Weekend, di musica

Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.

“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.

A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.

Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)

Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.

Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.

E voi avete colonne sonore?

La guerra è finita

Ora che pure la Svizzera è a tremore, frontiera extracomunitaria s’apre pure a nord che è fatto necessario pure a fronte alpino alzare muro elevatissimo, quasi quasi pure blocco navale a bosco fitto. Comunque m’è a memoria altra cosa che scrissi, a testimonianza che di banca che scoppia, che pare sotto a bombarda di guerra, ne so cosa poca e ad altri m’affido.

Lo spettacolo è il brutto sogno della società moderna incatenata, che infine non esprime che il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il custode di questo sonno (…) Lo spettatore più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio.” (Guy Debord)

Che vado ancora di musica, ch’è meglio.

Io, con le cose di finanza, ho poca dimestichezza, praticamente so che esiste la vil moneta, ma lei mi evita, e pure io non la cerco che non saprei dove. Poi, da che mi sono fatto prof, questo rapporto è divenuto assai più evanescente, ancorché la cosa sia a concreta spiegazione in mutui più spese varie.

Che l’ultima volta ch’ebbi a che fare con banca, mi ci trovai a sportello con direttrice una zia, donna devota, cortese e garbata che, come altre congiunte, causa mia scelleratezza riguardo alle cose del mondo, ma anche alle vicende mie di spirito, mi diseredò ad libitum. Tra le tante nefande cose da me compiute, di cui mi rendo conto e mi dolgo con desiderio di contrizione prolungata, vi fu quella che feci allora allorché la pia donna mi invitò ad accomodo nel lussuoso ufficio di cui era comandante suprema. Premetto che, a quel tempo, operando in qualità di pennivendolo, godevo di miglior fortune economiche, tanto da potermi garantire, qualora avessi insistito, ruolo su questa terra qual ricco e spietato, pari a Conte di Montecristo. Optai, com’è noto, per depilazione da pelo allo stomaco, finendo per professoreggiare in attesa di rinnovo contrattuale come deserto attende pioggia. Ma in banca c’ero per versare assegno di lauto compenso professionale per scrittura a cottimo, che Ella, la pia zia, mi richiamò all’ordine, che parevo – mi rimproverò – che avessi soldi a libretto postale, come becero pensionato a procaccio di favori di cassa mutua. Mi paventò destini aulici di arricchimenti sorprendenti con colpi d’obbligazioni, titoli e derivati. Io, irrispettoso, egoisticamente legato al tirare a campo più che a destini fulgidi, optai per chiusura di conto immediata con esito finale del risparmio a libretto postale. Poco importa se la banca, da lì a poco, si sorprese gambe all’aria, che questo è prezzo che si paga a progresso, che la pia zia, piè veloce, si sottrasse a disfatta con pensione d’anticipo. Riconosco, però, virtù di competenza d’alta finanza a taluni che non siedono ad alto scranno. Tra questi, il mite Giorgio, storico centralinista di Camera del Lavoro, lo è a spanna sopra gli altri. Che con lui, bicchier di vino e fiasco poco distante, cercai di capire se guerra fosse. Ch’egli mi disse di no, che non sarebbe stato necessario che l’obiettivo era raggiunto, la guerra già vinta ed il nemico domo. E io, già ad elmetto, mi schernii per notizia di spiazzo. Che mi spiegò che in realtà virtuale, la guerra annunciata a reti unificate, significava schizzo di prezzi, dunque casse di stato piene ad IVA ed accise d’ogni bene, a ripianar debiti da pandemia, a risalita di PIL per bonus a bandito maggiore, per sgonfio di bolla. Che mi sfuggiva chi fosse il nemico domo, ch’egli, saggiamente rispose: “non t’avvedi di colpo d’obice ad alzo uomo ricevuto a buca della lettera e a cassa di spesa?”.

Colonne sonore

Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.

“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.

A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.

Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)

Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.

Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.

E voi avete colonne sonore?

Radio Pirata 47 (per meritoria attesa)

Radio Pirata fa Quarantasette di puntata, che è tempo di concedersi tempo e dunque selezione musicale sarà svolta per snervo a lunghezza indefinita che vi tiene impegnati per ore notevoli, che se non avete nerbo per ascoltare detta scelta, all’uopo Radio non è emittente che fa per voi, e vi tocca di cercare ritornello babadì babadà, che dura poco, ma pure di solluchero concede un tantino meno.

Che è tempo che suono di campanella sancisce passaggio di consegne tra migliorissimi e meritevolissimi, con tanto di tinta unica gli uni e gli altri, che praticamente siamo in una botte di ferro come ebbe a dire tale che mi pare si chiamò Attilio Regolo. Che ci attende destino prospero di bombarda che ormai mi pare che c’è intesa globale a far scoppiare quella che vale mille, che se scoppia quella si risponde con milleuno che precede a successione esatta milledue e milletre, quindi ad libitum sino a cessate il fuoco ma pure cessate e basta d’ogni altra cosa.

E pare che non ci sia troppo tempo a dedico per scrittura che pure scrittura è cosa che pare di poco merito, pure musica buona mi pare di poco merito che adesso abbiamo grande rilancio di economia attraverso zumpazù di cultura elevatissima a spiaggia di superaffollo e bagno a prezzo che tolgo finalmente di mezzo disgraziato in mutande per sostituzione, con grande fervore di applauso di popolume, con appropriata gestione a costume in pelle di leopardo, meglio di pitone. E per rilancio di economia serve preciso e grande cambio di clima che estate dura tutto l’anno, a caldo becco financo a capodanno che pinguino si fa ad ospito a congelatore e si danza a spiaggia in allegria come faccio a Caraibi pure a lidi nostri patrii e famiglii

Pure mi pare che realizzazione di programma sia a punto di grande risultato prossimo venturo per merito congiunto a cambio di staffetta che non ce n’è ad avvedersene a completo intendimento, che cambio di clima pare, infatti, ormai a realizzazione come da promessa elettorale che non è a richiesta nemmeno di intervento specifico. E guardo fiume da terrazza mia, fiume che fu a dipinto dantesco financo a navigazione, che taluno toponimo, e financo memoria, narra di porto e fluitazione per grande costruzione di Rinascimento, ed ora pare sputacchio che trota fa a boccheggio. Nemmeno lancio di messaggio in bottiglia in acqua è a concessione, che a mare non ci arriva, si fa vuoto a rendere e riciclo per immensa discarica di grande paese che guarda ad orgoglio nazionale crescita d’immondizia che è indicazione precisa di balzo in alto di PIL.

Ed è per questo che con sommo giubilo salutiamo precisa continuità di intendimento tra migliorissimi e meritevolissimi, che carcere di terra d’Africa, a pagamento di nostre tasche, è a rinnovo certo di contratto, ad impedimento di torma di falso migrante subdolo, che è a sbarco per tocco esatto di donna bianca, che pure infido si camuffa di bimbo e bimba per trarre ad inganno con annego squallidume pacifista, financo gran capo a sottana bianca. Che se taluno annega è colpa di buonismo un tanto a chilo di gente pretestuosa che vuol fare salvificio di sua nave che ora sarà finalmente a blocco repentino di porto salvo. Porto salvo si farà a trasformo di porto franco e sovrano per rilancio di economia a esporto grande bombarda patria a zona di guerra, pure santa.

E in attesa di capire di che merito si tratta per tal merito paventato, vi lascio con cosarella di un mio giovane collaboratore: “Il mare stava al di là delle alte dune, in attesa.

Quando padre e figlio, dopo un lungo cammino, raggiunsero finalmente quei culmini di sabbia, il mare esplose davanti ai loro occhi. E fu tanta l’immensità del mare, e tanto il suo fulgore, che il bimbo restò muto di bellezza. E quando alla fine riuscì a parlare, tremando, balbettando, chiese a suo padre: «Aiutami a guardare!».” (Edoardo Galeano)

L’analisi del voto

Non posso mica farmi a sottrazione d’analisi del voto, che di mia coscienza civica d’impegno assai sociale ve ne sarebbe poi soltanto traccia residua. Che quindi non m’astengo a siffatta valutazione che di risultato scontato val la pena di chiacchierare. Prima, che mi pare cosa assai importante, vado di musica, ma non di qualsiasi musica, ma per saluto ad ultimo grande che ci ha lasciati, che forse non era il più grande ma che a trovarne uno tra i vivi pare impresa disperata e tra i morti pure non ce n’era a bizzeffe così.

Insomma, valutazione del voto è che prescinde da risultato che pareva già scritto, ma non v’era a confronto di disfida durissima molto più di quanto non emerse da feroce dibattito elettorale tra contendenti di grande arguzia e spessore per contendimento di presidenza a nuovo mandato di Circolo della Bocciofila. Ché se c’è rischio di scoppio universale di bomba che tutto pianeta pare Hiroshima, non è a discussione come faccio a fare disinnesco, ma da quale parte pigio pulsante per spettacolo di fungo atomico. Se cambio di clima fa disastro pure a tempo di fine estate, che paeselli a placidi torrentelli paiono terre di grandi e furibondi monsoni, che montagna altissima non ha cubetto di ghiaccio per farsi un gin, se fertile pianura, motore di sviluppo, pare Patagonia di disperazione, senza manco orizzonte a sguardo libero per affanno d’assembramenti a capannone dismesso, a campagna elettorale pare tutto a scordo che mantenimento di grande trogolo non consente visione globale a smetto inquino a quanto mi pare, ché alleanza è a preservo, a prescindere, di immensa mangiatoia locale e di provincia.

S’ode a destra squillo di tromba, da sinistra risponde gran sbadiglio, che a continuo potrei per pagine e pagine. Ma io son nessuno, e tale resto, pure se, d’improvviso, mi trovai a maggioranza di paese, primo partito senza appello, in fulminante crescita ma che non va a governo, né mai ci andrà. Ma quanto mi parve inutile tutto a confronto di gesto di immensa semplicità di Hadis Najafi, che a vent’anni muore perché ebbe pretesa di farsi coda ai capelli per testa libera, metafora portentosa di pensiero che – quello sì – vola alto, a spettinare e ricomporre.

Ciao Pharoah!

A non sprecar tempo

Esiste una specie di morti viventi, di gente banale che a malapena ha coscienza di esistere se non nell’esercizio di qualche occupazione convenzionale. Portateli in campagna o imbarcateli su una nave e vedrete quanto si struggeranno di nostalgia per il lavoro o il loro studio. Non sono mossi da curiosità, non sanno abbandonarsi alle sollecitazioni del caso, non provano piacere nel mero esercizio delle loro facoltà, e, a meno che la necessità non li incalzi minacciandoli con un bastone, non muoveranno un dito. Non vale la pena di parlare con gente simile: sono incapaci di abbandonarsi alla pigrizia, la loro natura non è abbastanza generosa; e trascorrono in una specie di coma le ore che non sono applicate a una frenetica furia di arricchirsi.” (Robert Louis Stevenson)

Il mare frenesie non ne vuole, pretende attese. La lampara che corre lungo la costa di notte è capace di rimanere senza una sardina per gran parte del tempo. Poi, a che la pesca pare finita, si riempie di seppie. Quindi l’attesa non fu mai tempo perso, che quella va impiegata bene, non può essere giocata come fatto inutile.

E nell’attesa si consuma la consapevolezza che qualcosa è ad accadimento, pure se non è certo, dietro l’onda ci sta che c’è. Pare, l’attesa, messa lì a bella posta a riflessione sul tutto, che è vuoto che si può riempire. Il pieno a colmo di spazio e di tempo è già finito, non va oltre ciò che è stato, non accetta evoluzioni altre. Il vuoto è desiderio, è sorpresa di scoperta per ogni cosa possa colmarlo un poco. È insegnamento di mare questo, che mare è immenso vuoto a certe ore, tanto che non se ne vede confine autentico. Ma è pieno d’ogni attesa, pieno d’ogni ricchezza solo se ne voglia prendere quello che ci tocca. E ci tocca quello che siamo riusciti ad aspettare, che non ci venne a sottrazione d’impazienza. Forse nemmeno arriva altro che quella vista, che è già tutto, pure gratis, non si paga niente per vederla.

Radio Pirata 30 (a singolar tenzone)

Radio Pirata si fa Trenta, che è prima di Trentuno quasi sempre. Che essere conseguenziali, pure precisi, è cosa che si conviene a strutture serie, che Radio Pirata tale è, o forse, come da premessa pare tale, quasi. Che c’era desiderio esaudito che faccio puntatone a talk show e invito, quale salotto buono, ospite a pago a cottimo, un tanto a minchiata, a speranza, che fa grande audience, che intellettualume poi se le dà che faccio share che pare borsa a volo ad altissima quota per predisposizione di guerra. Che Radio non manca però di suo compito definitivo che è di porre a musica la sensazione di scorribanda che è ad insito in suo nome.

Che subito mi viene a mente tale che ci fui a lezione, pure mi tocca di invitarlo per proporre questione seria, che a causa d’impedimento mi mandò sua frase che casca a fagiolo per cosa precisa. Che mi posi problema di come pandemia è sconfitta ex legis e scienziato pare sparito, ch’egli, a previsione di tale domanda mi scrisse “Pensiamo che la scienza sia obiettiva. La scienza è modellata dalla società perché è un’attività umana produttiva che richiede tempo e denaro, e dunque è guidata e diretta da quelle forze che nel mondo esercitano il controllo sul denaro e sul tempo. Le forze sociali ed economiche determinano in larga misura ciò che la scienza fa e come lo fa” (Luigi Luca Cavalli Sforza)

Egli pure suggerì che razza non esiste e primo fu a dimostrazione, che se uno dice tale uomo è diverso da altro, a conseguenza, pare razzista, che ci scrisse pure Manifesto assieme a banda d’altro scienziato che c’era anche tale Rita Levi Montalcini.

Che egli qui mi pare esagerò, che se vero fosse questo che dice, se governo di migliori dice che tale profugo per guerra si può accogliere, pure a cambio di doblone a frutto di solidarietà, e tal altro, invece, per guerra altra, se ne può andare a deserto ramingo o a carcere a voce di spesa patria, sempre a deserto, e se scappa muore d’annego, pare sia razzismo anche quello. Che come fa governo di migliori a essere a razzismo conclamato, pure a norma di firma ceralaccata di norma, che ci ha a sostegno grande, glorioso e giusto partito di sinistra? Se veniva, il Professore, a salotto buono di talk show di Radio Pirata, ci sta che c’era cazzotto certo. E vado a musica a giusto stacco a stemperare tensione di singolare tenzone.

Volevo invitare anche tal altro che scrive e fa di scrittura mestiere, ma ci sta che poi finisce a cazzottatura, ch’io non mi metto a separazione di contendenti che ci ho menischi malmessi, ch’egli voleva venire pure da posto che d’ultimo e ha sconforto, per dire cosa che mi mandò promemoria. “la schiavitù non è altro che il profitto di pochi del lavoro della massa. Perché la schiavitù possa essere abolita è necessario che gli uomini non sfruttino più le fatiche delle masse e che considerino vergognoso e vile tale sfruttamento. Intanto si fa in modo che venga nascosta la forma esteriore della schiavitù e che venga abolito il mercato degli schiavi; così facendo tendiamo a persuaderci che non esiste più la schiavitù e non vediamo e non vogliamo vedere che invece continua a esistere, dal momento che tutti gli uomini continuano a credere che sia giusto sfruttare le fatiche altrui. E poiché quest’opinione resiste, ci saranno sempre quelli più furbi e più forti che si credono in diritto di farlo.” (Lev Nikolajevič Tolstoj)

Che finisco a saluto con poesia di tale che è a colore giusto per convenzione amministrativa, dunque non contraddico norma ch’egli qua già c’era, pare non ci arrivò a barcone di sfollato.

Nun mi lassari sulu

Ascutami,
parru a tia stasira
e mi pari di parrari o munnu.

Ti vogghiu diri
di non lassàrimi sulu
nta sta strata longa
chi non finisci mai
ed havi i jorna curti.

Ti vogghiu diri
chi quattr’occhi vidinu megghiu,
chi miliuna d’occhi
vidinu chiù luntanu,
e chi lu pisu spartutu nte spaddi
è diventa leggìu.

Ti vogghiu diri
ca si t’appoji a mia
e io m appoju a tia
non putemu cadiri
mancu si lu furturati
nn’assicutanu a vintati.

L’aceddi volanu a sbardu,
cantanu a sbardu,
un cantu sulu è lamentu
e mori ntall’aria.

Non calari l’occhì,
ti vogghiu amicu a tavula;
e non è veru mai
ca si diversu di mia
c’allongu i vrazza
e ti chiamu frati.

Frati ti sugnu e cumpagnu
calatu a scippari i spini
chi nsangnunianu i pedi:
frati e cumpagnu jisatu
a sfardari i negghi
e astutari i lampi:
frati e cumpagnu
si scattanu i trona
e trema a terra,
si spunta u suli e l’abbrazza.

Unu nun fa numiru,
nascemu pi cantari nzemmula
e non pi lassari
eredità di lacrimi
e ripitìu di lamenti. (Ignazio Buttitta)

Non mi lasciare solo
Ascoltami, / parlo a te stasera / e mi pare di parlare al mondo. // Ti voglio dire / di non lasciarmi solo / in questa strada lunga / che non finisce mai / e ha i giorni corti. // Ti voglio dire / che quattro occhi vedono meglio, / che milioni d’occhi / vedono più lontano, / e che il peso diviso sulle spalle / diventa leggero. // Ti voglio dire / che appoggiato a me / e io appoggiato a te / non possiamo cadere / nemmeno se la bufera / c’insegue a ventate. // Gli uccelli volano a stormo, / cantano a stormo, / un canto solo è lamento / e muore nell’aria. // Non abbassare gli occhi, / ti voglio amico a tavola; /e non è vero mai / che sei diverso da me / che allungo le braccia / e ti chiamo fratello. // Fratello ti sono e compagno / curvato a strappare le spine / che insanguinano i tuoi piedi: / fratello e compagno alzato / a lacerare le nuvole / e a spegnere i lampi: / fratello e compagno / se scoppiano i tuoni / e trema la terra, / se spunta il sole e l’abbraccia. // Uno non fa numero, / siamo nati per cantare assieme / e non per lasciare / eredità di lacrime / e ripetuto di lamenti.

E buona domenica assai con musica a favore di vento, pure se di colore fuori legge.

La guerra è finita

Lo spettacolo è il brutto sogno della società moderna incatenata, che infine non esprime che il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il custode di questo sonno (…) Lo spettatore più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio.” (Guy Debord)

Che vado di musica, ch’è meglio.

Io, con le cose di finanza, ho poca dimestichezza, praticamente so che esiste la vil moneta, ma lei mi evita, e pure io non la cerco che non saprei dove. Poi, da che mi sono fatto prof, questo rapporto è divenuto assai più evanescente, ancorché la cosa sia a concreta spiegazione in mutui più spese varie.

Che l’ultima volta ch’ebbi a che fare con banca, mi ci trovai a sportello, con direttrice una zia, donna devota, cortese e garbata che, come altre congiunte, causa mia scelleratezza riguardo alle cose del mondo, ma anche alle vicende mie di spirito, mi diseredò ad libitum. Tra le tante nefande cose da me compiute, di cui mi rendo conto e mi dolgo con desiderio di contrizione prolungata, vi fu quella che feci allora, allorché la pia donna mi invitò ad accomodo nel lussuoso ufficio di cui era comandante suprema. Premetto che, a quel tempo, operando in qualità di pennivendolo, godevo di miglior fortune economiche, tanto da potermi garantire, qualora avessi insistito, ruolo su questa terra qual ricco e spietato, pari a Conte di Montecristo. Optai, com’è noto, per depilazione da pelo allo stomaco, finendo per professoreggiare in attesa di rinnovo contrattuale come deserto attende pioggia. Ma in banca c’ero per versare assegno di lauto compenso professionale per scrittura a cottimo, che Ella, la pia zia, mi richiamò all’ordine, che parevo – mi rimproverò – che avessi soldi a libretto postale, come becero pensionato a procaccia di favori di cassa mutua. Mi paventò destini aulici di arricchimenti sorprendenti con colpi d’obbligazioni, titoli e derivati. Io, irrispettoso, egoisticamente legato al tirare a campo più che a destini fulgidi, optai per chiusura di conto immediata con esito finale del risparmio a libretto postale. Poco importa se la banca, da lì a poco, si sorprese gambe all’aria, che questo è prezzo che si paga a progresso, che la pia zia, piè veloce, si sottrasse a disfatta con pensione d’anticipo. Riconosco, però, virtù di competenza d’alta finanza a taluni che non siedono ad alto scranno. Tra questi, il mite Giorgio, storico centralinista di Camera del Lavoro, lo è a spanna sopra gli altri. Che con lui, bicchier di vino e fiasco poco distante, cercai di capire se guerra fosse. Ch’egli mi disse di no, che non sarebbe stato necessario che l’obiettivo era raggiunto, la guerra già vinta ed il nemico domo. E io, già ad elmetto, mi schernii per notizia di spiazzo. Che mi spiegò che in realtà virtuale, la guerra annunciata a reti unificate, significava schizzo di prezzi, dunque casse di stato piene ad IVA ed accise d’ogni bene, a ripianar debiti da pandemia, a risalita di PIL per bonus a bandito maggiore, per sgonfio di bolla. Che mi sfuggiva chi fosse il nemico domo, ch’egli, saggiamente rispose: “non t’avvedi di colpo d’obice ad alzo uomo ricevuto a buca della lettera e a cassa di spesa?”.

Le cere perse

Che è finito uno in tramoggia, proprio a due passi da casa mia (rende liberi, il lavoro), mentre il bollettino d’altro è cammino impietoso, e il teatro dell’assurdo è a scheda bianca e voto Topolino – o Minnie, per quota rosa – pare che fa il palio con farsa scritta a mano manca. In giorno di memoria mi sovviene che a memoria di passato non abbiamo occhi per oggi. Vado di musica, che esagero, che i tempi vanno di fretta, e ve ne passo che dura a stonfo, ad aprire e chiudere, pure ad inframezzo, se vi pare.

Ad essere nessuno io ci guadagno, che posso anche star zitto, che tanto anche se parlo non conta niente, che ho in testa, ormai, solo scoglio a mare aperto, che quello basterebbe, quello m’aspetta.

Mi sono fatto Repubblica di silenzio, indi e per cui, faccio ambasciatore mio altro d’altri tempi, di più titoli e parole inesauste delle mie, che il tempo non passa, che quel ch’è scritto ieri pare per l’oggi uguale.

“L’uomo, si dice. E noi pensiamo a chi cade, a chi è perduto, a chi piange e ha fame, a chi ha freddo, a chi è malato, e a chi è perseguitato, a chi viene ucciso. Pensiamo all’offesa che gli è fatta, e la dignità di lui. Anche a tutto quello che in lui è offeso, e ch’era, in lui, per renderlo felice. Questo è l’uomo. Ma l’offesa che cos’è? È fatta all’uomo e al mondo. Da chi è fatta? E il sangue che è sparso? La persecuzione? L’oppressione?

Chi è caduto anche si alza. Offeso, oppresso, anche prende su le catene dai suoi piedi e si arma di esse: è perché vuol liberarsi, non per vendicarsi. Questo anche è l’uomo. (…) Ma l’offesa in se stessa? È altro dall’uomo? È fuori dall’uomo?

Questo è il punto in cui sbagliamo.

Noi presumiamo che sia nell’uomo solo quello che è sofferto, e che in noi è scontato. Aver fame. Questo diciamo che è nell’uomo. Aver freddo. E uscire dalla fame, lasciare indietro il freddo, respirare l’aria della terra, e averla, avere la terra, gli alberi, i fiumi, il grano, le città, vincere il lupo e guardare in faccia il mondo. Questo diciamo che è nell’uomo. (…)

Ma l’uomo può anche fare senza che vi sia nulla in lui, né patito, né scontato, né fame, né freddo, e noi diciamo che non è l’uomo.

Noi lo vediamo. È lo stesso del lupo. Egli attacca e offende. E noi diciamo: questo non è l’uomo. Egli fa con freddezza come fa il lupo. Ma toglie questo che sia l’uomo?

Noi non pensiamo che agli offesi. O uomini! O uomo!

Appena vi sia l’offesa, subito noi siamo con chi è offeso, e diciamo che è l’uomo. Sangue? Ecco l’uomo. Lagrime? Ecco l’uomo.

E chi ha offeso che cos’è? Mai pensiamo che anche lui sia l’uomo.” (Uomini e no, Elio Vittorini)

Sono colpevole

Il nostro tempo preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere. Ciò che per esso è sacro, non è che l’illusione, ma ciò che è profano, è la verità.” (Guy Ernest Debord)

Mi disse, amico caro a perduta conversazione, mentre leggeva le pagine di questo blog, che poco gli sconfinferava ch’io nascondessi la mia identità. Che mi toccò di spiegare che non la nascondevo affatto, che quell’altro me che s’aggira per il mondo, se taluno dalla finestra ne urla il nome assieme a cognome, altri non si volta che lui. Rivendicavo, piuttosto, l’essenza del mio nulla nell’essere nessuno, che quello, ad oggi, m’appare atto finalmente eversivo, di dissacrante irriconoscenza verso il mondo d’intorno ricco di sgomito.

Poi, a continuare, mi relegò a discussione sull’oggi che trema d’impietosa decadenza, d’informazione negletta, pure mi girò pletore e più di millanta scritti a web e video che – sempre a dire suo – smantellavano il mainstream. Che ci sono termini dell’oggi che mi lasciano simpatie urticanti, che pare ci siamo persi s memoria di semplice apparentamento d’nformazione a potere. Che se Pasolini, a stigma di Villa Giulia, come Sciascia sui professionisti dell’antimafia, anziché il paginone roboante del giornalone, avessero usato altro mezzo, forse non avrebbero fatto etto di danno ad essere ignorati, che tanto si son confusi di tiramenti di giacchetta. Che poi, mi domando e dico, quale sarebbe la ragione che più mi sfuggì, che rende faccelibro et similia, dei tre o quattro più ricchi del mondo, pure per click d’antagonismo, meno mainstrimmanti? Che ho odore d’appattamento, di gioco di parti. Dunque, m’annessuno volentieri, pure più volentieri di sempre.

E nel mio annessunarmi ancor più eversivo, m’è balenato per la testa che non avevo fatto degni auguri al caro collega in pensione. Neppure mi viene d’andarlo a trovare che, in là con gli anni e preda facile d’acciacchi pesanti, rischio, ad auguri sentiti, d’aggiungere carico da novanta da scuola sicura. E così m’avvenne di mettermi a rovistare, sino a scorgere in fondo a cassetto, stipato d’ogni scemenza mi scordo di far monnezza, due fogli, due, che lì mi pareva d’averli lasciati, di carta martellata di un qualche remoto pregio. Ne inserisco prima l’uno quindi l’altro nella vecchia tedesca, e batto tasti meccanici a testo d’affetto, a ricordo pure d’altro collega, che ci ha fatto scherzo d’abbandono anzitempo. Poiché avevo necessità impellenti di prelievo di contante a bancoposta, m’avanzavano 95 centesimi per spedizione ordinaria, e consegnata la busta alla solerte funzionaria, con tanto di destinatario accompagnato da mittente, me ne sono tornato a casa, guardingo, che quello mi parve davvero atto eversivo, pure con tanto di firma ad autodenuncia.