Il tempio del mercante
«Già morta, già cosa, quando ancora dobbiamo viverla, la nostra epoca è sola nella storia e codesta solitudine storica influisce fin sulle nostre percezioni: ciò che noi vediamo “non ci sarà più”; si riderà delle nostre ignoranze, ci si indignerà delle nostre colpe. Quale risorsa ci rimane?» (Jean Paul Sartre)
Sono un vecchio delegato sindacale, uno di quelli che lo fa da vent’anni senza mai aver preso una lira. Mi occupo anche di sicurezza come rappresentante dei lavoratori. So cose, si direbbe. Mi formo e mi informo, ne ho la responsabilità, me la sono presa, non me l’ha ordinato il dottore. Sono pure uno che rompe abbastanza. Di quello che è successo ieri a Firenze ne ho parlato in altre sedi. Ci sono le cose che i giornali riportano, il giochino del cordoglio, le richieste di dialogo per chiudere le stalle mentre i buoi già corrono per i campi. C’è la logica del subappalto, gran risparmio, una certa leggerezza nell’affidare pezzi della produzione in terzocontismo, senza che sia ben chiara a tutti la catena dei processi. Corpi alieni nel ventre di una balena.
Tempo fa, non troppo, proprio a vista di casa mia, un tale che conoscevo appena, giusto un ciao al bar per le sigarette ed il caffè la mattina, è finito in una tramoggia, ha lasciato famiglia, un ragazzino complicato. Ho sentito le ambulanze, un certo frastuono. Dopo un paio di giorni la notizia è sparita, pure se già era solo roba da trafiletto. Come sparirà quella di Firenze fra qualche giorno, come sono spariti gli altri mille trafiletti dell’ultimo anno. Sono tornato ieri sera tardi da Firenze, c’erano momenti concitati, ovvia rabbia, occhi puntati su leggi fatte per far ricchi i più ricchi. Ogni tanto il morto ci scappa, ma finisce nella tramoggia anche quella notizia. Non succederà niente oltre la retorica della commozione dell’istante, il cordoglio unanime, il parliamone. Ma cosa ci sia da parlare non mi è mai stato chiaro, o meglio, mi è chiaro l’oggetto del contendere, non capisco perché bisogna parlare di certe ovvietà. Lo scontro è ideologico, non c’è vittima che tenga. Si dirà che ci vuole più formazione, più informazione. Si investirà tre centesimi in più su quello, il resto, si dirà, non c’entra.
Ma questa tragedia di Firenze ha però qualcosa di particolare, e non solo per il numero delle vittime. Ci riflettevo mentre cercavo di non investire i cinghiali sulla via del ritorno. Per la stessa strada provavo a non scivolare sul ghiaccio sino all’anno scorso, a non farmi cogliere dalla inevitabile tormenta di neve. In quest’inverno tropicale mi sono pure fermato ad oltre mille metri, in riva al bosco, per fumare con l’aria fresca. A Firenze si è consumata una metafora potente dell’oggi. I templi della merce vanno costruiti, non ce n’è mai abbastanza per deificare il consumo. Vi invito a guardare chi sono le vittime. C’è un signore che sino a qualche anno fa sarebbe già stato in pensione. Viene dall’Abruzzo, s’era spostato per lavoro probabilmente, e ne aveva accettato uno che non pare semplice. Non tornerà più a casa, nemmeno nella sua piccola provincia, per le festività, le vacanze estive, a salutare vecchi amici, i parenti. Gli altri sono nordafricani, un paio pare senza permesso di soggiorno. Sono quelli che facciamo finta di non vedere se annegano, che non vogliamo, che vorremmo cannoneggiare, poi sotto traccia ne usiamo le braccia per fabbricarci lustrini festosi, i luoghi divini del consumo, ché altri non s’adatterebbero a certe fatiche.
E quell’immenso tempio s’è fatto un detrito nella città della storia mortificata, sotto le sue macerie ancora le anime degli ultimi, quelli attaccati alla ricerca disperata d’una vita dignitosa con le unghie e coi denti, che non hanno nome, quelli che non saranno mai a Sanremo, nemmeno vinceranno uno slam. Domani è un altro giorno, la fila alla cassa non si esaurisce, in attesa delle rovine del prossimo tempio, delle nuove vittime sacrificali immolate al nostro shopping domenicale.