Il vento fischia, pure io
Sono periodi dell’anno in cui la liturgia si consuma stanca, ad elencare voti e catalogare prestazioni si fa lentamente, più per numeri elevati che per pretesa di precisione. La classifica d’alunni si fa ad appiattimento di differenze, quattro cinque voti a definirne la moltitudine. Numeri esausti ch’io, i numeri, intendo, ben li conosco, e so che non son fatti per quello. Ma tant’è, c’è l’orrida consuetudine di cataloghi e categorie d’umana esistenza. E tanto mi pare tela di Penelope quella prassi liturgica, tanto più che la bomba figlia e fa bomba con incremento demografico a contrasto d’incremento umano, ed uno mai poté valere uno. Uno pare qualunque, altro pare niente. Cullato da nessunitudini, ad ansiosa compilazione di verbalini, riciclo già scritto.
«Il dramma è finito. Perché allora qualcuno si fa avanti? Perché uno è sopravvissuto alla distruzione.
Accadde che, dopo la scomparsa del Parsi, io fossi colui che i Fati destinarono a prendere il posto del prodiere d’Achab, quando questo prodiere assunse il posto vacante; e quello stesso che, quando all’ultimo giorno i tre vennero scaraventati dalla lancia rollante, cadde a poppa. Fu così che, galleggiando all’orlo e ben in vista della scena seguente, quando mi raggiunse il risucchio indebolito della nave affondata, venni tirato ma lentamente verso il vortice che si chiudeva.
Quando lo raggiunsi, il vortice s’era calmato in uno stagno di schiuma. Tutt’intorno, allora, e sempre avvicinandomi alla bolla nera, in forma di bottone, dell’asse di quel circolo lentamente roteante, io girai come un altro Issione. Finchè, raggiunto quel centro vitale, la bolla nera scoppiò. Liberato per via della molla ingegnosa e per la sua grande leggerezza venendo a galla con gran forza, il gavitello bara balzò per il lungo, su dal mare, ricadde e mi galleggiò accanto. Sostenuto da quella bara, per quasi un giorno intero e una notte, andai alla deriva su un mare morbido, funereo. I pescicani disarmati mi guizzavano accanto come avessero lucchetti alla bocca; i selvaggi falchi marini passavano coi becchi inguainati.
Il secondo giorno, una vela s’avvicinò, e finalmente mi raccolse.
Era la bordeggiante Rachele che, nella sua ricerca dei figli perduti, trovò soltanto un altro orfano.» (Moby Dick, Herman Melville)
La Rachele è tormento d’attesa, scorcio dimenticato, non resiste all’apocalisse d’astio viscerale che lega ogni avventura d’umanità alla sua naturale rovina. C’è una Rachele con la vela issata per ognuno, a favore di venti giusti, siano placidi ponentini di bonaccia, siano sferzanti libecciate. Persino per chi ne nega la necessaria esistenza, l’ignora con la protervia che illumina solo l’obiettivo sacro che in nuce contiene il suo stesso fallimento prima o poi scruterà oltre l’onda per distinguerne il passaggio di speranze. La Rachele vola sulle onde, non schiamazza alla vista del sangue, s’ovatta di silenzi, non intacca i colori, non rende il mare vissuto meno profondo, non disturba l’ignavia del tempo. C’è una Rachele per ognuno, per fortuna.
Talora la si vede navigare come sa fare, in fondo ad una bottiglia, il fil di fumo d’una sigaretta, tra le pagine d’un libro, le note giuste da fischiare che fanno Fee-Fi-Fo-Fum.