C’è nella musica, c’è nelle onde

Rimetto in gioco, solo per qualche frammento di struggente nostalgia, una cosarella d’una certa datatura.

«Fabbricare, fabbricare, fabbricare
Preferisco il rumore del mare
Che dice fabbricare fare disfare
Fare e disfare è tutto un lavorare
Ecco quello che so fare.
»
(Dino Campana)

Se ci sono parole giuste, messe in fila come devono stare, quale è il senso d’aggiungerne altre?
Se pure la musica non pare abbisognare d’altro che non sia se stessa, e le immagini raccontano d’infinito e basta, evocano terra di Lestrigoni, regni di Poseidone, pescatori Fenici, intemperanze di Ciclopi, perché scrivere ancora?

«Quando i miei pensieri sono ansiosi, inquieti e cattivi, vado in riva al mare, e il mare li trasforma con i suoi grandi suoni larghi, li purifica con il suo rumore, e impone un ritmo su tutto ciò che in me è disorientato e confuso.» (Rainer Maria Rilke)

Nel buio, guardo!

«E io credo in questo: che la mente libera ed esplorativa del singolo essere umano sia la cosa più preziosa al mondo.

E per questo mi batterei: la libertà della mente di prendere qualsiasi direzione desideri, senza direzione. E contro questo devo lottare: ogni idea, religione o governo che limiti o distrugga l’individuo.

Questo è quello che sono e quello che faccio.» (La valle dell’Eden, John Steinbeck)

Quando vengo qui, scrivo quello che mi passa per la testa nell’esatto istante in cui lo scrivo. Mi siedo dinnanzi alla tastiera e butto giù quel momento, le parole esclusive di quel momento. Sono parole che viaggiano in un istante, nemmeno sono certo di averle davvero interiorizzate, che siano quelle in cui credo ciecamente. Sono soltanto un frammento di pensiero che c’è ora e adesso. Dopo, quelle stesse parole fanno spazio ad altre suggestioni, forse persino distanti dalle prime. Posso concedermi questa libertà, posso usare le parole che voglio, come voglio, non ho limiti se non quelli che mi sono stati inculcati da un me atavico, che forse non è mai esistito o forse c’è sempre stato senza dirmi niente, s’è presentato senza invito ed è rimasto seduto nel tinello. Questa cosa mi ha riservato sorprese, perché consentirsi l’insano lusso di vaneggiare, se mi va di farlo, è come guardare dritti nel buio, scorgervi ciò che c’è, pure quello che non c’è, tanto non v’è tema di smentita su questo. È come lanciare lo sguardo oltre la curvatura dell’oceano quando sei sul promontorio che ci si tuffa dentro. Le parole possono volare sul pelo d’acqua ed assecondare quella curva, scivolarvi sopra come un relitto alla deriva, o possono inabissarsi e studiare i dettagli d’un canyon sommerso, sono escrescenze ectoplasmiche di sguardi, occhi, d’un qualche io.

S’articolano come pare loro, o come pare a me, in quel momento, poi se ne vanno, fanno spazio ad altre frasi, per altre esplorazioni d’infinito. Questo è quello che faccio, che mi va di fare. Nemmeno chiedo di più, salvo qualche bene di conforto. Capisco che questo può creare qualche disordine relazionale. Me ne farò – con pudore antico, forse – una ragione. «È nel buio che devi guardare, con disobbedienza, ottimismo e avventatezza.» (Marguerite Yourcenar)

D’io in Dio (reloaded)

Ancora un novello passatino, che v’anticipai sezione di batteria di racconto mio da ei fu pletora che ne scrissi, per mancanza d’ispirazione – forse – ma anche per un certo sfogo di nullità che mi viene dal non far niente che mi fu impedito da circostanza funesta che fu lavoro in quantità d’industria bellica. Ma c’è pure evidenza che tema d’un tal tipo non è a decadere e, dunque, come filosofia mia m’è data a soddisfare, perché far ancora e dire a di nuovo ciò che fu fatto e detto? Che mi pare cosa infelice reiterare a far finta di nuovo che avanza ed è invece vecchio che resta.

“Non sono niente.
Non sarò mai niente.
Non posso volere d’essere niente.
A parte questo,
ho in me tutti i sogni del mondo.”
(Fernando Pessoa)

Questa pare la questione, che nella pioggia di io, io, io, io, con tanto di certificazione anagrafica, annessa a specifica di ruolo e posizione, si nasconde l’orrifica negazione dell’essere umano. Pare che la deriva si sia compiuta e la condizione collettiva quale salvaguardia di specie è degenerata in annichilimento definitivo. Se «io» è condizione preminente il resto pare fuffa, inutile orpello, allegoria di vita autentica e vissuta. E l’io diventa cittadella fortificata, presidio in deserto di Tartari, che forse arrivano e se tale cosa non fanno, certo fanno di minaccia incombente comunque unica certezza.

E, a diminuzione di libero arbitrio, che è tale solo se diffuso urbi et orbi, c’è l’indicazione precisa e eterodiretta – con convincimento di proprio autonomo convincimento – di chi debba essere il nemico. Non è certo l’atomica di cui è rischio concreto l’esplosione, è bimbetto che approda a riva, che poi, a grandicello fatto, è opinione diffusa che si fa volontario di banlieu per disordine e messa a ferro e fuoco di fortezza dell’io. Ed è quindi a precisar meglio che v’è necessità di sparo ad oltranza a difesa preventiva d’io assoluto. Mazzachiodata diventa status indispensabile, che tanto guerra di sterminio non si vede se c’è progresso d’armamento, diventa essa stessa necessità a far salva virtù dell’io, che giammai fu io collettivo. Ed è questa la libertà anelata, questa e non altra. E se liberi fossero i non «io»? Liberi pure di farsi ammazzare per rivendicare d’essere nessuno al cospetto del grande io ch’alberga dentro chi pretese per sé d’essere un «io» che è tale solo perché perse d’accidenti la maiuscola D che ipotizzò lo precedette?
“Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: “Viva la libertà!”.
«Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
“A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!” Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. “A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima! – A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! – A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! – A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!”» (Giovanni Verga)

La città e il deserto

«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continuo: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.» (Le città invisibili, Italo Calvino)

Cosa sono le città, quelle da cui sono fuggito, quelle cui approdai da viaggiatore occasionale? Sempre meno me ne concedo esplorazioni, quella vaga agorafobia che mi coglie nei luoghi affollati sin da bambino mi pare lo impedisca, me ne vieta l’abuso. Talora mi tocca d’affrontarne una, per improrogabili antichi condizionamenti, non ultimo la mia incapacità – oramai solo un arcaismo resistente all’usura – che m’impedisce acquisti da fonti virtuali. Il viaggio ch’è toccata e fuga diventa sempre più complicato, m’induce a ridurre tempi di permanenza. In città mi pare sempre più mi manchi il fiato. La vedo avvicinarsi come ineluttabile camera mortuaria, ed io m’aggrego al lungo serpentone silenzioso del funerale, coi suoi riti, le sue liturgie. È così piena di gente la città, eppure così poco di vita. S’accresce a dismisura ed invade ogni spazio vitale, inurba ogni altrove, si sviluppa nell’altezza che fa proibizione allo sguardo d’esporsi all’infinito. Ricca d’ogni verbo e d’ogni idioma si incancrenisce nel consueto delle umane isole, quelle che accettano il divertimento a tempo, che s’imprigionano senza fili spinati, lasciando il vuoto in quell’altrove da cui vennero le loro anime. Antichi borghi si spopolano, si fanno terreno fertile per edere e vitalbe, s’abbandonano al glorioso silenzio, scarabocchiando d’incuria gli antichi intonaci, disvelandone i passaggi fondamentali della storia. I centri delle città, luoghi in cui riecheggiano voci confuse, non sono ormai che musei di creature imbalsamate, occasione per lustrini da mordi & fuggi, divertimenti a cottimo. Un tempo erano quell’agorà che mi ricordo appena, ne sentivo il canto di sirena che chiamava a raccolta per lo sguardo nello sguardo, la porta aperta, i balconi carichi del colore del bucato.

Il resto è solo anonima suburbia, avannotteria di crimine diffuso, di sospetto, porte serrate, occhi cupi dietro una persiana che scrutano paure, le lunghe processionarie di file mefitiche, non luoghi di merce ad aspirazione forzata. Che differenza passa tra i cubi di cemento delle prigioni volontarie e quelle coi muri armati, delle ringhiere puntute e dei fili spinati che cingono d’assedio le mille città col pericolo incombente della bomba? Solo la follia della carcerazione forzata e autoinflitta, mentre in quell’altrove si consuma la spietatezza della morte per l’unico desiderio di spazi sconfinati, aria da respirare, una fuga consentita per la libertà del passo che va dove vuole. Le città, quelle nostre a scanso di bomba, diventano fortilizi nel mezzo d’un deserto di Tartari inesistenti.
«Gli parve che la fuga del tempo si fosse fermata, come per rotto incanto. Il vortice si era fatto negli ultimi tempi sempre più intenso, poi improvvisamente più nulla, il mondo ristagnava in una apatia orizzontale e gli orologi correvano inutilmente. La strada di Drogo era finita; eccolo ora sulla solitaria riva di un mare grigio e uniforme e attorno nè una casa nè un albero nè un uomo, tutto così da immemorabile tempo.» (Il deserto dei Tartari, Dino Buzzati)

Weekend, di musica

Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.

“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.

A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.

Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)

Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.

Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.

E voi avete colonne sonore?

La guerra è finita

Ora che pure la Svizzera è a tremore, frontiera extracomunitaria s’apre pure a nord che è fatto necessario pure a fronte alpino alzare muro elevatissimo, quasi quasi pure blocco navale a bosco fitto. Comunque m’è a memoria altra cosa che scrissi, a testimonianza che di banca che scoppia, che pare sotto a bombarda di guerra, ne so cosa poca e ad altri m’affido.

Lo spettacolo è il brutto sogno della società moderna incatenata, che infine non esprime che il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il custode di questo sonno (…) Lo spettatore più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio.” (Guy Debord)

Che vado ancora di musica, ch’è meglio.

Io, con le cose di finanza, ho poca dimestichezza, praticamente so che esiste la vil moneta, ma lei mi evita, e pure io non la cerco che non saprei dove. Poi, da che mi sono fatto prof, questo rapporto è divenuto assai più evanescente, ancorché la cosa sia a concreta spiegazione in mutui più spese varie.

Che l’ultima volta ch’ebbi a che fare con banca, mi ci trovai a sportello con direttrice una zia, donna devota, cortese e garbata che, come altre congiunte, causa mia scelleratezza riguardo alle cose del mondo, ma anche alle vicende mie di spirito, mi diseredò ad libitum. Tra le tante nefande cose da me compiute, di cui mi rendo conto e mi dolgo con desiderio di contrizione prolungata, vi fu quella che feci allora allorché la pia donna mi invitò ad accomodo nel lussuoso ufficio di cui era comandante suprema. Premetto che, a quel tempo, operando in qualità di pennivendolo, godevo di miglior fortune economiche, tanto da potermi garantire, qualora avessi insistito, ruolo su questa terra qual ricco e spietato, pari a Conte di Montecristo. Optai, com’è noto, per depilazione da pelo allo stomaco, finendo per professoreggiare in attesa di rinnovo contrattuale come deserto attende pioggia. Ma in banca c’ero per versare assegno di lauto compenso professionale per scrittura a cottimo, che Ella, la pia zia, mi richiamò all’ordine, che parevo – mi rimproverò – che avessi soldi a libretto postale, come becero pensionato a procaccio di favori di cassa mutua. Mi paventò destini aulici di arricchimenti sorprendenti con colpi d’obbligazioni, titoli e derivati. Io, irrispettoso, egoisticamente legato al tirare a campo più che a destini fulgidi, optai per chiusura di conto immediata con esito finale del risparmio a libretto postale. Poco importa se la banca, da lì a poco, si sorprese gambe all’aria, che questo è prezzo che si paga a progresso, che la pia zia, piè veloce, si sottrasse a disfatta con pensione d’anticipo. Riconosco, però, virtù di competenza d’alta finanza a taluni che non siedono ad alto scranno. Tra questi, il mite Giorgio, storico centralinista di Camera del Lavoro, lo è a spanna sopra gli altri. Che con lui, bicchier di vino e fiasco poco distante, cercai di capire se guerra fosse. Ch’egli mi disse di no, che non sarebbe stato necessario che l’obiettivo era raggiunto, la guerra già vinta ed il nemico domo. E io, già ad elmetto, mi schernii per notizia di spiazzo. Che mi spiegò che in realtà virtuale, la guerra annunciata a reti unificate, significava schizzo di prezzi, dunque casse di stato piene ad IVA ed accise d’ogni bene, a ripianar debiti da pandemia, a risalita di PIL per bonus a bandito maggiore, per sgonfio di bolla. Che mi sfuggiva chi fosse il nemico domo, ch’egli, saggiamente rispose: “non t’avvedi di colpo d’obice ad alzo uomo ricevuto a buca della lettera e a cassa di spesa?”.

Colonne sonore

Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.

“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.

A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.

Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)

Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.

Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.

E voi avete colonne sonore?

Radio Pirata 47 (per meritoria attesa)

Radio Pirata fa Quarantasette di puntata, che è tempo di concedersi tempo e dunque selezione musicale sarà svolta per snervo a lunghezza indefinita che vi tiene impegnati per ore notevoli, che se non avete nerbo per ascoltare detta scelta, all’uopo Radio non è emittente che fa per voi, e vi tocca di cercare ritornello babadì babadà, che dura poco, ma pure di solluchero concede un tantino meno.

Che è tempo che suono di campanella sancisce passaggio di consegne tra migliorissimi e meritevolissimi, con tanto di tinta unica gli uni e gli altri, che praticamente siamo in una botte di ferro come ebbe a dire tale che mi pare si chiamò Attilio Regolo. Che ci attende destino prospero di bombarda che ormai mi pare che c’è intesa globale a far scoppiare quella che vale mille, che se scoppia quella si risponde con milleuno che precede a successione esatta milledue e milletre, quindi ad libitum sino a cessate il fuoco ma pure cessate e basta d’ogni altra cosa.

E pare che non ci sia troppo tempo a dedico per scrittura che pure scrittura è cosa che pare di poco merito, pure musica buona mi pare di poco merito che adesso abbiamo grande rilancio di economia attraverso zumpazù di cultura elevatissima a spiaggia di superaffollo e bagno a prezzo che tolgo finalmente di mezzo disgraziato in mutande per sostituzione, con grande fervore di applauso di popolume, con appropriata gestione a costume in pelle di leopardo, meglio di pitone. E per rilancio di economia serve preciso e grande cambio di clima che estate dura tutto l’anno, a caldo becco financo a capodanno che pinguino si fa ad ospito a congelatore e si danza a spiaggia in allegria come faccio a Caraibi pure a lidi nostri patrii e famiglii

Pure mi pare che realizzazione di programma sia a punto di grande risultato prossimo venturo per merito congiunto a cambio di staffetta che non ce n’è ad avvedersene a completo intendimento, che cambio di clima pare, infatti, ormai a realizzazione come da promessa elettorale che non è a richiesta nemmeno di intervento specifico. E guardo fiume da terrazza mia, fiume che fu a dipinto dantesco financo a navigazione, che taluno toponimo, e financo memoria, narra di porto e fluitazione per grande costruzione di Rinascimento, ed ora pare sputacchio che trota fa a boccheggio. Nemmeno lancio di messaggio in bottiglia in acqua è a concessione, che a mare non ci arriva, si fa vuoto a rendere e riciclo per immensa discarica di grande paese che guarda ad orgoglio nazionale crescita d’immondizia che è indicazione precisa di balzo in alto di PIL.

Ed è per questo che con sommo giubilo salutiamo precisa continuità di intendimento tra migliorissimi e meritevolissimi, che carcere di terra d’Africa, a pagamento di nostre tasche, è a rinnovo certo di contratto, ad impedimento di torma di falso migrante subdolo, che è a sbarco per tocco esatto di donna bianca, che pure infido si camuffa di bimbo e bimba per trarre ad inganno con annego squallidume pacifista, financo gran capo a sottana bianca. Che se taluno annega è colpa di buonismo un tanto a chilo di gente pretestuosa che vuol fare salvificio di sua nave che ora sarà finalmente a blocco repentino di porto salvo. Porto salvo si farà a trasformo di porto franco e sovrano per rilancio di economia a esporto grande bombarda patria a zona di guerra, pure santa.

E in attesa di capire di che merito si tratta per tal merito paventato, vi lascio con cosarella di un mio giovane collaboratore: “Il mare stava al di là delle alte dune, in attesa.

Quando padre e figlio, dopo un lungo cammino, raggiunsero finalmente quei culmini di sabbia, il mare esplose davanti ai loro occhi. E fu tanta l’immensità del mare, e tanto il suo fulgore, che il bimbo restò muto di bellezza. E quando alla fine riuscì a parlare, tremando, balbettando, chiese a suo padre: «Aiutami a guardare!».” (Edoardo Galeano)

L’analisi del voto

Non posso mica farmi a sottrazione d’analisi del voto, che di mia coscienza civica d’impegno assai sociale ve ne sarebbe poi soltanto traccia residua. Che quindi non m’astengo a siffatta valutazione che di risultato scontato val la pena di chiacchierare. Prima, che mi pare cosa assai importante, vado di musica, ma non di qualsiasi musica, ma per saluto ad ultimo grande che ci ha lasciati, che forse non era il più grande ma che a trovarne uno tra i vivi pare impresa disperata e tra i morti pure non ce n’era a bizzeffe così.

Insomma, valutazione del voto è che prescinde da risultato che pareva già scritto, ma non v’era a confronto di disfida durissima molto più di quanto non emerse da feroce dibattito elettorale tra contendenti di grande arguzia e spessore per contendimento di presidenza a nuovo mandato di Circolo della Bocciofila. Ché se c’è rischio di scoppio universale di bomba che tutto pianeta pare Hiroshima, non è a discussione come faccio a fare disinnesco, ma da quale parte pigio pulsante per spettacolo di fungo atomico. Se cambio di clima fa disastro pure a tempo di fine estate, che paeselli a placidi torrentelli paiono terre di grandi e furibondi monsoni, che montagna altissima non ha cubetto di ghiaccio per farsi un gin, se fertile pianura, motore di sviluppo, pare Patagonia di disperazione, senza manco orizzonte a sguardo libero per affanno d’assembramenti a capannone dismesso, a campagna elettorale pare tutto a scordo che mantenimento di grande trogolo non consente visione globale a smetto inquino a quanto mi pare, ché alleanza è a preservo, a prescindere, di immensa mangiatoia locale e di provincia.

S’ode a destra squillo di tromba, da sinistra risponde gran sbadiglio, che a continuo potrei per pagine e pagine. Ma io son nessuno, e tale resto, pure se, d’improvviso, mi trovai a maggioranza di paese, primo partito senza appello, in fulminante crescita ma che non va a governo, né mai ci andrà. Ma quanto mi parve inutile tutto a confronto di gesto di immensa semplicità di Hadis Najafi, che a vent’anni muore perché ebbe pretesa di farsi coda ai capelli per testa libera, metafora portentosa di pensiero che – quello sì – vola alto, a spettinare e ricomporre.

Ciao Pharoah!

A non sprecar tempo

Esiste una specie di morti viventi, di gente banale che a malapena ha coscienza di esistere se non nell’esercizio di qualche occupazione convenzionale. Portateli in campagna o imbarcateli su una nave e vedrete quanto si struggeranno di nostalgia per il lavoro o il loro studio. Non sono mossi da curiosità, non sanno abbandonarsi alle sollecitazioni del caso, non provano piacere nel mero esercizio delle loro facoltà, e, a meno che la necessità non li incalzi minacciandoli con un bastone, non muoveranno un dito. Non vale la pena di parlare con gente simile: sono incapaci di abbandonarsi alla pigrizia, la loro natura non è abbastanza generosa; e trascorrono in una specie di coma le ore che non sono applicate a una frenetica furia di arricchirsi.” (Robert Louis Stevenson)

Il mare frenesie non ne vuole, pretende attese. La lampara che corre lungo la costa di notte è capace di rimanere senza una sardina per gran parte del tempo. Poi, a che la pesca pare finita, si riempie di seppie. Quindi l’attesa non fu mai tempo perso, che quella va impiegata bene, non può essere giocata come fatto inutile.

E nell’attesa si consuma la consapevolezza che qualcosa è ad accadimento, pure se non è certo, dietro l’onda ci sta che c’è. Pare, l’attesa, messa lì a bella posta a riflessione sul tutto, che è vuoto che si può riempire. Il pieno a colmo di spazio e di tempo è già finito, non va oltre ciò che è stato, non accetta evoluzioni altre. Il vuoto è desiderio, è sorpresa di scoperta per ogni cosa possa colmarlo un poco. È insegnamento di mare questo, che mare è immenso vuoto a certe ore, tanto che non se ne vede confine autentico. Ma è pieno d’ogni attesa, pieno d’ogni ricchezza solo se ne voglia prendere quello che ci tocca. E ci tocca quello che siamo riusciti ad aspettare, che non ci venne a sottrazione d’impazienza. Forse nemmeno arriva altro che quella vista, che è già tutto, pure gratis, non si paga niente per vederla.