brezza di ponente. Lì c’è posizione di sguardo ad altro tempo che andò via a rapidi scivolamenti. Feci collezione di pergamene e titoli a ceralacca, di timbri e pacche sulle spalle, inchiostri di stilografica raccolsi.

Mi ravvidi di saggezze elevatissime di fini accademici, sagaci elucubratori di teorie d’avanzo e professori mi professarono vie salvifiche di conoscenza.

Capitani coraggiosi m’imbellettarono narrazioni d’autentico infinito di profondità e preti e frati e paternostri m’illuminarono d’incenso, mi deliziarono d’omelie un tanto al chilo, pure in odore di santità mi parvero audaci pescatori di ghiozzi a tendenza d’eversione. Le madame dorè, le miti volontarie di misericordia e signori dabbene di circolo esclusivo, di fatta impeccabile doppiopettata e profumo millefiori, mi fecero di sé modello esclusivo e beato. Arguzia finanziaria mi trasmisero autentici scienziati di doblone ed a cure immaginifiche mi sottoposero per trattamento di deviazione.

Che però nacqui storto e storto rimasi, pur se mi sdoppiai a far finta d’assecondo. Che ora, a fase due, non m’è dato di adeguarmi all’immane trogolo di carni e sangue di sacrificio a conforto per Marte e Atena. Che però appresi di non apprendere, pur se assorbii finale convincimento che nemmanco le dame di San Vincenzo riusciranno a far del bene, ch’esse mai seppero cos’è la vita, che imbracciano sotto coscia, ad occulto, mitra e bomba.

Ch’io tutto imparai da puttane senza protettore, a quartiere miserabile dove misi dente da latte, e che, accademia autentica di bellezza, fu soffocato a rango di supermarket per saccheggio conclamato, con reparto d’onnisciente mammasantissima. Pure imparai da lambretta smarmittata di venditore di granchio per cattura a pietra celeste, da pazzo con canottiera su cappotto e camicia avvoltolata in testa, per posto a cappello in mano, a buco tappato per dammi cento lire, ci hai ‘na sigaretta.

Che mi venne ad aula di lezione autentica osteria perduta, di abitanti a perenne nostalgia di bicchiere pieno, e vecchio compagno che s’accompagna a miserabile scarpa rotta, pantalone logoro e mano di calli e calce viva, curvo di schiena ma mai domo a dir di padrone peste e corna. Pure non fu capace di sopravvivenza a quello, nemmanco per saggezza di mutua a scarso d’assistenza e forse per cicatrice di manganello per protesta di contro legge. Imparai dinamiche sofisticatissime d’universo da lavandaia a tempo perso, balia asciutta e odor di varechina. Altro seppi da pescatore silenzioso a barca a puzzo di cherosene e sangue di pesce raffermo, con ruga che solca il volto quale fiume di sale e fatica di sole.

Che nessuno dei secondi ebbe allora a far mai guerra a talaltro, mai tirò indietro la mano a soccorso per chi vien dopo. Pure, a gengie sfatte, non smisero a riso per bimbo che passa, ch’io mi ricordo, che a denti non m’ero provvisto ancora, di tali sdentature di pace, ora che vedo biancheggiare nobili fauci di squali.»

Recinti e paletti

«Direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l’intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese.

In queste persone la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D’Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo di imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l’imbecillità appare – e in un certo senso e fino a un certo punto è – fantasia.

In una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica di “impiegati d’ordine”; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati – non resistendo alla competizione con gli intelligenti – come poveri “cavalieri d’industria”; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia». (Leonardo Sciascia)

Io due o tre paletti per i miei sistemi di relazione li metto. Mica me ne sto a tirar su muraglie alte e fitte, che un po’ di ecumenismo m’è rimasto. Nemmeno mi faccio o Savonarola o Torquemada, a seconda dei casi, mettendomi a fissare limiti comportamentali ai prossimi più prossimi. Un recintino alto il giusto, che da lì non si passa, ma basta avere le chiavi e c’entri facile, appunto, schivando quei due o tre paletti che misi all’uopo. Certo, se ti piace far cagnara, urlare e sbraitare, parlare di mala maniera, lì non c’entri. Se ti sollazzi di bum bum, di cucine molecolari, se sei astemio per convincimento ideologico, non è che ti tratto male, ma te ne fai una ragione a star dall’altra parte del labile confine. Se sei uno che si mette a saccheggiarti casa, dipende, se sei Fra Dulcino, ti dico dove ho messo i preziosi (questa mi viene facile che di preziosi non ne ho, se non taluni da frigorifero), per il resto portati pure quello che ti pare, foss’anche solo virtuale, che alle cose m’affeziono poco, e anche con le idee ho rapporti conflittuali. Ma se sei entrato a casa mia sei pure ben consapevole di quello che ci trovi, se no cosa ci sei venuto a fare?

Posto questo, il recintuccio, con tanto di paletti agli angoli, mi si è sempre mostrato trasparente, e di là di quell’invisibile barriera, talora, pure solo di sgambescio, qualcuno ti s’avvicina, per un istante o due, che più di tanto non gli è concesso, né credo si ponga interesse particolare a starsene in quella specie di ghetto. È cosa che capita a chi vive sotto questo cielo, però, che non può negarsi l’affratellamento collettivo, non dico con tutte le 7 miliardi e più di creature umane che ci vivono, ma con una parte pur esigua di esse. Capita, dunque, che poi li leggi sul giornale, che hanno rubato a sette ganasce, che si sono spartiti posti e prebende, frodato e truffato, per carità, fino a prova contraria. E ti fa sempre specie, ché non ti abitui. Che rubare, l’ho detto, non è cosa gradita, ma anche lì dipende. Che poi, di primo acchito, mi verrebbe pure di fare i nomi, financo i cognomi, che tanto li hanno fatti pure i TG, con tanto di fototessera che pareva scattata da Lombroso in persona. Ma se li facessi punterei l’occhio sul caso, non sul fatto che del caso è assai più diffuso. Ch’è quello, il fatto intendo, la malattia. Che non si cura solo col carcere degli scemi del villaggio globale che sono incappati nelle tenaglie strette della giustizia (che ci vadano, senza passare dal via, si spera). Ma con una bella quantità di sedute psichiatriche collettive che spieghi al resto non ancora beccato – ed ho ragione di credere che sia resto assai cospicuo – che quella di passare pezzi consistenti della propria miserabile esistenza a cercare di capire come fregare il prossimo tuo (e non come te stesso) è malattia, che pure è patologia anelare il potere assoluto, che anche si fa sindrome grave il sottrarsi a starsene quieti, che ne so, a godersi una pensioncina bevendo un bicchiere con gli amici al bar, che ti fa anche buon sangue e non ti viene l’ansia d’accumulazione compulsiva di dobloni e poteri. Che se poi te ne stai buono e tranquillo, mi sa pure che non t’angosci, anche se, capisco benissimo, che se ti sei strafogato qualche milione fregando e frodando, il tutto di tutti, non t’avvedi di certo che non ti sei rubacchiato la collanina nuova di madama la marchesa, o il rolexino di mister Pippone, ma ti sei rubato l’equivalente d’una partita di chemioterapici, il buono mensa per qualche bambino della materna, la pulizia del parco giochi… E lo so che tu non te ne rendi conto, che la cosa il sonno non te lo toglie, che sei un tossico e pure dipendente, ma allora fatti curare, ma da uno bravo, se nel frattempo non gli hanno chiuso il reparto per mancanza di fondi, che quelli se li sono intascati i fenomeni come te.

Tintinnii banditeschi

Ode al crucifige, al tintinnar di manette, pure al son garantista (per taluno, per altri m’aspetto impiccagione a pennone altissimo per doppia, tripla, quadrupla e multipla morale). L’urlo per giudice ad orologerie o con pendolo stonato. Il tintinnio di manette non m’affascina, non me ne frega niente che a dirla tutta conobbi masnade di farabutti che finiron ceppi ai piedi per rubar di sussistenza. Altri non conosceranno che raramente i grigi cancelli della non libertà. Il potente non merita di finir lì, non c’è abituato, tale ebbe a dire che soffre di più. S’abitua a sfarzo e non s’abituo ad altro.

Ma non auguro ad avversario di provar privazione di libertà, pur s’egli la volle fortissimamente volle per disgraziato ch’affoga e non rubò al collettivo cosmo. Non auguro prigione ch’egli non fu avversario mio ché avversario è colui che gioca sullo stesso campo ed io a terreni di palude mefitica mi sottrassi in illo tempore, non per pregiudizio, ma per post giudizio di prova comprovata come si fa a taglio di cocomero. Io ho condanna esatta per tal malfattore che non ebbe mai sazio d’aver potere, più potere, soldi oltre i soldi, con asticella di salto in alto che rimbalza un metro ed oltre, oltre il metro e più ancora. Mai si ferma come bestia vorace che non conobbe sazietà a pretender ed ottenere a gozzovigliare sul capo d’altri, financo a far privato il libero mare, la libera rena, il sommo scoglio che libero e porto salvo fu sempre d’ogni navigante colto dalla tramonta a bufera. Io ho la pena che non fu privazione di libertà, che quella non fu da uomini, io darei condanna definitiva di far vivere resto di giorni contati a lavoro con busta paga d’ultimo morto a lavoro precario, in attesa d’una pensione ch’ente di previdenza fissa a data di comune mortale e con dicitura precisa a «fine pena mai».

«È divertente ascoltarli, i ricchi, i giudici, i magistrati, divertente vederli predicare la virtù; é difficile, oh sì, proteggersi dal furto quando si possiede tre volte più di quanto può servire per vivere…..Ma noi Sophie… visti con disprezzo perché poveri, noi umiliati perché deboli, noi che infine sulla faccia della terra raccogliamo solo fiele e spine, come vuoi che ci asteniamo dal crimine, l’unica mano che ci apra la porta della vita, ci mantenga, ci conservi o ci impedisca di perderla! come vuoi che per noi eternamente sottomessi e umiliati mentre una classe di gente spadroneggia e ha per sé tutti i favori della fortuna…» (François de Sade, Le sventure della virtù)

La liturgia spenta

Si poteva evitare, la liturgia però. Quel «si poteva evitare» non si regge più. Aria fritta per commozione pro tempore, domani è tutto finito, meno del solito. È accadimento tremendo che è pure capitato troppo a sud, non c’è necessità di ravvedimento. A stretto giro di posta di chi dà dello stupido a chi mette piede in fallo, ecco altri cinque che non sapevano, non vedevano. Uno dietro l’altro, come tessere di domino, se ne vanno, ciascuno perché provò a tirar fuori il suo compagno dalla camera a gas.

La liturgia ha stancato, e questi cinque hanno labile diritto di cronaca perché si fecero vittime a sodalizio. Quegli altri, quelli d’un due o tre a giorno, hanno preferito le solitudini che si competono a chi fa il volo del grande tacchino, per arricchimento del padrone del vapore. Ma quello, il padrone del vapore, è illuminatissimo, fa grana senza scanso di vittima. Ha ottima rappresentazione istituzionale, contrita di dolore per l’eccidio ultimo, pure per il venturo. A protezione di sacro interesse nazzzzionale, che lavoratore a cottimo non è tale tra tante zeta, nemmeno raccattagas a tombino di fogna. A far statistica vien da vomitare. A sperare in un batter di colpo si rischia asfissia generalizzata. Ma tant’è che chi lavora non protesta, mai lo fa abbastanza. A calci in culo va fuori, che non c’è nemmeno più un articolo 18 a tutela di ingiusto licenziamento.

E se protesto che ci tengo a vita faccio sporco gioco antiaziendale, sono fuori e faccio fame, che se son dentro è uguale fame ma sono un po’ meno. A tener lontana sicurezza si fa gran risparmio, economia ne gode, come a fabbricar bombe che non son confetti, nemmeno campi di geranio. Ed allora almeno una cosa, visto che d’ignavia si crepa nel Bel Paese del va tutto a gonfie vele, del si fan soldi a sbafo per taluni, bello assai sarebbe che, anziché liturgia d’un minuto che recita lascia moglie e figli, era ad età così giovane per perfettissimo necrologio, nota al mondo dovrebbe essere miserabile busta paga, almeno mondo stesso sa quanto costa a rata di mese vita d’un lavoratore. Ma quello sarebbe paese delle meraviglie.

Trattativa a perdere

Diceva giusto Mastro Don Gesualdo Bufalino: «Si firmerebbero poche dichiarazioni di guerra se chi le dichiara dovesse per legge firmarle col proprio sangue.» Ma è tempo che si tratta, e quando si tratta c’era quel dire che tacciono le armi. Invero ciò appariva di autentica verità quando gli uomini apparivano barbari, incolti, spregiudicati per violenza e propensione all’assassinio. Ora, in tempi civilissimi, con sguardo che si volge con scarsa clemenza alla lontananza degli albori di società, quando si amava o si ammazzava il nemico, la trattativa non si fece mai con dita staccate dal grilletto.

Ché la via diplomatica, si parla – e in taluni casi si straparla – essere quella maestra, che evita dolori infiniti, eccidio senza fine, morte di pietas umana. Che tale dovrebbe essere a concezione antica e desueta. Ma forse ancora è così, solo che c’è stato un errore precisissimo nel chi conduce la trattativa.

Questo o quello che tratta, se ne sta beato a lungi dall’essere egli stesso vittima di sparo, non si fece target quando dichiarò morte per altri. Se ne guardò bene di farsi soldato di trincea, mito spartano dell’ammazzo tutti io che addiverrò onor d’Olimpo quale semidio o tutto tale. E quante guerre non sarebbero più tali, a ribaltar paradigma di Mastro Don Gesualdo, se la trattativa non la conducesse più potentissimo di bombarda facile e salotto blindato, ma disgraziato che sta sotto tiro ed anela solo a pace per se e famiglia sua, pure un po’ di vita dignitosa e talora pure solo vita? la trattativa, mi sono fatto persuaso, avrebbe esito diverso assai. Ed alla fine della storia, ve ne sarebbe uno solo plausibile d’esito: che guerra manco parte.

Quanto son belle le elezioni

Quando mai ce la ricordiamo una campagna elettorale che ci diverte? Pare sempre la stessa recita a soggetto, al più c’è che all’apertura del libro dei sogni s’aggiunge lo sfogliare quello degli incubi. Non pare più manco singolar tenzone, scontro di prospettiva, è la calma piatta che si traveste di digrigno di denti, poltroncine semoventi, gioco delle parti. Sullo sfondo c’è martirio tremendo di interi popoli che paiono lontani. Ed a quelli c’è scarsa attenzione, manco votano, come si permettono. Eppure d’una campagna memorabile ho memoria trasmessa, e che rimpianto non essermela goduta se non di rimbalzo.

Il candidato Presidente, quello cui pare siano legate le sorti di pacificazione dell’intero pianeta, si rivolge alle folle, le arringa con un discorso memorabile. È il 1963, un alluvione d’anni sono passati. Pure, Kennedy, si rivolge a quegli ultimi che sono tali nel cuore stesso della superpotenza. Ma parvero parole cariche di retorica, povere di fatti, chiacchiere. Martin Luther King si fa aprifila della grande marcia, lui un sogno ce l’ha, lo dice, lo fa presente, lo rende sogno di tutti. Ma c’è qualcuno che pensa che quella folla non rispetti canoni estetici adeguati a rappresentare compiutamente società evolute e democratiche. S’ammazza, si continua in logiche di ghetto. La risposta non arriva, il sogno è inesausto. Eppure la risposta c’è. «Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra». (John Coltrane)

La fratellanza, è questo il punto, la fratellanza.

Il 21 settembre del 1963, dopo l’ennesima strage di afroamericani ad opera di razzisti del Ku Klux Klan, Dizzy (Gillespie), sale sul palco del Monterey Jazz Festival, ed urla al pubblico «Voglio diventare Presidente degli Stati Uniti perché ce ne serve uno!» Il cantante Jon Hendricks gli scrive pure l’inno: «Vote Dizzy! Vote Dizzy! You want a good president who’s willing to run / You wanna make government a barrel of fun (…) Your political leaders spout a lot of hot air / But Dizzy blows trumpet so you really don’t care.»

Ma senza lista di collaboratori né ministri non puoi fare il presidente. Così Dizzy si mette al lavoro per stilarla per bene: per Duke Ellington l’incarico deve essere adeguato alla sua grandezza, dunque, Ministro dello Stato. Max Roach, che coi botti ci sa fare, è Ministro della Difesa. Per Louis Armstrong c’è il Ministro dell’Agricoltura, e chi meglio di Charles Mingus può fare il Ministro della Pace?

Manco a dirlo c’è Malcolm X, ovviamente Procuratore Generale. Per le politiche sociali ci vuole qualcuno con lo sguardo giusto, la voce adatta, dunque Ella Fitzgerald. A Ray Charles tocca il posto di Direttore della Biblioteca del Congresso e Mary Lou Williams fa l’Ambasciatrice in Vaticano. Incarico delicatissimo per Thelonious Monk, Ambasciatore “in viaggio”. Manca solo un tassello per chiudere la formazione della squadra di Dizzy for President, ma anche per quello non ci sono dubbi, Miles Davis Capo della CIA!

E quando ci ricapita?

Piccoli, reiterati messaggi nella bottiglia

Mi sono accorto che WP concede un piccolo dato che prima non avevo notato: riporta il numero dei download – si dice così – di file dal blog. Ecco, qualche tempo fa, avevo messo un file scaricabile, una cosa della cui natura avevo parlato qui, dunque non mi ripeto. Ce ne sono stati diversi centinaia, che è cosa che mi dà una certa soddisfazione, e non per ragioni numeriche, nemmeno so se chi ha scaricato il file poi l’ha letto, gli è piaciuto, se ne è stizzito già al primo rigo o poco oltre. È proprio nell’indeterminatezza dell’esito finale di quello scritto che provo gusto, ché in quello sta il messaggio nella bottiglia. Chi lo lancia in mare non saprà mai se qualcuno lo troverà, se lo leggerà in preda a stupore, oppure un’onda dispettosa di risacca non schianterà il vetro sugli scogli, lasciando la carta a macerarsi lenta in acqua e sale.

“Le finestre, talvolta, sono copertine di libri aperti, le porte finestre lo sono di grossi tomi che s’aprono sulle distese di pagine di terrazzi e balconi. Libri di memorie, diari di viaggio, appunti per una fuga. Pagine ancora intonse, da riempire di parole. Mi sono convinto che il Borneo di Salgari deve essere stato scritto su quelle pagine. C’è un momento migliore degli altri per scriverci sopra, quando s’apre la copertina rigida e fuori è appena l’alba. Fa ancora freddo, e l’aria t’entra sotto la pelle, cerca riparo, s’apre varchi e risveglia le curiosità della notte. La luce non mostra ancora la consuetudine, ma fa della penombra l’anticamera della scoperta, come se alla sua esplosione il già visto dovesse trasformarsi nell’inattesa sortita della sorpresa.

Stamane era fresco su quelle pagine, ed il fiume di sotto pareva una striscia dorata rimarcata da piogge abbondanti. Poi i raggi più impertinenti, come un re Mida al contrario che ha cambiato fornitore di stupore, lo trasforma in un budello color rame. E mi viene di lanciargli una bottiglia – ho avuto tempo a sufficienza per procurarmene una vuota, pure con tanto di tappo a tenuta – perché la consegni al mare con un messaggio, un pizzino da niente su cui ho buttato uno scarabocchio, giusto tre parole in fila. Ma mi viene, così per scherzo, l’idea di anticipare la bottiglia. E allora mi precipito su un tronco, una zattera, una canoa, pure un canottino gonfiabile va bene, a favore di corrente sino al mare. Lì c’è bisogno d’altri mezzi, roba cui cazzare la randa e il fiocco per cogliere tutto il vento necessario a strappare nodi alle onde, schivare la fiera famelica, le cannoniere portoghesi, i brigantini di sua Maestà, appena una sosta per un bicchiere buttato giù d’un fiato con i pirati, e poi ancora verso Sud. Sino all’approdo su una Ferdinandea che non c’è sulle carte, naufrago su una spiaggia di vetro, con la mia scorta di prugne secche, cucunci e vino.

La speranza è che un’eruzione improvvisa non mi cancelli con lo scoglio, sprovveduto emulo d’Empedocle, per di più pigro poiché per nulla propenso ad accettare la sfida dell’ascesa vertiginosa al grande vulcano, solo oziosamente sdraiato ad un passo dalla risacca. Ma se proprio deve succedere, almeno fammi ritrovare prima la bottiglia, il messaggio che mi sono mandato per vedere se sono più veloce di me stesso. Eccola là, la bottiglia, mentre si sente il brontolio sottomarino della bestia che risorge. Tra la pomice del bagnasciuga strappo il tappo, e sul postit, che con le cartolerie chiuse di meglio non ho trovato, le tre parole in fila : Appena posso arrivo.”

Quasi mi dimenticavo “il lungo viaggio”

Radio Pirata 66 (concertone da lavoro per separazione chimica di classe)

Riecco Radio Piratissima che torna a sfarzo di concertone per festeggiamento di ricorrenza di articolo guida di Costituzione che fu cassato per improbabilità di esplicita applicazione. E si fa puntata di grande e solida kermesse musical-argomentativa come si compete a trasmissione che gode di favori indiscussi di pubblico innumerevolissimo e benevola accondiscendenza di critica. Ma a non far da meno con altra roba seria, redazione fa subito presente che molti ospiti previsti brillarono per assenza a detta puntata, che è numero Sessantasei, per sopraggiunta censura. Per cui non ve ne sarà traccia. Ma si va subito di musica di grande spessore.

Che lavoro è a dignitosissima rappresentazione a membro permanente di consesso di nazioni civili a suon di bombarda, che si fece lavoro nero a campo di nuovo cotone per conserva a prezzo convenientissimo di super mega impianto di smercio di prodotto a consenso di massa claudicante per arrivo a fine mese. Che morto ammazzato di lavoro, dice statistica – che la fa cervello asettico di matematica -, è a due al giorno da inizio d’anno.

Che è solo storia di distratto a distrazione mosso, che muore a metto piede in fallo mentre passa betoniera o caterpillar, pure scivola d’ascensore, inciampa da impalcatura, precipita da palazzo e ciminiera, non collaborò col dire son morto per destino cinico e baro. Che di tanti morti d’ammazzo pare guerra guerreggiata, ma è roba disfattista se oggi a bandiera colorata si dice basta con tale guerra, pure con altra che tuona di bomba. E io vado di suono giusto, che faccio colonna sonora

Che c’è polemica superlativa su esternazione per classe separata, ma io spezzo lancia, che pure io voglio classe separata, che a ricco con super monolito a sgaso per cambio climatico per costo di palazzina popolare a tre piani, tocchi – ora e per sempre in esclusiva – ristorantino a selezione di chef a stella plurima di firmamento. Ma ci fu improvvida segnalazione di tale illuminatissimo che disse che povero paradossalmente mangia meglio – che paradossalmente è dire esplicito che pure mangia – per cui ci fu assalto a bettola negletta che bettolaio ed oste per moribondi si fecero furbi e levarono prezzi al cielo per nuova avventura di business. Che da Franco il bollito ch’era a sette eurini ora si fece a centoventi che tale padrone del vapore per meno di duecento non si muove. E c’è povero chef di cui sopra che fu costretto a rinnovare arredo con acquisto ad Emmaus di piatto e mobilia ed importazione di muffa autentica per star a passo col tempo. Aridatece la separazione di classe.

E quanto tremai d’adorazione per Annette Peacock, che fu mio furibondo amore giovanile a dispetto di generazione. Ma tale ero, catturato a fascino di dette signore senza tempo che miei coetanei d’allora, molto «le freak, c’est chic» attribuivano certe mie pulsioni ad uso disinvolto di combustione di materiali di scarto orientale di produzioni vegetali. Ma detti fuochi aprirono finestre, e pur se smisi in tempi rapidi di godermene benefici, certo le finestre rimasero aperte su orizzonti d’utopia. Ora v’è invece ricorso a chimica pura ed allopatica per farsi fenomeno a sculettamento a destra e a manca, da mane a mane, e iniezione di coraggio per proferire a iosa minkiata a cottimo manco richiesta.

E chiudo col dire che buon lavoro pare ossimoro e, a cautela, faccio spiegare detta cosa da collaboratore subordinato con contratto di apprendistato, prima che faccio pure di lui censura che nacque in posto strano: “Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendere dalla sua schiena.” (Lev Tolstoj) Buon 1° Maggio a tutti, i belli e i brutti, di più a questi ultimi se in piazze deserte furono pure sporchi e cattivi.

Per chi… ancora!

Mi viene a sollecito di memoria cosa che ebbi a buttar giù ad impeto di stordimento, che tale stordimento ora pare tale e quale a quello d’allora, che c’è anche certa coincidenza di stagione e tempo bislacco che di vento porta via. E tale vento porta aria di mare lontano che, mare intendo, a non averlo accanto o dirimpetto, pare faccia amplificatore d’infinita stanchezza. Pure le perturbazioni che oggi lasciano posto a presunta primavera mi fecero salire temperatura, che adesso paio in pieno cambio climatico anch’io.

“C’è un tempo in cui devi lasciare i vestiti, quelli che hanno già la forma abituale del tuo corpo, e dimenticare il solito cammino, che sempre ci porta negli stessi luoghi. È l’ora del passaggio: e se noi non osiamo farlo, resteremo sempre lontani da noi stessi.” (Fernando Pessoa)

Quel tempo arriva nelle forme che vuole, quando desidera di farlo, mai si presenta a richiesta, finge di non essere stato invitato, pure se ad evocarlo è stata ogni stilla di sangue e sudore che puoi buttar fuori. Ci hai pensato a quel tempo, in un lasso di tempo infinito, indeterminato, non te ne serve altro. È roba che si consuma a gambe ferme, non quando ti muovi, nemmeno quando ti si muovono le consapevolezze doverose del quotidiano, quando l’abito da lavoro che t’è toccato pare così logoro che non c’è più spazio per immaginare il colore della carne che prova a nascondere. Che è dato a stupirsi pure per la scoperta d’essere colorato in qualche modo, non d’amorfo grigio, che era cosa che desumevi da stanchezze definitive. Si realizza di forme concrete un tempo ancora d’orizzonte, ch’è perso nel chiaro d’una luna, forse nelle cappe del sole di scirocco, nel rosso della sabbia del deserto che s’avvicina a trasporto di libeccio. C’è ancora quel profumo strano, acre, di vita vissuta come viene, pure dovrebbe non esserci, che non c’è distesa di posidonia nelle aule vuote, nemmeno nelle stanze a vista di terminale. Lo specchio pare gioca ogni giorno ad implacabile riflesso d’autore, non fornisce manipolazioni sghembe d’immagine, che non si riconosce mai d’acchito, non fa come riverbero azzurro di mare, che di distorsione fece solo virtù sua.

In quotidiano di lavorio indefesso c’è urlo ovunque, sgraziato e d’artificiosa perfetta fattura, che a natura è altro che frastuono, quando è tuono a spavento pare invece rimbrotto benevolo, strappa sorriso, fa regalo di libertà che non è d’acquisto a svendita. Risorsa da lavoro, si dice, pare compenso per acquisto di libertà, ma quella non è cosa d’un tanto a chilo, non merita che la fatica d’essere vissuta a pieno, che vuol dire avere occhi per compiacersene, non polmoni per respirare la merce che ne è surrogato. Ed è vero, poi, ed alla fine, che il lavoro rende liberi, liberi dal desiderio d’esser liberi, quando te ne sei assuefatto e quel tempo, quando arriva, ci sta che si palesa e non te ne accorgi, che hai dimenticato in fondo ad un cassetto di inutili memorie l’orologio che suona al suo passaggio.