Il tempio del mercante

«Già morta, già cosa, quando ancora dobbiamo viverla, la nostra epoca è sola nella storia e codesta solitudine storica influisce fin sulle nostre percezioni: ciò che noi vediamo “non ci sarà più”; si riderà delle nostre ignoranze, ci si indignerà delle nostre colpe. Quale risorsa ci rimane?» (Jean Paul Sartre)

Sono un vecchio delegato sindacale, uno di quelli che lo fa da vent’anni senza mai aver preso una lira. Mi occupo anche di sicurezza come rappresentante dei lavoratori. So cose, si direbbe. Mi formo e mi informo, ne ho la responsabilità, me la sono presa, non me l’ha ordinato il dottore. Sono pure uno che rompe abbastanza. Di quello che è successo ieri a Firenze ne ho parlato in altre sedi. Ci sono le cose che i giornali riportano, il giochino del cordoglio, le richieste di dialogo per chiudere le stalle mentre i buoi già corrono per i campi. C’è la logica del subappalto, gran risparmio, una certa leggerezza nell’affidare pezzi della produzione in terzocontismo, senza che sia ben chiara a tutti la catena dei processi. Corpi alieni nel ventre di una balena.

Tempo fa, non troppo, proprio a vista di casa mia, un tale che conoscevo appena, giusto un ciao al bar per le sigarette ed il caffè la mattina, è finito in una tramoggia, ha lasciato famiglia, un ragazzino complicato. Ho sentito le ambulanze, un certo frastuono. Dopo un paio di giorni la notizia è sparita, pure se già era solo roba da trafiletto. Come sparirà quella di Firenze fra qualche giorno, come sono spariti gli altri mille trafiletti dell’ultimo anno. Sono tornato ieri sera tardi da Firenze, c’erano momenti concitati, ovvia rabbia, occhi puntati su leggi fatte per far ricchi i più ricchi. Ogni tanto il morto ci scappa, ma finisce nella tramoggia anche quella notizia. Non succederà niente oltre la retorica della commozione dell’istante, il cordoglio unanime, il parliamone. Ma cosa ci sia da parlare non mi è mai stato chiaro, o meglio, mi è chiaro l’oggetto del contendere, non capisco perché bisogna parlare di certe ovvietà. Lo scontro è ideologico, non c’è vittima che tenga. Si dirà che ci vuole più formazione, più informazione. Si investirà tre centesimi in più su quello, il resto, si dirà, non c’entra.
Ma questa tragedia di Firenze ha però qualcosa di particolare, e non solo per il numero delle vittime. Ci riflettevo mentre cercavo di non investire i cinghiali sulla via del ritorno. Per la stessa strada provavo a non scivolare sul ghiaccio sino all’anno scorso, a non farmi cogliere dalla inevitabile tormenta di neve. In quest’inverno tropicale mi sono pure fermato ad oltre mille metri, in riva al bosco, per fumare con l’aria fresca. A Firenze si è consumata una metafora potente dell’oggi. I templi della merce vanno costruiti, non ce n’è mai abbastanza per deificare il consumo. Vi invito a guardare chi sono le vittime. C’è un signore che sino a qualche anno fa sarebbe già stato in pensione. Viene dall’Abruzzo, s’era spostato per lavoro probabilmente, e ne aveva accettato uno che non pare semplice. Non tornerà più a casa, nemmeno nella sua piccola provincia, per le festività, le vacanze estive, a salutare vecchi amici, i parenti. Gli altri sono nordafricani, un paio pare senza permesso di soggiorno. Sono quelli che facciamo finta di non vedere se annegano, che non vogliamo, che vorremmo cannoneggiare, poi sotto traccia ne usiamo le braccia per fabbricarci lustrini festosi, i luoghi divini del consumo, ché altri non s’adatterebbero a certe fatiche.
E quell’immenso tempio s’è fatto un detrito nella città della storia mortificata, sotto le sue macerie ancora le anime degli ultimi, quelli attaccati alla ricerca disperata d’una vita dignitosa con le unghie e coi denti, che non hanno nome, quelli che non saranno mai a Sanremo, nemmeno vinceranno uno slam. Domani è un altro giorno, la fila alla cassa non si esaurisce, in attesa delle rovine del prossimo tempio, delle nuove vittime sacrificali immolate al nostro shopping domenicale.

San Lento

San Quello Lì io non lo vedo. Nulla contro a chi invece se ne pasce e d’allegria si sollazza. Non penso che a casco di bomba, a crisi di sistema, a fatto che clima pare a pazzia pura si risponda con ascesi spirituale e collettiva prostrazione. Talora cenno di svago è cosa di legittimissima aspirazione e non me ne dolgo con asprezza di distacco. È che non lo capisco, non me ne viene gana di farmelo piacere. Non mi sconfinfera la canzonetta, pur se ammetto che taluna possa essere cosa ben fatta e pensata ad adeguato artistico valore. La verità è che mi subentra noia a dodici secondi, son cose che m’assonnano, m’irritano, mi angustiano a prime due note. E vivaddio che durano un paio di minuti o poco più. Ch’io adoro cose che durano una pestilenzialità di tempo e pure se finiscono ad libitum d’infinito, mi pare che durarono poco. E ve n’offro carrellata, che se avete pazienza di mettervi lì ve le ascoltate a mo’ di «che m’importa se ho da fare, ora mi faccio questo.»

Ché io ci ho vizio autentico, da che sono bambino, d’evitar di far cosa mordi & fuggi, anelo al bisogno di prendermela comoda, e se c’è suonata che dura impedimento d’ogni cosa altra, io ci vado a nozze pure se ci son solo fichi secchi, basta c’è da bere. Poi mi capita che se sento musica ci ho pure bisogno d’avvertire che taluno la suona e la suona con rispetto di tal altro che deve poi dar cambio a far nota a divergenza di quanto s’aspetta. E non mi manca desiderio che ad ascolto viene altro ancora che pare come primo che mi spiana la strada e mi fa cogliere sfumature che ad ascolto precedente non s’erano palesate. Ancora procedo a lunghezza, che con brani a numero ch’entrano a mano singola ci faccio durata di musica di tutto San Cosarello.

Sarà che c’è dipendenza di tale cosa mia dall’esser fatto a risma esatta di pescatore di scoglio, che fece d’attesa d’abbocco ragion d’essere propria, e che mette in detta attesa la prassi consueta della contemplazione. Senza contemplazione non s’apre orizzonte e nemmeno fu detta scelta di preferenza cosa di metafisica, ma proprio d’appagamento preciso di piacere estremamente materiale che materia, a mio dire, non pare cosa sgarbata e d’impraticabilità per costumanza morale.

Viceversa mi pare che attesa e contemplazione facciano far pace a sensi e natura senza impedimenti ed asprezze, procedano a dilatar pupille pure ad occhio serrato, pure a sturar narici per essenza di perfezione. Quello avviene senza distrazione di lustrino, si fa invece a sotto traccia e diventa percettibile sotto pelle per brivido intensissimo.

Ch’io non ci ho fretta che finisca certa cosa, sia che sia musica od altro, pure libro se è a finir presto mi abbandona a troppo niente, pure se niente è interessante. E mi capita di leggere recensione di libro che dice che è agile e si legge facilmente. E perché mai dovrei leggere facilmente un libro o quant’altro farmelo piacere a minutino pure ad ascolto? Che se non c’è neurone che si mobilita a lettura d’interstizi tanto vale che faccio parole crociate a sottofondo di ticchettio di sveglia, che tanto è uguale e non fa sorpresa. A me la sorpresa m’aggrada, pure se non anelo a fatti roboanti, ma a dettagli che si palesano uno ad uno, a far fittissima rete d’armonie cangianti, di parole spese bene a costruire orditi imperscrutabili, foreste di sensazioni che s’accompagnano a magnificenza con certi fiaschi di vini contadineschi il cui fondo rutila di percezioni fruttate e salmastre intuizioni.

Ed io non sono a pretesa d’esser condiviso a pensiero mio, non me ne faccio cruccio se c’è preferenza di grande kermesse armata a miliardo e presenza multipla rutilante. Ma mi vien da pensare che pare pensiero delegato, attrezzatura per anestetico di massa, arena di gladiatorume. Non ho critica radicale, è solo cosa che mi balugina in meningi forse sfatte, forse in procinto d’esser tali a breve.

Detto questo non faccio proselitismo, mai mi riuscì nemmanco ci provai, ma a sommesso consiglio fate partir la musica. Ch’io un poco ve l’ho offerta, che altra ce n’è in giro che insegna a guardar lontano, magari non a tutti, che forse altri lo sguardo ce l’hanno già altrove tanto son avanti. Io sono indietro, ho bisogno di tempo, pure d’un bicchier di vino.

Profumo di stagione

Ogni mattina, mentre era all’obitorio, udiva alle sue spalle la confusione del pubblico che entrava e usciva.
La Morgue è uno spettacolo alla portata di tutte le borse, che qualunque passante, povero o ricco, si concede gratuitamente. La porta è aperta, entra chi vuole. Ci sono ammiratori che allungano il cammino pur di non perdersi una di queste rappresentazioni della morte. Quando le lastre di pietra sono spoglie, la gente esce delusa, come defraudata, biascicando proteste. Quando sono ben fornite, quando c’è sfoggio di carne umana, i visitatori accorrono numerosi per procurarsi emozioni a buon mercato
.” (Émile Zola)

Pare che ci si abitui allo spettacolo dell’atroce, ci si assuefà come al puzzo di pesce sfatto che c’è in certe pescherie che vendono cose a buon mercato, roba che ha cominciato a fare compleanni sui banchi anziché nuotare libera negli oceani. Se ci stai un po’ ne hai disgusto, ti lavi e ti rilavi, t’inondi di profumi – pure quelli a buon mercato, si presume per il fatto che frequenti certi posti – ma quel puzzo non ti lascia in pace, ti rimane nelle narici, non sai come levartelo di dosso. Poi, col tempo, ti ci abitui, quindi non lo senti più. È fatto naturale, i sensi servono a mostrarti l’imprevedibile, la cosa spiazzante a cui non sei aduso, ti addestrano alla fuga. È una cosa biologica, genetica, appartiene a tutti i viventi. La percezione di sé e del proprio ambiente si fa manifesta nelle variazioni, non nella persistenza, nel consueto.

Questo pare ci tocca, assuefazione ad ogni stramaledetta cosa nefasta ci si para davanti. E semmai c’è quella percezione minima d’altro che non ci appartiene abbiamo la reazione rabbiosa della bestia territoriale, non di quella che se ne va libera senza curarsi che oltre c’è l’ignoto. Anzi, l’ignoto, la sorpresa, è quella che fa paura, non ci piace la vertigine del divergente, dello straniamento. Troppi stimoli. Preferiamo accovacciarci nella norma, pure quando è brutale non ci fa impressione, come il puzzo della merce che c’è entrata nei polmoni. Non c’importa di violenze gratuite, di sofferenza, le ricerchiamo anzi, tra gli interstizi di sensi avvizziti, ché quella è la consuetudine, senza si finisce per sentirsi spaesati, lontani. Il museo degli orrori è sempre aperto, negli obitori c’è da far fila, per lo sfogo dello sbraitare, la voglia del crucifige. Il sangue nell’arena ci sazia, ci fa sentire finalmente a casa, dove non s’avverte alcun odore, alcun puzzo che ci paia nuovo. La vittima se l’è cercata, e a noi sta bene, è la consuetudine, ci piace, è rassicurante, perché chiama altre vittime, non si sazia di normalità. Non areare i locali prima di soggiornarvi.

La guerra è finita

Ora che pure la Svizzera è a tremore, frontiera extracomunitaria s’apre pure a nord che è fatto necessario pure a fronte alpino alzare muro elevatissimo, quasi quasi pure blocco navale a bosco fitto. Comunque m’è a memoria altra cosa che scrissi, a testimonianza che di banca che scoppia, che pare sotto a bombarda di guerra, ne so cosa poca e ad altri m’affido.

Lo spettacolo è il brutto sogno della società moderna incatenata, che infine non esprime che il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il custode di questo sonno (…) Lo spettatore più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio.” (Guy Debord)

Che vado ancora di musica, ch’è meglio.

Io, con le cose di finanza, ho poca dimestichezza, praticamente so che esiste la vil moneta, ma lei mi evita, e pure io non la cerco che non saprei dove. Poi, da che mi sono fatto prof, questo rapporto è divenuto assai più evanescente, ancorché la cosa sia a concreta spiegazione in mutui più spese varie.

Che l’ultima volta ch’ebbi a che fare con banca, mi ci trovai a sportello con direttrice una zia, donna devota, cortese e garbata che, come altre congiunte, causa mia scelleratezza riguardo alle cose del mondo, ma anche alle vicende mie di spirito, mi diseredò ad libitum. Tra le tante nefande cose da me compiute, di cui mi rendo conto e mi dolgo con desiderio di contrizione prolungata, vi fu quella che feci allora allorché la pia donna mi invitò ad accomodo nel lussuoso ufficio di cui era comandante suprema. Premetto che, a quel tempo, operando in qualità di pennivendolo, godevo di miglior fortune economiche, tanto da potermi garantire, qualora avessi insistito, ruolo su questa terra qual ricco e spietato, pari a Conte di Montecristo. Optai, com’è noto, per depilazione da pelo allo stomaco, finendo per professoreggiare in attesa di rinnovo contrattuale come deserto attende pioggia. Ma in banca c’ero per versare assegno di lauto compenso professionale per scrittura a cottimo, che Ella, la pia zia, mi richiamò all’ordine, che parevo – mi rimproverò – che avessi soldi a libretto postale, come becero pensionato a procaccio di favori di cassa mutua. Mi paventò destini aulici di arricchimenti sorprendenti con colpi d’obbligazioni, titoli e derivati. Io, irrispettoso, egoisticamente legato al tirare a campo più che a destini fulgidi, optai per chiusura di conto immediata con esito finale del risparmio a libretto postale. Poco importa se la banca, da lì a poco, si sorprese gambe all’aria, che questo è prezzo che si paga a progresso, che la pia zia, piè veloce, si sottrasse a disfatta con pensione d’anticipo. Riconosco, però, virtù di competenza d’alta finanza a taluni che non siedono ad alto scranno. Tra questi, il mite Giorgio, storico centralinista di Camera del Lavoro, lo è a spanna sopra gli altri. Che con lui, bicchier di vino e fiasco poco distante, cercai di capire se guerra fosse. Ch’egli mi disse di no, che non sarebbe stato necessario che l’obiettivo era raggiunto, la guerra già vinta ed il nemico domo. E io, già ad elmetto, mi schernii per notizia di spiazzo. Che mi spiegò che in realtà virtuale, la guerra annunciata a reti unificate, significava schizzo di prezzi, dunque casse di stato piene ad IVA ed accise d’ogni bene, a ripianar debiti da pandemia, a risalita di PIL per bonus a bandito maggiore, per sgonfio di bolla. Che mi sfuggiva chi fosse il nemico domo, ch’egli, saggiamente rispose: “non t’avvedi di colpo d’obice ad alzo uomo ricevuto a buca della lettera e a cassa di spesa?”.

Cattivi maestri

“Il lavoro mi piace, mi affascina: posso stare ore ed ore a guardare la gente che lavora. Mi piace tenerlo accanto a me; e l’idea di liberarmene quasi mi spezza il cuore.” (Jerome K. Jerome) Privarmene, affrontandolo così, di petto, come m’avviene ora e di questi tempi, mi dispiace, ne preferirei precisa valorizzazione con una sana contemplazione ascetica a distanza ragionevole, perché non si consumi. Ed a mò d’esempio vi riporto cosa già scritta.

“Lo zio Antonio mi chiama due o tre volte al mese, s’intrattiene parecchio, pure se disarticola il verbo, che faceva lavoro che l’appensionò a tasche gonfie, ma che sfrangia neuroni, ne succhia a cannuccia linfa vitale. Sempre chiama per due cose, che la prima riguarda un vecchio libro assurto a Bibbia, d’un “ei fu” gastronomo, i cui appunti rimisi all’uopo in formazione leggibile per la editor cortese. Non gli sconfinferano taluni dettagli del prezioso scritto, quali, ad esempio, la mancanza di precisione nel riportare la grammatura del pompelmo da spremere, o la diametratura specifica del cucchiaio d’olio previsto. Me ne chiede lumi. che a nulla vale rispondere circa la fluidità dell’informazione, mi tocca di trovare – a memoria d’esperienze pregresse, adiranti per imperdonabile approssimazione – la giusta dose, a prescindere. Che quando squilla il telefono, pure, mi munisco di bilancia e squadra, sia mai mi trovi impreparato. Felice non legga qui – nessuno non ha patria né dio, figuriamoci zio – posso affermare la falsità ricercata con cui rifornisco l’esatto tassello mancante, che il q.b. non è cosa ch’attiene a chi perse l’occhio su rendiconti d’economie vertiginose. (v’intermezzo di musica, che non sono sicuro vi interessino i fatti miei, e vi rifate le orecchie fino in fondo)

Chiama anche quando se ne sta fronte porto, sul bastione del castello, per fornirmi, stavolta lui, il dettaglio esatto di chi attraversa la bocca, se pilotina, feluca o transatlantico, se è mossa da sibilanti turbine, diesel borbottanti, vele o remi silenziosi. Me ne eviscera dimensioni e presumibile scopo sociale, colori e bandiera battente, talora financo targa e nome, se leggibili di crepuscolo, sollecitandomi a ricordarne la proprietà che a lui non sovviene. E manco a me sovviene. Né mi sottraggo dal fare ipotesi, non m’azzardo dal non dare risposte. Mi sovviene, invece, di quando eravamo complici d’ispezioni abissali, di come svuotavamo la cornucopia di tesori, in guscio, lische o spine che fossero.

Di quando non c’era domenica che non s’era sotto al bastione che dà sul mare aperto, dove lo scoglio non era ancora turismificio di lidi Belle Époque, di bicchieri ed ombrellini. Quando lui, asciutto ad acciuga, era dotato di lingua fluente, radicale di precisioni ittiche. Lo scoglio era vuoto se non di noi, che nessuno s’azzardava d’acqua gelida fuori stagione. E la domenica vuote erano pure le stanze delle tre grazie, che di piacere facevano economie a cottimo. Così stendevano seni prosperosi, disoccupate dalle campane a messa che quando suonano fanno a indicar peccato per certi lavori, occhio alle onde, in attesa. V’era anche per loro, gentile omaggio di zio e nipote, una parte del bottino, quello che andava consumato lì per lì, all’acqua di mare, prima che ne perdesse la linfa vitale, irrorato del succo di limone appena colto. Quella era incombenza mia di procurarne, sgusciante ad anguilla, nel furto all’albero d’oro del vescovo. S’era, il santo prelato, chiuso il giardino, per cristiana carità, di muraglione elevatissimo, con ferrei spioventi a dissuadere monellerie di espropriazione. Ma l’albero, blasfemo ed eretico, si protendeva un ramo carico di preziosi, oltre le puntute ferramente, che bastava l’elevazione del cassone di motoape di Turi il rigattiere, per socializzarne l’oro tra le foglie. Talora, immersi, sgusciava veloce la barca del signor Enzo, fiero di record, e lui sbiascicava a mezza voce – che aveva linguaggio dabbene in tutte le altre occasioni – l’improperio definitivo, che s’era fatto persuaso che lì su conoscessero il segreto della secca al largo, quella dove peschi cernie più grasse di Teresa, sospesa di petto alle ringhiere, nell’attesa del succo del riccio. Ne seguiva la scia sin verso dove l’occhio arrivava, poi, che l’inghiottiva la curvatura del pianeta, sommesso, riconquistava il fondale suo. E la griglia del pranzo mai rimase vuota, neppure di maestrale, libeccio o scirocco.

Ha telefonato anche ieri, che prima mi chiede notizia specifica sul numero esatto di capperi d’una ricetta, – che il concetto di “una manciata” non gli pareva adeguato – quindi m’illustraq le dimensioni di una nave da crociera ancorata al centro del porto. Prima dragavano il fondale – mi ricorda – e alle banchine ci stavano pure quelle. Ora, al massimo, attracca uno yacht di lusso, o un peschereccio malfermo, tutta roba che pesca poco di chiglia. Poi, si cheta, smette di sbiascicare confusioni, riacquista rigidità semantiche: “Che io sono stato un coglione, – mi dice – con l’oro in bocca che avevo ad ogni giro di sguardo, mi sono consumato di lavori forzati. Ma tu sei più coglione di me, che pure lo fai, con l’esempio di quello ch’è diventato tuo zio”.”

Piccola divagazione di devianza

Che è cosa che m’assilla sin da tenera età, che ho tale devianza che ebbe difficoltà di cura. Pare trattasi di rara forma di devianza – di tale subdola natura minoritaria da non meritare crucifige di grande statismo, cui mi rivolgo accorato convinto d’attenzione – detta agorafobia, che mi tiene lontano da folla, così mi perdo gran lusso di prestigioso locale di riviera, con proprietari a collegio blindato e succo di pera a valore esatto di mia automobile, con possibilità formidabile di garantirmi anche postura a stretto di sardina e rimbombo di bum bum ad orecchia. Pure mi sono precluso visita domenicale a negozio di mobile a monto smonto facile che m’avanza vite che non so dov’è posizionata a dispetto di precisissimo libretto d’istruzione. Oh, niente di che, non faccio il pazzo e vado in escandescenza, ma scivolo a frastorno confusionale che perdo financo orientamento.

Se m’addiviene che partecipo a manifestazione, per devianza di contestazione, mi studio a precisione millimetrica percorso che mi sto defilato, pure se non a sottrazione di rettitudine di manganellata ad abbastanza, semmai verifico presenza a dintorno di bettola a sufficienza di sganghero che lenisco livido a suon di caraffa a prezzo modico e ulteriore sussulto di devianza. Ed a questa devianza per insoifferenza di folla, mi tocca che rispondo con cautela di frequentazione di mare ad ora improbabile di quasi alba, che non vidi folla alcuna, che a maggior sicurezza mi reco a luogo di scarsa frequentazione per consueto, che fu priva di conforto di spaccio di bevanda a gran colore fosforescente qual razione kappa a conforto di truppa numerosa. Per andarci, da casa mia, tocca fare grande strada ritta come spada, senza curva alcuna, d’asfalto a livella precisa, liscio come raso per velocità ideale a raggiungimento d’obiettivo a dieci minuti non di più. Che è anche strada a percorrenza di grande camion ruggente di distribuzione di merce, che merita attenzione a guida, dunque non consente inutile divagazione e ulteriore devianza per sguardo a paesaggio. Ma stamane, mi sconfinfera che faccio devianza a strada secondaria, che scivola lenta e stretta, curva dopo curva e saliscendi.

Ad ogni tornante s’apre su ghirigoro di terrazzamenti, prato fiorito per piogge di questi giorni, bucolica messe d’erba fresca e carrubo imponente tra ulivo centenario che pare monumento. E ci impiego tempi d’inesorabile lunghezza, mi faccio distratto per tale vista, mi devio sguardo ad ogni dettaglio, stoltamente dopo cambio di retta via. Non mi perdo nulla, neppure uri al pascolo, di manto scuro e placida andatura. Ed avvicinamento a riviera deserta, desolata e popolamento anch’esso di certa devianza (ve ne lascio sotto testimonianza a vostro giudizio), dura doppio o triplo che è lento approdo che pare di carretto antico, di feluca primitiva.

Ma tant’è che mi ritrovo a grande devianza con rimorso e preoccupazione successiva. Fu fortuna che tali fenomeni sono finalmente ad attenzione precisa di grandi fenomeni di statismo elevatissimo, che ad un mese o poco oltre da ora mi faranno guarito ex legis con precisa prescrizione di dieci giri di campo e venti flessioni, pure, che non guasta, qualche accorata genuflessione ed uno sgrano completo di rosario.

La guerra è finita

Lo spettacolo è il brutto sogno della società moderna incatenata, che infine non esprime che il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il custode di questo sonno (…) Lo spettatore più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio.” (Guy Debord)

Che vado di musica, ch’è meglio.

Io, con le cose di finanza, ho poca dimestichezza, praticamente so che esiste la vil moneta, ma lei mi evita, e pure io non la cerco che non saprei dove. Poi, da che mi sono fatto prof, questo rapporto è divenuto assai più evanescente, ancorché la cosa sia a concreta spiegazione in mutui più spese varie.

Che l’ultima volta ch’ebbi a che fare con banca, mi ci trovai a sportello, con direttrice una zia, donna devota, cortese e garbata che, come altre congiunte, causa mia scelleratezza riguardo alle cose del mondo, ma anche alle vicende mie di spirito, mi diseredò ad libitum. Tra le tante nefande cose da me compiute, di cui mi rendo conto e mi dolgo con desiderio di contrizione prolungata, vi fu quella che feci allora, allorché la pia donna mi invitò ad accomodo nel lussuoso ufficio di cui era comandante suprema. Premetto che, a quel tempo, operando in qualità di pennivendolo, godevo di miglior fortune economiche, tanto da potermi garantire, qualora avessi insistito, ruolo su questa terra qual ricco e spietato, pari a Conte di Montecristo. Optai, com’è noto, per depilazione da pelo allo stomaco, finendo per professoreggiare in attesa di rinnovo contrattuale come deserto attende pioggia. Ma in banca c’ero per versare assegno di lauto compenso professionale per scrittura a cottimo, che Ella, la pia zia, mi richiamò all’ordine, che parevo – mi rimproverò – che avessi soldi a libretto postale, come becero pensionato a procaccia di favori di cassa mutua. Mi paventò destini aulici di arricchimenti sorprendenti con colpi d’obbligazioni, titoli e derivati. Io, irrispettoso, egoisticamente legato al tirare a campo più che a destini fulgidi, optai per chiusura di conto immediata con esito finale del risparmio a libretto postale. Poco importa se la banca, da lì a poco, si sorprese gambe all’aria, che questo è prezzo che si paga a progresso, che la pia zia, piè veloce, si sottrasse a disfatta con pensione d’anticipo. Riconosco, però, virtù di competenza d’alta finanza a taluni che non siedono ad alto scranno. Tra questi, il mite Giorgio, storico centralinista di Camera del Lavoro, lo è a spanna sopra gli altri. Che con lui, bicchier di vino e fiasco poco distante, cercai di capire se guerra fosse. Ch’egli mi disse di no, che non sarebbe stato necessario che l’obiettivo era raggiunto, la guerra già vinta ed il nemico domo. E io, già ad elmetto, mi schernii per notizia di spiazzo. Che mi spiegò che in realtà virtuale, la guerra annunciata a reti unificate, significava schizzo di prezzi, dunque casse di stato piene ad IVA ed accise d’ogni bene, a ripianar debiti da pandemia, a risalita di PIL per bonus a bandito maggiore, per sgonfio di bolla. Che mi sfuggiva chi fosse il nemico domo, ch’egli, saggiamente rispose: “non t’avvedi di colpo d’obice ad alzo uomo ricevuto a buca della lettera e a cassa di spesa?”.

Tanto per dire

Che io sono persona mite, che parlo linguaggio dabbene, pure, tutte le volte che mi capita che mi sovviene, a labbra socchiuse, quel tale riflesso, che pare coprolalico, di buttar fuori l’improperio, corro in bagno, fazzoletto in bocca, a sputare fuori la volgarità. Che poi basto a me stesso, non mi lamento, ho scorte discrete di vino, in frigo, buon tabacco, musica nelle orecchie come si deve, che ve lo dimostro.

Anelo a poco, uno scoglio a favor d’orizzonte e vento tiepido, un tocco di cacio, pane e pomodoro, ovvio, di giusto accompagnamento a rosso, se c’è fritturino di sarde non mi sottraggo. Financo quando m’akkatangavo a tondino da dodici, che passarono lustri, lo facevo con garbo, senza eccessi sanguinolenti e con parziale sommessa liturgia di pentimento doveroso.

Mai eccessi in dire granguignolesco, nemmeno nel conflitto, giusto quanto bastava. Proprio per mantenere postura galantumana, mi sottraggo, mi annessuno, mi approfilo in basso, non sgomito o sbraito, neppure accetto contratto per bave alla bocca, semmai m’allontano di soppiatto, mantengo consapevolezze mie, ma non mi faccio proselitista, al più m’accendo una sigaretta. Talora, ammetto, m’infervoro, ma sempre nel silenzio di stanze solinghe, che non mi piace urtare altrui suscettibilità, e se mantengo caldo il pensiero del sol dell’avvenire, non lo do a vedere, me lo serbo in grembo come desiderio inesausto. Leggo il giornale, quasi con parsimonia borghese, che se notizia mi è d’arrovello, mi faccio rimedio a castigo di reflusso gastroesofageo in una magnesia. Ma se mi capita di leggere cose come quella sbirciata giusto ieri, che pare che quattordici italiani – e dico, quat-tor-di-ci – detengono il trenta per cento della ricchezza nazionale, pure sento dire che è tutta colpa dei migranti, mi viene da dire, ma sempre con garbo, che mi sono scassato la Minkja, pure mi frantumai i Coglioni.

Cattivi maestri

Lo zio Antonio mi chiama due o tre volte al mese, s’intrattiene parecchio, pure se disarticola il verbo, che faceva lavoro che l’appensionò a tasche gonfie, ma che sfrangia neuroni, ne succhia a cannuccia linfa vitale. Sempre chiama per due cose, che la prima riguarda un vecchio libro assurto a Bibbia, d’un “ei fu” gastronomo, i cui appunti rimisi all’uopo in formazione leggibile per la editor cortese. Non gli sconfinferano taluni dettagli del prezioso scritto, quali, ad esempio, la mancanza di precisione nel riportare la grammatura del pompelmo da spremere, o la diametratura specifica del cucchiaio d’olio previsto. Me ne chiede lumi. che a nulla vale rispondere circa la fluidità dell’informazione, mi tocca di trovare – a memoria d’esperienze pregresse, adiranti per imperdonabile approssimazione – la giusta dose, a prescindere. Che quando squilla il telefono, pure, mi munisco di bilancia e squadra, sia mai mi trovi impreparato. Felice non legga qui – nessuno non ha patria né dio, figuriamoci zio – posso affermare la falsità ricercata con cui rifornisco l’esatto tassello mancante, che il q.b. non è cosa ch’attiene a chi perse l’occhio su rendiconti d’economie vertiginose. (v’intermezzo di musica, che non sono sicuro vi interessino i fatti miei, e vi rifate le orecchie fino in fondo)

Chiama anche quando se ne sta fronte porto, sul bastione del castello, per fornirmi, stavolta lui, il dettaglio esatto di chi attraversa la bocca, se pilotina, feluca o transatlantico, se è mossa da sibilanti turbine, diesel borbottanti, vele o remi silenziosi. Me ne eviscera dimensioni e presumibile scopo sociale, colori e bandiera battente, talora financo targa e nome, se leggibili di crepuscolo, sollecitandomi a ricordarne la proprietà che a lui non sovviene. E manco a me sovviene. Né mi sottraggo dal fare ipotesi, non m’azzardo dal non dare risposte. Mi sovviene, invece, di quando eravamo complici d’ispezioni abissali, di come svuotavamo la cornucopia di tesori, in guscio, lische o spine che fossero.

Di quando non c’era domenica che s’era sotto al bastione che dà sul mare aperto, dove lo scoglio non era ancora turismificio di lidi Belle Époque, di bicchieri ed ombrellini. Quando lui, asciutto ad acciuga, era dotato di lingua fluente, radicale di precisioni ittiche. Lo scoglio era vuoto se non di noi, che nessuno s’azzardava d’acqua gelida fuori stagione. E la domenica vuote erano pure le stanze delle tre grazie, che di piacere facevano economie a cottimo. Così stendevano seni prosperosi, disoccupate dalle campane a messa, che quando suonano fanno peccato certi lavori, occhio alle onde, in attesa. V’era anche per loro, gentile omaggio di zio e nipote, una parte del bottino, quello che andava consumato lì per lì, all’acqua di mare, prima che ne perdesse la linfa vitale, irrorato del succo di limone appena colto. Quella era incombenza mia di procurarne, sgusciante ad anguilla, nel furto all’albero d’oro del vescovo. S’era, il santo prelato, chiuso il giardino, per cristiana carità, di muraglione elevatissimo, con ferrei spioventi a dissuadere monellerie di esproriazione. Ma l’albero, blasfemo ed eretico, si protendeva un ramo carico di preziosi, oltre le puntute ferramente, che bastava l’elevazione del cassone di motoape di Turi il rigattiere, per socializzarne l’oro tra le foglie. Talora, immersi, sgusciava veloce la barca del signor Enzo, fiero di record, e lui sbiascicava a mezza voce – che aveva linguaggio dabbene in tutte le altre occasioni – l’improperio definitivo, che s’era fatto persuaso che lì su conoscessero il segreto della secca al largo, quella dove peschi cernie più grasse di Teresa, sospesa di petto alle ringhiere, nell’attesa del succo del riccio. Ne seguiva la scia sin verso dove l’occhio arrivava, poi, che l’inghiottiva la curvatura del pianeta, sommesso, riconquistava il fondale suo. E la griglia del pranzo mai rimase vuota, neppure di maestrale, libeccio o scirocco.

Ha telefonato anche ieri, che, prima mi chiede notizia specifica sul numero esatto di capperi d’una ricetta, – che il concetto di “una manciata” non gli pareva adeguato – quindi m’illustrò le dimensioni di una nave da crociera ancorata al centro del porto. Prima dragavano il fondale – mi ricorda – e alle banchine ci stavano pure quelle. Ora, al massimo, attracca uno yacht di lusso, o un peschereccio malfermo, tutta roba che pesca poco di chiglia. Poi, si cheta, smette di sbiascicare confusioni, riacquista rigidità semantiche: “Che io sono stato un coglione, – mi dice – con l’oro in bocca che avevo ad ogni giro di sguardo, mi sono consumato di lavori forzati. Ma tu sei più coglione di me, che pure lo fai, con l’esempio di quello ch’è diventato tuo zio”.