La sentenza antica che pare moderna

Che fa ottant’anni oggi ch’è tredici di detto aprile che a passi due da casa mia di lavoro si fece rastrellamento a morte subitanea per italiano per razza d’inferiorità conclamata e rappresaglia di ‘do cojo cojo a Vallucciole e Moscaio, per opera d’elevatissima gens griffata a doppia esse. Ma ci fu complice locale senza trucco e senz’inganno per moda a vestito giusto a tinta unita che si fece notte fonda. E ricordo di detti che perirono pare lontano assai nel tempo che non fu nessuno ad emetter sentenza che c’era solo a non meritar vita. Oggi sentenza è ad emissione assai più bianca, ma gettito non pare ad essere da meno, per annego, sepoltura a deserto, grappolo di bomba o lavoro coatto per vita miserabile che si fa strage di tanto in tanto a rinverdir ricordo di andava meglio quando andava peggio.

Ci sono sentenze ed inchieste ad orologeria? E che ne so, ma pure chi se ne frega. Il giochino non mi interessa più. Ci sono condanne ad orologeria, però, anzi, condanne scandite ad ogni minuto. È condannato a morte probabile chi la mattina s’alza ad ore improbabili, per andare a strappare l’obolo di sussistenza. Perché il destino cinico e baro lo inciampa nella trebbiatrice, l’accomoda al fresco d’una stanza d’ozono, gli regala avide aspirate di esalazioni d’una vasca di mosto – altri, che m’importa se ad orologeria, s’aspirano altro, e si fanno occhietti a pupilla midriatica -. Ed il siur padrun dalle belle braghe bianche, può star tranquillo, che il nostro è paese garantista. Un paio di cose – la seconda, del Maestro Ignazio Buttitta, la faccio mia, per dedicarla, mica per tenermela -, dunque, per chi è polvere sotto il tappeto, con lo sfondo fragoroso ed inutile del plural tenzone nella cassa da morto del segreto dell’urna.

subtraxerim utilium

Ho sentito i cori dei corvi

e l’arcangelo vestito di nerofumo

recitare litanie

in fondo alla ciminiera

dei campi di cotone.

Era il canto della strada buia,

in riva alla città zoo,

la sirena che pregava

di catturare gli scarafaggi d’ogni tribù,

nascosti alla luce esausta del neon

dallo scricchiolio della pattumiera

gonfia d’orgoglio

e di cose non dette, non scritte.

E se fossero sagge e definitive

le parole della notte

il mattino si diverte a cancellarle

per l’innata sua passione per lo smog,

o per lo smoking

– color cimitero –

da abbinare alla cravatta

con il nodo scorsoio

da indossare il ventisette

di un mese qualsiasi per l’obolo

dai vestiboli della civiltà dorata.

Nun sugnu pueta

Non pozzu chiànciri

ca l’occhi mei su sicchi

e lu me cori

comu un balatuni.

La vita m’arriddussi

asciuttu e mazziatu

comu na carrittata di pirciali.

Non sugnu pueta;

odiu lu rusignolu e li cicali,

lu vinticeddu chi accarizza l’erbi

e li fogghi chi cadinu cu l’ali;

amu li furturati,

li venti chi strammíanu li negghi

ed annèttanu l’aria e lu celu.

Non sugnu pueta;

e mancu un pisci greviu

d’acqua duci;

sugnu un pisci mistinu

abituatu a li mari funnuti:

Non sugnu pueta

si puisia significa

la luna a pinnuluni

c’aggiarnia li facci di li ziti;

a mia, la menzaluna,

mi piaci quannu luci

dintra lu biancu di l’occhi a lu voj.

Non sugnu pueta

ma siddu è puisia

affunnari li manu

ntra lu cori di l’omini patuti

pi spremiri lu chiantu e lu scunfortu;

ma siddu è puisia

sciògghiri u chiacciu e nfurcati,

gràpiri l’occhi a l’orbi,

dari la ntisa e surdi

rumpiri catini lazzi e gruppa:

(un mumentu ca scattu!)…

Ma siddu è puisia

chiamari ntra li tani e nta li grutti

cu mancia picca e vilena agghiutti;

chiamari li zappatura

aggubbati supra la terra

chi suca sangu e suduri;

e scippari

du funnu di surfari

la carni cristiana

chi coci nto nfernu:

(un mumentu ca scattu!)…

Ma siddu è puisia

vuliri milli

centumila fazzuletti bianchi

p’asciucari occhi abbuttati di chiantu;

vuliri letti moddi

e cuscina di sita

pi l’ossa sturtigghiati

di cu travagghia;

e vuliri la terra

un tappitu di pampini e di ciuri

p’arrifriscari nta lu sò caminu

li pedi nudi di li puvireddi:

(un mumentu ca scattu!)

Ma siddu è puisia

farisi milli cori

e milli vrazza

pi strinciri poviri matri

inariditi di lu tempu e di lu patiri

senza latti nta li minni

e cu lu bamminu nvrazzu:

quattru ossa stritti

a lu pettu assitatu d’amuri:

(un mumentu ca scattu!)…

datimi na vuci putenti

pirchi mi sentu pueta:

datimi nu stindardu di focu

e mi segunu li schiavi di la terra,

na ciumana di vuci e di canzuni:

li sfarda a l’aria

li sfarda a l’aria

nzuppati di chiantu e di sangu.

Inopinatamente m’ergo a traduttore dalla lingua mia a quella che m’ha adottato, sperando di non fare troppi danni.

Non sono poeta

Non posso piangere

che i miei occhi sono secchi

ed il mio cuore

è come lastra di pietra

La vita mi ha ridotto

arido e bastonato

come una carrettata di brecce

Non sono poeta

Odio usignoli e cicale

leggera brezza che accarezza l’erba

e le foglie che cadono con le ali

Amo i fortunali

i venti che spazzano via le nuvole

e nettano aria e cielo

Non sono poeta

nemmeno un insipido pesce

d’acqua dolce;

sono un pesce selvatico

abituato ai mari profondi:

Non sono poeta

se poesia vuol dire

la luna sospesa

che impallidisce i volti degli amanti;

a me, la mezzaluna,

piace quando risplende

nel bianco degli occhi dei buoi.

Non sono poeta

ma se è poesia

affondare le mani

nel cuore degli uomini che soffrono

per spremerne via pianto e sconforto;

ma se è poesia

sciogliere il cappio agli impiccati,

aprire gli occhi ai ciechi,

ridare l’udito ai sordi

spezzare catene, legacci e nodi:

(fra un momento scoppio!)…

Ma se è poesia

chiamare dentro tane e grotte

chi mangia poco e veleno inghiotte;

chiamare braccianti

ingobbiti sulla terra

che succhia sangue e sudore;

e strappare

dal fondo di miniere di zolfo

la carne degli uomini

che cuoce all’inferno;

(fra un momento scoppio!)…

Ma se è poesia

desiderare mille

centomila fazzoletti bianchi

per asciugare occhi gonfi di pianto;

desiderare letti morbidi

e cuscini di seta

per ossa storpiate

di chi lavora;

e desiderare che a terra

vi sia un tappeto di foglie e fiori

per rinfrescare il cammino

a piedi nudi dei poveri:

(fra un momento scoppio!)…

Ma se è poesia

farsi mille cuori

e mille braccia

per stringere povere madri

inaridite dal tempo e dalla sofferenza

senza latte al seno

e col bambino in braccio:

quattro ossa strette

ad un petto assetato d’amore:

(fra un momento scoppio!)…

datemi la voce più potente

perché mi sento poeta:

datemi uno stendardo di fuoco

e che mi seguano gli schiavi della terra,

un fiume di voci e canti:

gli stracci per aria

gli stracci per aria

inzuppati di pianto e sangue.

Ed ancora «Il lungo viaggio», per chi non volle partire e sparì uguale.

Poesie in scatola

Mi è capitato tante volte di cambiare casa, pure città a dire il vero. Tutte le volte recupero scatole dalle forme più stravaganti e extrafunzionali, le riempio di cose che per la fretta non butto, non si sa mai. Se non c’è tempo per oculate cernite ci finisce dentro tutto ed il suo contrario: scatole di cerini, una conchiglia, un biglietto da visita di un tale «nonsochi», un pezzo di vetro levigato dalle onde che finge d’essere prezioso opale, un braccialetto d’ossicini di carrube che mi regalò qualcuna che m’amò, un gettone del telefono ed una moneta da dieci lire. Pure una polaroid, un biglietto del cinema, un pizzino con appunti incomprensibili, – ho sempre avuto una pessima grafia – persino un numero di telefono che ancora regge il prefisso ma non l’oscura provenienza. Ogni tanto riapro qualcuna di quelle scatole ammassate sotto il letto o sul fondo d’un armadio, su una libreria o nel sottoscala, faccio scarti per discariche, nel frattempo viaggio nel tempo.

Nell’ultimo che ho aperto c’era pure un foglio a righe, stropicciato, con una cosa che pareva una poesia. Io non scrivo poesie, non mi riesce. La poesia è un petardo, un fulmine che dura un’istante, riesce a farsi pugno nello stomaco, è sintesi esaustiva. Ed io ho segno zodiacale bradipo tetradattilo, ascendente tardigrado. Ma in quel foglio la poesia c’era, almeno tale pareva, pure l’avevo scritta io mille mila anni addietro. Il viaggio nel tempo aveva dato responsi, me ne ricordai il momento in cui l’avevo buttata giù su quel foglietto tirato via da un quadernetto di qualcuno. C’era in corso una di quelle liturgie che detestavo ma che non osavo contraddire, quella che si declinava quale democrazia assembleare, quella con centododici punti all’ordine del giorno che una commissione attenta a non farsi sfuggire nulla del pubblico-privato d’una facoltà occupata, sgranava come le beghine fanno col rosario. E tra una votazione sulla necessità di definire turni precisi per l’autocritica di genere, delimitare il campo delle relazioni interpersonali alla sola sfera della condivisione politica, stabilire quale marca di birra poteva essere consumata e se era consentito pisciare controvento in cortile, l’avevo scritta, facendo sparire rapidamente la stolta produzione psicoletteraria annuendo a chi mi chiedeva se prendevo appunti per l’epocale discorso della sera dopo in cui mi sarei travestito da “Che”.


Ve la rendo così come l’ho trovata ché, al di là della qualità, mi pare, oggi, interessante indagine socioantropologica farne lettura condivisa, pure per capire chi eravamo taluni, cosa non siamo diventati.

«Mi annoio!
Di per se non mi da alcuna noia
annoiarmi.
Semmai mi da noia
pensare di annoiarmi,
o forse
semplicemente pensare.
Noioso pensare,
almeno quanto è noioso
non pensare.
Pensare,
non so,
a te,
O alle tue tettine
di velluto rosso.
O forse erano di tweed,
a quadri rossi e blu?
Che noia non ricordare
particolari pregnanti.
Del soffitto
della mia camera da letto,

  • si intende –
    ricordo ogni dettaglio,
    e seppure non lo ricordassi,
    vi darei uno sguardo,
    annoiato,
    dalla mia postazione preferita,
    dal letto,
    faccia in su,
    ad annoiarmi.
    Che noia immaginare
    che nulla è cambiato
    o forse che nulla è come prima
    o forse che qualcosa è cambiato
    ma non del tutto,
    nel qual caso
    è davvero noioso
    cercare di capire cosa
    è rimasto tale e quale
    ed altrettanto noioso,
    cercare di trovare
    quelle variabili impazzite
    che rendono la nostra vita,
    anzi la mia
  • giacché della vostra,
    in linea di principio,
    non me ne importa poi tanto –
    diversa da quella che era prima,
    prima,
    cioè,
    che quel piccolo cambiamento,
    la rendesse differente.
    Potrei smettere di annoiarmi,
    rimettermi in discussione,
    dimenticare
    le tue tettine colorate chissà come,
    e concentrarmi su quei piccoli cambiamenti,
    magari insignificanti,
    scoprendo una naturale propensione
    per quei culetti
    scolpiti
    ginnasticamente
    nel marmo,
    ebanizzati
    da lampade UV,
    come si vedono in TV,
    anche nei TG,
    quelli del mezzodì
    o quelli del più tardi di così.
    O potrei aspettare l’estate
    per smettere di annoiarmi a letto
    a guardare il soffitto
    per svelarne il particolare
    intarsio consunto di muffa,
    ed iniziare ad annoiarmi
    su una spiaggia
    ad osservare i particolari
    di culetti scolpiti,
    ebanizzati
    dal buco nell’ozono.»

Poi vi rimando il mio messaggio nella bottiglia, così come ve ne dissi qui, che quello, il messaggio, ve lo potete pescare da questa battigia qua.

Vicoli

«Mi richiama talvolta la tua voce,
e non so che cieli ed acque
mi si svegliano dentro:
una rete di sole che si smaglia
sui tuoi muri ch’erano a sera
un dondolio di lampade
dalle botteghe tarde
piene di vento e di tristezza
.

Altro tempo: un telaio batteva nel cortile,
e s’udiva la notte un pianto
di cuccioli e di bambini.

Vicolo: una croce di case
che si chiamano piano,
e non sanno ch’è paura
di restare sole nel buio.
»
(Salvatore Quasimodo)

È consuetudine antica quella che mi spinge a lunghe esplorazioni dell’antico quartiere, e faccio carburante col caffè di Piero, alle porte di quello, prima di perdermi nei vicoli e nei silenzi. Lì non pare si faccia concessione al fasto di cartolina della città in piano, non c’è piano, le presenze sono ormai diradate, come le comode strade di basso, quelle con le vetrine più luminose. Qui vetrine non ce ne sono, solo silenzi da attraversare. La gente se ne è andata da qui, ci sono quinti piani termoascensorati con posto auto assai più comodi. Qualche sporadica presenza resiste, s’avverte nei panni stesi al sole, pratica assai desueta in piano, pare faccia cosa di scarso decoro, anche se profuma l’aria di sapone. Le mura non fanno sconti al tempo che passa, le porte cedono altrettanto.

Per le scale si vede solo qualche anziana signora che trascina un carrello di beni di prima necessità, come faccia per quei ripidi pendii che mettono a rischio le tenute dei miei menischi non mi è dato a sapere. Una di quelle mi offro d’aiutarla, ma mi sorride e prosegue, mi dice che non devo preoccuparmi, che lei va del suo passo e le serve farcela da sola. Non vuole abituarsi diversamente. Cerco il silenzio e lo trovo, non c’è altro se non il miagolio di un gatto, un cane, da qualche parte, abbaia per l’intrusione. Io sto lì, poco più in basso, non troppo.

E c’è pure casa mia

Ancora prossimo al piano ho pure dei vicini di casa. Man mano che salgo c’è solo il ricordo di antiche presenze, pare di sentire bambini nei cortili, donne che si chiamano dai balconcini, artigiani che rumoreggiano, le botteghe aperte di cui c’è persino memoria in insegne consunte. Un grande palazzo si fa strada tra i vicoli, le salite ripide, le scalinate ed i sottopassi. Ha mensole importanti, grottesche che un tempo facevano guardiania contro spiriti malvagi. Oggi hanno sguardi di noia. Dalle rare case abitate si leva intenso l’odore di un sugo, ma anche di qualche piatto lontano ed esotico, carico di spezie, ché lì migranti ce n’è qualcuno, a loro non importa qualche gradino in più da fare, nemmeno hanno scrupoli nel colorare dei panni stesi i vicoli. «Ciao amico» mi dice uno di loro salutandoti. Poi sento bambini che fanno partire una palla di gomma contro un muro, sono nati lontano, ora sono lì a riportare vita. Per fortuna avverto il tonfo del rimpallo, una voce stridula, suoni che non rompono il silenzio, si caricano di memorie, riattivano sangue in quelle arterie dimenticate. C’è emergenza abitativa da qualche parte.

Da che parte state?

«Uno dei miei compiti in quanto scrittore è quello di assalire le vostre emozioni e forse di aggredirvi – e per far questo uso tutti gli strumenti disponibili. Forse sarà per spaventarvi a morte, ma potrebbe anche essere per prendervi in modo più subdolo, per farvi sentire tristi. Riuscire a farvi sentire tristi è positivo. Riuscire a farvi ridere è positivo. Farvi urlare, ridere, piangere, non mi importa, ma coinvolgervi, farvi fare qualcosa di più che mettere il libro nello scaffale dicendo: “Ne ho finito un altro”, senza nessuna reazione. Questa è una cosa che odio. Voglio che sappiate che io c’ero.”» (“Il negro del Narciso”, Joseph Conrad)

Dove sono adesso quelle avanguardie che battevano le piazze assieme agli ultimi, che facevano riecheggiare di voci e burbera invettiva le bettole retro porto, quelle a scalcagno definitivo, con fiasco a mano giusta che l’altra era per pennello o stilografica a griffare di parola taccuino per scarabocchio di idea geniale? Dove sono andati i poeti, quelli che «aprono la loro finestra, anche se noi diciamo che è una finestra sbagliata», i creatori di quell’altra bellezza che non si vede, che s’affaccia negli occhi di chi ha certe qualità delle anime? Ora ci serve che ci siate, ora che pare che non c’è tregua, che c’è guerra ad ogni cantone, contro donne, disgraziati a tirar tardi per far quadrar conto di pranzo e cena, maledetti ad annego, morti di bomba che non sganciarono loro, carovane d’attesa di bestia a falce per privazione financo d’acqua ed aria. C’è necessità di vostra presenza, e se vi tocca di lasciare anticamera di potente per prebenda ad esposizione d’acquerello, di far compiacimento ad editore, curatore convincere, a suon di mille mila e più denari – che valgon meglio di trenta – che ortaggio ad appiccicaticcio di muro è roba preziosissima per denuncia esatta di schiavitù che quella pare mercanzia, non c’è a tergiversare di farlo.

C’è urgenza di discesa da vostri alti scranni dove simposiate un tanto al chilo, versate lacrime a tariffa di coefficiente preciso cadauna. E se non lo fate, peggio per voi, siete e sarete complici, traditori, additati un giorno quali tali dalle moltitudini. Arriverà agli ultimi di sterminio la memoria di vostra pietas concessa a cottimo per interposizione d’agente, dunque, una risata vi seppellirà con le vostre squallide creature che appellaste di presunzione capolavori ad occultare miseria vostra. E le lapidi delle vostre creature celeranno la barbarie dell’imbroglio, che nulla aveste da dire e nulla, infatti, diceste.
«La ribellione, e solo la ribellione, crea la luce e da quella luce non può che intraprendere tre percorsi: la poesia, la libertà e l’amore.» (André Breton)

Ricongiungimento

“Ed ecco ce ne andiamo come siamo venuti
arrivederci fratello mare
mi porto un po’ della tua ghiaia
un po’ del tuo sale azzurro
un po’ della tua infinità
e un pochino della tua luce
e della tua infelicità.
Ci hai saputo dir molte cose
sul tuo destino mare
eccoci con un po’ più di speranza
eccoci con un po’ più di saggezza
e ce ne andiamo come siamo venuti
arrivederci fratello mare.” (Nâzım Hikmet)

E conto giorni che mi separano dal ricongiungimento ad amate sponde, di recente pure assai armate a volontà di respingimento d’altri per abbandono delle loro. Paio milite a contar stecca come a naja, dove fui anche ignoto per ammasso a massa di servitori di patria ad obbligo sancito da blu di cartolina. Ma tant’è s’avvicina momento di sommissimo gaudio per tal evento prossimissimo e venturo.

Di questo mi pascio ma pure mi rammarico che pochi ebbero tal vantaggio che m’appartiene, di tornar a sponde mie lontane a periodo stabilito per riabbraccio fraterno a vecchio amico, a mare dedicar vista a perdita d’orizzonte, a farmi giusto bicchiere di vino d’accompagno a fritto misto. Ma ebbi fortuna anche di ripartire da luogo che non mi fece sentir male per non appartenenza precisa ad esso, per tutti non fu così e pure per detto privilegio provai disagio.

Non potei goderne, dunque, d’un ritorno sino in fondo. Che non se ne gode se non è opportunità condivisa. Se vi fu piacere non ci fu felicità se non ad essere cinici ché non è per tutti.

“Il vento, gli odori. No. Una canzone lontana. Oppure il mio passo sul selciato. Nel buio io non so. Ma so che sono tornato a casa.” (Elio Vittorini)

Un ponte (con alluvione di nausea)

La Nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, son io che sono in essa.” (Jean Paul Sartre) C’è che l’attacco di ripulsa mi porta lontano dall’aver voglia di pensare, scrivere non mi resta che a comando, ti dò il titolo e vai. Senza titolo vado di vecchio, che sono attento all’ambiente e riciclo.

Nazarene bianche, Nazarene nere.
Del fiume a le rive
si guardan da tanto i conventi,
si guardan con occhio di vecchia amicizia
le piccole torri, una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Due volte s’incontran, le bianche e le nere,
sul ponte, sul ponte che unisce i conventi,
li unisce da tanto per vecchia amicizia,
le piccole torri si guardan ridenti
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Le piccole chiese al crepuscolo s’aprono,
ne sortono leste le suore ed infilano il ponte;
nel mezzo s’incontran, s’inchinano
le bianche e le nere,
si recan l’un l’altre a la piccola chiesa al saluto;
vi fanno una breve preghiera
e leste rinfilano il ponte.
Di nuovo s’incontran, s’inchinan le file,
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
” (Aldo Palazzeschi)

I ponti li fecero generosi operai, pietra su pietra, bilichi delicati, arcate sorprendenti, manovalanze esperte di volontà a congiungimento di sponde di fiumi impetuosi, ed isole che divennero promontori. I ponti furono di progetto fatti ad unire da geniali architetti, su valichi di frontiera, sentieri di capre, terreni d’acquitrinio, paludi di creature fameliche che non fecero più paura.

Furono fatti di povere corde, di barche impilate, legni e pietre raccattati in un qualsiasi dove. Pure ce ne furono d’ingegnosi, che resistettero a millenni di barbarie, taluni si fecero immagini da cartolina, simboli, sperimentarono ardite soluzioni d’equilibrio. Tali altri furono fragili, si fecero a crollo drammatico, ma divennero metafora sorprendente di necessità di consolidamento di punti di contatto, allarme che non se ne mettesse a discussione l’esistenza, non se ne facesse per distrazione occasione d’abbattimento e rovinosa caduta. Solo nelle guerre, – allorché scorre il sangue di vinti e vincitori – come nella barbarie, s’abbattono i ponti.
Talora vi sono ponti che di progetto fecero a meno. Oceani a navigazione libera non sono forse ponti? Vette elevate non ebbero esse stesse, che d’animo impervio si tinsero, capacità di congiungere più che di far di divisione, a consentire all’occhio la curiosità dello sguardo che vaga sino all’oltre? Non furono financo i deserti nati quali ponti per essere attraversati in lungo e largo, per giungere d’oasi ad oasi, coste su coste? Non ebbero isole lontane sembianza di ponte, che fecero da ristoro per navigazioni senza precisa meta che non fosse di esclusiva scoperta?
Questa è dei ponti la natura più intima, l’unica necessaria, siano i ponti che abili manovalanze eressero dal nulla, solo armate di mani e sogno d’andare, desiderio di viaggio e sorpresa, siano anche fatti d’oro di nemico che fugge, e i ponti che non paiono ponti, come le vaste pianure, i grandi monti, le sterminate praterie, i mari infiniti. La storia degli uomini è la storia dei loro ponti, di quelli che costruirono, di quelli che elessero a tali, quelli che non ci furono. E se oggi quei ponti, come canali e fazzoletti di mare, qualcuno vuole chiudere, abbattere, doganare e seppellire, allora quel qualcuno nega volontà d’umanità di mille mila anni, di superamento di costrizione, della mente di trovare legittimo congiungimento con l’altrove. Dunque, nega se stesso quale ad appartenenza all’umana genia, se ne espulse, si mise a gattabuia e manco se ne rese conto, mentre provava ad assembrarci pure gli altri che si fecero gregge mansueto. E ad ulteriore sconforto fece progetti per ponti d’inutilità e flagello d’ambiente.

Ponti di parole

Ci appartiene quello che scriviamo? Chi lo sa? Penso che ognuno risponda per sé, decide cosa farne delle sue parole, di quelle che dice in confidenza, di quelle che urla ai quattro venti, di quelle che scrive in lettera riservata, o libera nella rete (che ossimoro vertiginoso). Io sono nessuno, dunque le mie parole sono di nessuno, chi le vuole se le prenda pure, che le scrissi liberamente, dunque sono libere, non anelano a proprietà. Vado un tantinello di musica, così, come atto liberatorio.

Scrivo per desiderio di rendere libere le parole, consentire loro di volare. Talora ne trovo già scritte, che volano da altri quaderni, e che somma soddisfazione quando paiono esattamente quelle che avrei voluto scrivere io. Capita che le trovi esatte e giuste nel momento stesso in cui concepii quello stesso pensiero, e chi se ne frega se non ne ebbi l’imprimatur, che a me “l’ho scritto io” non importa. Proprio ora m’attrezzavo a buttar giù una cosarella e la trovai d’altro. Che meraviglia le convergenze tra gente lontana nel tempo, nello spazio.

“Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l’ evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell’ omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poichè con le isole il punto è questo: sono di per sè parchi naturali e riserve dove lo “specifico” indigeno resiste più a lungo: sicchè rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale… Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benchè non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l’ Alitalia e l’ Autostrada del Sole. Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. Proprio su la Repubblica (31 agosto) Arbasino ci attribuiva una smania di staccarci dalla nazione e ce ne concedeva licenza. Obietto che, dai tempi di Salvatore Giuliano, fra le maschere sanguinose della mafia il fantasma del separatismo non è più ricomparso: e che oggi un eventuale referendum secessionista non raccoglierebbe in Sicilia più di mille o duemila suffragi… La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d’ Italia, dall’ Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d’ Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina… Con tutto ciò, come negare l’ esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’ esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l’ aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.” (Gesualdo Bufalino)

La catena

L’isola è già un ponte, ché s’è messa in mezzo tra blu e blu, si fece porto salvo per chi cerca altra sponda ed essa fa trampolino d’accoglienza, a limitar morto d’annego per viaggio di disperazione. Da una parte s’approda dall’altra si riparte, questo è destino d’isola. S’io tolgo blu da una parte, quella a quella parte dove blu venne meno appartiene e manufatto di cemento fu come catena a definire proprietà e prevalenza. Così ponte non unì, piuttosto disse è roba mia, dunque da qui non si passa. Ma di ponti già dissi, ma di quelli che reputai giusti, che tali altri mi parvero pretesto ancora di separazione.

Nazarene bianche, Nazarene nere.
Del fiume a le rive
si guardan da tanto i conventi,
si guardan con occhio di vecchia amicizia
le piccole torri, una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Due volte s’incontran, le bianche e le nere,
sul ponte, sul ponte che unisce i conventi,
li unisce da tanto per vecchia amicizia,
le piccole torri si guardan ridenti
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Le piccole chiese al crepuscolo s’aprono,
ne sortono leste le suore ed infilano il ponte;
nel mezzo s’incontran, s’inchinano
le bianche e le nere,
si recan l’un l’altre a la piccola chiesa al saluto;
vi fanno una breve preghiera
e leste rinfilano il ponte.
Di nuovo s’incontran, s’inchinan le file,
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
” (Aldo Palazzeschi)

I ponti li fecero generosi operai, pietra su pietra, bilichi delicati, arcate sorprendenti, manovalanze esperte di volontà a congiungimento di sponde di fiumi impetuosi, ed isole che divennero promontori. I ponti furono di progetto fatti ad unire da geniali architetti, su valichi di frontiera, sentieri di capre, terreni d’acquitrinio, paludi di creature fameliche che non fecero più paura.

Furono fatti di povere corde, di barche impilate, legni e pietre raccattati in un qualsiasi dove. Pure ce ne furono d’ingegnosi, che resistettero a millenni di barbarie, taluni si fecero immagini da cartolina, simboli, sperimentarono ardite soluzioni d’equilibrio. Tali altri furono fragili, si fecero a crollo drammatico, ma divennero metafora sorprendente di necessità di consolidamento di punti di contatto, allarme che non se ne mettesse a discussione l’esistenza, non se ne facesse per distrazione occasione d’abbattimento e rovinosa caduta. Solo nelle guerre, – allorché scorre il sangue di vinti e vincitori – come nella barbarie, s’abbattono i ponti.
Talora vi sono ponti che di progetto fecero a meno. Oceani a navigazione libera non sono forse ponti? Vette elevate non ebbero esse stesse, che d’animo impervio si tinsero, capacità di congiungere più che di far di divisione, a consentire all’occhio la curiosità dello sguardo che vaga sino all’oltre? Non furono financo i deserti nati quali ponti per essere attraversati in lungo e largo, per giungere d’oasi ad oasi, coste su coste? Non ebbero isole lontane sembianza di ponte, che fecero da ristoro per navigazioni senza precisa meta che non fosse di esclusiva scoperta?
Questa è dei ponti la natura più intima, l’unica necessaria, siano i ponti che abili manovalanze eressero dal nulla, solo armate di mani e sogno d’andare, desiderio di viaggio e sorpresa, siano anche fatti d’oro di nemico che fugge, e i ponti che non paiono ponti, come le vaste pianure, i grandi monti, le sterminate praterie, i mari infiniti. La storia degli uomini è la storia dei loro ponti, di quelli che costruirono, di quelli che elessero a tali, quelli che non ci furono. E se oggi quei ponti, come canali e fazzoletti di mare, qualcuno vuole chiudere, abbattere, doganare e seppellire, allora quel qualcuno nega volontà d’umanità di mille mila anni, di superamento di costrizione, della mente di trovare legittimo congiungimento con l’altrove. Dunque, nega se stesso quale ad appartenenza all’umana genia, se ne espulse, si mise a gattabuia e manco se ne rese conto, mentre provava ad assembrarci pure gli altri che si fecero gregge mansueto.

Di viaggio, di sale

Vado di riciclo, che s’avvicina ora di pranzo ed è stato periodo di grandi fatiche. Pure non mi passò la fame ed anzi vi porgo suggerimento che potrebbe far passare la vostra. Mentre mi faccio musica buona.

Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo.

Un luogo di giovanili follie ora deserto, animato un dì dal fiore dei nobili ingegni.

Se sono stato cacciato da un Paradiso, come posso darne notizia?

Se non fosse l’amarezza delle lacrime, le crederei i fiumi di quel paradiso.“

(Ibn Hamdis)

“Che pare sia Medea, quel paese, per come tratta taluni suoi figli, che forse si vendica per insufficiente riconoscimento di propria bellezza a struggere. I viaggi sin lì durano poco, che il tempo non ti concede il lusso dello scoglio a forma di tartaruga, a favor di libeccio, sinché l’oltre non s’inghiotte il sole. Di distanza si paga pegno, talora, che quando si torna, all’appello pure manca qualcuno.

E si cerca conforto in alcova di fornelli, in cenacolo di gusto. Stasera mi compete di farlo, e fu fortuna che spacciatori di colori ne ho ancora, in quel lido lontano blandito d’onde, che è cosa difficile che sin qui, a banco di supermercato, v’arrivi qualcosa che tra ghiaccio e sale non abbia ancora festeggiato almeno un genetliaco. Di vino ne ho, pure non basta se non v’aggiungo colore e suadenza di gusto. Attingo a compiacimento alla sporta del lontano, dove trovo, appunto, sapori e colori, che insieme formano tavolozza perfetta di rimpianto, ma anche palliativo di lontananza. Olive nere, di forno di signora Carmela, cappero ormai quasi solitario, colto di timpa, strappato a marna da abile mano di zio Angelo, profumato di sale in cristallo di mare, pure un tozzo di pane raffermo di segale, che quella cresce a terra arsa di sole, – averne di cornuta m’apparirebbe l’orizzonte, navigherei con Argonauti – peperoncino di coltivazione demoniaca, tra magri interstizi di roccia, esalanti vapori al calor bianco di vulcano. Pomodorini di punta estrema ne trovo anche qua, decenti, armati di dignità quanto basta, come prezzemolo e basilico, non del tutto negletti. D’aglio ho scorte ancora, come d’olio nuovo d’altopiano, al profumo di mandorle. Anche di pasta, a trafilatura di bronzo, di grano duro e antico. Le acciughe, a dar tocco di mare definitivo, me le fa don Tano, in succo d’olive autentiche, mica sguazzanti in brodaglia di spremitura di pianta d’alambicco e sconosciuta in natura, mummificate d’aspetto e gusto, tristi ed assiepate in rispettoso ordine, morte invano.

Ne consegue piatto rapido e sapido, che richiede altresì pianificazioni algoritmiche, che non si concede facilmente all’errore, alla svista, pena amputazione cromatica e caduta di stile. Ordunque, in attesa del bollore d’acqua, merita che s’approntino gli ingredienti. Dapprima propenderei per imbiondimento di quattro o cinque cucchiai del pan grattato di segale in olio, a padellino antiaderente, onde evitare scivolamenti bituminosi. Tre spicchi d’aglio tritati alla bene in meglio, le olive a metà, denocciolate, a grazia ricevuta per molari improvvidi, trito finissimo di basilico e prezzemolo (se ne avete, due foglie di mentuccia non si disdegnano) e i pomodori ciliegini tagliati in quattro. Invero, ho optato per costoluto di Pachino, che ho trovato in confezione regalo ad oreficeria attrezzata, che quelli che restano li baratto a compro oro a strozzo per rata di mutuo. Quello lo tratto di fino, come merita, a cubetti adeguati, animati d’autarchia ché sprigionano aromi d’Olimpo, nemmeno avrebbero bisogno d’ulteriore spinta di condimento per quanto bastano a sé stessi. Di pasta la dose è essenziale, che taluni, intenzionati a viver da malati per crepar sani, s’accontenterebbero d’80 grammi, la razione K opta per 120, io propenderei per un paio d’etti, pure e mezzo. Si butta giù che in concomitanza gli spicchi d’aglio, in saltapasta, sfrigolano, perbacco, sfrigolano in olio bollente, in appassionato amplesso con pomodoro, olive, peperoncino e capperi, e fanno succo di mare riconquistato a sei o sette acciughe a sfaldatura. Ad evitare prosciugamenti fatali, di tanto in tanto, appropriata cucchiaiata d’acqua di cottura della pasta, pescata in superficie, dove l’amido si concentra per rivestire poi di tenere cotonature ad avvolgenza il tutto d’intorno. E non temete di rendere brodosa l’evoluzione bollente, che a quella ci sarà rimedio. Appena scolati, ancora assai al dente, che si avvoltolino lì gli spaghetti, a fiamma viva e vegeta, a completar cottura nell’armonia del mare e della terra più aspra, s’assorbano ogni residuo profumato, arricchito, un attimo prima del tutto è pronto, di erbe a pioggia di scirocco. Poi, che il pangrattato concorra ad assorbire ciò che resta d’umido, ma non per appropriarsene, piuttosto per distribuirne con pedissequa cura del dettaglio ogni aroma, colore, sapore. Infine, a piatto, ancora basilico. È concentrato di terra di Lotofagi, di rimpianti, di memorie antiche e vivide, e se non tratterrete una lacrima a commozione, questa saprà del sale del mare d’Ulisse.

E a chi non piace Atahualpa, consiglio di stapparsi una gazzosa e sgranocchiarsi patatine al glutammato.”

Un ponte

Nazarene bianche, Nazarene nere.
Del fiume a le rive
si guardan da tanto i conventi,
si guardan con occhio di vecchia amicizia
le piccole torri, una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Due volte s’incontran, le bianche e le nere,
sul ponte, sul ponte che unisce i conventi,
li unisce da tanto per vecchia amicizia,
le piccole torri si guardan ridenti
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Le piccole chiese al crepuscolo s’aprono,
ne sortono leste le suore ed infilano il ponte;
nel mezzo s’incontran, s’inchinano
le bianche e le nere,
si recan l’un l’altre a la piccola chiesa al saluto;
vi fanno una breve preghiera
e leste rinfilano il ponte.
Di nuovo s’incontran, s’inchinan le file,
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
” (Aldo Palazzeschi)

I ponti li fecero generosi operai, pietra su pietra, bilichi delicati, arcate sorprendenti, manovalanze esperte di volontà a congiungimento di sponde di fiumi impetuosi, ed isole che divennero promontori. I ponti furono di progetto fatti ad unire da geniali architetti, su valichi di frontiera, sentieri di capre, terreni d’acquitrinio, paludi di creature fameliche che non fecero più paura.

Furono fatti di povere corde, di barche impilate, legni e pietre raccattati in un qualsiasi dove. Pure ce ne furono d’ingegnosi, che resistettero a millenni di barbarie, taluni si fecero immagini da cartolina, simboli, sperimentarono ardite soluzioni d’equilibrio. Tali altri furono fragili, si fecero a crollo drammatico, ma divennero metafora sorprendente di necessità di consolidamento di punti di contatto, allarme che non se ne mettesse a discussione l’esistenza, non se ne facesse per distrazione occasione d’abbattimento e rovinosa caduta. Solo nelle guerre, – allorché scorre il sangue di vinti e vincitori – come nella barbarie, s’abbattono i ponti.
Talora vi sono ponti che di progetto fecero a meno. Oceani a navigazione libera non sono forse ponti? Vette elevate non ebbero esse stesse, che d’animo impervio si tinsero, capacità di congiungere più che di far di divisione, a consentire all’occhio la curiosità dello sguardo che vaga sino all’oltre? Non furono financo i deserti nati quali ponti per essere attraversati in lungo e largo, per giungere d’oasi ad oasi, coste su coste? Non ebbero isole lontane sembianza di ponte, che fecero da ristoro per navigazioni senza precisa meta che non fosse di esclusiva scoperta?
Questa è dei ponti la natura più intima, l’unica necessaria, siano i ponti che abili manovalanze eressero dal nulla, solo armate di mani e sogno d’andare, desiderio di viaggio e sorpresa, siano anche fatti d’oro di nemico che fugge, e i ponti che non paiono ponti, come le vaste pianure, i grandi monti, le sterminate praterie, i mari infiniti. La storia degli uomini è la storia dei loro ponti, di quelli che costruirono, di quelli che elessero a tali, quelli che non ci furono. E se oggi quei ponti, come canali e fazzoletti di mare, qualcuno vuole chiudere, abbattere, doganare e seppellire, allora quel qualcuno nega volontà d’umanità di mille mila anni, di superamento di costrizione, della mente di trovare legittimo congiungimento con l’altrove. Dunque, nega se stesso quale ad appartenenza all’umana genia, se ne espulse, si mise a gattabuia e manco se ne rese conto, mentre provava ad assembrarci pure gli altri che si fecero gregge mansueto.