Scorreva piano

“Dalla creazione del mondo, la barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progresso. Nel corso dei secoli, l’abbiamo soltanto ricoperta con una mano di vernice, nient’altro.” (Jack London)

Pure vi fu scoperta clamorosa che quella mano di vernice non servì solo a ricoprire la rugginosa natura dell’uomo, la sua permanente decadenza allo stadio più degenerato, era pure tossica. Ché pare, l’uomo, l’unica creatura che anela al proprio stesso sterminio ed ogni animale, dalla più screanzata delle meduse che sbeffeggia il tutto d’intorno coi suoi tentacoli urticanti, sino all’elegante zebra, guarda quella strana creatura con sospetto in permanenza, quasi vi si legge nello sguardo desiderio salvifico che faccia in fretta a condurre a termine la sua opera innata, a sospiro di sollievo di resto del creato. Me ne sovvenne certezza di detta mia sensazione ad osservazione precisa del fiume che mi scorre ai piedi e che ora non vedo più, rigagnolo putrescente lì dove un tempo fece storia di memorie dantesche, sostentamento d’interi popoli. Oggi, a consultazione precisa di corrente sua in forma di sputacchio, non condurrebbe bottiglia con messaggio al mare mio adorato. Si rifiuterebbe per stanchezza di sostenere peso ulteriore, nemmeno, credo, mi concederebbe la promessa di provarci che m’ascrisse alla specie che lo prosciugò e ridusse a vena d’infinita stanchezza. A far quattro chiacchiere non credo basterebbe a far cambio d’idea, che par rassegnato a lambire civiltà morente, e se anelito di vita vi scorre dentro è pure ad esso quello di speranza d’estinzione di massa di suddetta specie di barbara essenza.

Oggi lessi con frastornata distrazione ultime notizie, tali che mi fecero venir voglia di farmi fiume secco pure io. A guerra non c’è scampo che se taluno vuole e propone pace è a venir d’orticaria che viola patto precostituito, e a corsa ad armo di bombarda tutti si fanno a chi primo arriva che non si dica che non partecipammo a destino glorioso d’estinzione di massa, quale dinosauri goffi di ubriacatura. Altro disgraziato a fascio morì d’annego che notizia non fu tale più, a giornalettume preoccupa che non si giunga a pace e che, dunque, s’intraveda scorcio per chiacchiera su banca che quella pure affoga per mio ostinato ed incomprensibile chissenefrega. C’è promessa di salvataggio per caveau che a farla breve si riempie di provento di bomba, per morir d’annego non si fece barriera di salvataggio che liberissimi si è a non partire per morir di fame o sotto colpo di cannone. E a secco di fiume risposi che a barchetta per navigazione paciosa sostituirò infradito che bastò a sostegno di corrente.

“Al largo, cielo e mare erano saldati senza una giuntura e nello spazio luminoso le vele conciate delle barche che salivano con la marea sembravano immobili fastelli rossi di tele appuntite tra luccicori di aste verniciate. Sulle rive basse che correvano piatte a perdersi nel mare si era posata una nebbia leggera.” (Joseph Conrad) Quella, la nebbia, si fece d’improvviso pesante come cintura di piombo.

La catena

L’isola è già un ponte, ché s’è messa in mezzo tra blu e blu, si fece porto salvo per chi cerca altra sponda ed essa fa trampolino d’accoglienza, a limitar morto d’annego per viaggio di disperazione. Da una parte s’approda dall’altra si riparte, questo è destino d’isola. S’io tolgo blu da una parte, quella a quella parte dove blu venne meno appartiene e manufatto di cemento fu come catena a definire proprietà e prevalenza. Così ponte non unì, piuttosto disse è roba mia, dunque da qui non si passa. Ma di ponti già dissi, ma di quelli che reputai giusti, che tali altri mi parvero pretesto ancora di separazione.

Nazarene bianche, Nazarene nere.
Del fiume a le rive
si guardan da tanto i conventi,
si guardan con occhio di vecchia amicizia
le piccole torri, una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Due volte s’incontran, le bianche e le nere,
sul ponte, sul ponte che unisce i conventi,
li unisce da tanto per vecchia amicizia,
le piccole torri si guardan ridenti
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Le piccole chiese al crepuscolo s’aprono,
ne sortono leste le suore ed infilano il ponte;
nel mezzo s’incontran, s’inchinano
le bianche e le nere,
si recan l’un l’altre a la piccola chiesa al saluto;
vi fanno una breve preghiera
e leste rinfilano il ponte.
Di nuovo s’incontran, s’inchinan le file,
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
” (Aldo Palazzeschi)

I ponti li fecero generosi operai, pietra su pietra, bilichi delicati, arcate sorprendenti, manovalanze esperte di volontà a congiungimento di sponde di fiumi impetuosi, ed isole che divennero promontori. I ponti furono di progetto fatti ad unire da geniali architetti, su valichi di frontiera, sentieri di capre, terreni d’acquitrinio, paludi di creature fameliche che non fecero più paura.

Furono fatti di povere corde, di barche impilate, legni e pietre raccattati in un qualsiasi dove. Pure ce ne furono d’ingegnosi, che resistettero a millenni di barbarie, taluni si fecero immagini da cartolina, simboli, sperimentarono ardite soluzioni d’equilibrio. Tali altri furono fragili, si fecero a crollo drammatico, ma divennero metafora sorprendente di necessità di consolidamento di punti di contatto, allarme che non se ne mettesse a discussione l’esistenza, non se ne facesse per distrazione occasione d’abbattimento e rovinosa caduta. Solo nelle guerre, – allorché scorre il sangue di vinti e vincitori – come nella barbarie, s’abbattono i ponti.
Talora vi sono ponti che di progetto fecero a meno. Oceani a navigazione libera non sono forse ponti? Vette elevate non ebbero esse stesse, che d’animo impervio si tinsero, capacità di congiungere più che di far di divisione, a consentire all’occhio la curiosità dello sguardo che vaga sino all’oltre? Non furono financo i deserti nati quali ponti per essere attraversati in lungo e largo, per giungere d’oasi ad oasi, coste su coste? Non ebbero isole lontane sembianza di ponte, che fecero da ristoro per navigazioni senza precisa meta che non fosse di esclusiva scoperta?
Questa è dei ponti la natura più intima, l’unica necessaria, siano i ponti che abili manovalanze eressero dal nulla, solo armate di mani e sogno d’andare, desiderio di viaggio e sorpresa, siano anche fatti d’oro di nemico che fugge, e i ponti che non paiono ponti, come le vaste pianure, i grandi monti, le sterminate praterie, i mari infiniti. La storia degli uomini è la storia dei loro ponti, di quelli che costruirono, di quelli che elessero a tali, quelli che non ci furono. E se oggi quei ponti, come canali e fazzoletti di mare, qualcuno vuole chiudere, abbattere, doganare e seppellire, allora quel qualcuno nega volontà d’umanità di mille mila anni, di superamento di costrizione, della mente di trovare legittimo congiungimento con l’altrove. Dunque, nega se stesso quale ad appartenenza all’umana genia, se ne espulse, si mise a gattabuia e manco se ne rese conto, mentre provava ad assembrarci pure gli altri che si fecero gregge mansueto.

Al cospetto del grande tramonto

“Il sole già cade a piombo; tutto ora è sospeso e turbato, ogni moto coperto, ogni rumore soffocato. Non è un’ora d’ombra, né un’ora di luce. È l’ora della monotonia estrema. Questa è l’ora cieca; questa è l’ora di notte del deserto. Non si distinguono più le rocce tarlate, tigna biancastra fra la sabbia… Non c’è più né cielo né terra” (Giuseppe Ungaretti)

Pare che finì infinita kermesse che elevò il dibattito delle patrie armate sponde, che fu di grandissimo stimolo per riflessioni d’altro livello che non si videro a quotidiano.

Che ora ci tocca di tornare a cose futili come guerra – che parve una sola che altra non conta pure se a numero e vittima di peso diverso – e spaventoso cataclisma, che fu fortuna ch’ebbimo giornalistume illuminatissimo che relega a trafiletto argomentucci ancora più terra terra quali muoio di freddo per senza casa, m’ammazzo a lavoro per non arrivo a fine mese e, mi dice grande governatore di gioco a parallelismo con stato democratico, ch’è cosa assai disdicevole che alzo stipendio. C’è certezza che taluno meritevolissimo dà ascolto a consiglio di grande e raffinatissimo acume.

E c’è finalmente presa di posizione che ricchissimo trema più di disgraziato davanti a giustizia feroce che è a rimprovero che fece solo ciò cui fu avvezzo e educato che è rubo a quattro ganasce. Povero, del resto, se è ad arresto, si fece vitto e alloggio ad hotel cinque stelle a spesa di stato democratico, mi pare di capire. Pure, in fondo in fondo a giornalettume, tra necrologio ed annuncio d’asta per immobile un tanto al chilo causa fallimento, ci trovo cosa come disastro d’ambiente per cambio di clima, siccitosa campagna al freddo e al gelo. Fa spicco a buona notizia e somma letizia a ripresa di rimbalzo d’ogni prima pagina che mammasantissima si fa buono buono che cattivone fu ad arresto inaspettato, e pure si deve a sottolineo per digrigno di dente fatto che avviene sbarco di miliardo più, miliardo meno di clandestino per colpa di barcavendola di ong. Insomma, io, quasi quasi, pure se non ne vidi nota nemmeno notarella, mi auspico grande kermesse a durata illimitata, che tanto notizia a come si deve è e rimase a ricerca d’ago in pagliaio.

“Lo spettacolo è il brutto sogno della società moderna incatenata, che infine non esprime che il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il custode di questo sonno.” (Guy Debord)

La calce ed il cotto (parte seconda)

Pare che la natura s’attrezza a ripigliarsi il suo, che fece di terra che trema e vento di scirocco furibondo sue armi letali, a dispetto d’onnipotenza umana. Mi giunge voce, che son lontano assai in questo momento, che la fornace si sgretola malamente, a forza di bufera che non s’arresta. Mi sovviene che è poca cosa che pure anime migranti si misero a condizione d’inghiottimento per onda alta metri e metri. Ma è sempre cosa di miei ricordi che sparisce, e infonde tristezza di vertigine.

“Lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus orca) E a sommo di mestizia riprendo cosa antica.

“Mi dicono, taluni, ch’io vivo a nostalgia, che è cosa non rispondente al vero, poiché del bel tempo andato non ho affezione particolare, che fu tempo di travagli. Ma v’erano, tuttavia, marasmi di dettagli di solluchero allora, dunque – saggio di filosofia quale Epicuro – me li serbo ancora, che non sono più apparentati solo con quel tempo, rimangono nell’oggi, lontani, dunque, dall’essere esclusive rimembranze, come certe musiche che suonano ancora.

Talune di quelle cose si perdono, me ne dolgo e a quelle si, rivolgo rimpianto. Ozio e lentezze mi sono ancora cari, quali cenni di svago, pure cose di densità palpabile ancora m’appartengono. Preciso, invero, che mai mi rivolsi più di tanto ad affezionarmi alle cose di stretta proprietà, le tratto con svogliatezza, se escludo dal novero dischi e libri. Ma cose di legame ne conservo, che non sono mie, nemmeno mi sconvolge l’idea possano essere d’altri, che la bellezza rifiuta l’appartenenza, rifugge del concetto proprietario. Sempre, nella valutazione che non è bello ciò che è bello, che principio di bellezza, forse, non è fatto assoluto. Che di certe bettole che mi furono aule di scuola, sentii disquisire malissimo, in contrappunto non cantante con certe tavole apparecchiate a lusso. Di tali personaggi di cui m’innamorai, e che fecero storia contorta di sé, mi pare di ricordarne censura. Pure per certi vini, che sapevano di terra e sale, e mi vennero a conforto – financo d’economie approssimative – ricordo espressioni di disgusto.

La fornace, vecchia cattedrale che dalla punta si sdraia sulle onde, ghermisce di camino il cielo, e s’apparecchia al tramonto come quinta estatica sul tutto d’intorno, è una di quelle siffatte idee concrete che mi convive di simbiosi.

Seppure non me la godo quanto mi parrebbe, me ne faccio racconto, memoria presente, e il reincontro attendo con le ansie vaghe di chi ha caduca certezza delle cose. Consunta nelle malte incendiate, lei, s’è retta – capolavoro d’architetti che non pensarono alla storia – un secolo e più, d’equilibri precari di pietre, sottese a leggerezza, a sorreggersi l’un con l’altra, pare, a dispetto di leggi newtoniane, pure di convenzioni socio(il)logiche nelle contraddizioni dell’oggi. Ma ogni anno, il rinnovato afflato, mi pare che s’abbandoni al desiderio di sparire e, mentre mi rendo ancora nessuno al suo cospetto, lei adesso smunge, si compenetra con la sabbia generatrice, s’affolla di salsedini e si concede al vento, pietra su pietra. Mi dice, or ora, il maestro sulla punta del corvo, di pennelli e scalpelli assai edotto, che s’amputò un’ala, che quella mai rivedrò se non in cocci. Un po’ più monca, piano piano, la fornace pare s’arrende, forse al desiderio di divenire nostalgia, ricordo d’ozi e lentezze, sigarette rubate, in bilico di falesia. O forse issa bandiera bianca di calce e cotti sul comignolo più alto, per sopraggiunta noia e stanchezza di irruzioni cash & carry.

Palla al centro

Sul far della sera tornarono in paese, aprirono il circolo e si misero a giocare a carte. Dìaz rimase tutta la sera senza parlare, gettando all’indietro i capelli bianchi e duri finché dopo mangiato s’infilò lo stuzzicadenti in bocca e disse:

– Constante li tira a destra.

– Sempre, – disse il presidente della squadra.

– Ma lui sa che io so.

– Allora siamo fottuti.

– Sì, ma io so che lui sa, – disse el Gato.

– Allora buttati subito a sinistra, – disse uno di quelli che erano seduti a tavola.

– No. Lui sa che io so che lui sa, – disse el Gato Dìaz e si alzò per andare a dormire”. (Osvaldo Soriano)

Che io con le cose di Soriano mi ci ritrovo, ché c’è autentica passione d’accalorarsi a tavolo d’osteria, sino a sfinimento di parziale ubriacatura senza desiderio di menar le mani. Io, lì, a osteria e bettola consunta, in genere a retroporto, crebbi ed imparai tanto. A slamare pesce grosso, per esempio, a dov’è spiaggia di delizia anche, ad attenzione e guardia alta per evito rosso allungato causa spuntatura a devianza verso aceto. Detta gente che tali luoghi affolla e di cui feci parte, poco capisce che taluno a piani molto alti ha chiaramente a disprezzo che esista umanità varia che non s’appassiona a volere guerra, che già piange per disgrazia sua e magari si fa briscola pazza a gioco d’azzardo per in palio bicchierino. Anela, al più, di farsi il secondo e poi due o tre passi a vedere se Pilu Rais tirò a secco una rete con pesce giusto per la matalotta della sera. Ma mondo civile non funzionava a volere di popolo, che così si disse? E chi chiese, a sondaggio preciso, che detto popolo abbia tal desiderio di partecipazione di grande tenzone universale a bombarda definitiva che grandi e civilissimi governi fanno a rincorsa a dire io ci sto? Non sono sicuro, che forse a fatto di detto sondaggio passò qualcuno meritevolissimo a chiedere, e a me sfuggì di dar risposta ch’ero già a fronte mare dopo terzo o quarto bicchiere. E si sa che chi non partecipa fa suo il torto. Ma mi venne pensiero che quella che si fa a gioco pare partita di pallone a porta serrata da ottomiliarducci di portieri scadenti, che cannoniere a tirar rigore non sgancia grande pallonata a destra o a manca, ma fa far botto a tutti insieme con petardo robusto. E l’arbitro, di grande illuminazione, tirò fuori cartellino rosso ad espulsione di squadra numerosa ad intero, che quella ebbe a scarso senso di sport di sporcar terreno di gioco. E poi palla al centro che campionato ebbe fine.

A specchio, lo sguardo mancato

Non c’è progresso fermo e irreversibile in questa vita; non avanziamo per gradi fissi verso l’ultima pausa finale: attraverso l’incanto inconscio dell’infanzia, la fede spensierata dell’adolescenza, il dubbio della gioventù (destino comune), e poi lo scetticismo, e l’incredulità, per fermarci alla fine, maturi, nella pace pensosa del Forse. No, una volta arrivati alla fine ripercorriamo la strada, e siamo eternamente bambini, ragazzi, uomini e Forse. Dov’è l’ultimo porto da cui non salperemo mai più? In quale etere estatico naviga il mondo, di cui i più stanchi non si stancano mai?” (Herman Melville)

Che questa è terra che di bellezza fece sua condanna inesausta, che di figli che sono suoi e che tali si sentono, farà per forza a meno, che non c’era scampo a partenza. E come fratello, padre, madre, sorella, Lui è a sommo d’arguzia di sapere, di temere destino d’altri prossimi, che ad esorcismo esatto dell’io so, sostituisce il non dico che sarà strappo furibondo, mancanza di vertigine. Questa è terra che di bellezza fece condanna suprema, che mai vi fu a goderne senza patimento estremo di chi seppe coglierla. Fu terra che accolse pure chi non meritava accoglimento, che ricambiò cortesia d’ospitalità con violenza di fare sorprendente d’inumano. Quelli rimasero, a perpetrare l’orrore della trasformazione d’abbrutimento. Chi seppe che doveva stare a goderne non ebbe strumento di sopravvivenza, quale esiliato dovette muoversi a cercare tesori d’effimero, porto salvo, come per veleggiare di barcaccia fenicia di pescatori di tormente, rossi di sangue e di porpore di murici. Terra che respinse i suoi figli d’altra sponda che Lui voleva salvare da deriva. Talora, Lui se ne fece carico, ch’è dato meglio una sofferenza d’istanti, tra le braccia di sale generatore che l’orrenda, eterna, reprimenda dei vivi già morti, ad accusar d’essere nati a sponda diversa da quella data per giusta. Questa fu, è, sarà terra che fa a prezzo di strozzo prestito di bellezza, e pretende pagamento esoso per essersene imbattuti a coincidenza d’esservi nati.


E quelli che vi giunsero non furono accolti se non per essere vilipesi, quando non vi giunsero armi in pugno, a dettar legge del più forte sono io, che detti vennero blanditi. Ed altri che noi fummo andarono e non si fermarono se non per voltarsi a riempire ogni vena, ogni arteria, il più piccolo capillare d’eterna, infinita nostalgia. Eppure fummo noi a dire nave non salpa a salvar vite, a far ciò che serve a nave che si fece varo, abbracciare altre terre, altre genti, sollevare da flutto, e non per cima tesa ad ancoraggio a porto salvo per bufera, ma per diktat a rifiuto di sguardo a specchio.

Okkio

Che meraviglia a giocar di fregola di clava che a luogo di quella si usa disgraziato a ripescaggio da annego sicuro che io non lo voglio e neppure io. Che meraviglia risveglio d’orgoglio sacro d’imperi, che a far due conti pareva che fossero già a puzzo di putrefazione a caldo che cuoce, e ora, a momento di son desto, pure peggio pare odore nauseabondo ch’emana da presidi imperituri di culla di civiltà varie e sparse. Ma io faccio opposizione a riflesso emetico spontaneo, e mi do a raccontar di riciclaggio favola che la morale non la scrissi, che ognuno ci veda quel che gli pare.

“Era così piccolo, il topolino, che da quella feritoia sotto il battiscopa ci passava solo lui, manco quel forellino era visibile agli occhi della coppia di contadini che abitavano la casa. Era più piccolo pure degli altri topolini dei dintorni, era nato così, ma quello che pareva svantaggio fu fortuna sua che lo rese invisibile. Nella sua tana ci stava comodo comodo ed era felice. La mattina, quando i due umani uscivano di casa, lui veniva fuori di lì e raccattava le mollichine sotto il tavolo, che si faceva dei bei pranzetti. Qualche volta cascava anche qualche pezzo di buccia di cacio e per lui era festa grande. Se la portava nel suo rifugio e pure ci beveva sopra qualche goccia d’acqua che veniva giù da un tubo rugginoso. Stava bene ed era contento.

Pure si sentiva utile ché, a ripulire d’avanzi il pavimento, faceva che la casa non s’infestasse di formiche. Una sera, che s’era saziato, se ne stava in panciolle quando udì uno strano armeggiare da oltre il battiscopa. Da un forellino lì nei pressi puntò l’occhio a cercar di capire che succedeva. Il contadino stava mettendo su qualcosa di tremendo, una trappola proprio per lui. Non ne aveva mai vista una, ma la riconobbe facile, che gliela aveva descritta un tempo, ch’era ancora un sorcetto da nulla, un suo zio. Quello, lo zio, c’era incappato malamente e ci aveva rimesso la coda che non ebbe più equilibrio e camminava che pareva ubriaco. La notte la passò a tremare di paura, era terrorizzato che non sapeva che altro stessero preparando per dargli la caccia, nemmeno era convinto si fossero fermati alla trappola. La mattina, che ancora tremava e nemmeno aveva chiuso occhio, appena udì che i due se ne uscirono di casa, si precipitò fuori che non ebbe manco il coraggio di razzolare sotto il tavolo della cucina per far colazione. Giunto nell’aia, cominciò a squittire così forte che la gallina, il maiale e la mucca lo udirono e si precipitarono per capire cosa stesse succedendo. “Cosa c’è, sorcetto? – Disse la mucca – Cos’hai da urlare?”. Tremando, spaventato pure dall’idea di non riuscire a farsi capire, il topolino disse che aveva visto tirar su quella macchina infernale, la trappola. Ma la gallina gli fece pronta: “Io capisco che tu possa essere preoccupato, ma cosa c’entriamo noi? Non è mica per noi quella cosa?” E pure il maiale disse la sua: “Caro sorcio, mi dispiace veramente per te, ma, tutto sommato, non è un problema nostro”. Infine la mucca: “Eh, caro sorcio, il destino ci appartiene e come tale dobbiamo occuparci ciascuno del nostro. Comunque, ti auguro buona fortuna”. Ridendo e sghignazzando, i tre si allontanarono. Il topolino, adesso, oltre che terrorizzato, era pure mortificato, si sentiva umiliato, invisibile più di quanto la sua piccola statura ce l’avesse reso. Sfidando la sorte se ne tornò al suo buco, zampetta dopo zampetta, guardingo e tremante. Quella notte stessa, si sentì un gran frastuono provenire da oltre il battiscopa, un rumore tale da paralizzarlo. Ormai era certo che oltre quella barriera sottile si stava consumando qualcosa di orribile. Ma volle guardare ancora dal forellino spia. La trappola era scattata, ma su un serpente velenoso che, prima d’essere ucciso dal contadino, era riuscito a mordere la donna ch’era stramazzata al suolo tra le urla. Persino si dispiacque, il topolino, che alla fine la coppia l’aveva pure sfamato. Fu fortuna per la donna che i medici riuscirono ad intervenire rapidi e le salvarono la vita. Ma la convalescenza fu lunga e il contadino sapeva che la miglior medicina per un malato è un bel brodino caldo. Così ammazzò la gallina e lo preparò alla sua compagna. Non passarono che poche settimane che quella si rimise in piedi completamente guarita, e fu tanta la gioia che organizzarono una grande festa invitando tutto il vicinato. Con tutti quegli ospiti a festa, per la grazia ricevuta da Domineddio, non si poteva che ammazzare il maiale. Ma finiti i bagordi, giorno dopo giorno, i due sposi dovettero fare i conti con i debiti accumulati per pagar le cure, addivenendo all’unica conclusione che occorreva vender la mucca al macellaio. La povera bestia fu caricata su un carro, e quando giunse al mattatoio, vide tra le ultime sue lacrime, l’immensità della trappola per topi.”

Sdoppiamenti

Quando mi sdoppiai, non fu cosa d’improvviso, ma avvenne a gradualità a fatto di lockdown. Che comunque io la sensazione di doppio ce l’avevo, ma non era lampante, si faceva a gioco di capolino di tanto in tanto che mi era a estraneo un tale che poi ero pure io. La cosa non mi pesava, che pensavo non era grave. Ma al che me ne stetti a chiusura d’obbligo solo con me medesimo, e poi a reiterata quarantena a più e più riprese, mi fece dimostrazione scientifica d’evidenza.

Che poi io e quell’altro abbiamo affinità consistenti, direi, e non solo a fatto che condivisione di corpo medesimo è vincolo a fughe di divergenza notevolissima, ma anche che c’è precisa condivisione di principio.

È la risposta a tale condivisione che è differente, mi pare che è ciò che deriva dall’essere più o meno a legame con proprio vissuto di quotidianità andata. Ch’egli, altro me, intendo, affronta questione di petto, ad abnegazione non si tira indietro. Non fa a lascio intentato, che a busso di porta apre sempre. Egli s’affastella a disperazione, mai se ne sta fermo pure che a sfianco s’appresta spesso ed anche a volentieri. Financo fa a meno di sé stesso e di cose che ad egli aggradano. Io me ne starei, invero, a fare più tranquillo, a far nulla mi ritrovo più propenso. Che, in pratica, a me tocca di vivere quando lui s’acquieta. Il punto è che c’è impedimento a che io mi faccia niente e nessuno liberamente, che suddetta condivisione di carne, sudore e sangue è vincolo assai efficace. Dunque, c’è attraversamento di momento in cui egli ha priorità su me, mi trascina a destra e manca, a incombenza infinita che pare autorigenerante se stessa e mai si ferma a lasciar scorrere il tutto d’intorno. E mi faccio venia con altri che passano qui che talora mi dolgo di scarsa presenza, e pure prendo talora pausa lunga da questa che è casa mia, ci feci residenza e ad altro me non consetii di metterci naso con sua precisa condizione anagrafica, che questo – bloghettino di sassi senza nome, voglio dire– è spazio mio riservatissimo.

Comunque una cosarella, oggi, a dono per me e per chi ve ne legge assoluta, elevatissima verità filosofica, la lascio.

Nonostante la mia pigrizia, ho fatto un mucchio di cose che non avrei dovuto fare. Però ho confermato l’esattezza del suo giudizio per quanto riguardava il tralasciare di fare molte cose che non avrei dovuto assolutamente tralasciare. La mia pigrizia è sempre stato il mio cavallo di battaglia. Ma non mi vanto di ciò, è un dono di natura. Sono in pochi a possederlo. C’è una gran quantità di pigri, ci sono mascalzoni a bizzeffe, ma un ozioso genuino è una rarità. Non è il tipo che se ne va in giro con le mani in tasca. Al contrario, la sua più sorprendente caratteristica sta nel fatto che è sempre vorticosamente indaffarato. Infatti è impossibile godere della pigrizia fino in fondo se non si ha parecchio lavoro da compiere. Non è affatto divertente non far nulla quando non si ha nulla da fare. Perdere tempo diventa allora una mera occupazione, e un’occupazione tra le più affaticanti. L’ozio è come i baci, per essere dolce deve essere rubato. Molti anni fa, quand’ero un ragazzo, mi ammalai gravemente: non sono mai riuscito a capire che cosa avessi di tanto grave, a parte un bestiale raffreddore. Immagino però che si trattasse di un malanno molto serio perché il dottore mi spiegò che sarei dovuto andare da lui un mese prima, e se la mia malattia (fosse quel che fosse) fosse durata per un’altra settimana, lui non avrebbe risposto delle conseguenze. Pare impossibile, ma non ho mai saputo di un medico chiamato a curare un qualsiasi ammalato, senza che si scoprisse che un altro giorno di indugio avrebbe reso impossibile la guarigione. La nostra guida sanitaria, filosofo e amico, è come l’eroe di un melodramma: compare sulla scena solo ed esclusivamete all’ultimo minuto utile”. (“Pensieri oziosi di un ozioso” – Jerome K. Jerome)

Un ponte

Nazarene bianche, Nazarene nere.
Del fiume a le rive
si guardan da tanto i conventi,
si guardan con occhio di vecchia amicizia
le piccole torri, una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Due volte s’incontran, le bianche e le nere,
sul ponte, sul ponte che unisce i conventi,
li unisce da tanto per vecchia amicizia,
le piccole torri si guardan ridenti
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Le piccole chiese al crepuscolo s’aprono,
ne sortono leste le suore ed infilano il ponte;
nel mezzo s’incontran, s’inchinano
le bianche e le nere,
si recan l’un l’altre a la piccola chiesa al saluto;
vi fanno una breve preghiera
e leste rinfilano il ponte.
Di nuovo s’incontran, s’inchinan le file,
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
” (Aldo Palazzeschi)

I ponti li fecero generosi operai, pietra su pietra, bilichi delicati, arcate sorprendenti, manovalanze esperte di volontà a congiungimento di sponde di fiumi impetuosi, ed isole che divennero promontori. I ponti furono di progetto fatti ad unire da geniali architetti, su valichi di frontiera, sentieri di capre, terreni d’acquitrinio, paludi di creature fameliche che non fecero più paura.

Furono fatti di povere corde, di barche impilate, legni e pietre raccattati in un qualsiasi dove. Pure ce ne furono d’ingegnosi, che resistettero a millenni di barbarie, taluni si fecero immagini da cartolina, simboli, sperimentarono ardite soluzioni d’equilibrio. Tali altri furono fragili, si fecero a crollo drammatico, ma divennero metafora sorprendente di necessità di consolidamento di punti di contatto, allarme che non se ne mettesse a discussione l’esistenza, non se ne facesse per distrazione occasione d’abbattimento e rovinosa caduta. Solo nelle guerre, – allorché scorre il sangue di vinti e vincitori – come nella barbarie, s’abbattono i ponti.
Talora vi sono ponti che di progetto fecero a meno. Oceani a navigazione libera non sono forse ponti? Vette elevate non ebbero esse stesse, che d’animo impervio si tinsero, capacità di congiungere più che di far di divisione, a consentire all’occhio la curiosità dello sguardo che vaga sino all’oltre? Non furono financo i deserti nati quali ponti per essere attraversati in lungo e largo, per giungere d’oasi ad oasi, coste su coste? Non ebbero isole lontane sembianza di ponte, che fecero da ristoro per navigazioni senza precisa meta che non fosse di esclusiva scoperta?
Questa è dei ponti la natura più intima, l’unica necessaria, siano i ponti che abili manovalanze eressero dal nulla, solo armate di mani e sogno d’andare, desiderio di viaggio e sorpresa, siano anche fatti d’oro di nemico che fugge, e i ponti che non paiono ponti, come le vaste pianure, i grandi monti, le sterminate praterie, i mari infiniti. La storia degli uomini è la storia dei loro ponti, di quelli che costruirono, di quelli che elessero a tali, quelli che non ci furono. E se oggi quei ponti, come canali e fazzoletti di mare, qualcuno vuole chiudere, abbattere, doganare e seppellire, allora quel qualcuno nega volontà d’umanità di mille mila anni, di superamento di costrizione, della mente di trovare legittimo congiungimento con l’altrove. Dunque, nega se stesso quale ad appartenenza all’umana genia, se ne espulse, si mise a gattabuia e manco se ne rese conto, mentre provava ad assembrarci pure gli altri che si fecero gregge mansueto.

E musica sia, quale che sia? Reloaded

A viaggio lungo e periglioso ad attraversare lo stivale, cercando d’evitare incidenti con ricorso a stradine collaterali ad autostrade assolate, mi fa compagnia musica mia, pure debbo prestare attenzione ad accorati appelli di sicurezza stradale per non imbattermi nella fila del secolo. Che tra l’annuncio della coda e della bisarca intraversata a blocco di traffico, mi sorbisco note a va per la maggiore, che a baretto di campagna mi tocca di far fermata a frequenza indefinita per non soccombere alla gastrite. Fu così che mi ricordai di cosa già scritta, che ve la rifilo all’oggi. Con accompagno giusto e rinnovato, s’intende.

“Avevo in casa, la filodiffusione, che paiono passati secoli, pure forse è così. Tuttavia, c’era la Hit Parade di Lelio Luttazzi ed al primo posto ci capitava roba come Angie, dei Rolling Stones. Non è cosa che mi facesse impazzire, mi pareva corta, finiva subito, ma certo schifezza non si poteva dire che fosse. Che io, che sono lento di comprendonio, ho bisogno che la cosa si prolunghi assai per entrarci dentro, se neppure mi basta per una mezza sigaretta, ci resto male, che almeno me l’accompagni fino alla fine, mica dico che me ne faccia fare una stecca più fiasco di vino. Ad ogni buon conto, che è da allora che non mi guardo intorno, che mi avvito al me e basta, mi salta lo sghiribizzo, così, per pura celia, d’andarmi a vedere che c’è ora ai piani alti del disco. Che poi di dischi mi sa che non se ne praticano più, che mi pare che sono l’unico che se ne compra qualcuno ogni tanto.

Mi parrebbe lesa maestà che, per esempio, vi proponessi cosa musicale che non posseggo in un qualche formato, compreso musicassetta originale. Non per adesione incondizionata al diritto d’autore, piuttosto per quella condizionata al dovere di condivisione, roba tra il me e quello che suona. Che poi a quello che suona quanto gliene importa se il me nessuno s’affascina di sue produzioni, piuttosto, ho idea, gli viene a sommo del petto la gioia sublime del me con cognome e nome, timbrati e firmati a sindacatura, che ci ha messo la cinquemila lire. C’è il capitalismo, ch’è cosa che non mi sfugge. Poi mi sovviene a giusto, che dovrei anche andare a vedere di che s’accomodano a delizia i ragazzi dell’oggi, che sono pure quelli a cui insegno cose esatte come i numeri. Insomma, mi rendo smanettone e mi faccio edotto di classifiche ed hit, ascolti e vendite – pari a poco assai, mi pare di capire -. Mi seleziono dieci o dodici cose di quelle più a gettone – che scrivo pure d’antico – e m’avvedo, orribilmente, che non ve n’è nessuna che conosca, che paio uno finito in queste stagioni con una scalcagnata macchina del tempo, assemblata alla meno peggio nel secolo breve. Me le ascolto, financo con attenzione e trattengo una certa disillusa frustrazione, che a me paiono tutte uguali, che sarà pure che non sono aduso. Ma d’acchito immediato m’adombro, che i testi pare che glieli scrive Pappagone post sbronza, che le musiche ce le hanno infilate a forza dal carillon della nonna. Fortuna vuole che durano il tempo d’uno sbadiglio, che la suite non si prevede. Che ci fu tempo che riconoscevi il chitarrista dalla prima nota ed il batterista dal primo rullare, per non parlar di piani e fiati, financo della solitudine della chiave di sol, nella tesssitura del tappeto di sotto. Che certi testi t’agghindavano a liturgico religioso silenzio. Mi ritraggo, mi sgomento, poi m’avvedo, che pare che sia una mia lezione, con tasso d’attenzione che pare il minimo comune divisore, l’uno e basta che val bene per tutti. Che mi devo reinventare a teatro tra Pitagora ed Euclide per non far scappare tutti dalla finestra, non farmi mettere le mani addosso. E che devo dire ancora, che era meglio che mi ricordavo della buonanima di Lelio Luttazzi, che già mi pareva un tanto così e così?”