E di cosa dovrei scrivere oggi, di quegli altri morti d’annego che ormai ad assuefazione collettiva non paiono più qualche decina ma solo trafiletto a cronaca locale, di bomba che diventa superbomba per partecipazione corale a guerra di corsa ad arma, di acqua che s’asciuga per termosifone acceso, o ad imbarazzo per sovvenzione a banca di speculo forte? Scrivo solo che fra poco smetto di scrivere per qualche giorno che c’è spiegazione precisa a questo. Pure, però, a voi vi leggo e se posso lascio commento. Ma io, adesso non posso più di tanto che altro me m’ha catturato a castigo di suo imperituro impegno tutto a fronte di tutto.
Insomma, egli – altro me dico – s’è messo su calendario cose da tremore di vene ai polsi che s’affatica a sindacato, a comizionzo e conferenzuccia a dove lo chiamano, si presenta libro suo (che almeno si paga qualche spesa per il resto che sempre fu gratis et amore dei), scribacchia per questa e quella rivista di cosa serissima, si affanna per lavoro di scuola che pare si versa tale lavoro da cornucopia degli abissi, pure se pare tela di Penelope che non v’è né fine nemmeno costrutto per scuola a similitudine d’ufficio disbrigo pratiche. Ed io, che m’ero ricavato spazio di nessunitudine definitiva per libertà conclamata a bloghettino di sassi che parlano, vengo trascinato in siffatto modo ad affanno imperituro. Ma egli pure, a girar come trottola, a mangiar panino al volo a fronte di consumo di fegato e riverso di bile, a non farsi fermo se non a semaforo per trasbordo da parte ad altra, a ricavar spazio a muraglione di tempo per caffè e sigaretta al massimo, pure non sposta virgola, al più mette punti ad esclamazione di disfatta autentica. E io, a notte che fu inoltrata, gli dissi che va bene, che mi limito a scrittura a quando passò la buriana e lo seguo, ma feci appuntino preciso preciso, che riporto qui tale a come lo concepii. A vedere bene – che mi rivolsi ad egli con tu perentorio di confidenza, crescemmo e convivemmo insieme, financo in corpo medesimo sì da che venne vagito a nascita in illo tempore – ti sbatti e ti risbatti a consapevolezza che il mondo mai cambiasti, nemmanco mi pare ce la farai di pelo appena, di più t’accollasti tale mole d’incombenza a costo esattamente zero, pure con carico di debito conto terzi che finisti quasi a far fame. Ma non t’avvedesti di fatto che c’è capitalismo brutale e cinico? E se tale energia a spreco si volge, pure a tempo determinato, ad accumulo di doblone, si può poi mollare tutto e farsi bilocale frontemare a località deserta, magari isolonza a scarsa o nulla di popolazione. E ci si va ad armo di canna, e zampirone, che a lanciar lenza con boccone amaro per sfratto di sfrattante Bernardo l’eremita c’è speranza che ci si consola con cena di cerniotto e sarago.
Che a contorno ci si pensa con armo d’orto a produzione di pomodoro che per sale di vento si fece a meno di condimento. E unico contatto con mondo fu con corriere per consegna di librino ogni tanto e per arrivo di grande nave cisterna per consegna di vino rosso. Che musica ce n’è e pure abbastanza da recar con noi e il resto fu pace, scoglio, sale e vento, infinito di sguardo, silenzio di tempesta.
Manco a dirlo, mi ignorò. E comunque, se ce la faccio torno tra qualche giorno. Fate cose buone voi che passate di qui, che io mi dimenticai come si fa.
Il 6 gennaio del 1993 ci lasciava John Birks “Dizzy” Gillespie. Qualche anno prima – non ricordo quanti – l’avevo visto in concerto all’Anfiteatro Romano di Siracusa. Che delizia autentica. Era spettacolo anche quando non suonava, con quel faccione, le braccia lunghe, quel balletto accennato quando, nella dialettica della musica, lasciava spazio agli assoli degli altri musicisti. A vederlo con la sua band era chiaro cosa intendesse Winton Marsalis quando diceva che “Il jazz è un’arte collettiva e un modo di vivere che allena alla democrazia, è l’arte del timing: ti insegna il quando. Quando cominciare, quando attendere, quando farti avanti, quando prendere il proprio tempo”. Ma anche c’era il pensiero di Coltrane: “Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra”. La sua tromba piegata all’insù puntava il cielo, le gote gli si gonfiavano così tanto che pareva si sarebbe librato in volo, leggero, come una mongolfiera. Fu quasi ovvio, conseguenziale, che la signora alla mia sinistra sussurrasse, ridacchiando, “Polvere di stelle” quando, l’ennesima volta che scuoté il pistone per svuotarlo, mi beccò di rimbalzo con le sue polluzioni. Me l’ero cercata giacché, impudicamente, m’ero messo a sgomitare per raggiungere il posto più prossimo al palco proprio in quell’istante, e fu fortuna che un’altra signora, assai più compassionevole e meno sarcastica della prima, m’offrisse un kleenex. Superato rapidamente lo sgomento, l’episodio non riuscì a scalfire la mia estasi. Fu cosa memorabile, ahimé, irripetibile.
Nato a Cheraw, il 21 ottobre 1917, in una famiglia poverissima, cominciò a suonare la tromba quasi per gioco che aveva 12 anni, da autodidatta. Il padre si dilettava a picchiare lui e i suoi fratelli piuttosto spesso, ma era morto già da un paio d’anni. Lasciò casa per andare a studiare all’istituto di Laurinburg grazie ad una borsa di studio, troppo povero per potersi permettere scuole a proprie spese. Nel 1935 fece a meno pure della scuola per trasferirsi a Filadelfia. Vi trovò lavoro come musicista, suonando con Frankie Fairfax e con la band di Teddy Hill, con la quale produsse la sua prima registrazione subentrando a un mostro sacro quale Roy Eldridge. Le sue collaborazioni, in quegli anni, furono rilevantissime per costruirne l’identità musicale, suonava a fianco di gente come Cab Calloway, Lionel Hampton, Mario Bauza, Milt Hinton, Coleman Hawkins.
Appena cominciati gli anni ’40 era già a New York dove mise su un trio con Oscar Pettiford al contrabbasso e Kenny Clarke alla batteria, la formazione che possiamo considerare la prima autenticamente bop. Suonano soprattutto al Minton’s dove le jam session con Thelonious Monk, Bud Powell, Max Roach, tanti altri, sono continue. Fondamentale, in quegli anni, è il suo ingresso nell’orchestra di Earl Hines, di cui fa parte anche Charlie Parker e, l’anno dopo, in quella di Billy Eckstine. Con questa gira gli States emancipando il bebop dalla sua nicchia originaria di espressione musicale tipica dei locali notturni newyorkesi. Ma è in quelli, non nei grandi teatri con le grandi orchestre, che il bebop aveva preso forma. Il suono al Minton’s Playhouse, la casa natale del bebop, è ruvido, profondamente identitario, ha arrangiamenti semplici e diretti, senza fronzoli, poche, scarsissime concessioni allo swing, alle cose delle orchestre che facevano musica molto attenta a sofisticati arrangiamenti, quella che piaceva ai bianchi. “Io cerco di suonare la pura essenza, lasciando che tutto sia giusto come dovrebbe essere.” (Dizzy Gillespie) Il Bebop era la musica degli afro-americani che si riappropriavano dei propri spazi, della propria unicità, anche a costo di perdere ingaggi, di rimanere marginali. Fu proprio Dizzy tra i primi ad usare le due note, be, bop, a chiusura del brano. Ma quello non fu solo movimento musicale, parve più stile di vita, modalità di ribellione al consueto di quegli anni. Era roba che piaceva anche ai ragazzi della beat generation: “A quei tempi, nel 1947, il bop impazzava in tutta l’America. I ragazzi del Loop suonavano, ma con stanchezza, perché il bop era a metà strada fra il periodo del Charlie Parker di Ornithology e quello di Miles Davis.” (Jack Kerouac, On the Road, 1957)
“Bird è stato lo spirito del movimento bebop, ma Dizzy ne era la testa e le mani, era lui che teneva insieme tutto”, dirà Miles Davis nella sua autobiografia. Proprio Davis lo sostituirà con la sua tromba a fianco di Charlie Parker, quando, nel 1947, Gillespie fonda la sua nuova band con il pianista John Lewis, il vibrafonista Milt “Bags”Jackson, Kenny “Klook” Clarke alla batteria e Ray Brown al contrabbasso, praticamente una prima visione del Modern Jazz Quartet.
Pure se aveva concepito le sue sperimentazioni più ardite dentro piccoli gruppi, Dizzy Gillespie amava di gran lunga esibirsi con le grandi orchestre, lì poteva esprimere tutto il suo talento istrionico, tutta la sua naturale propensione ad essere punto di riferimento sul palco, leader naturale. Dentro quelle forzava il suo bop, non riusciva a rinunciarci: “Mi ci è voluta tutta la vita per imparare cosa non suonare” diceva. Con le sue Dizzy Gillespie Big Bands, spesso effimere per durata a causa dei costi eccessivi, portò la sua musica in giro per il mondo, in particolare in Europa. Furono gli anni in cui la sua tromba rivolse la campana verso l’alto, cosa che non si era mai vista prima, frutto della natura di spettacolo pirotecnico dei suoi concerti. Una sera, prima di lui, si era esibito sul palco il duo comico Stump and Stumpy. Nella bagarre divertita i due gli fecero cadere la tromba deformandola, ma a Dizzy quella forma così particolare piacque, pure il suono che ne veniva fuori gli parve migliorato. Aveva raccontato questo episodio nella sua biografia, chiarendo un altro aspetto caratteristico del suo modo di suonare, il rigonfiamento anomalo delle gote quando soffiava nello strumento le sue sfuriate, cosa assolutamente vietata dai puristi della teoria, della tecnica. Secondo Dizzy fu un medico a spiegargli che quel fatto era, con ogni probabilità, frutto di una qualche reazione fisiologica incontrollabile, forse dovuta ad una sindrome misteriosa.
Nel 1953 partecipa al grande concerto del Massey Hall di Toronto insieme ai più grandi di quegli anni, Max Roach, Charlie Mingus, Charlie Parker, Bud Powell. Ne venne fuori uno dei più importanti dischi jazz di tutti i tempi, ma anche parve di trovarsi davanti ad una sorta di de profundis per il bebop, forse troppo ostico per i mercati discografici più convenzionali. Cominciava del resto ad affermarsi in giro l’hard bop dell’astro nascente Clifford Brown, c’erano nell’aria i prodromi del free jazz. Molti musicisti neri cominciavano a studiare seriamente, non si limitavano a invenzioni autodidatte. Sul giro classico del blues inserivano tecnicismi solistici sempre più sofisticati, pur non rinunciando mai all’improvvisazione. Horace Silver, Charles Mingus, Art Blakey, Cannonball Adderley, Thelonious Monk e Tadd Dameron scelsero di percorrere quella strada, sino agli approdi modali del jazz dei primi anni ’60.
Dizzy, invece, continuava a suonare la sua musica, rimase fedele ai suoi “ribelli” minimalismi fondativi, anche quando decideva di contaminarsi con espressioni apparentemente lontane. Brani essenziali come Manteca e Tin Tin Deo, sono il risultato perfettamente riuscito di una fusione del jazz con altre esperienze, in questo caso con la musica caraibica. La passione di Gillespie per i ritmi latini continuò per anni, la sua curiosità per quel mondo lo portò pure ad intraprendere percorsi comuni con il musicista cubano naturalizzato americano Arturo Sandoval. Sandoval era, dal canto suo, affascinato dai suoni del bebop, e fece il suo ingresso nella band di Gillespie, The United Nations Orchestra, a partire dal 1977. Molte altre furono le collaborazioni che Dizzy ebbe con artisti non propriamente jazz, Chaka Khan, Ray Charles, Aretha Franklin, solo per citarne alcuni.
Protagonista delle scene musicali di mezzo secolo, pure fuori, in un modo o nell’altro, è emersa la figura d’un uomo poliedrico, capace di stupire, divertire, indurre pensieri profondi. Aiutò Chet Baker durante l’ennesimo disastro della sua vita, quando fu pestato a sangue dai suoi creditori sì da non poter più continuare a suonare. Gillespie, segretamente, pagò gli interventi chirurgici ricostruttivi che consentirono a Baker di tornare a soffiare nella sua tromba. Alla fine, indagando, Chet Baker scoprì chi fosse il suo anonimo benefattore e sostò al freddo per tre giorni fuori del pianerottolo di Gillespie, senza dir nulla, in quel modo intendendo ringraziarlo.
Nel 1963, l’agenzia che si occupava di promuovere le cose di Dizzy, la sua immagine, sfruttando il clima di propaganda per le presidenziali dell’anno successivo, quello della candidatura Kennedy, per intenderci, aveva fatto produrre delle spillette con la scritta “Dizzy for President”. Erano anni in cui la condizione dei neri d’America era drammatica. Quella era la sua gente, anche lui aveva vissuto in povertà estrema, provato sulla sua pelle cosa significasse la discriminazione razziale e ora che godeva di grande successo non poteva far finta di niente. I discorsi con cui Kennedy promosse la sua candidatura, per quanto apparissero dirompenti in questo senso, furono interpretati dai neri d’America come poco più che retorici. Per rivendicare altro che non fossero parole, decine di migliaia di manifestanti parteciparono alla marcia organizzata a Washington da Martin Luther King, tra quelli qualcuno tirò fuori la spilletta pubblicitaria “Dizzy for President”. Come dire, il dado era tratto.
Il 21 settembre del 1963, dopo l’ennesima strage di afroamericani ad opera di razzisti del Ku Klux Klan, Dizzy, salendo sul palco del Monterey Jazz Festival, urlò al pubblico “Voglio diventare Presidente degli Stati Uniti perché ce ne serve uno!” Il cantante Jon Hendricks compose pure l’inno della campagna elettorale: “Vote Dizzy! Vote Dizzy! You want a good president who’s willing to run / You wanna make government a barrel of fun (…) Your political leaders spout a lot of hot air / But Dizzy blows trumpet so you really don’t care.”
Come al solito, Dizzy stupì il mondo. Mise insieme pure la lista dei suoi collaboratori e ministri: per Duke Ellington l’incarico doveva essere adeguato alla sua grandezza, dunque, Ministro dello Stato. Max Roach, che era uno che coi botti ci sapeva fare, sarebbe divenuto Ministro della Difesa. A Louis Armstrong doveva andare il Ministro dell’Agricoltura, e chi meglio di Charles Mingus poteva essere Ministro della Pace? Manco a dirlo c’era Malcolm X, ovviamente Procuratore Generale. Per le politiche sociali, Dizzy pensò a chi aveva lo sguardo giusto, pure la voce adatta, Ella Fitzgerald. Per Ray Charles c’era il posto di Direttore della Biblioteca del Congresso ed a Mary Lou Williams toccava di andare a fare l’Ambasciatrice in Vaticano. Incarico delicatissimo per Thelonious Monk, Ambasciatore “in viaggio”. Mancava solo un tassello per chiudere la formazione della squadra di Dizzy for President, ma anche per quello non c’erano dubbi, Miles Davis Capo della CIA!
“Quando i miei pensieri sono ansiosi, inquieti e cattivi, vado in riva al mare, e il mare li annega e li manda via con i suoi grandi suoni larghi, li purifica con il suo rumore, e impone un ritmo su tutto ciò che in me è disorientato e confuso.” (Rainer Maria Rilke)
Quando, pure, hai sensazioni di solitudini definitive c’è, in riva al mare, il costernato godimento proprio di quelle solitudini vertiginose. Che non v’è ragione di solitudine quando si è carosello vorticoso del tutto che non si ferma, a far d’ogni dettaglio un infinito a sé, e l’infinito dei dettagli la sorpresa della finitezza apparente della materia che ci si ricompone intorno.
Che non è risolta, invece, la solitudine dello stare a stretto contatto con molteplicità d’umane distanze, non propensi a fraterni abbracci, solo corpi materiali a barriera di separazione dall’ebbrezza d’esser parte del tutto. Il tempo incombe nelle incombenze, nell’essere ostaggi irrimediabili dei pesanti fardelli del fare, ora e subito, a scadenza improrogabile. Svanisce, invece, e l’attesa è solo tappa d’un viaggio, il suo prolungarsi diviene semplice disvelarsi d’una meta ancora nuova, quando fummo liberi da soma. Il bagaglio, allora, è solo memoria, dove fatti, suoni, versi, immagini, s’accumulano con la stessa rapidità con cui si dissolvono, per poi tornare indietro, in forma di pioggia di ricordi e desiderio insopprimibile di lentezza ri-generatrice, del caos che non ci confonde di sue linee sghembe, di progetto accurato d’insolvenze volontarie. La gigantesca vasca d’abluzione è, ad osservazione esatta, strumento di rituale liturgico di purificazione, che offre liberazioni nell’incertezza dell’oltre d’una linea d’orizzonte che si fa curva, del mistero d’un abisso di vite. E si può essere talmente ricchi lì, da potersi permettere la povertà estrema del non creare posti di lavoro – a rischio financo di divenir contagiosi -, con buona pace di motori di sviluppo, avviluppati nell’essere soli con le proprie moltitudini a cottimo, nei tempi preordinati, nell’ansia permanente d’orrore per tempi che non passano.
“Strisciando sulla rena sino in pizz’in pizzo, dalla spiaggetta si lasciò scivolare sotto, s’infilò in acqua liscio liscio, senza fare spruzzi né schiume, come un pesce, o come qualcuno, qualcosa più d’un pesce, perché sembrò che fosse il mare che s’apriva e subito si richiudeva dietro a lui, con dentro lui: poi, dopo che sembrava sparito come per sempre, riassommò e silenzioso, leggero come non fosse il corpo a muoversi, ma la sua ombra, pigliò a nuotare risalendo la ‘Ricchia per tutta la sua apertura.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus Orca)
Mi feci persuaso col tempo che il mare appartiene a tutti, ma non è cosa per tutti a percezione perfetta, che mi pare che talune cose sfuggono di quello. Che sì, c’è che si possa dire che bello, ma se ti prendi posto a massa su spiaggia a densità di Striscia di Gaza, non è detto che poi hai capito bene cos’è. Se te ne godi presunte essenze a comodità con campanello c’arriva servizio a sdraio ed ombrellone, se ci hai bum bum a godimento mantrico di neurone, forse non c’è bisogno di mare, che medesima circolazione a divertimento è concessa pure a bordo piscina tra capannone a prefabbrico tutti uguali. Del mare ti sfugge il dettaglio esatto.
Il mare ha comunicazioni precise, non s’azzarda a dar libero sfogo ad essenza sua intima per chicchessia, pure se quello crede ch’è così. Appare parco di dono, che poi è ad evidenza che si mostra di bellezza assoluta quando s’appresenta sgombro di presenza, che cacciò tutti adirato a fulmicotone, attrezzato a bufera e tormenta, spazzolato di sabbia di Libeccio, sferzato da Scirocco. Che lì c’è fuggi fuggi, che non c’è tale alcuno ad ora di mattina che ancora melassa nottambula pesa su turistume vario, su ammarati della settimana, a costrizione di distanza dall’onda di risacca. Non c’è tale alcuno che non ne colse essenza precisa. Poche anime s’affollano a mare ad una certa ora, tal poche che nemmeno si potrà dire che s’affollano, al più si scrutano a distrazione da lontano, si percepiscono appena, che i sensi hanno altro cui rivolgersi. Che c’è odore di sale e posidonia, canto di sirena s’appalesa esatto, rumore di brontolio che viene da risacca d’agitazione che fu, che attende di rifare il verso di ferocia di vento di tormenta bollente. C’è colore unico che muta a piano, non si fa ora tutto cielo, ora tutto mare, a certe ore se la prende comoda, fa un po’ e un po’, si passano consegne, cielo e mare, in punto indefinito, all’alba che il giorno è giovane, a notte che morì ad attesa d’altro, a sbrilluccicare di riflesso di stella e di mezza luna, che mondo d’altro a quello volta le spalle.
A distrazione si corre sulla rena che è a conto giusto pensare a forma di fisico perfetto, che quello va esposto ad ora dopo, allorché il mare c’è ma sparisce di sua essenza, s’inabissa nei suoi abissi, fa appena quinta di scenografia di cartone, si finge tale. Riapparirà a vista giusta, non a vista di tutti, che colore, suono, odore, meritano stasi perfetta, non agitazione termica, lentezza inesorabile, postura di fermo di vertigine, che quello è punto di vista esatto di viaggio che il mare fa conto terzi, s’agita e ti profila il mondo intero, ti svela d’orizzonte la piega di terra, ti racconta storia che orecchio giusto ascolta e capisce s’è concentrato e cancella sovrapposizione d’altro pensiero. Il mare è così, s’affratella ai suoi figli, non si concede a Narciso se non a veste di camuffo, a parziale sua dimensione esatta. Il resto è di sensi giusti, assai più di quelli noti a pagina d’abbecedario.
Che è tempo che si compiange il morto, che da vivo era a colpo di obice. Ch’era bello se c’era lui, ma quando c’era lui era meglio a fa bersaglio per sparo ad alzo uomo, a sbuff di noia. E pure io faccio necrologio ma non d’anniversario, necrologio a come viene, ad omaggio del tempo che fu, di chi fu e non si accorse nessuno che fu. Che comincio che vado prima di musica che di secondo ci ho ricordo gustoso a contorno di nostalgie che il tempo fu.
E comincio da Cisco, ch’ebbe a batter ferro prima che la mezza ettolitrata di vino che consumò ad ogni pasto, ma pure tra l’uno e l’altro, non gli facesse soppiantare materialità enologiche con polvere diffuse a grotta di ladroni a piede di vulcano autentico – ch’egli fu maestro di forgia ad incandescenza – pure in fiume da risciacquo di lingua patria, come da volontà sua. Ch’egli scolpi a sublime gatti per teatro di Shakespeare ed ogni altra opera di maestria, ma mai adorò lavoro, pure ne rifuggì orripilato ad ogni suo ripresentarsi.
Il Cisco, che gliela feci io la foto giusta
Che casa sua era a porta aperta, pure finestra fu tale, che c’era da bere e da mangiare per conosciuto e sconosciuto a bisogna di trangugio per fame conclamata. Che mai chiese a che d’uopo si presentava taluno, ch’egli provvide a sfamarlo e pure a dissetarlo, giammai d’acqua, che a quattro carponi era d’abbisogna che si lasciasse casa.
Pure ho memoria di Tano, che si fece a sindacato di barricata, ch’egli, a fondo di pantaloni consunto per calcio in culo di celerino od ogni altra bestia nera, s’era immolato di campi in campi, a schiena ricurva, che ad incontrarlo ci scappava pezzo di cacio e bicchiere di vino a sopra muretto, che bastava a uno smunto come egli, ma a egli uno che mangiava solo non piaceva. Ch’egli disse, a riso di stolto che a scherno ne guardava passeggio sbilenco, che ad abolizione di scala mobile che volle mammasantissima primo fra ogni mammasantissima, per sostituzione ch’ebbe a nominare democrazia di concertazione, c’era ad orizzonte bobo nero a doppio petto blu (manco di coraggio di nero) a bottoname a d’oro, che contratto avrebbe messo a congelatore, solo incentivo per acquisto di corda per nodo scorsoio a luogo di cravatta buona di domenica a messa.
Che tutti ridono di povero Tano che parlava e straparlava, ch’ebbero paura di sua ragione che diceva che sfrutto d’uomo era d’uomo che a mercato nero aveva riciclato quota sua d’anima d’umanità. Che diceva s’io zappo terra questa è terra di tutti, non di padrone, nemmanco di chi la zappa, ma di chi abbisogna di suo frutto. E quando Tano si fece a torno a terra zappata a vita, per nazionale senza filtro con bollo di monopolio di stato, non fu verso di lacrima che di pochi, che paura mondo ebbe di volgere sguardo a sua imperitura ragione.
A ricordo commosso vado a Tano che sondò abisso a cerca di sarda, che manco trovò più tonno che prima faceva a tavola gonfia per sua famiglia, ma pure per vicinato intero che non aveva manco tovaglia su tavola, forse manco sedia che non fosse cassetta a legno di mercato esausta. Che ruga di sale fu via per lacrima di fatica che divenne goccia di mare e ancora vaga con suo codice genetico di viaggio infinito, d’orizzonte ad orizzonte.
Ch’egli si fece a tappeto per bastonata contro mammasantissima e potentissimo a peschereccio di surgelo a pesca a strascico e palamitara lunga mille mila miglia, che succhiò ogni bestia che dava a mangio a famiglia e vicinato, per pregiato menù di ristorante a collezione di stelle di tutto firmamento, che primo e secondo costa quanto tutta la barca ed attrezzo di Tano. Che a Tano, d’artrite quasi paralitico, fu bufera che lo portò via, bufera di disperazione sua, abbraccio di mare che volle suo figlio a canto suo, a privo di fatica, finalmente.
Infine memoria spendo per Maria, che di nulla tenere fece a nulla temere, che si lanciò sotto camionette di rastrellamento di proscrizione a far partire giovane a morire, ch’era scampato già a guerra. E quello gli fecero pagare a carcere pesante ed a chiusura a vigilanza di monaca, per stento infinito, a parto ed allevo figlia sua a quattro mura a freddo, ma mai smise a grido di non si parte che la guerra la fanno i potenti fra di loro, ma col sangue dei poveri cristi che già sangue n’hanno poco e pure sfatto di privazione.
A tutti questi dedico memoria che sono rappresentanti d’umanità perdute che non ebbero ad apparire a ricordo di giornalettume, che, almeno di questo, morte gli fece dono di risparmio. E forse un po’ anche a me, mi faccio dedica ad ancora vivo.
E radio Pirata torna, che c’è stato tempo di silenzio per impegno improrogabile d’altro me in altre faccende affaccendato. E torna tinta d’informazione a campo largo, a sostenere conoscenza, a dar voce, quale megafono di verità, ad efficiente ed imperitura condizione statuale. Pure, a ricordo d’importanza, in ora di bisogno, d’oro alla patria, vi solluchero con tampone gastrico di jazz.
Che grande ad elogio, a bombarolo dice che è violazione malvagia di contratto che vuole rublo a luogo di moneta sana. Roba che è abietta e meschina, che dollaro di Monopoli è roba da tiranno, bomba è chissenefrega, pure ci metto carico da novanta, senza passare dal via per Vicolo Stretto, in prospettiva di Parco della Vittoria, che faccio Stranamore ad allegra combriccola di partecipo anch’io. Turi è a galera e io mi – e vi – ammusico.
Che è tempo gramo questo, di crisi a valori elevatissimi, che Papa s’inalbera e pare tornato a Aristotele e terrapiatta, che fa anatema a non riconoscimento di fulgide ragioni di civiltà e progresso col dire no a bomba sopra al due (che anche sotto, taluno parrebbe porre strale d’indignazione, in che mondo si vive). Merita stimmate di pentimento, gliele mandiamo a reti unificate, a formato tabloid unanime di lucida capacità d’analisi, che se non basta pure a meta-messaggio di rete, tutt’a d’un tratto in coro. Che di coro noi abbiamo anche altro che non è quello.
E mentre si fa classifica a profugo giusto, – tale si, tale vediamo, talaltro non se ne parla che tocca donna bianca – settimana fu di lutti tremendi, che patria di palla fu tritata a macedonia, pure, a sommo scempio, del nord ma a sud. Ch’io m’accingo a tristezza ché, se c’è palla mondiale a rotolo, amor patrio prevale che pare solidarietà a bomba buona. Che tutti corrono a salotto di TV, dimentichi d’ogni altro dove, e lasciano a me spiaggia e scoglio a deserto, come fosse inverno di coscienze ed estate di cuore. Musico in grande oggi, che torno ad origine.
Dice, tale Eurispes, che fatturato di mafia d’italica dignità, è 130 miliardi e s’appresta a crescita a cifra doppia per sfrutto di guerra. Che pare ricchezza di PIL di ventina di staterelli a morto di fame, che se a quello metto altro tanto di banditismo ad evasione, pure ad elusione e ammanicamento a tangente, non è noto chi nascose cosa a governissimo a clone di Nembo Kid, che, qualora informato, avrebbe reso problema fatto di storia antica, in minuti cinque.
Certo ci fu velina a giornalettume in vario, che notizia non ebbe sorte qual quella di migrante a color sbagliato a rubar mela. Che di quel colore ho notizia di taluni che fanno certa musichetta.
E io v’ho dato collezione di notizione, che mi rallegra assai proporvi rassegna di cosa di settimana ch’è andata, pure c’è rischio che torna pari pari. Ed ora, a ora legale, v’aiuto ancora a musica con tanto di buon prossimo tutto, che, anche se va come va, per il fatto stesso che va, mi pare che va bene.
Orbene, che mi viene meglio a ragionamento, faccio nero su bianco un conto facile: che se ho capito al giusto, mi pare che guerra di bianco con bianco è cosa assai disdicevole, che rasenta pazzia brutale; se è guerra di bianco contro altro colore, è belligeranza buona e giusta, necessaria ad esporto di democrazia, che poi l’altro di colore ripaga a gratitudine un tanto al chilo, con interesse a strozzo per bene di civiltà libera ed evoluta; se è guerra a Curdo, a fare altro esempio, mi pare che è lavaggio di panno sporco in casa, dunque legittima bomba a villaggio; se invece è guerra di altro colore non bianco con altro colore, nemmeno quello bianco, è guerra chi se ne frega. E faccio musica, che a dopo conto difficile riposo meningi.
Riorbene, se ragionamento di cui sopra è giusto, io m’avvedo di rischio che corro per altro ragionamento. Che quell’altro me è di mondo civile per convenzione amministrativa, che vi ebbe natali per spostamento preciso di confine. Pure, però, che a verità non s’addiviene mai a risparmio, va notato ch’egli, segaligno e di vaga ambratura epidermica, con albero di genealogia corto e misterioso, tanto della parte giusta di confine non pare. Però carta bollata canta, e solerte burocrate d’anagrafica, a firma pure di sindaco, quello scrisse, pure con data di scadenza a documento.
C’è onor del vero che taluno se ne accorse che non funziona proprio così, che oggi di giusto a solidarietà si spella mani, ieri, a sommo di curva di tifo, ad osanna incitava vulcano che facesse scherzo di trasformo a pollo arrosto quel me con altri suoi pari. Ma io, che a nessuno mi vocai, neppure ho difesa di documento, che paio solo pastore di Mali, pirata fenicio o cosa simile, dunque, se mi faccio repubblica di niente, rischio invasione. Di più, se mi faccio tale ad autodeterminazione, con corredo pure di leggi a violo d’umano diritto, come proibizione imperitura di pecorino su pasta con cozza, di assassinio di libertà mi faccio reo, divento tiranno e negletto, che manco ho petrolio a vendita. Come mi permetto? Mi merito punizione a bombarda. Ma io di malvagità sono pregno per tratto somatico, che neppure m’avvedo di beatitudine di martirio a fulgore di candido mondo civile, e faccio atto estremo di tirannica determinazione: m’arrendo prima.
Via, andiamo subito di musica, che com’ebbi a dire, quella vi resta, e qui ci sta pure bene.
Non so se avete presente quelli che hanno due cognomi, anche tre. Ce ne sono taluni che se li portano con discrezione, non gliene importa più di tanto. Talaltri, invece, ne vanno matti. È cosa che li gratifica, come se essere nati con quella pletora di ridefinizioni anagrafiche sottintendesse condizioni auliche del corpo e dello spirito, superiorità ereditarie (a me vengono in mente cose tipo emofilia e robe che si acuiscono con la scarsa ibridazione per paure patrimoniali, ma io soffro di deformazioni socio-politico-antropologiche). Ci sono poi quelli che ci stanno proprio male se non si prende atto della loro cognomanza binomiale, e te lo fanno notare, per esempio mostrando sufficienza quando, che ne so, appongono firma, qual sigillo regale, su un qualche modulo intriso di burocratismi elementari, irrispettosi del rango di chi legge e sottoscrive, e accompagnano quel gesto d’umana quotidianità su infarciture di pertanti, con dolenti esclamazioni del tipo: “oh, che fastidioso firmare con due cognomi, beati voi – sottintendendo il ‘comuni mortali’ – che non avete lo stesso atavico problema”… e nel frattempo, sollevano prudenti lo sguardo, nella speranza dissimulata di cogliere in quello degli astanti anche una sola espressione che ne disveli stupore frammisto ad invidiosa ammirazione. Ho comunque memoria di certi personaggi che possedevano ormai più titoli e cognomi che averi, e che vivevano nell’angoscioso ricordo di quei tempi in cui un titolo si poteva cedere dietro lauto compenso, a porre pezze precarie a certe propensioni che dilapidavano patrimoni, castelli e latifondi, dietro giochi d’azzardi ed altre umane debolezze. Viceversa, ho contezza di moderni ricchivendoli che devono le proprie fortune ad imprese audaci non proprio trasparenti, e che celano le proprie umili e polverose origini dietro ricerche araldiche che ne disseppelliscano nobili discendenze. Manco a dirlo, pagano fortune per ciò, essendo il mondo pieno di tali ceffi che, di par loro, venderebbero qualsiasi certezza ereditaria. Fortune, se non pari, assai simili a quelle che servono per nutrire monoliti a quattro ruote, con cui divelgono lastre di piccole piazze storiche o asfalti in ampi piazzali, assai rumorosamente, è ovvio, perché nessuno se ne perda l’evoluzione ed estasiato esclami: “che bella macchina s’è fatta il conte”. Ma quelli più sorprendenti sono certuni che inseguono apparenze aristocratiche con l’uso disinvolto di simboli arcaici. Ho visto certi industrialotti che hanno reso partenoniche le colonne che reggono il cancello d’ingresso al capanno prefabbricato e modulare, e su, in vetta ad esse, hanno posto ruggenti sculture leonine, accuratamente invecchiate con processi artificiosi, sicché se ne può dedurre origine antica, possesso da generazioni. Che il povero operaio, ormai dearticolodiciottizzato, pure delocalizzato, non solo mantiene un profilo basso, dopo il seppellimento di tessera sindacale per paura d’impedimento a riattraversamento d’ingresso, ma varca il medesimo al fabricozzo con spirito da novelle Forche Caudine. Non m’è difficile immaginare che se costruissi il mio albero genealogico, con intendimento d’aggiunta di qualche titolo o cognome a quell’unico piuttosto prosaico che mi porto dietro sin dal mio primo affaccio su questa terra, alle mie spalle, e ripercorrendo a ritroso la storia ed il tempo degli avi, mi ritroverei con qualche pirata, un pescatore di ricci di mare, un cammelliere stanco di sabbia, forse!
Allora non mi resta che consolarmi per questa che sono certo è la verità unica ch’appartiene alla mia genia, con il narrarvi d’un piatto che mai il signor conte, il duca od il marchese, oserebbero assaggiare, giacché il presupposto per gustarne l’essenza sta nell’intingervi le dita in tradizionale condivisione, e giammai essi consentirebbero alle proprie nobili ed ingioiellate falangi di sguazzare nei medesimi intingoli d’altri. Di più, temendo contaminazioni geopolitiche, virali e classiste, mai addiverrebbero alla conclusione di potersi concedere tuffi di pura contaminazione. E si, accenno al cuscus, – doppio nome, ma ripetuto che non si butta nulla – la cui origine è si antica, ma nient’affatto nobile, che appartenne a poveri carovanieri subsahariani. Da lì, senza permessi di soggiorno, varcò frontiere, sorvolò vette elevatissime, naufragò su spiagge d’oceano. Anima migrante, si integra ed integra, poiché si fonda sul desiderio definitivo dei suoi piccoli chicchi d’assorbire le essenze dei luoghi, fossero fatte di poveri tocchi di carni capitati per caso tra le dune d’un deserto, abbondanti pescati sulle coste del Mar d’Africa, o verdure selvatiche d’ogni fatta, ed intingoli. Non disdegna le contaminazioni profonde, dunque, ed anzi le ricerca rifiutando d’ideologia la purezza declamata dell’esclusivo regionale. È realmente l’archetipo illustrativo dell’unità, sin dall’attingerne il contenuto dal piatto (che sia di ceramica colorata, magari con cretti e scorticature) che invita a creare un humus assoluto fatto d’ogni contributo. Infine, è piatto che sin dalla sua preparazione invita alla lentezza, alla meditazione, alla conversazione. Non v’azzardate ad iniziare a prepararlo senza prima esservi assicurati d’avere a portata di mano qualcosa da bere. Per gli astemi c’è il tè, eventualmente, come quello nel deserto. Ma io astemi ne conosco assai pochi, che v’è detto, non aulico ma esplicativo, che “non ti piglio se non t’assomiglio”. Non mi resta che darvene sintesi, una delle tante (tutte hanno diritto di cittadinanza, perché il cuscus è apolide). Alla base v’è la semola di grano duro – ve ne consiglio una metà a grana fine e l’altra un po’ più robusta – che va posta su un piatto di ceramica ampio (mezzo chilo per quattro persone) e spruzzata d’acqua salata. Quindi, con sapiente movimento rotatorio delle dita, si consente ai grani di assorbire il liquido sino ad assumere la caratteristica forma a piccole sfere. Si procede, dunque, alla prima setacciata. Le palline che passano vanno addizionate di semola fresca perché si accrescano sino a raggiungere il diametro desiderato di circa due millimetri. È bene che in questa fase si beva del Frappato fresco, e si conversi del più e del meno. Giacché si presuppone che inizialmente il tasso alcolico non sia ancora accettabile, si può indugiare in conversazioni sull’arte e la bellezza! La cottura avviene nella cuscussiera a vapore, con olio d’oliva, chiodi di garofano, aglio, prezzemolo e peperoncino rosso. Sul fondo consiglio di mettere brodo di pesce misto, fatto di specie poco pregiate, ma ricche di profumi amplificati da aromi. Il vapore del brodo risalirà verso il piano nobile cucinando la semola. Ci vogliono almeno due ore perché la cottura sia completa, non c’è fretta, è ovvio, soprattutto se la compagnia è buona ed il Frappato non è ancora finito. Poi si versa il contenuto su un grande piatto, si rimescola un po’ e si rimette a cuocere per un’altra mezz’ora buona, praticamente un paio di bicchierini, una sigaretta, una decina di pagine di libro giusto, con racconti di viaggio per mare e spazi aperti d’orizzonti, lunghi reef d’afrojazz sullo sfondo. Infine, fatelo riposare ancora al piatto, quindi conditelo con il brodo di cottura filtrato, e servitelo con il pesce che avrete avuto cura di tirare fuori del brodo prima che si disfi, pure con verdure saltate in padella, pomodoro fresco (consiglio, oltre a sedano, carote e cipolla, anche melanzane, zucchine e peperoni). Io aggiungo alle verdure anche un cucchiaio di miele di timo! Poi dateci dentro senza ritegno, limitando l’uso delle posate, ma non quelle di un irrispettoso Nero d’Avola, e se qualcuno dei presenti inorridisce per l’abbinamento di un vino così corposo al pesce, ditegli di farsi gli affari suoi e la prossima volta non lo invitate.
"L'amore non conosce barriere. Salta ostacoli, oltrepassa recinzioni, attraversa pareti per arrivare alla sua destinazione, pieno di speranza." - Maya Angelou
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