Weekend, di musica

Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.

“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.

A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.

Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)

Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.

Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.

E voi avete colonne sonore?

Radio Pirata 57 (buon non lavoro)

Che Radio Pirata si fa Cinquantasette che è Festa di Lavoro, pure faccio auguri a chi lavora e a chi no, che cerca a disperazione che Costituzione ad Articolo 1 pare non c’è o se c’è manca di specifica a “sfrutto”, e pure a ripudio di guerra d’articolo 11 si fa occhiolino distratto. Ma vado di musica che è compito statutario di trasmissione per pace, dunque pare con colbacco in testa.

Che morto ammazzato di lavoro, dice statistica – che la fa cervello asettico di matematica -, è a due al giorno da inizio d’anno. Che è solo storia di distratto a distrazione mosso, che muore a metto piede in fallo mentre passa betoniera o caterpillar, pure scivola d’ascensore, inciampa da impalcatura, precipita da palazzo e ciminiera, non collaborò col dire son morto per destino cinico e baro.

Che di tanti morti d’ammazzo pare guerra guerreggiata, ma è roba disfattista se oggi a bandiera colorata si dice basta con tale guerra, pure con altra che tuona di bomba. E io vado di suono giusto, che faccio colonna sonora.

Che radio si ripete se dice che cotali creature di cervello raffinatissimo dice che è scandalo a chiedere soldo per lavoro a ore senza tetto, che a tali posti già è a pagamento onore di fatica, pure se è a sgobbo indefinito, che s’impara a far fame dove si serve porzione dabbene. Che pure questo è paese civile che istituzione non s’indigna, nemmanco popolo fa gesto di sorpresa e dice ad illuminatissimo, sai che c’è, che forse è meglio che conosci via d’esilio a paese civile dove lavoro è a schiavo, che qui non si dice, pure se è. Musica sia, per lavoro a cottimo un tanto al chilo e contratto di clausura con vita altra che non è a facchinaggio.

Che è giorno di rischio orrendo questo che pare sia ad intenzione di taluni manifestanti per lavoro, protesta pure contro guerra, dunque contro lavoro di persona dabbene che fabbrica, ad onesto progetto per futuro fulgido, bomba ad esplodo certo, per taglio armata industriale di riserva e creo occupazione a sterminio di pretendente. Ma anche faccio di profugo clandestino prodotto di braccia a costo basso, che lavo piatto, colgo pomodoro e, a senza diritto, calmiero prezzo di centro commerciale per salsina gourmet. E meritevolissiono dice basta a tal schiavo d’altro pianeta, che schiavo sia anche autarchico senza sostituzione di massa sottomessa. Musichissima di lavoro concedo ad ascolto di meritato riposo di weekend.

A dire buon lavoro pare ossimoro, che, a cautela, faccio spiegare da collaboratore subordinato con contratto di apprendistato, prima che faccio di lui censura che nacque in posto strano: “Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendere dalla sua schiena.” (Lev Tolstoj)

Buonissimo 1° Maggio, senza lavoro!

Isole insulari

E visto che si fa festa grande, che ponte farà a cessazione di cosa d’isola, vi riciclo cosa antica, per memoria di perduto amor di terra matria che s’appresta a diventar cosa altra, praticamente ferma a gancio, incementata che non ebbe abbastanza disgrazia, pare, che non gliene si doveva affibiare altra.

Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio”. (Manlio Sgalambro)

Mi capita tutte le volte che me ne vado da lì, a valigie non ancora pronte che strugge d’essere isola forse pure io.

Aveva voglia Nisticò a classificare i siciliani in siciliani di scoglio e di mare, gli uni abbarbicati al substrato come una cozza, un dattero, un riccio spinoso, incuranti della natura claustrofobica dell’appartenenza. Gli altri, con la valigia in mano, fermi non ci stanno, e appena la prima brezza lo consente, prendono il largo a vele gonfie. Ma tutti si portano dentro la stessa insularità, che è condanna del viaggio e nostalgia struggente per il porto di partenza. Solo che ai primi arriva subito, ci soffrono di più, basta che si mettano poco fuori l’uscio di casa, si vadano a sbrigare un documento nel capoluogo. I secondi, al più, con la lacerazione del distacco ci si sono abituati a convivere. Ma tanto tornano, prima o poi vedi se tornano e non passa minuto che con la testa non si organizzano per farlo. Mi pare che questo desiderio di ritorno sia proprio il risultato della paura atavica che l’isola non la ritrovi più, che qualcuno, mentre ti allontani giusto un attimo, se la possa portare via. Forse lo tsunami o li turchi, anche se – ed è evento inconfutabile -, qualunque cosa arriva, dopo un primo attimo di sgomento, gli si apre la porta di casa e, passati al più cinque minuti, ti scordi che è arrivata allora allora, e ti pare che sia lì da sempre, ci fai l’abitudine. Tuttavia, poiché non si sa mai ed a scanso di equivoci, metti in giro strane voci, che lì ci sono i Lestrigoni, i Lotofagi, forse Circe, che giù per lì Scilla e Cariddi hanno un brutto carattere, che quei sassi, isole essi stessi, ce li lanciano Ciclopi a basso tasso di socievolezza, e che le figlie di Kokalos avvelenano gli ospiti. Di più, se per ragioni di modernità te ne devi andare per qualche giorno, che ne so, a Poggibonsi, San Giovanni in Persiceto o a Cormano, saluti parenti e amici, fazzoletto in mano, come se stessi andando a sfidare i cannibali del Borneo.

Ad ogni buon conto, mettetela come vi pare, uno che nasce su un’isola sta già viaggiando. Perché il mare, tutto intorno, fermo non ci sta, e si muove di correnti e flutti, in definitiva, viaggia conto terzi. Non merita citare chissà chi per comprendere che il viaggio è una precisa connotazione antropologica, e pure se ha talune accezioni di ingegneria nautica, non è solo uno spostamento da e per. Alla fine “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)

Nell’insularità è connaturata la pigrizia più atavica, quella persino trascendente, che si fa connotazione definitiva ed archetipo illustrativo di genti. E del resto che ti agiti a fare se sei proprio dentro il gorgo più gorgo, il tutto che si muove permanentemente? Fatica sprecata. Per altri quella è ignavia, accidia, in realtà è saggia contemplazione del mondo che non sta fermo, dunque perché inseguirlo nell’apoteosi dell’operatività? Il mare vortica così tanto che ti fa dono ora del primato di paradiso terrestre, ora d’inferno in terra, né fu creato per compiacere chi vi si trova circondato senza scampo; inutile cercare di opporvisi. Se serve qualcosa, servissero tre secoli e più, prima o poi un’onda bislacca te la schiaffa davanti, spiaggiata a pancia rivolta al sole. Né si tratta d’un fiume che scorre in un unico verso, cosicché sai già cosa t’arriva a valle se conosci il monte. Il turbinio è pluridirezionale, dipende dalle stagioni, talora dall’umore nero della burrasca o talaltra accondiscendente d’un venticello virato a bonaccia. Sfidare quel tutto che si muove per provare a spostarsi in altra direzione è atto temerario. Ed in tutto quel bailamme agitato meglio star fermi giacché, prima o poi, da qualche parte arrivi, e se non arrivi – quella data parte, intendo – presto o tardi, t’arriva lei. Ma l’isola, quella, da dentro non te la togli nemmeno se ti metti a pizzo di montagna. Non c’è niente da fare, t’entra in valigia, col sale e tutto il resto.

Non ne sapevo nulla

Che questo è il paese nostro, posto magico che vive a pari di paese di lotofago, immemore e manco accorto di ciò che è a sottonaso. Neppure migliorissimi e meritevolissimi paiono ad essere capaci di fuga a tale malasorte, che a rivendicarla si fanno piuttosto fieri, per rappresentanza esatta di proprio popolo. A digrigno serrato e cattivo di mascella contro virus, pure contro malcapitato che va a morte d’annego, pare, per incoscienza ereditata, a tutti si grida No pasarán! E poi, a morto fatto, a cosa precisa di sfilza di bare, allora come ora, pare che nessuno disse nulla ed avvisò. Organizzazione d’avviso è cosa che non appartiene a nessuno, che ascolto non è cosa che è a riguardo d’alto bordo, che ad altre faccende pare capo in testa affaccendato. Ed io, invece, a memoria tengo fatto luttuoso che di fior di loto mi feci d’antidoto precisissimo e a tal uopo non dimenticai, che talora, invece, vorrei.

Salirono da tre passerelle, salirono come una fiumana sospinta dalla fede e dalla speranza del paradiso, salirono con uno scalpiccio soffice e continuo di piedi scalzi, senza una parola, senza un sospiro, senza nemmeno voltarsi indietro; e quando non furono più trattenuti e incanalati dai corrimano di legno, sciamarono in tutte le direzioni sul ponte, fluirono a poppa e a prora, si ingolfarono nelle gole buie dei boccaporti, riempirono gli interni recessi della nave, come l’acqua quando scende nelle cisterne, come l’acqua che filtra nei crepacci e nei canali di scolo, come l’acqua che giunge silenzioso fino all’orlo di un abisso.

Erano ottocento tra uomini e donne, e si erano radunati lì, con il loro carico di fede e di speranza, di affetti e di ricordi, venendo dal Nord e dal Sud e dai più lontani recessi dell’Est, dopo aver camminato per settimane e mesi lungo i sentieri della giungla, dopo aver disceso fiumi, costeggiato in praus i bassifondi del mare d’Oriente, dopo essere passati a bordo di piccole canoe da un’isola all’altra, attraverso mille sofferenze, lungo paesi stranieri, in preda ad oscuri timori, sospinti da un desiderio unico.

Venivano da solitarie capanne sperdute in zone selvagge, da popolosi kampong, da villaggi sulle rive del mare. Cedendo alla suggestione di un’idea, avevano abbandonato le loro foreste, le loro campagne, la protezione dei loro governanti, la loro ricchezza, la loro povertà, i luoghi della loro giovinezza, le tombe dei loro padri.

Arrivavano coperti di polvere, di sudore, di sudiciume, di stracci, gli uomini forti e vigorosi alla testa di ciascun gruppo familiare, i vecchi cadenti che si trascinavano senza alcuna speranza di ritorno.

E vi erano ragazzetti dagli occhi sfrontati e dallo sguardo curioso, timide fanciulle dagli ispidi capelli lunghi, donne spaurite imbacuccate dalla testa ai piedi che si stringevano al seno bimbi addormentati, avvolti in un lembo cadente del velo, inconsci pellegrini di una fede inesorabile”. (Joseph Conrad)

Colonne sonore

Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.

“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.

A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.

Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)

Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.

Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.

E voi avete colonne sonore?

Radio Pirata 47 (per meritoria attesa)

Radio Pirata fa Quarantasette di puntata, che è tempo di concedersi tempo e dunque selezione musicale sarà svolta per snervo a lunghezza indefinita che vi tiene impegnati per ore notevoli, che se non avete nerbo per ascoltare detta scelta, all’uopo Radio non è emittente che fa per voi, e vi tocca di cercare ritornello babadì babadà, che dura poco, ma pure di solluchero concede un tantino meno.

Che è tempo che suono di campanella sancisce passaggio di consegne tra migliorissimi e meritevolissimi, con tanto di tinta unica gli uni e gli altri, che praticamente siamo in una botte di ferro come ebbe a dire tale che mi pare si chiamò Attilio Regolo. Che ci attende destino prospero di bombarda che ormai mi pare che c’è intesa globale a far scoppiare quella che vale mille, che se scoppia quella si risponde con milleuno che precede a successione esatta milledue e milletre, quindi ad libitum sino a cessate il fuoco ma pure cessate e basta d’ogni altra cosa.

E pare che non ci sia troppo tempo a dedico per scrittura che pure scrittura è cosa che pare di poco merito, pure musica buona mi pare di poco merito che adesso abbiamo grande rilancio di economia attraverso zumpazù di cultura elevatissima a spiaggia di superaffollo e bagno a prezzo che tolgo finalmente di mezzo disgraziato in mutande per sostituzione, con grande fervore di applauso di popolume, con appropriata gestione a costume in pelle di leopardo, meglio di pitone. E per rilancio di economia serve preciso e grande cambio di clima che estate dura tutto l’anno, a caldo becco financo a capodanno che pinguino si fa ad ospito a congelatore e si danza a spiaggia in allegria come faccio a Caraibi pure a lidi nostri patrii e famiglii

Pure mi pare che realizzazione di programma sia a punto di grande risultato prossimo venturo per merito congiunto a cambio di staffetta che non ce n’è ad avvedersene a completo intendimento, che cambio di clima pare, infatti, ormai a realizzazione come da promessa elettorale che non è a richiesta nemmeno di intervento specifico. E guardo fiume da terrazza mia, fiume che fu a dipinto dantesco financo a navigazione, che taluno toponimo, e financo memoria, narra di porto e fluitazione per grande costruzione di Rinascimento, ed ora pare sputacchio che trota fa a boccheggio. Nemmeno lancio di messaggio in bottiglia in acqua è a concessione, che a mare non ci arriva, si fa vuoto a rendere e riciclo per immensa discarica di grande paese che guarda ad orgoglio nazionale crescita d’immondizia che è indicazione precisa di balzo in alto di PIL.

Ed è per questo che con sommo giubilo salutiamo precisa continuità di intendimento tra migliorissimi e meritevolissimi, che carcere di terra d’Africa, a pagamento di nostre tasche, è a rinnovo certo di contratto, ad impedimento di torma di falso migrante subdolo, che è a sbarco per tocco esatto di donna bianca, che pure infido si camuffa di bimbo e bimba per trarre ad inganno con annego squallidume pacifista, financo gran capo a sottana bianca. Che se taluno annega è colpa di buonismo un tanto a chilo di gente pretestuosa che vuol fare salvificio di sua nave che ora sarà finalmente a blocco repentino di porto salvo. Porto salvo si farà a trasformo di porto franco e sovrano per rilancio di economia a esporto grande bombarda patria a zona di guerra, pure santa.

E in attesa di capire di che merito si tratta per tal merito paventato, vi lascio con cosarella di un mio giovane collaboratore: “Il mare stava al di là delle alte dune, in attesa.

Quando padre e figlio, dopo un lungo cammino, raggiunsero finalmente quei culmini di sabbia, il mare esplose davanti ai loro occhi. E fu tanta l’immensità del mare, e tanto il suo fulgore, che il bimbo restò muto di bellezza. E quando alla fine riuscì a parlare, tremando, balbettando, chiese a suo padre: «Aiutami a guardare!».” (Edoardo Galeano)

Scuro di vento

Che pare, di questi tempi, che tutto proceda in direzione univoca, scivolamento verso barbarie, annichilimento di guerra annunciata, quando non di palesato inebetimento. Che se c’è cosa che potrà andar storta, per linea dritta ci andrà a prescindere, e l’ottimismo pare roba da caratteristi di cinema anni ’70, fa scappar riso, talora amaro. Pure m’accorgo che a remar contro si fa fatica parecchia a remo senza pala, come a cacciar fumo con battipanni a sfondo d’uso eccessivo. Faccio musica a parzial conforto.

Che mi venne voglia di tempesta, a cambio di bonaccia a direzione precisa, vento che spiazza piuttosto, che non ti fa apparire direzione chiara, che smuove le carte, si fa scompiglio di pensieri, che se ne faccia pila nuova, ad ordine inverso e criterio di divergenza. Nostalgia c’è di scogli e rene, ma non di beati tramonti, desiderio invece ho di fortunali a schiocco di tempesta, onda che s’alza a cielo, precipita a tonfo, marea che si riveste di maremoto, gorgo di Scilla e Cariddi, vento possente ed incerto di Scirocco. Che “lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus orca)

Che me ne frega ormai della brezzolina leggera e rinfrescante, che di noia mi portò all’esausto, che non mi feci persuaso affatto che quella passa se non a colpi d’incedere inesorabile di folata a tutto sfare, a scoperchio case e mi porto via ogni cosa. Che non fu terribile come la noia dell’attesa d’un giorno dopo l’altro, che il primo pare uguale al secondo e pure a quello che viene, se non nella stanchezza che s’accumula e diventa sgomento d’ignavia del tutto d’intorno. Anelo bufera, che quella sia, che di cartolina a fronte d’azzurro nitido non me ne faccio niente, voglio scuro di sorpresa che fece notte pure il giorno fitto di luce: “Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare.”

D’abisso, d’attesa

C’è non si sa quale soave mistero in questo mare, le cui movenze delicatamente tremende paiono dir d’una qualche anima che là sotto si celi… Ed è appropriato che sopra questi pascoli marini, sopra il vasto rollio di quest’acquee praterie, sopra questi campi del vasaio dei quattro continenti, le onde s’alzino e s’abbassino e fluiscano e rifluiscano incessantemente, poiché qui milioni d’ombre e di parvenze si mescolano, sogni annegati, sonnambulismi, fantasticherie e tutto ciò che chiamiamo vite e anime qui giacciono sognando, sognando, sempre…” (Herman Melville)

C’è tale struggimento a distanza dal mare, che speri sempre soffi furibondo Scirocco che, pure se ha dose di fastidioso appiccicaticcio, si porta dietro, occulta, grande dotazione di sale a dare sensazione d’avvicinamento a friccicore di sotto pelle. E fremito dopo fremito ti pare d’essere creatura d’abisso, a movimento d’ombra incessante, sguardo ad occhi ampi, mimesi perfetta a scrutare anfratto roccioso, grande prateria di posidonia, a ricerca d’altri occhi, e cogliervi dentro riverbero di luce di luna, per il disvelamento improvviso, per la notte definitiva.

Oppure, anche, ti pare che ti muovi a favore d’onda e di vento, schiuma perfetta accompagna a scia il tratto di scivolo, per rotta sconosciuta, a far competizione a galee e galeoni, per cercare di svelare per primo segreti d’isola, tesori tra flutti, canti di sirene ed urla di pescatori ad issa la rete. Forse basta pure statica posizione ad accomodo su scoglio, ch’ebbi già a dire che mare fermo non sta, viaggia per te, non si ferma solo che tu lo voglia, nemmeno se pare tavola a pialla, senza difetto a giorno di bonaccia. Sotto freme, pulsa, attende in perenne ghirigoro di mistero. Viaggia e porta memoria d’ogni creatura l’abbia attraversato, tra fiordi di ghiaccio e rene estese e bollenti, tra l’onda imponente del maremoto, e pacata linea di laguna. Si muove sempre, viaggia ch’è instancabile, che essere di mare non ti da mai tregua di sosta, pure se non muovi muscolo, come pescatori ad attesa che la grande fera faccia di avidità di boccone rinuncia a sua esistenza prossima e per sempre. Ché il mare concesse pure all’estremo pigro dono di viaggio, che non ebbe necessità di dotazione di pinne, vela d’Argonauta, ali di Icaro, solo facoltà di sguardo e udito ad attenzione per portentoso attraversamento d’intero mondo, ad ascolto di storie d’ogni parte di quello, a racconto di sue, a staffette di parole, suoni, visioni, ad infinito reiterarsi d’un gesto che pare uguale a se stesso ma mai fu tale ad evidenza d’aggiunta di sempre altra sfumatura sconosciuta.

Sacche resistenti (Allonsanfàn parte quindicesima: L’Altelier)

La rapidità dello sviluppo materiale del mondo è aumentata. Esso sta accumulando costantemente sempre più poteri virtuali mentre gli specialisti che governano le società sono costretti, proprio in virtù del loro ruolo di guardiani della passività, a trascurare di farne uso. Questo sviluppo produce nello stesso tempo un’insoddisfazione generalizzata ed un oggettivo pericolo mortale, nessuno dei quali può essere controllato in maniera durevole dai leader specializzati.” (Guy Debord, I Situazionisti e le nuove forme dell’arte e della politica)

Le arti non si parlano, non comunicano, si muovono in due direzioni precise, la narcisistica pretesa della propria superiorità l’una sull’altra, si trasformano pure, con protervia efficacissima, in manifestazioni elitarie. Pochissimi poeti ritengono di costruire dialoghi con pittori o scultori, il viceversa vale in misura eguale; rari fotografi immaginano un confronto alla pari con musicisti, e l’opposta direzione si realizza in medesima maniera, inquietante resistenza al confronto. Quando l’assioma della specializzazione ad ogni costo, del narcisismo patologico pare viene meno, è assai comune che finga solo sia così, ché il rapporto artistico non è orizzontale, frutto di dialettica, condivisione, progetto comune, diventa convincimento sacro ed inviolabile che “l’altro” abbia – si merita, meglio – una condizione didascalica, ruolo di insalatina intorno al piatto forte. Dunque, non nasce movimento transartistico, non esiste avanguardia fondata su idem sentire. Il confronto regredisce al nulla, rimane relegato a sacche resistenti ubicate forzosamente nell’oblio del no-social. Di più, l’arte diviene merce, l’artista è mercante che rimuove l’atto creativo per produrre serialità, salvo cambiarne l’identità in funzione del desiderio palesato del consumatore. Critici, gallerie, curatori non s’adeguano semplicemente, divengono artefici del declino, complici – inconsapevoli? – della regola ferrea dell’incomunicabilità, condizione fondante della specializzazione. Più l’osmosi artistica si impoverisce, più la qualità dell’arte regredisce a tratti di mera spazzatura, costruisce per sé la condizione di disperato germoglio su terre aride. Non esiste oggi possibilità alcuna che un Asger Jorn sorseggi vino in una bettola d’i ‘un paese di frontiera con Peggy Guggenheim in dialettica serrata con Debord, i Velvet Underground non vedranno più immagini warholiane sui loro dischi. Nessuno scriverà manifesti per nuove forme d’arte ché questa sarà progressivamente appannaggio di classi sociali che, al contempo, ne detengono il controllo e ne decretano la morte per asfissia da specializzazione. Nemmeno l’arte pare più espressione del tutto d’intorno, punto d’osservazione privilegiato su quello, lo evita anzi, perché se ne pretende, pure quando appare provocatoria ed eretica, una natura rassicurante un tanto al chilo. Questo credo, pure se v’è testimonianza di sacche di resistenza, tentativi di ribaltare lo stato di cose. Ce n’è di tali che portano arte nei non luoghi dell’arte, s’aprono frontiere d’emancipazione e di riscoperta d’umanità dove convenzioni non scritte non ne prevedono, che costruiscono le condizioni proprie della dialettica orizzontale tra le forme espressive, riportano l’arte ad altezza d’ogni individuo, senza pretesa di conoscerne il budget a disposizione. Che se ne parli, che ognuno lo faccia come può e quando può, ne racconti l’esistenza, ne produca l’incontro che si fa anti-rete (virtuale), filo robusto di legame autentico, che sottrae spazio a squallidi mercanti del click, del mega-evento devastatore, della prebenda familistica. L’ho fatto in due occasioni (qui e qui), per lo stesso luogo (lo conosco meglio, altre ne intravidi di interesse notevole ma non ne ho dettaglio esiziale).

Faccio tre con L’Altelier di Modica Alta, uno spazio espositivo dove non dovrebbe esserci, semplicemente anticamera d’una abitazione trasformata ad un uso condiviso, per ospitare arte, al centro d’un quartiere che non v’è preposto, popolare e vecchio, intriso di tradizione ma non abbastanza vicino a fasti da cartolina come quello più in basso. Vi si fermano rari turisti, quelli che sono adusi a esplorazioni faticose a percorrenza di vicoli stretti, dedali di stradine e scalinate erte, silenzi profondi, scarpinanti che s’attrezzano allo stupore dell’improvvisa apertura sul presepe di case. È quartiere dove la domenica presto puoi fare colazione con vino e bollito, dove puoi trascorrere serate sotto le scale d’una chiesa sempre con qualcosa da bere che non necessita di mutui a tasso d’usura a conto fatto. Basta mettere tre sedie fuori da quel posto e può fermarsi qualcuno ad occasionale passaggio, alla ricerca del belvedere con paesaggio mozzafiato, centro metri più avanti, che s’appassiona all’esposizione, si mette a discutere con lo sfondo del jazz di Miles o The Goldberg Variations di Bach suonata da Glenn Gould. Ma pure si ferma Peppe, custode dell’imponente chiesa prossima, birra e sigaretta in mano, oppure il vecchio don Angelo, un tempo abilissimo “mastro” di muri a secco, che s’accomoda con libro in mano o grappolo d’uva della sua vigna. Se capitate da quelle parti c’è ancora la mostra di cui ho parlato qui. La prossima è quella sotto (ne parlerò nei prossimi giorni delle due artiste coinvolte).

Ed a chiusura dello spazio, le convergenze evolutive, il progetto che pretende trasformazione, prosegue più giù, al fresco dello slargo, a tavola, incontro di sensibilità diverse, anche solo di chi semplicemente si trova attratto da conversazioni altre. È esperienza di sanità mentale, è progetto ricostruttivo, atto di resistenza estrema alla barbarie delle elité che pretendono pure di controllare e di guidare il senso, financo la percezione, della bellezza. Altre esperienze ci sono senz’altro, se cominciano a sentirsi, parteciparsi, creano discontinuità, la potentissima – e terribilmente fragile – società dello spettacolo non se lo può permettere.

La linea dritta

Che mi manca ormai poche settimane a mi fermo un attimo, che mi ricongiungo a scoglio natio, m’abbevero a fonte di fiume di Mercurio o di ninfa, tralascio risciacquo di panno in Arno pro tempore, quando si ripresenta ripartenza. Poco mi manca, che vi racconto, che già lo feci in illo tempore, quale è mio viaggio di ritorno ad origine.

Vi fu sempre nel mondo assai più di quanto gli uomini potessero vedere quando andavano lenti, figuriamoci se lo potranno vedere andando veloci” (John Ruskin)

Mi viene di preparare valigie, che è tempo di rimigrare per pause di svernamenti. Che mi tocca di ripercorrere a ritroso lo stivale, cosa che, invero, talora poco m’aggrada che rischio di cedere all’ansia dell’arrivo. Ma ho due fortune d’accompagno a viaggio, che l’una è definita in traiettoria di linea sghemba, l’altra in musica on the road.

Posto che la seconda non m’è mai data a mancare, della prima sono artefice, che non mi persuadono linee esatte, nemmeno ho tema di ritardo. Se ho appuntamento a precisione, in genere, mi appresto ad anticipo, se non è dato orario, chi attende è di mie imperfezioni consapevole, si fa ragione d’attesa, nemmeno si turba che questa sia eccessiva. Quindi evito la linea dritta d’autostrada, che concede folle a caselli, ingorghi a banco per camogli e positani. Piuttosto zigzago viandante, che m’aspetto che s’aprano scorci improvvisi del mai visto se scelgo strade che di dritto hanno pari al rovescio. Traccio il percorso in tratto generale, optando per vago incedere, di mare o di monti, che c’è bettola di conforto, barettino con baristi a sorriso e caffè decenti, s’abbandono il consueto lineare a doppia, pure tripla, carreggiata. Ribadisco, fretta non ve n’è alcuna, che da A a B s’arriva in tanti modi, e la strada assai più veloce è sempre quella che occulta allo sguardo la sorpresa. Di basso non m’attende alcunché di concetto, che a meningi tiro freno a mano, s’accomoderanno a quiete. E quell’altro me pure si farà ragione che del suo libro ultimo non vi sarà che traccia ad anno nuovo, che le feste sono salve di faccende a pubblico. Che io di detti libri m’adopero a rinnegarli, lasciando scampo al successivo, che tanto ancora è a rotativa. Dunque, sarà scoglio, vago itinerario d’altopiano, baratto di pesce con Pilu Rais, vino torbido di terra e sale, vicolo d’abbandono a silenzio, e poco altro.

Mi sovviene, tuttavia che, se affanno e paraocchio vivono di linee ritte, senza gomiti e tornanti, quanto meglio s’avverrebbe ad esser tutti lenti, a procedere per partecipato affratellamento con le cose del mondo, a che si disvelino prospettive altre di armonie e bellezze? Che la linea ritta è si assai più rapida, ma uguale a se stessa, è itinerario cash & carry, percorso mordi & fuggi Ltd. Per arrivare poi al più ad altro rettilineo di preconfezioni precotte, che non v’è gusto d’incontro se non di chi di fretta fece virtù superiore, né indugia di narrazione, che non ha memoria e sguardo di chi sa fermarsi, di chi lancia occhio e cuore a deriva inattesa, che non ha vincoli al bivio.

C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione fra le più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo. Nella matematica esistenziale il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio. Da tale equazione si possono dedurre diversi corollari, per esempio il seguente: la nostra epoca si abbandona al demone della velocità ed è per questo motivo che dimentica tanto facilmente se stessa. Ma io preferisco rovesciare questa affermazione: la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuole farci capire che oramai non aspira più ad essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata da se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria”. (Milan Kundera)

Se è fatica, dunque, di cambiar rotta, di scegliere la meno rapida, di generare l’incontro d’altro viandante, lento e narrativo, è divenuta fatica il pensare, l’indugio nel ventre di tempo, del racconto. Che se c’erano taluni che del viril “tiro dritto” s’approntavano a vanto, a me sovviene desiderio d’inceppo di clessidra, incendio di meridiana, sabotaggio d’orologio.