Ponti di parole

Ci appartiene quello che scriviamo? Chi lo sa? Penso che ognuno risponda per sé, decide cosa farne delle sue parole, di quelle che dice in confidenza, di quelle che urla ai quattro venti, di quelle che scrive in lettera riservata, o libera nella rete (che ossimoro vertiginoso). Io sono nessuno, dunque le mie parole sono di nessuno, chi le vuole se le prenda pure, che le scrissi liberamente, dunque sono libere, non anelano a proprietà. Vado un tantinello di musica, così, come atto liberatorio.

Scrivo per desiderio di rendere libere le parole, consentire loro di volare. Talora ne trovo già scritte, che volano da altri quaderni, e che somma soddisfazione quando paiono esattamente quelle che avrei voluto scrivere io. Capita che le trovi esatte e giuste nel momento stesso in cui concepii quello stesso pensiero, e chi se ne frega se non ne ebbi l’imprimatur, che a me “l’ho scritto io” non importa. Proprio ora m’attrezzavo a buttar giù una cosarella e la trovai d’altro. Che meraviglia le convergenze tra gente lontana nel tempo, nello spazio.

“Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l’ evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell’ omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poichè con le isole il punto è questo: sono di per sè parchi naturali e riserve dove lo “specifico” indigeno resiste più a lungo: sicchè rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale… Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benchè non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l’ Alitalia e l’ Autostrada del Sole. Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. Proprio su la Repubblica (31 agosto) Arbasino ci attribuiva una smania di staccarci dalla nazione e ce ne concedeva licenza. Obietto che, dai tempi di Salvatore Giuliano, fra le maschere sanguinose della mafia il fantasma del separatismo non è più ricomparso: e che oggi un eventuale referendum secessionista non raccoglierebbe in Sicilia più di mille o duemila suffragi… La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d’ Italia, dall’ Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d’ Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina… Con tutto ciò, come negare l’ esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’ esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l’ aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.” (Gesualdo Bufalino)

La catena

L’isola è già un ponte, ché s’è messa in mezzo tra blu e blu, si fece porto salvo per chi cerca altra sponda ed essa fa trampolino d’accoglienza, a limitar morto d’annego per viaggio di disperazione. Da una parte s’approda dall’altra si riparte, questo è destino d’isola. S’io tolgo blu da una parte, quella a quella parte dove blu venne meno appartiene e manufatto di cemento fu come catena a definire proprietà e prevalenza. Così ponte non unì, piuttosto disse è roba mia, dunque da qui non si passa. Ma di ponti già dissi, ma di quelli che reputai giusti, che tali altri mi parvero pretesto ancora di separazione.

Nazarene bianche, Nazarene nere.
Del fiume a le rive
si guardan da tanto i conventi,
si guardan con occhio di vecchia amicizia
le piccole torri, una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Due volte s’incontran, le bianche e le nere,
sul ponte, sul ponte che unisce i conventi,
li unisce da tanto per vecchia amicizia,
le piccole torri si guardan ridenti
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Le piccole chiese al crepuscolo s’aprono,
ne sortono leste le suore ed infilano il ponte;
nel mezzo s’incontran, s’inchinano
le bianche e le nere,
si recan l’un l’altre a la piccola chiesa al saluto;
vi fanno una breve preghiera
e leste rinfilano il ponte.
Di nuovo s’incontran, s’inchinan le file,
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
” (Aldo Palazzeschi)

I ponti li fecero generosi operai, pietra su pietra, bilichi delicati, arcate sorprendenti, manovalanze esperte di volontà a congiungimento di sponde di fiumi impetuosi, ed isole che divennero promontori. I ponti furono di progetto fatti ad unire da geniali architetti, su valichi di frontiera, sentieri di capre, terreni d’acquitrinio, paludi di creature fameliche che non fecero più paura.

Furono fatti di povere corde, di barche impilate, legni e pietre raccattati in un qualsiasi dove. Pure ce ne furono d’ingegnosi, che resistettero a millenni di barbarie, taluni si fecero immagini da cartolina, simboli, sperimentarono ardite soluzioni d’equilibrio. Tali altri furono fragili, si fecero a crollo drammatico, ma divennero metafora sorprendente di necessità di consolidamento di punti di contatto, allarme che non se ne mettesse a discussione l’esistenza, non se ne facesse per distrazione occasione d’abbattimento e rovinosa caduta. Solo nelle guerre, – allorché scorre il sangue di vinti e vincitori – come nella barbarie, s’abbattono i ponti.
Talora vi sono ponti che di progetto fecero a meno. Oceani a navigazione libera non sono forse ponti? Vette elevate non ebbero esse stesse, che d’animo impervio si tinsero, capacità di congiungere più che di far di divisione, a consentire all’occhio la curiosità dello sguardo che vaga sino all’oltre? Non furono financo i deserti nati quali ponti per essere attraversati in lungo e largo, per giungere d’oasi ad oasi, coste su coste? Non ebbero isole lontane sembianza di ponte, che fecero da ristoro per navigazioni senza precisa meta che non fosse di esclusiva scoperta?
Questa è dei ponti la natura più intima, l’unica necessaria, siano i ponti che abili manovalanze eressero dal nulla, solo armate di mani e sogno d’andare, desiderio di viaggio e sorpresa, siano anche fatti d’oro di nemico che fugge, e i ponti che non paiono ponti, come le vaste pianure, i grandi monti, le sterminate praterie, i mari infiniti. La storia degli uomini è la storia dei loro ponti, di quelli che costruirono, di quelli che elessero a tali, quelli che non ci furono. E se oggi quei ponti, come canali e fazzoletti di mare, qualcuno vuole chiudere, abbattere, doganare e seppellire, allora quel qualcuno nega volontà d’umanità di mille mila anni, di superamento di costrizione, della mente di trovare legittimo congiungimento con l’altrove. Dunque, nega se stesso quale ad appartenenza all’umana genia, se ne espulse, si mise a gattabuia e manco se ne rese conto, mentre provava ad assembrarci pure gli altri che si fecero gregge mansueto.

Di viaggio, di sale

Vado di riciclo, che s’avvicina ora di pranzo ed è stato periodo di grandi fatiche. Pure non mi passò la fame ed anzi vi porgo suggerimento che potrebbe far passare la vostra. Mentre mi faccio musica buona.

Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo.

Un luogo di giovanili follie ora deserto, animato un dì dal fiore dei nobili ingegni.

Se sono stato cacciato da un Paradiso, come posso darne notizia?

Se non fosse l’amarezza delle lacrime, le crederei i fiumi di quel paradiso.“

(Ibn Hamdis)

“Che pare sia Medea, quel paese, per come tratta taluni suoi figli, che forse si vendica per insufficiente riconoscimento di propria bellezza a struggere. I viaggi sin lì durano poco, che il tempo non ti concede il lusso dello scoglio a forma di tartaruga, a favor di libeccio, sinché l’oltre non s’inghiotte il sole. Di distanza si paga pegno, talora, che quando si torna, all’appello pure manca qualcuno.

E si cerca conforto in alcova di fornelli, in cenacolo di gusto. Stasera mi compete di farlo, e fu fortuna che spacciatori di colori ne ho ancora, in quel lido lontano blandito d’onde, che è cosa difficile che sin qui, a banco di supermercato, v’arrivi qualcosa che tra ghiaccio e sale non abbia ancora festeggiato almeno un genetliaco. Di vino ne ho, pure non basta se non v’aggiungo colore e suadenza di gusto. Attingo a compiacimento alla sporta del lontano, dove trovo, appunto, sapori e colori, che insieme formano tavolozza perfetta di rimpianto, ma anche palliativo di lontananza. Olive nere, di forno di signora Carmela, cappero ormai quasi solitario, colto di timpa, strappato a marna da abile mano di zio Angelo, profumato di sale in cristallo di mare, pure un tozzo di pane raffermo di segale, che quella cresce a terra arsa di sole, – averne di cornuta m’apparirebbe l’orizzonte, navigherei con Argonauti – peperoncino di coltivazione demoniaca, tra magri interstizi di roccia, esalanti vapori al calor bianco di vulcano. Pomodorini di punta estrema ne trovo anche qua, decenti, armati di dignità quanto basta, come prezzemolo e basilico, non del tutto negletti. D’aglio ho scorte ancora, come d’olio nuovo d’altopiano, al profumo di mandorle. Anche di pasta, a trafilatura di bronzo, di grano duro e antico. Le acciughe, a dar tocco di mare definitivo, me le fa don Tano, in succo d’olive autentiche, mica sguazzanti in brodaglia di spremitura di pianta d’alambicco e sconosciuta in natura, mummificate d’aspetto e gusto, tristi ed assiepate in rispettoso ordine, morte invano.

Ne consegue piatto rapido e sapido, che richiede altresì pianificazioni algoritmiche, che non si concede facilmente all’errore, alla svista, pena amputazione cromatica e caduta di stile. Ordunque, in attesa del bollore d’acqua, merita che s’approntino gli ingredienti. Dapprima propenderei per imbiondimento di quattro o cinque cucchiai del pan grattato di segale in olio, a padellino antiaderente, onde evitare scivolamenti bituminosi. Tre spicchi d’aglio tritati alla bene in meglio, le olive a metà, denocciolate, a grazia ricevuta per molari improvvidi, trito finissimo di basilico e prezzemolo (se ne avete, due foglie di mentuccia non si disdegnano) e i pomodori ciliegini tagliati in quattro. Invero, ho optato per costoluto di Pachino, che ho trovato in confezione regalo ad oreficeria attrezzata, che quelli che restano li baratto a compro oro a strozzo per rata di mutuo. Quello lo tratto di fino, come merita, a cubetti adeguati, animati d’autarchia ché sprigionano aromi d’Olimpo, nemmeno avrebbero bisogno d’ulteriore spinta di condimento per quanto bastano a sé stessi. Di pasta la dose è essenziale, che taluni, intenzionati a viver da malati per crepar sani, s’accontenterebbero d’80 grammi, la razione K opta per 120, io propenderei per un paio d’etti, pure e mezzo. Si butta giù che in concomitanza gli spicchi d’aglio, in saltapasta, sfrigolano, perbacco, sfrigolano in olio bollente, in appassionato amplesso con pomodoro, olive, peperoncino e capperi, e fanno succo di mare riconquistato a sei o sette acciughe a sfaldatura. Ad evitare prosciugamenti fatali, di tanto in tanto, appropriata cucchiaiata d’acqua di cottura della pasta, pescata in superficie, dove l’amido si concentra per rivestire poi di tenere cotonature ad avvolgenza il tutto d’intorno. E non temete di rendere brodosa l’evoluzione bollente, che a quella ci sarà rimedio. Appena scolati, ancora assai al dente, che si avvoltolino lì gli spaghetti, a fiamma viva e vegeta, a completar cottura nell’armonia del mare e della terra più aspra, s’assorbano ogni residuo profumato, arricchito, un attimo prima del tutto è pronto, di erbe a pioggia di scirocco. Poi, che il pangrattato concorra ad assorbire ciò che resta d’umido, ma non per appropriarsene, piuttosto per distribuirne con pedissequa cura del dettaglio ogni aroma, colore, sapore. Infine, a piatto, ancora basilico. È concentrato di terra di Lotofagi, di rimpianti, di memorie antiche e vivide, e se non tratterrete una lacrima a commozione, questa saprà del sale del mare d’Ulisse.

E a chi non piace Atahualpa, consiglio di stapparsi una gazzosa e sgranocchiarsi patatine al glutammato.”

Un ponte

Nazarene bianche, Nazarene nere.
Del fiume a le rive
si guardan da tanto i conventi,
si guardan con occhio di vecchia amicizia
le piccole torri, una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Due volte s’incontran, le bianche e le nere,
sul ponte, sul ponte che unisce i conventi,
li unisce da tanto per vecchia amicizia,
le piccole torri si guardan ridenti
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Le piccole chiese al crepuscolo s’aprono,
ne sortono leste le suore ed infilano il ponte;
nel mezzo s’incontran, s’inchinano
le bianche e le nere,
si recan l’un l’altre a la piccola chiesa al saluto;
vi fanno una breve preghiera
e leste rinfilano il ponte.
Di nuovo s’incontran, s’inchinan le file,
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
” (Aldo Palazzeschi)

I ponti li fecero generosi operai, pietra su pietra, bilichi delicati, arcate sorprendenti, manovalanze esperte di volontà a congiungimento di sponde di fiumi impetuosi, ed isole che divennero promontori. I ponti furono di progetto fatti ad unire da geniali architetti, su valichi di frontiera, sentieri di capre, terreni d’acquitrinio, paludi di creature fameliche che non fecero più paura.

Furono fatti di povere corde, di barche impilate, legni e pietre raccattati in un qualsiasi dove. Pure ce ne furono d’ingegnosi, che resistettero a millenni di barbarie, taluni si fecero immagini da cartolina, simboli, sperimentarono ardite soluzioni d’equilibrio. Tali altri furono fragili, si fecero a crollo drammatico, ma divennero metafora sorprendente di necessità di consolidamento di punti di contatto, allarme che non se ne mettesse a discussione l’esistenza, non se ne facesse per distrazione occasione d’abbattimento e rovinosa caduta. Solo nelle guerre, – allorché scorre il sangue di vinti e vincitori – come nella barbarie, s’abbattono i ponti.
Talora vi sono ponti che di progetto fecero a meno. Oceani a navigazione libera non sono forse ponti? Vette elevate non ebbero esse stesse, che d’animo impervio si tinsero, capacità di congiungere più che di far di divisione, a consentire all’occhio la curiosità dello sguardo che vaga sino all’oltre? Non furono financo i deserti nati quali ponti per essere attraversati in lungo e largo, per giungere d’oasi ad oasi, coste su coste? Non ebbero isole lontane sembianza di ponte, che fecero da ristoro per navigazioni senza precisa meta che non fosse di esclusiva scoperta?
Questa è dei ponti la natura più intima, l’unica necessaria, siano i ponti che abili manovalanze eressero dal nulla, solo armate di mani e sogno d’andare, desiderio di viaggio e sorpresa, siano anche fatti d’oro di nemico che fugge, e i ponti che non paiono ponti, come le vaste pianure, i grandi monti, le sterminate praterie, i mari infiniti. La storia degli uomini è la storia dei loro ponti, di quelli che costruirono, di quelli che elessero a tali, quelli che non ci furono. E se oggi quei ponti, come canali e fazzoletti di mare, qualcuno vuole chiudere, abbattere, doganare e seppellire, allora quel qualcuno nega volontà d’umanità di mille mila anni, di superamento di costrizione, della mente di trovare legittimo congiungimento con l’altrove. Dunque, nega se stesso quale ad appartenenza all’umana genia, se ne espulse, si mise a gattabuia e manco se ne rese conto, mentre provava ad assembrarci pure gli altri che si fecero gregge mansueto.

La bomba e pure di più

Che fu, quella a passato prossimo, grande settimana di prologo, che si chiuse a giorno 18 settembre, giorno storico che tante cose spiega che rimasero a stretta scrittura di detto paese che fu Italia s’è desta. Che muore ancora ragazzo che va a scuola, e mi pare che, invece, a scuola non ci andò, che si recò con fare per sfrutto ad ultimo giorno senza promozione. Pure ho immagine nitida – che mi fu a recapito di messaggio da quello che fu paese di mio padre, pure di tal La Pira, detto Giorgio, beniamino di pacifismo, dunque bolscevico ad esatta definizione – di bimbi a fin di vita, che taluni non si videro che se li portò fame e sete e flutto pietoso a tomba. Ma questi non ebbero forza, come primo, d’arrivare ad oggetto di campagna elettorale per sdegno unanime, quale invece fece a scandalo altro che non si capisce cos’è. Che mi sorse il dubbio che astiosa rivendicazione dell’un contro l’altro pare invece gioco delle parti a ben congegno per popolume povero d’illusione e pensiero d’utopia. Pure scoppia guerra a destra come a manca, ma guerra è solo quella che arriva a prima pagina. Che si continua a sparo fervido, che ora c’è fremito d’oltranza, che tutti vogliono vincere agone d’elezione per poi ho libero accesso a gioco di bombarda. Taluno pure s’indigna se talaltro propone esibizione muscolare, ma i più s’indignano per indignazione. Ma c’è cosa che è guerra, che aveva pure dio in illo tempore, però mi pare s’abbia fatto sgombero d’Olimpo, ma vaga senza casa e meta, che non si concede meritata pensione. Vado a musica, che è meglio, che poi vi dò io armamentario giusto a riciclo per rispetto d’ambiente.

BOMBA

Incalzatrice della storia Freno del tempo Tu Bomba
Giocattolo dell’universo Massima rapinatrice di cieli Non posso odiarti
Forse che l’odio il fulmine scaltro la mascella di un asino
La mazza nodosa di Un Milione di A.C. la clava il flagello l’ascia
Catapulta Da Vinci tomahawk Cochise acciarino Kidd pugnale Rathbone
Ah e la triste disperata pistola Verlaine Puskin Dillinger Bogart
E non ha S. Michele una spada infuocata S. Giorgio una lancia Davide una fionda
Bomba sei crudele come l’uomo ti fa e non sei più crudele del cancro
Ogni uomo ti odia preferirebbe morire in un incidente d’auto per un fulmine annegato
Cadendo dal tetto sulla sedia elettrica di infarto di vecchiaia di vecchiaia O Bomba
Preferirebbe morire di qualsiasi cosa piuttosto che per te Il dito della morte è indipendente
Non sta all’uomo che tu bum o no La Morte ha distrutto da un pezzo
il suo azzurro inflessibile Io ti canto Bomba Prodigalità della Morte Giubileo della Morte
Gemma dell’azzurro supremo della Morte Chi vola si schianterà al suolo la sua morte sarà diversa
da quella dello scalatore che cadrà Morire per un cobra non è morire per del maiale guasto
Si può morire in una palude in mare e nella notte per l’uomo nero
Oh ci sono morti come le streghe d’Arco Agghiaccianti morti alla Boris Karloff
Morti insensibili come un aborto morti senza tristezza come vecchio dolore Bowery
Morti nell’abbandono come la Pena Capitale morti solenni come i senatori
E morti impensabili come Harpo Marx le ragazze sulla copertina di Vogue la mia
Proprio non so quanto sia terribile la MortePerBomba Posso solo immaginarlo
Eppure nessuna morte di cui io sappia ha un’anteprima così buffa Panoramo
una città la città New York che straripa a occhi desolati rifugio nel subway
Centinaia e centinaia Un precipitare di umanità Tacchi alti piegati
Capelli spinti indietro Giovani che dimenticano i pettini
Signore che non sanno cosa fare delle borse della spesa
Impassibili distributori automatici di gomma Ma 3° rotaia pericolosa lo stesso
Ritz Brothers del Bronx sorpresi sul treno A
La sorridente réclame del Schenley sorriderà sempre
Morte Folletto Bomba Satiro Bombamorte
Tartarughe che esplodono sopra Istanbul
La zampa del giaguaro che balza
per affondare presto nella neve artica
Pinguini piombati contro la Sfinge
La cima dell’Empire State
sfrecciata in un campo di broccoli in Sicilia
Eiffel a forma di C nei Magnolia Gardens
S. Sofia atletica Bomba sportiva
I templi dell’antichità
finite le loro grandiose rovine
Elettroni Protoni Neutroni
che raccolgono capelli Esperidi
che percorrono il dolente golf dell’Arcadia
che raggiungono timonieri di marmo
che entrano nell’anfiteatro finale
con un senso di imnodia di tutte le Ilio
annunciando torce di cipressi
correndo con pennacchi e stendardi
e tuttavia conoscendo Omero con passo aggraziato
Ecco la squadra del Presente in visita
la squadra del Passato in casa
Lira e tuba insieme congiunte
Odi e wurstel soda oliva uva
galassia di gala usciere togato
e in alta uniforme O felici posti a sedere
Applausi e grida e fischi eterei
La presenza bilione del più grande pubblico
Il pandemonio di Zeus
Hermes che corre con Owens
La Palla lanciata da Buddha
Cristo che picchia la palla
Lutero che corre alla terza base
Morte planetaria Osanna Bomba
Fa sbocciare la rosa finale O Bomba di Primavera
Vieni con la tua veste di verde dinamite
libera dalla macchina l’occhio inviolato della Natura
Davanti a te. li Passato raggrinzito
dietro dl te il Futuro che ci saluta O Bomba
Rimbalza nell’erbosa aria da tromba
come la volpe nell’ultima tana
tuo campo l’universo tua siepe la terra
Salta Bomba rimbalza Bomba scherza a zig zag
Le stelle uno sciame d’api nella tua borsa tintinnante
Angeli attaccati ai tuoi piedi giubileo
ruote di pioggialuce sul tuo scanno
Sei attesa e guarda sei attesa
e i cieli sono con te
osanna Incalescente gloriosa liaison
BOMBA O strage antifonia fusione spacco BUM
Bomba fa l’infinito una Improvvisa fornace
distendi il. tuo Spazzare che abbracci moltitudini
avviati orribile agenda
Stelle del Carro pIaneti carnaio elementi di carcassa
Fa’ cadere l’universo salta ciucciante coi dito in bocca
sui suo da tanto da tanto morto Neanche
Dal tuo minuscolo peloso occhio spastico
espelli diluvi dl celestiali vampiri
Dal tuo grembo invocante
vomita turbini di grandi vermi
Squarcia Il tuo ventre o Bomba
dal tuo ventre fa’ sciamare saluti di avvoltolo
incalza col tuoi moncherini stellati dl iena
lungo il margine del Paradiso
Bomba O finale Pied Piper
sole e lucciola valzeggiano dietro la tua sorpresa
Dio abbandonato zimbello
Sono la Sua rada falso-narrata apocalisse
Lui non può sentire le un-bel-giorno
profanazioni del tuo flauto
Lui è rovesciato sordo nell’orecchio pustoloso del Silenziatore
il Suo Regno un’eternità di cera vergine
Trombe tappate non Lo annunciano
Angeli sigillati non Lo cantano
Un Dio senza tuoni Un Dio morto
Bomba il tuo BUM la Sua tomba,
Che io mi chini su un tavolo di scienza
astrologo che guazza in prosa di draghi
quasi esperto dl guerre bombe soprattutto bombe
Che io sia incapace di odiare ciò che è necessario amare
Che io non possa esistere in un mondo che consente
un bimbo abbandonato in un parco un uomo morto sulla sedia elettrica
Che io sia capace di ridere di tutte le cose
dl tutte quelle che so e quelle che non so per nascondere il mio dolore
Che dica di essere un poeta e perciò amo ogni uomo
sapendo che le mie parole sono la riconosciuta profezia di ogni uomo
e le mie non parole un non minore riconoscimento,
che io sia multiforme
uomo che Insegue le grandi bugie dell’oro
poeta che vaga tra ceneri luminose
come mi immagino
un sonno con denti di squalo un mangia-uomini di sogni
Allora non ho bisogno di esser davvero esperto di bombe
Per fortuna perché se le bombe ml sembrassero larve
non dubiterei che diventerebbero farfalle
C’è un inferno per le bombe
Sono laggiù Le vedo laggiù
Stan li e cantano canti
soprattutto canti tedeschi
e due lunghissimi canti americani
e vorrebbero che ci fossero altri canti
specialmente canti russi e cinesi
e qualche altro lunghissimo canto americano
Povera piccola Bomba che non sarai mal
un canto eschimese io ti amo
voglio mettere una caramella
nella tua bocca forcuta
Una parrucca di Goldilocks sulla tua zucca pelata
e farti saltellare con me come Hansel e Gretel
sullo schermo di Hollywood
O Bomba in cui tutte le cose belle
Morali e fisiche rientrano ansiose
fiocco di fata colto dal
più grande albero dell’universo
lembo di paradiso che dà
un sole alla montagna e al formicaio
Sto In piedi davanti alla tua fantastica porta gigliale
Ti porto rose Midgardian muschio d’Arcadia
Rinomati cosmetici delle ragazze del paradiso
Dammi il benvenuto non temere, la tua porta aperta
né il grigio ricordo del tuo freddo fantasma
nè i ruffiani del tuo tempo incerto
il loro crudele sciogliersi terreno
Oppenheimer è seduto
nella buia tasca di Luce
Fermi è disseccato nei Mozambico della Morte
Einstein la sua boccamito
una ghirlanda di patelle sulla testa di calamari lunari
Fammi entrare Bomba sorgi da quell’angolo da topo gravido
non temere le nazioni del mondo con le scope alzate
O Bomba ti amo
Voglio baciare il tuo clank mangiare il tuo bum
Sei un peana un acmé dl urli
un cappello lirico del Signor Tuono
fai risuonare le tue ginocchia di metallo
BUM BUM BUM BUM BUM
BUM tu cieli e BUM tu soli
BUM BUM tu lune tu stelle BUM
notti tu BUM tu giorni tu BUM
BUM BUM tu venU tu nubi tu nembi
Fate BANG voi laghi voi Oceani BING
Barracuda BUM e coguari BUM
Ubanghi BANG orangutang
BING BANG BONG BUM ape orso scimmion
tu BANG tu BONG tu BING
la zanna la pinna la spanna
Si Si In mezzo a noi cadrà una bomba
Fiori balzeranno di gioia con le radici doloranti
Campi si inginocchieranno orgogliosi sotto gli halleluia del vento
Bombe-garofano sbocceranno Bombe-alce rizzeranno le orecchie
Ah molte bombe quel giorno intimidiranno gli uccelli in aspetto gentile
Eppure non basta dire che una bomba cadrà
sia pure sostenere che il fuoco celeste uscirà
Sappiate che la terra madonnerà in grembo la Bomba
che nel cuore degli uomini a venire altre bombe nasceranno
bombe da magistratura avvolte in ermellino tutto bello
e si pianteranno sedute sui ringhiosi imperi della terra
feroci con baffi d’oro.
(Gregory Corso)

Agave

O rabido ventare di scirocco
che l’arsiccio terreno gialloverde
bruci;
e su nel cielo pieno
di smorte luci
trapassa qualche biocco
di nuvola, e si perde.
Ore perplesse, brividi
d’una vita che fugge
come acqua tra le dita;
inafferrati eventi,
luci-ombre, commovimenti
delle cose malferme della terra;
oh aride ali dell’aria
ora son io
l’agave che s’abbarbica al crepaccio
dello scoglio
e sfugge al mare da le braccia d’alghe
che spalanca ampie gole e abbranca rocce;
e nel fermento
d’ogni essenza, coi miei racchiusi bocci
che non sanno più esplodere oggi sento
la mia immobilità come un tormento.
” (L’Agave sullo scoglio, Eugenio Montale)

Non è cosa della mia terra, viene d’altra parte del mondo e fa combriccola festosa con palmette nane e fichi d’india, che pure questi ultimi non ci nacquero qui da generazione antica. Ma ci stanno, non fanno chiasso, si riuniscono a far banda, che quasi nessuno li scorge, ma tutti assieme fanno simbolo se li guardi da lontano. Che non c’è barbarie a farsi fratello e sorella d’altri, non c’è scompenso in certe occasioni, che talora ti dimentichi di diversità. Che si fanno, anzi, a corale perfetta, che ciascuno suona suo bellissimo strumento, come musica d’insieme che non fa pecca di stonatura. E ne ho prove altre, che una ve la riciclo di sgambescio, che m’aggrada assai, pure ne feci a iosa di questi tempi, mentre altri a perfezione di padre matria, o madre patria, a che sollucchera di più, s’appigliarono per leva su viscere contorte che su plausibile presunzione di possesso d’anima e ragione, a far dell’uno contro tutti, arma perfetta a vittoria singola contro ultimi tra gli ultimi.

“D’Arlecchino apprezzo la condizione patchwork, di tutto insieme. Mi ricorda, così lontano come sembra, nel tempo e nello spazio, certi piatti siciliani, da cui si desume che tempo e spazio siano invenzioni fallaci. La Sicilia, Trinacria, tripartita, triangolare, trilaterale, triste e tribolante è, infatti, essa stessa patchwork, “più di una regione” diceva Sciascia, fa continente, aggiungerei, con quel tre reiterato (ne tralascio i riferimenti alla perfezione, non sarei al di sopra d’ogni sospetto, tanto meno ne sono convinto) che è somma del primo pari e del primo dispari, dunque del tutto e del contrario di tutto. Che luttuoso lusso esservi nato. E la sua cucina ne è l’archetipo illustrativo, la quintessenza del Meltin Pot, che ingloba colori, sapori, odori, senza lesinarne e tralasciarne alcuno, rinunciando così al gioco barbarico ad esclundendum. Ma c’è un piatto la cui composizione ne seppellisce ogni altro, non solo per la sua natura complessa ed articolata, dunque non banale, ma perché richiede tempi lunghi di realizzazione, lentezze gastronomiche che riconciliano al gusto dell’attesa e rendono la festa finale una sorpresa vertiginosa; è un piatto internazionalista, quasi un’anticipazione castro-mao-guevarista d’un movimento di emancipazione planetaria che parte molto dal basso, dalla terra addirittura, anzi, da ogni terra sparsa per il globo, cui attinge senza pregiudizi preculturali, senza curarsi di barriere, dogane, frontiere; è piatto libertario, giacché non ve n’è una ricetta unica, diventa scuola di pensiero; ciascuno può, sulla base d’una vena creativa personale, renderla propria ma senza mai esserne davvero esclusivo detentore giacché il gusto della condivisione alla fine prevale su qualsiasi tendenza edonistico-egoistica; ed infine, è piatto di memorie e storie antiche, che si rincorrono e riemergono, come in un fenomeno carsico, nella natura policromatica di chi le ha tramandate: è la “caponata”. Sulla provenienza esotica di certi ingredienti senza i quali non è tale, pomodori e melanzane, solo per citarne un paio, soprassiedo, se ne stenderebbe un trattato geogastronomico troppo vasto.
Si comincia, con calma, a soffriggere dadini di sedano, carote e cipolle – non troppo piccoli, nemmeno particolarmente spessi – in olio extra vergine di oliva. Ora, so che taluni preparano il soffritto in qualche olio di semi, ciò che non capisco è come mai non sia proibito dalla legge. Invece, per chi possiede consapevolezze acquisite e non soffre di palati prelogici, la scelta sarà semmai tra quali oli d’oliva. Ci sono certi oli toscani e liguri meravigliosi, solo peccano di eccessi di protagonismo, preferiscono stare al centro dell’attenzione e meritano il pulpito; difficilmente li si può costringere ad essere comprimari, piccanteggiano il tutto d’intorno, finiscono per sgomitare, scavalcare la fila. Meglio un olio d’oliva siciliano, capace, se occorre, di accompagnare, mantenendosi leggermente defilato, propone delicatezza di trattamenti ma esprime forza e volontà di mantenersi integro nel calor bianco, insomma, non fa “scruscio”. Poi, non appena il battuto cubico comincerà ad acquisire vaghe consistenze e dorature da oreficerie raffinatissime, si aggiungono olive nere (denocciolate, se ci tenete a molari e premolari), capperi (meglio quelli piccoli e vagamente selvatici, sotto sale o in salamoia, appena scrollati), ed un paio di cucchiai di stratto, non di estratto di pomodoro, di “stratto”. Al limite usate pure il secondo poiché il primo è difficile da reperire. È una salsa di pomodoro molto salata che abili mani lasciano essiccare ai più feroci dei soli agostani del Mediterraneo, cosicché, mentre raggiunge consistenze da pasta dentifricia, si avviluppa dello iodio e della umida salsedine dell’aria, per poi finire in barattolo, ricoperto da un sottile film di olio. Poi, rifiorisce in cottura, attribuendo all’insieme sapori forti e contagiosi. Un bicchiere di bianco vellutato e dalle opportune corposità, preferibilmente fatto con l’uva e non di miscele di bisulfiti (ve ne sono di ottimi nella Sicilia Occidentale – di vini intendo, non di bisulfiti -, ma anche quelli friulani e tirolesi si prestano allo scopo, peraltro proponendo ulteriori contaminazioni mai così ben accette, e poi, bervene un bicchiere, ghiacciato, si intende, accompagna bene tutta la lenta preparazione). Quindi un goccio di aceto di vino bianco, un pizzico di peperoncino rosso, e due grossi cucchiai di miele di timo o di salice degli Iblei, e sulla provenienza di questo non transigo: “da una parte la siepe di sempre dal vicino confine, succhiata dalle api Iblee nel fiore del salice spesso t’inviterà ad entrare nel sonno con il lieve sussurro” (Virgilio, V Ecloga). Il miele, rilasciando gli effluvi profumati di impervie balze calcaree battute dal sole, risuonerà di poesie arabe e racconti da “Mille e una notte”. Ancora un po’, e il ricco connubio riuscirà a maturare il proprio sacro convincimento di sapere – e potere – stupire. A parte avrete soffritto, ciascuno nella sua padella, per consentirne perfetti e diversi tempi di cottura che preservino le giuste reciproche croccantezze, dadi di melanzane e strisce di peperoni rossi, preferibilmente a cornetto. Per qualche minuto fate andare a fuoco lento tutto insieme con un mestolo di salsa di pomodoro ben ristretta e, poco prima che tutto abbia fine, una pioggia abbondante d’un trito di prezzemolo, basilico e qualche foglia di menta, perché cromatismi e profumi freschi stemperino certe asperità. Provate di sale e lasciate riposare, anche per ventiquattrore, tanto vi verrà senz’altro riconosciuta la fatica dell’attesa. Consumatela meglio fredda, accompagnandola con del Nero d’Avola (in abundantia) e, sotto, jazz, giacché da quelle parti si improvvisa, che è poi il talento vero di quel vate che per primo servì caponata ai suoi ospiti.” Che non dubito venissero da ogni parte del globo terracqueo su barche sgangherate e sommo desiderio di convivio.

Libertà di parola

Ci appartiene quello che scriviamo? Chi lo sa? Penso che ognuno risponda per sé, decide cosa farne delle sue parole, di quelle che dice in confidenza, di quelle che urla ai quattro venti, di quelle che scrive in lettera riservata, o libera nella rete (che ossimoro vertiginoso). Io sono nessuno, dunque le mie parole sono di nessuno, chi le vuole se le prenda pure, che le scrissi liberamente, dunque sono libere, non anelano a proprietà. Vado un tantinello di musica, così, come atto liberatorio.

Scrivo per desiderio di rendere libere le parole, consentire loro di volare. Talora ne trovo già scritte, che volano da altri quaderni, e che somma soddisfazione quando paiono esattamente quelle che avrei voluto scrivere io. Capita che le trovi esatte e giuste nel momento stesso in cui concepii quello stesso pensiero, e chi se ne frega se non ne ebbi l’imprimatur, che a me “l’ho scritto io” non importa. Proprio ora m’attrezzavo a buttar giù una cosarella e la trovai d’altro. Che meraviglia le convergenze tra gente lontana nel tempo, nello spazio.

Tu non sei nato per la morte, uccello immortale,
né ti calpestano generazioni affamate;
la voce che sento in questa notte fuggente fu udita
in tempi antichi da imperatori e buffoni,
e forse è lo stesso canto che si fece strada
nel cuore triste di Ruth quando la nostalgia
la fece piangere nei campi stranieri,
lo stesso canto che tante volte ha incantato
finestre magiche aperte sulle schiume
di mari mossi in terre perse incantate…

(Ode a un usignolo VII. John Keats)

Radio Pirata 26 (guerriglia di barricata)

Radio Pirata diventa Ventisei, che a guerra che incombe risponde a guerriglia che non fa morto ammazzato, ma stordisce avversario di pace con arma potentissima, di schermaglia ricca a sfaccettatura per danno incommensurabile a brutto e orrido che avanza. Sette note usa a cannoneggiamento e oltre va per affermazione di diritto a bellezza a forma che vi pare, che quella salverà il mondo, che lo disse tale che è a censura che nacque a posto sbagliato. E vado di immaginifica potenza di bombardo a modo mio.

E mentre sparo ad alzo uomo melodia a spiazza l’ascaro, mi concedo di compagnia buona che pare pure di bevuta ottima.

È alla massa degli uomini e delle donne che lavorano, vecchi e giovani, che spetta decidere circa l’essere o non essere del militarismo attuale, e non a quella piccola particella di questo popolo che sta nel cosiddetto abito del re” (Autodifesa di Rosa Luxemburg pronunciata al Tribunale di Francoforte nel febbraio del 1914 contro l’accusa di incitamento alla diserzione)
E sparacchio di mio, a barricata.

La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente egualmente.
” (Bertolt Brecht)
Resisto a botto di bomba con controbotto, pure di fagotto.

Il mondo si divide in due campi: i dominatori e i dominati, gli sfruttatori e gli sfruttati. I paesi poveri non lo sono per incapacità congenita, lo sono a causa di circostanze storiche, che hanno fatto sì che certi paesi abbiano dominato, sfruttato e depredato gli altri per arricchirsi. Quando i ricchi diventano sempre più ricchi, e si parla qui di logica matematica, quando i ricchi sfruttano i poveri, i ricchi diventano sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri.”
“Quando i ricchi si fanno la guerra, sono i poveri a morire.
” (Jean Paul Sartre)
Faccio barriera e cingo bandiera, bianca, mi pare, ch’è da suonare.

Dopo la pioggia viene il sereno,
brilla in cielo l’arcobaleno:
è come un ponte imbandierato
e il sole vi passa, festeggiato.
È bello guardare a naso in su
le sue bandiere rosse e blu.
Però lo si vede – questo è il male –
soltanto dopo il temporale.
Non sarebbe più conveniente
il temporale non farlo per niente?
Un arcobaleno senza tempesta,
questa si che sarebbe una festa.
Sarebbe una festa per tutta la terra
fare la pace prima della guerra.
” (Gianni Rodari)
M’attrezzo ancora a resistere ardito, diserto, s’è il caso, sin dentro lo spartito.

La bomba

Che si continua a sparo fervido, che ora c’è fremito d’oltranza, che tutti vogliono partecipare a gioco di bombarda. Taluno pure s’indigna se talaltro propone esibizione muscolare, ma i più s’indignano per indignazione. Ma c’è cosa che è guerra, che aveva pure dio in illo tempore, però mi pare s’abbia fatto sgombero d’Olimpo, ma vaga senza casa e meta, che non si concede meritata pensione. Vado a musica, che è meglio, che poi vi dò cosarella che trovai a memoria mia, pure scopiazzai da altrove che quella – memoria, intendo – perde pezzi a costellazione sparsa di neuroni.

BOMBA


Incalzatrice della storia Freno del tempo Tu Bomba
Giocattolo dell’universo Massima rapinatrice di cieli Non posso odiarti
Forse che l’odio il fulmine scaltro la mascella di un asino
La mazza nodosa di Un Milione di A.C. la clava il flagello l’ascia
Catapulta Da Vinci tomahawk Cochise acciarino Kidd pugnale Rathbone
Ah e la triste disperata pistola Verlaine Puskin Dillinger Bogart
E non ha S. Michele una spada infuocata S. Giorgio una lancia Davide una fionda
Bomba sei crudele come l’uomo ti fa e non sei più crudele del cancro
Ogni uomo ti odia preferirebbe morire in un incidente d’auto per un fulmine annegato
Cadendo dal tetto sulla sedia elettrica di infarto di vecchiaia di vecchiaia O Bomba
Preferirebbe morire di qualsiasi cosa piuttosto che per te Il dito della morte è indipendente
Non sta all’uomo che tu bum o no La Morte ha distrutto da un pezzo
il suo azzurro inflessibile Io ti canto Bomba Prodigalità della Morte Giubileo della Morte
Gemma dell’azzurro supremo della Morte Chi vola si schianterà al suolo la sua morte sarà diversa
da quella dello scalatore che cadrà Morire per un cobra non è morire per del maiale guasto
Si può morire in una palude in mare e nella notte per l’uomo nero
Oh ci sono morti come le streghe d’Arco Agghiaccianti morti alla Boris Karloff
Morti insensibili come un aborto morti senza tristezza come vecchio dolore Bowery
Morti nell’abbandono come la Pena Capitale morti solenni come i senatori
E morti impensabili come Harpo Marx le ragazze sulla copertina di Vogue la mia
Proprio non so quanto sia terribile la MortePerBomba Posso solo immaginarlo
Eppure nessuna morte di cui io sappia ha un’anteprima così buffa Panoramo
una città la città New York che straripa a occhi desolati rifugio nel subway
Centinaia e centinaia Un precipitare di umanità Tacchi alti piegati
Capelli spinti indietro Giovani che dimenticano i pettini
Signore che non sanno cosa fare delle borse della spesa
Impassibili distributori automatici di gomma Ma 3° rotaia pericolosa lo stesso
Ritz Brothers del Bronx sorpresi sul treno A
La sorridente réclame del Schenley sorriderà sempre
Morte Folletto Bomba Satiro Bombamorte
Tartarughe che esplodono sopra Istanbul
La zampa del giaguaro che balza
per affondare presto nella neve artica
Pinguini piombati contro la Sfinge
La cima dell’Empire State
sfrecciata in un campo di broccoli in Sicilia
Eiffel a forma di C nei Magnolia Gardens
S. Sofia atletica Bomba sportiva
I templi dell’antichità
finite le loro grandiose rovine
Elettroni Protoni Neutroni
che raccolgono capelli Esperidi
che percorrono il dolente golf dell’Arcadia
che raggiungono timonieri di marmo
che entrano nell’anfiteatro finale
con un senso di imnodia di tutte le Ilio
annunciando torce di cipressi
correndo con pennacchi e stendardi
e tuttavia conoscendo Omero con passo aggraziato
Ecco la squadra del Presente in visita
la squadra del Passato in casa
Lira e tuba insieme congiunte
Odi e wurstel soda oliva uva
galassia di gala usciere togato
e in alta uniforme O felici posti a sedere
Applausi e grida e fischi eterei
La presenza bilione del più grande pubblico
Il pandemonio di Zeus
Hermes che corre con Owens
La Palla lanciata da Buddha
Cristo che picchia la palla
Lutero che corre alla terza base
Morte planetaria Osanna Bomba
Fa sbocciare la rosa finale O Bomba di Primavera
Vieni con la tua veste di verde dinamite
libera dalla macchina l’occhio inviolato della Natura
Davanti a te. li Passato raggrinzito
dietro dl te il Futuro che ci saluta O Bomba
Rimbalza nell’erbosa aria da tromba
come la volpe nell’ultima tana
tuo campo l’universo tua siepe la terra
Salta Bomba rimbalza Bomba scherza a zig zag
Le stelle uno sciame d’api nella tua borsa tintinnante
Angeli attaccati ai tuoi piedi giubileo
ruote di pioggialuce sul tuo scanno
Sei attesa e guarda sei attesa
e i cieli sono con te
osanna Incalescente gloriosa liaison
BOMBA O strage antifonia fusione spacco BUM
Bomba fa l’infinito una Improvvisa fornace
distendi il. tuo Spazzare che abbracci moltitudini
avviati orribile agenda
Stelle del Carro pIaneti carnaio elementi di carcassa
Fa’ cadere l’universo salta ciucciante coi dito in bocca
sui suo da tanto da tanto morto Neanche
Dal tuo minuscolo peloso occhio spastico
espelli diluvi dl celestiali vampiri
Dal tuo grembo invocante
vomita turbini di grandi vermi
Squarcia Il tuo ventre o Bomba
dal tuo ventre fa’ sciamare saluti di avvoltolo
incalza col tuoi moncherini stellati dl iena
lungo il margine del Paradiso
Bomba O finale Pied Piper
sole e lucciola valzeggiano dietro la tua sorpresa
Dio abbandonato zimbello
Sono la Sua rada falso-narrata apocalisse
Lui non può sentire le un-bel-giorno
profanazioni del tuo flauto
Lui è rovesciato sordo nell’orecchio pustoloso del Silenziatore
il Suo Regno un’eternità di cera vergine
Trombe tappate non Lo annunciano
Angeli sigillati non Lo cantano
Un Dio senza tuoni Un Dio morto
Bomba il tuo BUM la Sua tomba,
Che io mi chini su un tavolo di scienza
astrologo che guazza in prosa di draghi
quasi esperto dl guerre bombe soprattutto bombe
Che io sia incapace di odiare ciò che è necessario amare
Che io non possa esistere in un mondo che consente
un bimbo abbandonato in un parco un uomo morto sulla sedia elettrica
Che io sia capace di ridere di tutte le cose
dl tutte quelle che so e quelle che non so per nascondere il mio dolore
Che dica di essere un poeta e perciò amo ogni uomo
sapendo che le mie parole sono la riconosciuta profezia di ogni uomo
e le mie non parole un non minore riconoscimento,
che io sia multiforme
uomo che Insegue le grandi bugie dell’oro
poeta che vaga tra ceneri luminose
come mi immagino
un sonno con denti di squalo un mangia-uomini di sogni
Allora non ho bisogno di esser davvero esperto di bombe
Per fortuna perché se le bombe ml sembrassero larve
non dubiterei che diventerebbero farfalle
C’è un inferno per le bombe
Sono laggiù Le vedo laggiù
Stan li e cantano canti
soprattutto canti tedeschi
e due lunghissimi canti americani
e vorrebbero che ci fossero altri canti
specialmente canti russi e cinesi
e qualche altro lunghissimo canto americano
Povera piccola Bomba che non sarai mal
un canto eschimese io ti amo
voglio mettere una caramella
nella tua bocca forcuta
Una parrucca di Goldilocks sulla tua zucca pelata
e farti saltellare con me come Hansel e Gretel
sullo schermo di Hollywood
O Bomba in cui tutte le cose belle
Morali e fisiche rientrano ansiose
fiocco di fata colto dal
più grande albero dell’universo
lembo di paradiso che dà
un sole alla montagna e al formicaio
Sto In piedi davanti alla tua fantastica porta gigliale
Ti porto rose Midgardian muschio d’Arcadia
Rinomati cosmetici delle ragazze del paradiso
Dammi il benvenuto non temere, la tua porta aperta
né il grigio ricordo del tuo freddo fantasma
nè i ruffiani del tuo tempo incerto
il loro crudele sciogliersi terreno
Oppenheimer è seduto
nella buia tasca di Luce
Fermi è disseccato nei Mozambico della Morte
Einstein la sua boccamito
una ghirlanda di patelle sulla testa di calamari lunari
Fammi entrare Bomba sorgi da quell’angolo da topo gravido
non temere le nazioni del mondo con le scope alzate
O Bomba ti amo
Voglio baciare il tuo clank mangiare il tuo bum
Sei un peana un acmé dl urli
un cappello lirico del Signor Tuono
fai risuonare le tue ginocchia di metallo
BUM BUM BUM BUM BUM
BUM tu cieli e BUM tu soli
BUM BUM tu lune tu stelle BUM
notti tu BUM tu giorni tu BUM
BUM BUM tu venU tu nubi tu nembi
Fate BANG voi laghi voi Oceani BING
Barracuda BUM e coguari BUM
Ubanghi BANG orangutang
BING BANG BONG BUM ape orso scimmion
tu BANG tu BONG tu BING
la zanna la pinna la spanna
Si Si In mezzo a noi cadrà una bomba
Fiori balzeranno di gioia con le radici doloranti
Campi si inginocchieranno orgogliosi sotto gli halleluia del vento
Bombe-garofano sbocceranno Bombe-alce rizzeranno le orecchie
Ah molte bombe quel giorno intimidiranno gli uccelli in aspetto gentile
Eppure non basta dire che una bomba cadrà
sia pure sostenere che il fuoco celeste uscirà
Sappiate che la terra madonnerà in grembo la Bomba
che nel cuore degli uomini a venire altre bombe nasceranno
bombe da magistratura avvolte in ermellino tutto bello
e si pianteranno sedute sui ringhiosi imperi della terra
feroci con baffi d’oro.
(Gregory Corso)

Auguri alla polvere

Voglio fare gli auguri, che è cosa che non faccio mai troppo volentieri, ma quest’anno mi concedo alla liturgia, reiterando il peccato d’un anno fa, che era sollievo che il 2020 s’era messo alla porta.

Faccio auguri a musica, se vi piace la cosa, a colonna sonora dell’infame che passa.

E faccio auguri a tutti, a chi si trova a passare da queste parti con affetto particolare, ma pure a chi fa cenone ogni giorno dell’anno, sulle ossa di chi s’affaccia al pasto nemmeno tutti i giorni. Ma ho voglia di fare auguri particolari a talune e taluni, che paiono polvere sotto il tappeto, che gli altri non me ne vorranno se m’occupo di loro al dettaglio, pure possono aggiungere auguri loro, che la cosa non fa un etto di danno.

Faccio auguri alle donne Afghane, che si sono beccate sette minuti di poverine, poi sotto il tappeto.

Faccio gli auguri a chi riceve la mail che la sua fabbrica chiude che se ne va in Slobodonia, e che si merita attenzione a trafiletto, quindi, sotto il tappeto.

Faccio gli auguri alle donne che ne buscano a leva pelo, perché non sono affettuose a geisha e non s’abburkano d’irreligioso pentimento, che per finire almeno trafiletto, prima d’andare sotto il tappeto, devono farsi polvere di loculo.

Faccio gli auguri, anche se non se ne fanno più nulla, a quelli sotto le gru, dentro la macina, asbestosici di ritorno, fumigati a pesce secco, ma anche alle loro compagne, ai loro compagni, d’affetto e lavoro mortificante, che tutti s’affollano sotto il tappeto.

Faccio gli auguri a chi rischia d’essere numero a statistica, senza faccia, senza memoria, percentuale da pennivendoli a tirar giacchette, che sotto il tappeto c’è posto.

Faccio gli auguri a chi anela porto salvo, e che vive senza memoria cullato dall’onde del bagnomaria, figli e figlie di mondo vigliacco e fedigrafo, che per loro, sotto il tappeto, c’è angolo a riserva.

Auguri a quelli che lavorano in tincea d’ospedale, che, ci fu tempo, vennero proclamati eroi, ora fanno granelli a favor di scopa, indovinate per finire dove.

Faccio gli auguri pure a me, alle mie colleghe ed ai miei colleghi, che la scuola è sicura, ma ci facciamo quarantene a carcere definitivo, ad ogni sbadiglio, che d’ogni doman non v’è certezza. C’è tappeto ampio ad accoglimento anche per noi.

A tutta questa polvere auguro che divenga massa compatta, che rovesci il tappeto, che salti fuori per respiro, che se ogni granello respira, è aria profumata per tutti gli altri.

E vi lascio cosarella che già pubblicai, che dedico a tutti, ma in particolare a chi vive d’arte e bellezza, che ha arma potentissima, che basta puntarla nella direzione giusta, mai in basso, che il rischio è di finire sotto il tappeto.

Nun sugnu pueta

Non pozzu chiànciri

ca l’occhi mei su sicchi

e lu me cori

comu un balatuni.

La vita m’arriddussi

asciuttu e mazziatu

comu na carrittata di pirciali.

Non sugnu pueta;

odiu lu rusignolu e li cicali,

lu vinticeddu chi accarizza l’erbi

e li fogghi chi cadinu cu l’ali;

amu li furturati,

li venti chi strammíanu li negghi

ed annèttanu l’aria e lu celu.

Non sugnu pueta;

e mancu un pisci greviu

d’acqua duci;

sugnu un pisci mistinu

abituatu a li mari funnuti:

Non sugnu pueta

si puisia significa

la luna a pinnuluni

c’aggiarnia li facci di li ziti;

a mia, la menzaluna,

mi piaci quannu luci

dintra lu biancu di l’occhi a lu voj.

Non sugnu pueta

ma siddu è puisia

affunnari li manu

ntra lu cori di l’omini patuti

pi spremiri lu chiantu e lu scunfortu;

ma siddu è puisia

sciògghiri u chiacciu e nfurcati,

gràpiri l’occhi a l’orbi,

dari la ntisa e surdi

rumpiri catini lazzi e gruppa:

(un mumentu ca scattu!)…

Ma siddu è puisia

chiamari ntra li tani e nta li grutti

cu mancia picca e vilena agghiutti;

chiamari li zappatura

aggubbati supra la terra

chi suca sangu e suduri;

e scippari

du funnu di surfari

la carni cristiana

chi coci nto nfernu:

(un mumentu ca scattu!)…

Ma siddu è puisia

vuliri milli

centumila fazzuletti bianchi

p’asciucari occhi abbuttati di chiantu;

vuliri letti moddi

e cuscina di sita

pi l’ossa sturtigghiati

di cu travagghia;

e vuliri la terra

un tappitu di pampini e di ciuri

p’arrifriscari nta lu sò caminu

li pedi nudi di li puvireddi:

(un mumentu ca scattu!)

Ma siddu è puisia

farisi milli cori

e milli vrazza

pi strinciri poviri matri

inariditi di lu tempu e di lu patiri

senza latti nta li minni

e cu lu bamminu nvrazzu:

quattru ossa stritti

a lu pettu assitatu d’amuri:

(un mumentu ca scattu!)…

datimi na vuci putenti

pirchi mi sentu pueta:

datimi nu stindardu di focu

e mi segunu li schiavi di la terra,

na ciumana di vuci e di canzuni:

li sfarda a l’aria

li sfarda a l’aria

nzuppati di chiantu e di sangu.

Inopinatamente m’ergo a traduttore dalla lingua mia a quella che m’ha adottato, sperando di non fare troppi danni.

Non sono poeta

Non posso piangere

che i miei occhi sono secchi

ed il mio cuore

è come lastra di pietra

La vita mi ha ridotto

arido e bastonato

come una carrettata di brecce

Non sono poeta

Odio usignoli e cicale

leggera brezza che accarezza l’erba

e le foglie che cadono con le ali

Amo i fortunali

i venti che spazzano via le nuvole

e nettano aria e cielo

Non sono poeta

nemmeno un insipido pesce

d’acqua dolce;

sono un pesce selvatico

abituato ai mari profondi:

Non sono poeta

se poesia vuol dire

la luna sospesa

che impallidisce i volti degli amanti;

a me, la mezzaluna,

piace quando risplende

nel bianco degli occhi dei buoi.

Non sono poeta

ma se è poesia

affondare le mani

nel cuore degli uomini che soffrono

per spremerne via pianto e sconforto;

ma se è poesia

sciogliere il cappio agli impiccati,

aprire gli occhi ai ciechi,

ridare l’udito ai sordi

spezzare catene, legacci e nodi:

(fra un momento scoppio!)…

Ma se è poesia

chiamare dentro tane e grotte

chi mangia poco e veleno inghiotte;

chiamare braccianti

ingobbiti sulla terra

che succhia sangue e sudore;

e strappare

dal fondo di miniere di zolfo

la carne degli uomini

che cuoce all’inferno;

(fra un momento scoppio!)…

Ma se è poesia

desiderare mille

centomila fazzoletti bianchi

per asciugare occhi gonfi di pianto;

desiderare letti morbidi

e cuscini di seta

per ossa storpiate

di chi lavora;

e desiderare che a terra

vi sia un tappeto di foglie e fiori

per rinfrescare il cammino

a piedi nudi dei poveri:

(fra un momento scoppio!)…

Ma se è poesia

farsi mille cuori

e mille braccia

per stringere povere madri

inaridite dal tempo e dalla sofferenza

senza latte al seno

e col bambino in braccio:

quattro ossa strette

ad un petto assetato d’amore:

(fra un momento scoppio!)…

datemi la voce più potente

perché mi sento poeta:

datemi uno stendardo di fuoco

e che mi seguano gli schiavi della terra,

un fiume di voci e canti:

gli stracci per aria

gli stracci per aria

inzuppati di pianto e sangue.