Nostalgie fuori rotta

Parlar di cose che passano per quotidiana abiezione mi venne a noia. Pure prima ne avevo noia ma non frenai dita sui tasti a dir qualcosa. Che ad istante in cui lo feci ne ebbi quasi pentimento ché a struggersi per destini infami d’umanità sepolte, si finisce a scavar tombe insieme ad altri. Pratica che non mi fece mai troppo bene, ch’ebbi desiderio, piuttosto, d’altro che non fu altro che infinito e basta. Così, a rievocar altro mi faccio musica buona, tale che mi trascino da giovane età, pure dopo come conseguenza di lancio pregresso, musica altra rispetto al consueto mio che è a mono tema di jazz, ma che non si fece mai troppo in disparte nei miei pensieri. E l’accompagno con un pezzettino preso da qui, forse pezzo d’autobiografia, forse no. Ma che importa che lo sia o no, giacché è sempre perduto il tempo per scrivere autobiografie di nessuno.


«E giunse il tempo che desiderio di vertigine m’appare solo a sistemar chiappe a scoglio comodo, a favor di tenue brezza di ponente. Lì c’è posizione di sguardo ad altro tempo che andò via a rapidi scivolamenti. Feci collezione di pergamene e titoli a ceralacca, di timbri e pacche sulle spalle, inchiostri di stilografica raccolsi.

Mi ravvidi di saggezze elevatissime di fini accademici, sagaci elucubratori di teorie d’avanzo e professori mi professarono vie salvifiche di conoscenza.

Capitani coraggiosi m’imbellettarono narrazioni d’autentico infinito di profondità e preti e frati e paternostri m’illuminarono d’incenso, mi deliziarono d’omelie un tanto al chilo, pure in odore di santità mi parvero audaci pescatori di ghiozzi a tendenza d’eversione. Le madame dorè, le miti volontarie di misericordia e signori dabbene di circolo esclusivo, di fatta impeccabile doppiopettata e profumo millefiori, mi fecero di sé modello esclusivo e beato. Arguzia finanziaria mi trasmisero autentici scienziati di doblone ed a cure immaginifiche mi sottoposero per trattamento di deviazione.

Che però nacqui storto e storto rimasi, pur se mi sdoppiai a far finta d’assecondo. Che ora, a fase due, non m’è dato di adeguarmi all’immane trogolo di carni e sangue di sacrificio a conforto per Marte e Atena. Che però appresi di non apprendere, pur se assorbii finale convincimento che nemmanco le dame di San Vincenzo riusciranno a far del bene, ch’esse mai seppero cos’è la vita, che imbracciano sotto coscia, ad occulto, mitra e bomba.

Ch’io tutto imparai da puttane senza protettore, a quartiere miserabile dove misi dente da latte, e che, accademia autentica di bellezza, fu soffocato a rango di supermarket per saccheggio conclamato, con reparto d’onnisciente mammasantissima. Pure imparai da lambretta smarmittata di venditore di granchio per cattura a pietra celeste, da pazzo con canottiera su cappotto e camicia avvoltolata in testa, per posto a cappello in mano, a buco tappato per dammi cento lire, ci hai ‘na sigaretta.

Che mi venne ad aula di lezione autentica osteria perduta, di abitanti a perenne nostalgia di bicchiere pieno, e vecchio compagno che s’accompagna a miserabile scarpa rotta, pantalone logoro e mano di calli e calce viva, curvo di schiena ma mai domo a dir di padrone peste e corna. Pure non fu capace di sopravvivenza a quello, nemmanco per saggezza di mutua a scarso d’assistenza e forse per cicatrice di manganello per protesta di contro legge. Imparai dinamiche sofisticatissime d’universo da lavandaia a tempo perso, balia asciutta e odor di varechina. Altro seppi da pescatore silenzioso a barca a puzzo di cherosene e sangue di pesce raffermo, con ruga che solca il volto quale fiume di sale e fatica di sole.

Che nessuno dei secondi ebbe allora a far mai guerra a talaltro, mai tirò indietro la mano a soccorso per chi vien dopo. Pure, a gengie sfatte, non smisero a riso per bimbo che passa, ch’io mi ricordo, che a denti non m’ero provvisto ancora, di tali sdentature di pace, ora che vedo biancheggiare nobili fauci di squali.»

Quanto son belle le elezioni

Quando mai ce la ricordiamo una campagna elettorale che ci diverte? Pare sempre la stessa recita a soggetto, al più c’è che all’apertura del libro dei sogni s’aggiunge lo sfogliare quello degli incubi. Non pare più manco singolar tenzone, scontro di prospettiva, è la calma piatta che si traveste di digrigno di denti, poltroncine semoventi, gioco delle parti. Sullo sfondo c’è martirio tremendo di interi popoli che paiono lontani. Ed a quelli c’è scarsa attenzione, manco votano, come si permettono. Eppure d’una campagna memorabile ho memoria trasmessa, e che rimpianto non essermela goduta se non di rimbalzo.

Il candidato Presidente, quello cui pare siano legate le sorti di pacificazione dell’intero pianeta, si rivolge alle folle, le arringa con un discorso memorabile. È il 1963, un alluvione d’anni sono passati. Pure, Kennedy, si rivolge a quegli ultimi che sono tali nel cuore stesso della superpotenza. Ma parvero parole cariche di retorica, povere di fatti, chiacchiere. Martin Luther King si fa aprifila della grande marcia, lui un sogno ce l’ha, lo dice, lo fa presente, lo rende sogno di tutti. Ma c’è qualcuno che pensa che quella folla non rispetti canoni estetici adeguati a rappresentare compiutamente società evolute e democratiche. S’ammazza, si continua in logiche di ghetto. La risposta non arriva, il sogno è inesausto. Eppure la risposta c’è. «Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra». (John Coltrane)

La fratellanza, è questo il punto, la fratellanza.

Il 21 settembre del 1963, dopo l’ennesima strage di afroamericani ad opera di razzisti del Ku Klux Klan, Dizzy (Gillespie), sale sul palco del Monterey Jazz Festival, ed urla al pubblico «Voglio diventare Presidente degli Stati Uniti perché ce ne serve uno!» Il cantante Jon Hendricks gli scrive pure l’inno: «Vote Dizzy! Vote Dizzy! You want a good president who’s willing to run / You wanna make government a barrel of fun (…) Your political leaders spout a lot of hot air / But Dizzy blows trumpet so you really don’t care.»

Ma senza lista di collaboratori né ministri non puoi fare il presidente. Così Dizzy si mette al lavoro per stilarla per bene: per Duke Ellington l’incarico deve essere adeguato alla sua grandezza, dunque, Ministro dello Stato. Max Roach, che coi botti ci sa fare, è Ministro della Difesa. Per Louis Armstrong c’è il Ministro dell’Agricoltura, e chi meglio di Charles Mingus può fare il Ministro della Pace?

Manco a dirlo c’è Malcolm X, ovviamente Procuratore Generale. Per le politiche sociali ci vuole qualcuno con lo sguardo giusto, la voce adatta, dunque Ella Fitzgerald. A Ray Charles tocca il posto di Direttore della Biblioteca del Congresso e Mary Lou Williams fa l’Ambasciatrice in Vaticano. Incarico delicatissimo per Thelonious Monk, Ambasciatore “in viaggio”. Manca solo un tassello per chiudere la formazione della squadra di Dizzy for President, ma anche per quello non ci sono dubbi, Miles Davis Capo della CIA!

E quando ci ricapita?

Radio Pirata 66 (concertone da lavoro per separazione chimica di classe)

Riecco Radio Piratissima che torna a sfarzo di concertone per festeggiamento di ricorrenza di articolo guida di Costituzione che fu cassato per improbabilità di esplicita applicazione. E si fa puntata di grande e solida kermesse musical-argomentativa come si compete a trasmissione che gode di favori indiscussi di pubblico innumerevolissimo e benevola accondiscendenza di critica. Ma a non far da meno con altra roba seria, redazione fa subito presente che molti ospiti previsti brillarono per assenza a detta puntata, che è numero Sessantasei, per sopraggiunta censura. Per cui non ve ne sarà traccia. Ma si va subito di musica di grande spessore.

Che lavoro è a dignitosissima rappresentazione a membro permanente di consesso di nazioni civili a suon di bombarda, che si fece lavoro nero a campo di nuovo cotone per conserva a prezzo convenientissimo di super mega impianto di smercio di prodotto a consenso di massa claudicante per arrivo a fine mese. Che morto ammazzato di lavoro, dice statistica – che la fa cervello asettico di matematica -, è a due al giorno da inizio d’anno.

Che è solo storia di distratto a distrazione mosso, che muore a metto piede in fallo mentre passa betoniera o caterpillar, pure scivola d’ascensore, inciampa da impalcatura, precipita da palazzo e ciminiera, non collaborò col dire son morto per destino cinico e baro. Che di tanti morti d’ammazzo pare guerra guerreggiata, ma è roba disfattista se oggi a bandiera colorata si dice basta con tale guerra, pure con altra che tuona di bomba. E io vado di suono giusto, che faccio colonna sonora

Che c’è polemica superlativa su esternazione per classe separata, ma io spezzo lancia, che pure io voglio classe separata, che a ricco con super monolito a sgaso per cambio climatico per costo di palazzina popolare a tre piani, tocchi – ora e per sempre in esclusiva – ristorantino a selezione di chef a stella plurima di firmamento. Ma ci fu improvvida segnalazione di tale illuminatissimo che disse che povero paradossalmente mangia meglio – che paradossalmente è dire esplicito che pure mangia – per cui ci fu assalto a bettola negletta che bettolaio ed oste per moribondi si fecero furbi e levarono prezzi al cielo per nuova avventura di business. Che da Franco il bollito ch’era a sette eurini ora si fece a centoventi che tale padrone del vapore per meno di duecento non si muove. E c’è povero chef di cui sopra che fu costretto a rinnovare arredo con acquisto ad Emmaus di piatto e mobilia ed importazione di muffa autentica per star a passo col tempo. Aridatece la separazione di classe.

E quanto tremai d’adorazione per Annette Peacock, che fu mio furibondo amore giovanile a dispetto di generazione. Ma tale ero, catturato a fascino di dette signore senza tempo che miei coetanei d’allora, molto «le freak, c’est chic» attribuivano certe mie pulsioni ad uso disinvolto di combustione di materiali di scarto orientale di produzioni vegetali. Ma detti fuochi aprirono finestre, e pur se smisi in tempi rapidi di godermene benefici, certo le finestre rimasero aperte su orizzonti d’utopia. Ora v’è invece ricorso a chimica pura ed allopatica per farsi fenomeno a sculettamento a destra e a manca, da mane a mane, e iniezione di coraggio per proferire a iosa minkiata a cottimo manco richiesta.

E chiudo col dire che buon lavoro pare ossimoro e, a cautela, faccio spiegare detta cosa da collaboratore subordinato con contratto di apprendistato, prima che faccio pure di lui censura che nacque in posto strano: “Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendere dalla sua schiena.” (Lev Tolstoj) Buon 1° Maggio a tutti, i belli e i brutti, di più a questi ultimi se in piazze deserte furono pure sporchi e cattivi.

In morte del grillo

«Bada, Grillaccio di malaugurio!… se mi monta la bizza, guai a te!…».
«Povero Pinocchio! Mi fai proprio compassione!…».
«Perché ti faccio compassione?».
«Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno».
A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutto infuriato e preso di sul banco un martello di legno, lo scagliò contro il Grillo parlante.
Forse non credeva nemmeno di colpirlo; ma disgraziatamente lo colse per l’appunto nel capo, tanto che il povero Grillo ebbe appena il fiato di fare crì-crì-crì, e poi rimase lì stecchito e appiccicato alla parete.
” (Le avventure di Pinocchio, Collodi)

Se ne vede di gente spiaccicata alle pareti, a destra e manca, poveri scemi che non vollero far di sé burattini obbedienti. Di manganelli e fermi a ragazzetti ce n’è a iosa, pure a rango più elevato si cheta con il «non parli», che il momento è greve. E tutt’intorno è stessa solfa, se persino al greco illustre si tolse parola a patria di welfare, e cugini d’oltralpe fanno uguale, che è proibito si menzioni strage continua. Termini per massacro non sono cosa di società civile, gli affari sono affari e se c’è crisi, massacro, invece, quello diventa di persona dabbene, che massacro fa levitar vendite di bomba, economia si risana così. Se non c’è virus malvagio e con occhio a mandorla, si faccia almeno repulisti sinché ce n’è di tal questo e tal altro a suon di bombarda a saldo di vendita. Quelli, i cattivi, fanno di censura loro arma pregiatissima.

E noi rispondiamo con arma assai più potente, che non venga messaggio che civilissima civiltà sia da meno a far che d’aggressione tremenda si taccia, per non guardare, non vedere, che ebbe tradizione d’espletamento grande e divertente di gioco delle tre scimmiette. La piazza affollata per pace non esiste, se non ha follower e mi piace di sufficiente numero non fece tempo a costituirsi parte civile che venne sciolta. Ma fu colpa di cinici e spietati, oppure i burattini che non s’avvidero che bomba e strage è a un passo preciso da loro, non ebbero occhi per vedere e plaudirono a pallon che rotola o a racchetta a cacciar mosche? Povera itaglia, povero mondo, che non c’è più acqua da bere, ma tanta ne viene giù precisa, ad annaffiar albero di legno giusto per fabbrica di burattino.
«La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché ha in sé l’eterna rinuncia del “dare a Cesare” e perché i suoi princìpi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che “‘Sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura.» (E. Vittorini, Il Politecnico n. 1, 29 settembre 1945)

Arim-Bomba

Mi pare che si faccia a grande sgomito per far botto grossissimo, che prima bombardo io ma è colpa tua se non abbozzi. E tutto è scoppiettio di suono sordo, sordo come pare chi sgancia ancora missile supersonico. Non si fa mancare niente in termini di boato. Semmai manca il resto, fatto che fummo donne, uomini, bambine e bambini, meritevoli per detto fatto di scuola e cure, ma quella è cosa che attiene debito, botto funesto è fuori quota, non si discute, semmai fa a sottrazione ad altro. Che cosa in sé ha significazione precisa, che bomba casca in testa anche se non casca, si fa lista d’attesa, buono libri esausto, penicillina a creatore. Che non manchi piuttosto messaggistica a spiano di social, per dire che bomba è santa e necessaria, presidio di civiltà, che quello è bene essenziale e non c’è tassa che tenga.

Ma se a tutta pletora di meritevoli d’ogni parte di mappa, a far cagnara a dire che io ho genia migliore d’altri, che bomba mia è assai più super e ve n’è a dimostrazione precisa che ho pure più grande sfilata di bombarda che non ve ne risparmio tremendo impatto, piace tanto la dea tra le dee, gliene rendo precisa interpretazione ad ode immaginifica che io, di mio, pure mi fornii benissimo di bomba adeguata.

“Incalzatrice della storia Freno del tempo Tu Bomba
Giocattolo dell’universo Massima rapinatrice di cieli Non posso odiarti
Forse che l’odio il fulmine scaltro la mascella di un asino
La mazza nodosa di Un Milione di A.C. la clava il flagello l’ascia
Catapulta Da Vinci tomahawk Cochise acciarino Kidd pugnale Rathbone
Ah e la triste disperata pistola Verlaine Puskin Dillinger Bogart
E non ha S. Michele una spada infuocata S. Giorgio una lancia Davide una fionda
Bomba sei crudele come l’uomo ti fa e non sei più crudele del cancro
Ogni uomo ti odia preferirebbe morire in un incidente d’auto per un fulmine annegato
Cadendo dal tetto sulla sedia elettrica di infarto di vecchiaia di vecchiaia O Bomba
Preferirebbe morire di qualsiasi cosa piuttosto che per te Il dito della morte è indipendente
Non sta all’uomo che tu bum o no La Morte ha distrutto da un pezzo
il suo azzurro inflessibile Io ti canto Bomba Prodigalità della Morte Giubileo della Morte
Gemma dell’azzurro supremo della Morte Chi vola si schianterà al suolo la sua morte sarà diversa
da quella dello scalatore che cadrà Morire per un cobra non è morire per del maiale guasto
Si può morire in una palude in mare e nella notte per l’uomo nero
Oh ci sono morti come le streghe d’Arco Agghiaccianti morti alla Boris Karloff
Morti insensibili come un aborto morti senza tristezza come vecchio dolore Bowery
Morti nell’abbandono come la Pena Capitale morti solenni come i senatori
E morti impensabili come Harpo Marx le ragazze sulla copertina di Vogue la mia
Proprio non so quanto sia terribile la MortePerBomba Posso solo immaginarlo
Eppure nessuna morte di cui io sappia ha un’anteprima così buffa Panoramo
una città la città New York che straripa a occhi desolati rifugio nel subway
Centinaia e centinaia Un precipitare di umanità Tacchi alti piegati
Capelli spinti indietro Giovani che dimenticano i pettini
Signore che non sanno cosa fare delle borse della spesa
Impassibili distributori automatici di gomma Ma 3° rotaia pericolosa lo stesso
Ritz Brothers del Bronx sorpresi sul treno A
La sorridente réclame del Schenley sorriderà sempre
Morte Folletto Bomba Satiro Bombamorte
Tartarughe che esplodono sopra Istanbul
La zampa del giaguaro che balza
per affondare presto nella neve artica
Pinguini piombati contro la Sfinge
La cima dell’Empire State
sfrecciata in un campo di broccoli in Sicilia
Eiffel a forma di C nei Magnolia Gardens
S. Sofia atletica Bomba sportiva
I templi dell’antichità
finite le loro grandiose rovine
Elettroni Protoni Neutroni
che raccolgono capelli Esperidi
che percorrono il dolente golf dell’Arcadia
che raggiungono timonieri di marmo
che entrano nell’anfiteatro finale
con un senso di imnodia di tutte le Ilio
annunciando torce di cipressi
correndo con pennacchi e stendardi
e tuttavia conoscendo Omero con passo aggraziato
Ecco la squadra del Presente in visita
la squadra del Passato in casa
Lira e tuba insieme congiunte
Odi e wurstel soda oliva uva
galassia di gala usciere togato
e in alta uniforme O felici posti a sedere
Applausi e grida e fischi eterei
La presenza bilione del più grande pubblico
Il pandemonio di Zeus
Hermes che corre con Owens
La Palla lanciata da Buddha
Cristo che picchia la palla
Lutero che corre alla terza base
Morte planetaria Osanna Bomba
Fa sbocciare la rosa finale O Bomba di Primavera
Vieni con la tua veste di verde dinamite
libera dalla macchina l’occhio inviolato della Natura
Davanti a te. li Passato raggrinzito
dietro dl te il Futuro che ci saluta O Bomba
Rimbalza nell’erbosa aria da tromba
come la volpe nell’ultima tana
tuo campo l’universo tua siepe la terra
Salta Bomba rimbalza Bomba scherza a zig zag
Le stelle uno sciame d’api nella tua borsa tintinnante
Angeli attaccati ai tuoi piedi giubileo
ruote di pioggialuce sul tuo scanno
Sei attesa e guarda sei attesa
e i cieli sono con te
osanna Incalescente gloriosa liaison
BOMBA O strage antifonia fusione spacco BUM
Bomba fa l’infinito una Improvvisa fornace
distendi il. tuo Spazzare che abbracci moltitudini
avviati orribile agenda
Stelle del Carro pIaneti carnaio elementi di carcassa
Fa’ cadere l’universo salta ciucciante coi dito in bocca
sui suo da tanto da tanto morto Neanche
Dal tuo minuscolo peloso occhio spastico
espelli diluvi dl celestiali vampiri
Dal tuo grembo invocante
vomita turbini di grandi vermi
Squarcia Il tuo ventre o Bomba
dal tuo ventre fa’ sciamare saluti di avvoltolo
incalza col tuoi moncherini stellati dl iena
lungo il margine del Paradiso
Bomba O finale Pied Piper
sole e lucciola valzeggiano dietro la tua sorpresa
Dio abbandonato zimbello
Sono la Sua rada falso-narrata apocalisse
Lui non può sentire le un-bel-giorno
profanazioni del tuo flauto
Lui è rovesciato sordo nell’orecchio pustoloso del Silenziatore
il Suo Regno un’eternità di cera vergine
Trombe tappate non Lo annunciano
Angeli sigillati non Lo cantano
Un Dio senza tuoni Un Dio morto
Bomba il tuo BUM la Sua tomba,
Che io mi chini su un tavolo di scienza
astrologo che guazza in prosa di draghi
quasi esperto dl guerre bombe soprattutto bombe
Che io sia incapace di odiare ciò che è necessario amare
Che io non possa esistere in un mondo che consente
un bimbo abbandonato in un parco un uomo morto sulla sedia elettrica
Che io sia capace di ridere di tutte le cose
dl tutte quelle che so e quelle che non so per nascondere il mio dolore
Che dica di essere un poeta e perciò amo ogni uomo
sapendo che le mie parole sono la riconosciuta profezia di ogni uomo
e le mie non parole un non minore riconoscimento,
che io sia multiforme
uomo che Insegue le grandi bugie dell’oro
poeta che vaga tra ceneri luminose
come mi immagino
un sonno con denti di squalo un mangia-uomini di sogni
Allora non ho bisogno di esser davvero esperto di bombe
Per fortuna perché se le bombe ml sembrassero larve
non dubiterei che diventerebbero farfalle
C’è un inferno per le bombe
Sono laggiù Le vedo laggiù
Stan li e cantano canti
soprattutto canti tedeschi
e due lunghissimi canti americani
e vorrebbero che ci fossero altri canti
specialmente canti russi e cinesi
e qualche altro lunghissimo canto americano
Povera piccola Bomba che non sarai mal
un canto eschimese io ti amo
voglio mettere una caramella
nella tua bocca forcuta
Una parrucca di Goldilocks sulla tua zucca pelata
e farti saltellare con me come Hansel e Gretel
sullo schermo di Hollywood
O Bomba in cui tutte le cose belle
Morali e fisiche rientrano ansiose
fiocco di fata colto dal
più grande albero dell’universo
lembo di paradiso che dà
un sole alla montagna e al formicaio
Sto In piedi davanti alla tua fantastica porta gigliale
Ti porto rose Midgardian muschio d’Arcadia
Rinomati cosmetici delle ragazze del paradiso
Dammi il benvenuto non temere, la tua porta aperta
né il grigio ricordo del tuo freddo fantasma
nè i ruffiani del tuo tempo incerto
il loro crudele sciogliersi terreno
Oppenheimer è seduto
nella buia tasca di Luce
Fermi è disseccato nei Mozambico della Morte
Einstein la sua boccamito
una ghirlanda di patelle sulla testa di calamari lunari
Fammi entrare Bomba sorgi da quell’angolo da topo gravido
non temere le nazioni del mondo con le scope alzate
O Bomba ti amo
Voglio baciare il tuo clank mangiare il tuo bum
Sei un peana un acmé dl urli
un cappello lirico del Signor Tuono
fai risuonare le tue ginocchia di metallo
BUM BUM BUM BUM BUM
BUM tu cieli e BUM tu soli
BUM BUM tu lune tu stelle BUM
notti tu BUM tu giorni tu BUM
BUM BUM tu venU tu nubi tu nembi
Fate BANG voi laghi voi Oceani BING
Barracuda BUM e coguari BUM
Ubanghi BANG orangutang
BING BANG BONG BUM ape orso scimmion
tu BANG tu BONG tu BING
la zanna la pinna la spanna
Si Si In mezzo a noi cadrà una bomba
Fiori balzeranno di gioia con le radici doloranti
Campi si inginocchieranno orgogliosi sotto gli halleluia del vento
Bombe-garofano sbocceranno Bombe-alce rizzeranno le orecchie
Ah molte bombe quel giorno intimidiranno gli uccelli in aspetto gentile
Eppure non basta dire che una bomba cadrà
sia pure sostenere che il fuoco celeste uscirà
Sappiate che la terra madonnerà in grembo la Bomba
che nel cuore degli uomini a venire altre bombe nasceranno
bombe da magistratura avvolte in ermellino tutto bello
e si pianteranno sedute sui ringhiosi imperi della terra
feroci con baffi d’oro.
(Gregory Corso)

Rim-Bomba

“Come più volte ho avuto occasione di dichiarare, considero i moderni residui di patriottismo un sentimento deleterio, incosciente, inattuale, nonché la causa diretta della maggior parte dei guai che affliggono l’umanità; un sentimento da annientare una volta per tutte, con ogni mezzo, con la collaborazione di ogni persona ragionevole. L’esercito, il denaro, la scuola, la religione, la stampa, tutto si trova nelle mani delle classi dirigenti: A scuola accendono l’amor di patria nei bambini, mediante storie nelle quali il proprio popolo è invariabilmente il migliore, da adulti questo sentimento viene confermato da spettacoli, festività, monumenti e, inutile dirlo, dalla stampa” (Lev Tolstoj)

A me sarebbe venuta a noia tutta sta sfilata muscolare, ancor più ché a me sfilare mi riesce male. Preferisco posture statiche ed assai poco propense a fatti d’azione con lancia in resta. Anche perché a bersi un bicchier di vino e farsi una fumatina è cosa che sottintende a starsene quieti e tranquilli, altrimenti, l’uno e l’altra, se ne vanno di traverso con venir meno di sommo gaudio. Comunque, a far competizione pure mi venne a rigurgito. Mi traggo vantaggio d’arrivare ultimo, che a scanso di annotazione m’acquatto preciso a scoglio. Del resto non mi feci mai Don Chisciotte, per cui nutro ammirazione autentica per gesta memorabili che follia è ad apparenza cosa più umana e divergente che sanguinaria normalità. A costo di sembrar pavido a me piacque sempre Sancho, pur se manco troppo m’attrezzo a servitore, ma a perla di saggezza non mi sottraggo nemmeno.

«– Perdonami, amico, di averti messo nella condizione di sembrar pazzo come me, facendoti cadere nell’errore in cui ero caduto io, che vi siano stati o che vi siano al mondo cavalieri erranti.

– Ah! – disse Sancho -. Non muoia la signoria vostra, signore; senta il consiglio mio, e viva molti anni; perché la pazzia più grande che può fare un uomo in questa vita è quella di lasciarsi morire, così, di punto in bianco, senza che nessuno lo ammazzi, e che non lo faccia perire nessun’altra mano fuorché quella della malinconia. Cerchi di non essere pigro, e si alzi da questo letto, e andiamocene in campagna a fare i pastori, come abbiamo combinato: chissà che dietro qualche cespuglio non troviamo la signora Dulcinea già disincantata, che non si potrebbe vedere nulla di più bello.» (Miguel de Cervantes Saavedra – Don Quijote de la Mancha – Capitolo LXXIV)

Radio Pirata 65 (settimana cruciale che viene, settimana cruciale che va)

Torna a furor di popolo Radio Pirata, che s’è fatta numero Sessantacinque, traguardo d’invidia autentica per chi non fa giro di boa nemmeno a sessantaquattro. E torna con convincimento ch’è di necessità assoluta far musica e notiziola in qua ed in là, per scovar talento dove talento c’è, a dar possibilità d’emergere a giovane che ha penna facile e vuole darlo a vedere al mondo intero. Che Radio ha volontà di talent scout e si da vetrina a giovane che vuol far di sua scrittura affermazione ad applauso. Ma andiamo subito con musica giusta che settimana comincia di lunedì e detto lunedì è di tali nebbie che ad allietarlo in nota non si fa etto di danno.

Che c’è settimana che si chiuse che odora di zolfo e piombo, per escalescione di guerra a parte del mondo che fu tutta. Che guerra fa a bombarda anche a chi non s’avvede che bomba casca su testa sua perché non sentì botto chiaro e si fece domenica a mangiar pizza tranquillo per scontrino da ecatombe. Che detta guerra è ‘ndo cojo cojo, ma sempre fa centro precisissimo a tale che ebbe a disgrazia di nascere di manto disgraziato, e se s’è fatto malato poi non trova cura che medico ed infermiere, pure medicina facile facile, non c’è per acquisto mancato a sottrazione di finanza, che quella, finanza, serve a far cosa buona e giusta che fu smercio di boma per guerra a dritta e manca.

Ambasciator non porta pena, si disse a saggezza antica, ma antica saggezza è superata e si bombarda ambasciata con tanto di morto e ferito, che se poi taluno che si vide recapitar ambasciator a modo di Attilio Regolo s’altera, – che già era ad alterazione permanente – fa a lancio di ogni cosa a modo pure lui per far morto e ferito. Ma che sia ora spazio a giovane virgulto di penna, ch’egli ritiene interessante messaggio suo, a speranza nostra che non faccia crollo di esagerata audience di Radio Pirata. «Quando i ricchi si fanno la guerra, sono i poveri a morire.» (Jean Paul Sartre) E meno male che fu sintetico, che se continuava a dirla lunga a fatto d’accumulazione di baggianata c’era rischio che audience di Radio Pirata si faceva colo a picco in un tempo di niente.

E quella che se ne andò fu anche settimana di strage che pare coazione a ripetere, in luogo di lavoro dove per sicurezza di risparmio non s’aggiunse troppa altra sicurezza. Che pare cosa non troppo a fatto occasionale che uno se ne va a lavoro, saluta a casa affetti o solitudini, a seconda dei casi, si accomoda a far fatica, poi non torna. E se affetti furono colti d’improvvisa devastazione, pure solitudini, che per cosa conclamata paiono d’anime migranti, pare urlino cose di disperazione. «Attraverso fitte di dolore, ore, squadre e livelle, il job diventava una realtà familiare, una sensazione nuova, brivido di uomini e pietre ed acciaio. Era un gioco, una corsa, una partita, in cui tutti erano attori muscolari, dal fischio del mattino a quello della sera, ed egli era uno di loro. Era giorno di paga e fra poche ore la busta avrebbe segnato un breve armistizio. Era la guerra per la vita, e Paolino era un soldato. Non era come al gioco delle biglie, dove giocava per divertirsi; era un vero assedio, un assedio condotto da uomini maturi e accaniti contro una fame sempre in agguato, contro il nemico ereditario.» (Cristo fra i muratori, Pietro Di Donato) E pure noi abbiamo dato l’obolo d’apparizione a quest’altro che anela a fama imperitura, ma se continua a scriver ad affondare successo di Radio Pirata con insopportabile retorica pauperista, più che fama si becca fame. Che noi, ad altra sorte adusi, mandiamo musica ch’è meglio assai.

E c’è grande isola che si fece matrigna di tenutario di direzione artistica di Radio, che pare essere a secco come piscio di cammello in deserto. E c’è ovvietà in questo che temporalone si ferma, che a traghettamento lento ed infingardo ci vuole tempo indefinito, così rinuncia ad attesa e scarica acqua ad un altrove a bidonata che fa danno, pure a chicco di grandine a strigliar tetto di decappottabile a lusso precisissimo. E prima che isola a forma di tre – che di perfezione fece a meno per esclusiva modestia – si boccheggia di sete, c’è fortuna che s’ebbe direttorio illuminatissimo di levatura cosmica che disse ponte sia, che tutto si sveltisce, pure tasca si piena assai e rapida e a pienare serbatoio poi ci si pensa, se me lo ricordo. E prima di cedere la parola ad altro giovane cercatore si sorti buone per minchiate scritte a cottimo, per non bombardare l’ultima speranza d’un qualche ascoltatore di Radio, andiamo di musica.

«Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l’ evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell’ omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poichè con le isole il punto è questo: sono di per sè parchi naturali e riserve dove lo “specifico” indigeno resiste più a lungo: sicchè rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale… Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benchè non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l’ Alitalia e l’ Autostrada del Sole. Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. Proprio su la Repubblica (31 agosto) Arbasino ci attribuiva una smania di staccarci dalla nazione e ce ne concedeva licenza. Obietto che, dai tempi di Salvatore Giuliano, fra le maschere sanguinose della mafia il fantasma del separatismo non è più ricomparso: e che oggi un eventuale referendum secessionista non raccoglierebbe in Sicilia più di mille o duemila suffragi… La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d’ Italia, dall’ Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d’ Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina… Con tutto ciò, come negare l’ esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’ esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l’ aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.» (Gesualdo Bufalino, su La Repubblica, 19 settembre 1985 su la Repubblica)

Antimerce (Allonsanfàn parte ventiseiesima: l’arte outsider di Grazia Ferlanti)

Grazia Ferranti è tipica esponente di quella che ormai s’è affermata come «outsider art», forma espressiva cui si approda come sponda salvifica oltre le derive quotidiane. È lì l’Arte di chi, per immaginari collettivi mercificati, d’arte non deve occuparsi. Il termine supera ed ingloba l’Art Brut, le esperienze lontane del pittore francese Jean Dubuffet, va oltre ogni categorizzazione. Le produzioni sono non convenzionali, concepite quali percorsi intimi, esclusivi, da autodidatti, in forme talora riabilitative, altre volte catartiche e di riscoperta. Permane sempre, però, una solida volontà di ricerca dialettica e comunicativa del sé attraverso l’arte.


Grazia Ferlanti è tutto questo e in qualche modo fa sue anche esperienze altre, le amplifica con sensibilità originali cui sovrappone il proprio quotidiano. Nata a Modica nel 1988, dalla sua città, da quel quartiere abbarbicato su un costone roccioso, scavato letteralmente nella roccia, si è allontanata solo per breve tempo, per lavorare altrove, nella ristorazione. Una grave malattia l’ha costretta ad un lungo periodo riabilitativo durante il quale si è avvicinata al collettivo Artisti Associati Matt’Officina di Modica dove ha conosciuto il pittore Marco Terroni Grifola, amico fraterno da cui ha appreso le principali tecniche pittoriche. Ho incontrato Grazia per la prima volta proprio a Matt’Officina, lei non parlava delle sue cose, pareva occuparsi d’altro. Aveva una sorta di pudore intimo nel mostrarsi per quello che era, un’artista. Mi accorsi però che non era lì per caso solo dopo aver notato un dipinto su carta di buona dimensione che mi colpì, faceva bella mostra di sé in cucina, dove Grazia pare trovarsi proprio a suo agio. Chiesi di chi fosse. Era il suo.


All’inizio della sua esperienza ha preferito concentrarsi sulla pittura ad olio, con un percorso di rappresentazione di sé stessa, di ricostruzione ed esplorazione del proprio essere. Le sue opere sono esplosioni di colori, solo in apparenza e ad un occhio distratto ingenue, con quella precisa separazione cromatica, il tratto che confina le tonalità in un ambito precisamente definito, la disposizione spaziale che segue logiche incomprensibili, istintuali ammiccamenti a certa psichedelia. Ad uno sguardo attento appare invece evidente la rappresentazione di parti d’un sé disordinato, un caos generativo cui non occorre mettere ordine, non è necessario se la disposizione eterodossa del proprio io coincide con aspirazioni e pulsioni comunicative da non imbrigliare. Dell’io di Grazia, nei suoi dipinti s’avverte la profondità, pure la natura di fermento permanente, non riconducibile a categorizzazioni d’alcun tipo. È arte che si autoriproduce, attraversa fasi dialettiche serratissime con l’artista che la plasma, finisce essa stessa per plasmare Grazia, la rende differente, la racconta senza infingimenti, produce narrazioni libere. Ma c’è, nascosta tra i meandri di quei ghirigori trasformati in magia espressiva, anche la sua Modica, l’intricata sua morfologia, incomprensibile a primo acchito, intersezione d’anime rade, di aperture improvvise, imbuti inattesi di rocce e quel crogiolo di case indefinito tra cascate di cespugli di capperi che si aprono varchi nelle fessure tra le mura e la roccia. Grazia anche lei pare scavarsi una propria identità, un proprio modo di esrpimersi. Partecipa a quel complexus, lo fa come soggetto eversivo (nel senso latino dell’e-vertere, cambiare direzione) giacché, come un’antenna, capta più o meno consapevolmente i segnali del proprio ambiente sociale e culturale (quindi politico), li filtra col proprio vissuto, li trasforma in determinazione creativa. Lo fa quando sensibilità non avvezze all’immaginazione – quindi ad andare oltre -, non sono capaci di coglierne nemmeno i vagiti più rumorosi. Le cose di Grazia appartengono all’immaginario che le ha prodotte, non sono alienabili giacché quel percorso è già stato compiuto. Il suo vissuto impone una lettura differente e soggettiva della sua opera, ne rende l’essenza di antimerce, giacché la merce è tale solo se ne è garantita la riproducibilità seriale. Grazia, invece, è cangiante, non s’accomoda, nemmeno ci prova. Non le appartiene l’idea della compatibilità, del fare le cose «per bene», dunque, se si racconta, si racconta così, non cerca scorciatoie ruffiane, nemmeno ammicca a certa serialità di maniera. Outsider art, pienamente, completamente altra. Ma forse è talmente arte questa da rendere, in qualche modo, outsider, brandello d’arte e convenzione, il crogiolo artistico conclamato come tale da immaginari che stentano a concepire l’arte come comunicazione «onesta», premiante nel gusto degradato della serialità della merce.


Grazia Ferlanti è ancora in mostra per qualche giorno presso l’A/telier di via Pizzo a Modica (RG), in una collettiva che esplora proprio l’arte outsider.

Piccoli malintesi

I miei ricordi spesso si appannano, talora paiono fenomeni carsici, qualcosa riemerge da un tempo indefinito che non so precisamente collocare. Per cui non sono sicuro di aver già scritto di questo. Nel caso chiedo venia, apparirò come certi tipi – categoria di cui forse sono parte organica – che si ripetono, scordandosi di farlo. Diversi anni prima di questo blog ne tenni uno per qualche mese, non di più. Fu una prova che durò poco, tentativo abortito di recuperare facoltà di scrittura. Quella mi aveva abbandonato, se n’era andata via e non desiderava tornare. Ero su una piattaforma altra, nemmeno ricordo quale ma credo sia irrilevante, e com’ero seguito da taluno, seguivo talaltro.

C’era un blog che mi piaceva, postava cose che mi sconfinferavano. Raramente interloquivo ma a conseguenzialità che ritenni tale, postai quel «la bellezza salverà il mondo» che il principe Lev Nikolaevič Myškin volle lasciarci a futura, imperitura memoria. In quel caso – in altri no – vi fu risposta, secca: «minestra riscaldata, roba da salotti buoni».
Non me la presi, semmai mi scappò una risatina a pensare le mie bettole in qualche angolo di suburbia elevati al rango di salotti buoni. Ma forse per me sono proprio quelli, salotti buoni. So bene, del resto, che esiste la certa attitudine molto borghese di attribuire attitudini borghesi a tutto ciò che si realizza ad un paio di centimetri dal proprio naso. Ma è quel «la bellezza salverà il mondo» su cui mi va di ragionare. Perché di tutto si tratta fuorché d’una volontà del buon Fëdor Dostoevskij di esaltare la bellezza in quanto tale. L’Idiota cerca la bellezza perché quella emoziona, la riproduce financo a partire da se stesso, non vuole che sia minestra riscaldata, il pret-a-porter del gusto raffinatissimo delle élite. Perché è appagante ritrovare quel tentativo di «bello» che sta in una pianta di gerani fiorita in un vicolo d’un centro storico in abbandono, mentre il tetto della casa regge a stento l’ultima pioggia e non c’è certezza d’un pranzo all’altezza della cena. Ed una primula rossa sul davanzale d’una finestra d’un cubo di cemento trenta per trenta, in una periferia dimenticata non commuove forse? Non spinge lo sguardo verso un altro orizzonte che rifiuta ogni sopraffazione, in quella ricerca disperata non c’è l’emozione della bellezza?

Ed oggi l’idiota è tale per convenzione, è così per l’immaginario collettivo, ha la presunzione di pensare di emozionarsi per una bellezza in divenire, per la sua ricerca. Nei grandi e magnifici salotti la comprano un tanto al chilo, si raccontano di visite nei grandi musei, le crociere verso i mari lontani, surrogato d’emozione, malintesa commozione. Ma sono, quegli stessi eleganti consessi, talmente collaterali – quando non direttamente lo sono essi stessi – a chi decide con le proprie leve le sorti della bellezza, a chi, in luogo di piante di gerani in vasetti sbeccati di terracotta, preferisce l’esosa «bruttezza» della bomba.

Vi riposto «Il lungo viaggio», che forse un po’ racconta di questa ricerca istintiva della bellezza.

Aristocrazie di ritorno

«Nel giro di tre o quattro generazioni la gente non sarà più nemmeno in grado di scorreggiare da sola e l’essere umano regredirà all’età della pietra, alle barbarie medievali, ad uno stadio che la lumaca aveva già superato all’epoca del pleistocene. Il mondo non verrà distrutto da una bomba atomica, come dicono i giornali, ma da una risata, da un eccesso di banalità che trasformerà la realtà in una barzelletta di pessimo gusto.» (Carlos Ruiz Zafón, un saluto a chi è andato via troppo presto)

Qualche volta incombenze di burocrazie incomprensibili e autoreferenziali ci riportano in un certo indietro. Ieri mi hanno riportato nella mia vecchia città. Non ci mettevo piede da anni. Mi sono ricordato perché non appena sono arrivato. Semplicemente perché non c’è più, al suo posto c’è qualcosa che non conosco, che non è mai stata parte di me. C’è una gran folla festante, i vicoli paiono straripanti di vita, ma se ne sente l’olezzo di morte, camuffato dall’odore nauseante di cibo rancido, di mille bistrot, localini. Ho fatto quello che dovevo fare e sono scappato, non senza aver subito l’interminabile attesa d’una coda in auto, all’andata, pure al ritorno che pareva m’avessero occluso le vie di fuga. Sono quei casi in cui evito di fotografare, quindi niente immagini per questo breve, interminabile viaggio.
Qualcuno penserà che sono uno snob, che non mi sono mai attrezzato a condividere con il popolume turistico i fasti delle cartoline. Ebbene, comunico al mondo intero che è proprio così, sono uno snob, un aristocratico della bettola, l’elitario frequentatore di cantine dimenticate. Alla banalità del calice preferisco il bicchiere doppio vetro, vagamente sbeccato in basso, quello delle mescitorie d’annata. Dovevo farmi passare la sbornia urbana e, tempi alla mano, mi sono immerso nel dimenticato mondo che sta intorno la mia casetta di provincia, alla ricerca del vino del contadino, d’un silenzio riparatore, d’un profumo giusto, d’intonaci cadenti, d’aperture improvvise, la campagna lontana di muri a secco, carrubi, ulivi, d’una musica lontana ed indefinita. A dispetto d’un ginocchio che s’incapriccia ho percorso mille mila scalini, salutato anziane signore, scambiato due parole con un anziano scalpellino, fumato seduto su un muretto, sin quando ho trovato la scaccia adatta, pomodoro e prezzemolo, un rosso che sa di sale e di terra, poi, però, ho fatto due rossi. Senza chiavi d’auto in mano, senza fila alla cassa, nemmeno al casello, mi sono perso nel su e giù, ed ho avuto voglia di qualche foto, a ricordarmi che ancora c’è urbanità resistente, per quanto non so ancora, ma finché c’è ne approfitto.

Me lo sono fatto durare questo viaggio, perché è ancora di scoperta. Mi faccio sorprendere da un sottopasso che non ricordavo, un cortiletto tinto del viola d’una bouganville, del giallo d’un limone, del verde del cappero che respira primavera, da una fila di case che paiono reggersi a vicenda per scalare l’ultimo costone di roccia, lo sventolio dei panni colorati, bandiere che festeggiano l’impresa riuscita. Le porte sono chiuse, quelle poche oltre le quali c’è vita. Non c’è quel tanfo per cui c’è affezione nei turismifici, di graditissimo cibo da mensa d’azienda sotto le mentite spoglie di portata caratteristica, pure a prezzo da strozzo. Il profumo è lieve, ne avvertono di più i gatti, fieri gendarmi della derattizzazione, che s’affollano dietro le porte giuste. Le ciotole vuote dicono che presto si riempiranno di nuovo. Il lavoro prezioso va retribuito come si compete. Ed ora è tempo d’una sosta da Totò che ha aperto bottega adesso, poi un caffè da Piero ed a casa, m’è tornata voglia di scrivere.

Ed ancora vi posto «Il lungo viaggio»