La calce ed il cotto (parte seconda)

Pare che la natura s’attrezza a ripigliarsi il suo, che fece di terra che trema e vento di scirocco furibondo sue armi letali, a dispetto d’onnipotenza umana. Mi giunge voce, che son lontano assai in questo momento, che la fornace si sgretola malamente, a forza di bufera che non s’arresta. Mi sovviene che è poca cosa che pure anime migranti si misero a condizione d’inghiottimento per onda alta metri e metri. Ma è sempre cosa di miei ricordi che sparisce, e infonde tristezza di vertigine.

“Lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus orca) E a sommo di mestizia riprendo cosa antica.

“Mi dicono, taluni, ch’io vivo a nostalgia, che è cosa non rispondente al vero, poiché del bel tempo andato non ho affezione particolare, che fu tempo di travagli. Ma v’erano, tuttavia, marasmi di dettagli di solluchero allora, dunque – saggio di filosofia quale Epicuro – me li serbo ancora, che non sono più apparentati solo con quel tempo, rimangono nell’oggi, lontani, dunque, dall’essere esclusive rimembranze, come certe musiche che suonano ancora.

Talune di quelle cose si perdono, me ne dolgo e a quelle si, rivolgo rimpianto. Ozio e lentezze mi sono ancora cari, quali cenni di svago, pure cose di densità palpabile ancora m’appartengono. Preciso, invero, che mai mi rivolsi più di tanto ad affezionarmi alle cose di stretta proprietà, le tratto con svogliatezza, se escludo dal novero dischi e libri. Ma cose di legame ne conservo, che non sono mie, nemmeno mi sconvolge l’idea possano essere d’altri, che la bellezza rifiuta l’appartenenza, rifugge del concetto proprietario. Sempre, nella valutazione che non è bello ciò che è bello, che principio di bellezza, forse, non è fatto assoluto. Che di certe bettole che mi furono aule di scuola, sentii disquisire malissimo, in contrappunto non cantante con certe tavole apparecchiate a lusso. Di tali personaggi di cui m’innamorai, e che fecero storia contorta di sé, mi pare di ricordarne censura. Pure per certi vini, che sapevano di terra e sale, e mi vennero a conforto – financo d’economie approssimative – ricordo espressioni di disgusto.

La fornace, vecchia cattedrale che dalla punta si sdraia sulle onde, ghermisce di camino il cielo, e s’apparecchia al tramonto come quinta estatica sul tutto d’intorno, è una di quelle siffatte idee concrete che mi convive di simbiosi.

Seppure non me la godo quanto mi parrebbe, me ne faccio racconto, memoria presente, e il reincontro attendo con le ansie vaghe di chi ha caduca certezza delle cose. Consunta nelle malte incendiate, lei, s’è retta – capolavoro d’architetti che non pensarono alla storia – un secolo e più, d’equilibri precari di pietre, sottese a leggerezza, a sorreggersi l’un con l’altra, pare, a dispetto di leggi newtoniane, pure di convenzioni socio(il)logiche nelle contraddizioni dell’oggi. Ma ogni anno, il rinnovato afflato, mi pare che s’abbandoni al desiderio di sparire e, mentre mi rendo ancora nessuno al suo cospetto, lei adesso smunge, si compenetra con la sabbia generatrice, s’affolla di salsedini e si concede al vento, pietra su pietra. Mi dice, or ora, il maestro sulla punta del corvo, di pennelli e scalpelli assai edotto, che s’amputò un’ala, che quella mai rivedrò se non in cocci. Un po’ più monca, piano piano, la fornace pare s’arrende, forse al desiderio di divenire nostalgia, ricordo d’ozi e lentezze, sigarette rubate, in bilico di falesia. O forse issa bandiera bianca di calce e cotti sul comignolo più alto, per sopraggiunta noia e stanchezza di irruzioni cash & carry.

Conosco delle barche

La traversata era cominciata e la nave, come un frammento staccato dalla terra, correva solitaria e rapida come un piccolo pianeta. Intorno ad essa gli abissi del cielo e del mare si univano in una irraggiungibile barriera. Una grande solitudine sembrava avanzare tutt’intorno con la nave, sempre mutevole e sempre eguale ed eternamente monotona ed imponente. Di tanto in tanto un’altra vela bianca errante carica di vite umane appariva lontano e spariva diretta verso il suo destino.
(Joseph Conrad)

Ora sono solo numeri, numeri sparsi, oltre i necrologi, mentre è discussione accesa sul nulla che avvolge l’ultimo naufragio, solo ieri. Quello, il naufragio, non c’è più, forse non c’è mai stato, non se ne sente il bisogno, non v’è necessità se non a dimensione di trafiletto scordato.

Pure, il porto salvo, era lì, che ci sono tali che a forza di braccia fanno tratti più lunghi, roba da applausi, record e medaglie. Il corpo sfinito dalla fuga infinita non regge. Sei uomini, tre donne, una è incinta, un’altra è giovane, ha perso i sensi per fame, sete, freddo, teneva tra le braccia il suo bambino, scivolato via, finito inghiottito dalle onde. Questi sono quelli che non ce l’hanno fatta per ultimi, ed il racconto dei sopravvissuti si fa cosa che non si descrive con semplice strazio. Altre anime vedranno quanto è profondo il mare, Altre bare le attendono, ci sarà legno per farne ancora, useremo i relitti spiaggiati poi passeremo alla plastica, ricicleremo, che ci piacciono le economie circolari, il vuoto a rendere. Chissà chi vince il festival.

Conosco delle barche
che restano nel porto per paura
che le correnti le trascinino via con troppa violenza.
Conosco delle barche che arrugginiscono in porto
per non aver mai rischiato una vela fuori.
Conosco delle barche che si dimenticano di partire
hanno paura del mare a furia di invecchiare
e le onde non le hanno mai portate altrove,
il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.

(Jacques Brel)

Radio Pirata 52 (Contromanifestazione canora)

Radio Pirata si fa Cinquantadue tondi tondi, pure a contromanifestazione che diventa tale di grandezza e forma che altra pare ella contromanifestazione. Qui e ora facciamo a meno di comici, che tutti scelsero altra platea, pure quelli a distacco ad altra mansione che se non fosse che fanno piangere farebbero ridere a bomba. Qui a Radio si fa cosa seria che si scelgono migliori promesse musicali e si esaltano grandi virtù di giovani musicisti che si faranno ossa proprio a questa prestigiosissima kermesse che ancora una volta risulta prima negli ascolti a casa mia. Per non far delusione a nessuno cominciamo subito con ascolto sensato e breve dichiarazione di detto autore.

La morte non è la più grande perdita nella vita. La perdita più grande è quello che muore dentro di noi, mentre viviamo, quando rifiutiamo di affrontare i nostri demoni. Quando costruiamo muri invece che ponti, ci alieniamo, diventiamo estranei” (Chet …)

Che ponte pare quello che toglie isola dall’essere isola, ma mai ci fu pensiero di più grande distanza da ponte che unisce, ponte è a concezione di cosa che distrugge e basta, pure se non crolla non affratella, si fece a maggiore segregazione che ciò non fu possibile nemmeno ad immaginazione contorta e deviata.

E dopo assaggio di nuovissima ed intensa cosa di giovane talento a batter tasti in bianco e nero, discernendo il suono dell’uno da quello dell’altro per farne fusione perfetta, mi piglia schiribizzo di darvi notiziona in anteprima assoluta: a me non mi viene da ridere, pure se c’è cose che farebbero scompisciar dal ridere fossero film dei Monty Python, ma ebbi idea che talune sono vere.

Fu fortuna che, con atto di scaltrezza, m’assicurai nuova ed intonsa bottiglia d’Oro Pilla ad accompagno di note di Radio Pirata Controfestival che comincia, a parer mio, ad essere cosa di spessore importante. Forse non rido, ma almeno non piango e vado di cose preferite.

“La creatività consiste nel rendere meravigliosamente semplice ciò che è complicato.” (Charlie…) Qui in Radio Pirata facciamo solo cose semplici, ché quelle complicate non sappiamo bene come sono fatte, sono cose che appartengono a gente illuminatissima, gente meritevole e migliorissima, gente che sa come sparacchiare bombe e che fa festival di grandissima audience. È roba per persone che muovono PIL, che affogano nel rendiconto bancario, che sanno bene chi fare affogare a lontananza prescrittiva da porto salvo.

“Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra.” (John…) Che, anche se sono giovani e non si conoscono così bene, a noi ci piace che certi musicisti dicono queste cose, che ci facciamo per benino a curatori loro, certo confusi, ma quando mai a Radio Pirata abbiamo aspirato ad ordine e cose così?

Radio Pirata 50 (per eccesso d’eccesso di misura a strabordo)

Radio Pirata fa grande traguardo di puntata numero Cinquanta che s’appresta a festeggiamento per giusta causa d’esistenza lunga e prolungata, musicante e scrosciante d’applauso a scena aperta e augurio collettivo di altre mille e anta pure di più puntatona di scoppiettanza. A festeggiamento c’è invitato lussuoso a numero elevatissimo – ma con turno preciso a gruppo di meno d’un certo per evito adunata sediziosa a precisione di decreto per rave – con red carpet che ognuno se lo porta da casa che Radio è di profilo basso per modestia ma al contempo elevatissimo d’oggettivo, che pare tutto e suo contrario con sommo gaudio di spargimento di confusione. Che subito si parte a musica giusta che mai fu di tal portata più giusta.

Ma Radio non rinuncia a far anche cosa di cronaca come si compete ad organo d’informazione di superba qualità. Che notizia pare ormai acclarata che Grande Glorioso e Giusto Partito di Sinistra è ormai a cosa acclarata che ha candidato di segreteria in numero esatto di suoi iscritti che se accordo non si trova si va a ballottaggio fra tutti per risultato di uno a uno a uno a uno a uno a uno (ad libitum ma non troppo). Ora c’è pressing che almeno qualcuno si astiene, tal altro non si concede voto a sé che vota un altro che almeno si fa due a uno e palla al centro, anzi, a destra.

Continua lunga e diritta correva la rotta che non si fa a sbarco per fugaiolo da morte e miserabile esistenza a porto salvo più di prossimità per rifocillo e riposo, ma si sceglie porto a lontananza estrema che tanto prima o poi s’arriva a mal di mare fitto fitto che la pacchia è finita e corsa di taxi marino costa di più.

Meglio pure se porto è ad accoglienza con pugno chiuso e Bella Ciao e concerto di Inti Illimani che, però, a far scandaglio di tale porto, pare che quello non c’è, che a far tale accoglienza non se ne fece cosa di massa che c’è impegno altro di tutti a tale opzione politica a far candidato a Grande Glorioso e Giusto Partito di Sinistra.

E c’è pure guerra che si fa sempre più a bombarda che c’è ressa a partecipo anch’io a mando bombarda di produzione sovrana che è grande pubblicità a fabbrica d’orgoglio di nazione ad altissimo grado di civiltà. Che tale ressa pare a chi ha bombarda e bomba più grossa che a furor di merito è tutto a espressione per dotazione migliore che grande consesso d’alleanza militare pare studentato d’adolescente per misura di orpello intragambale a maggiore gittata.

Radio riporta notizia che paese di Samba, per sgambata fine settimanale e palla a rotolo con virtuosismo per rete gonfia, pare ora roba d’assedio per grande timore di democrazia verde Oro fatto da brave persone di ieri ed ora non c’è accordo su loro esistenza. A fatto che s’ode ad altro emisfero squillo di tromba si risponde con tafferuglio di tifosume a blocco d’autostrada per ore ed ore per taglio in due di paese intero e coda di disperazione di bimbo che piange e vecchietto a mancanza di conforto di toilette per prostata in disarmo ed incontinenza a mancanza di rispetto per liturgia domenicale di Sisal. Però palla rotola ancora che The Show Must Go On.

E per fare grande augurio a se medesima Radio dedica a se stessa come mazzolin di fiori bella palazzescata giusta ed ancora fa augurio che anno nuovo sia anno con grande felicità a malgrado di accise ipertrofica.

MAR GRIGIO

Io guardo estasiato quel mare,
immobile mare uguale.
Non onda, non soffio che l’acqua
ne increspi, non aura vi spira.
Di sopra lo cuopre un ciel grigio
bassissimo, intenso, perenne.
Io guardo estasiato tal mare.
Non nave, non vela, non ala,
soltanto egli sembra un’immensa
lamiera d’argento brunastro.
Su desso si mostra coperto ogni astro.
Il sole si mette una benda di lutto,
la luna un vel grigio,
le innumeri stelle lo guardano
tenendo un pochino
socchiuso il lor occhio vivace.
Io guardo estasiato tal mare!
Ma quale fu l’acqua ad empirlo?
Dai monti sgorgò? Dalla terra?
Dal cielo essa cadde?
O cadde piuttosto
dagli occhi del mondo?
Mar grigio siccome una lastra
d’argento brunastro,
immobile e solo, uguale,
ti guardo estasiato!
Ma c’è questo mare ma c’è?
Sicuro che c’è!
Io solo lo vedo, io solo
mi posso indugiare a guardarlo,
tessuta ò la vela io stesso:
la prima a solcarlo.

(Aldo Palazzeschi)

Colonne sonore

Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.

“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.

A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.

Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)

Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.

Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.

E voi avete colonne sonore?

Okkio

Che meraviglia a giocar di fregola di clava che a luogo di quella si usa disgraziato a ripescaggio da annego sicuro che io non lo voglio e neppure io. Che meraviglia risveglio d’orgoglio sacro d’imperi, che a far due conti pareva che fossero già a puzzo di putrefazione a caldo che cuoce, e ora, a momento di son desto, pure peggio pare odore nauseabondo ch’emana da presidi imperituri di culla di civiltà varie e sparse. Ma io faccio opposizione a riflesso emetico spontaneo, e mi do a raccontar di riciclaggio favola che la morale non la scrissi, che ognuno ci veda quel che gli pare.

“Era così piccolo, il topolino, che da quella feritoia sotto il battiscopa ci passava solo lui, manco quel forellino era visibile agli occhi della coppia di contadini che abitavano la casa. Era più piccolo pure degli altri topolini dei dintorni, era nato così, ma quello che pareva svantaggio fu fortuna sua che lo rese invisibile. Nella sua tana ci stava comodo comodo ed era felice. La mattina, quando i due umani uscivano di casa, lui veniva fuori di lì e raccattava le mollichine sotto il tavolo, che si faceva dei bei pranzetti. Qualche volta cascava anche qualche pezzo di buccia di cacio e per lui era festa grande. Se la portava nel suo rifugio e pure ci beveva sopra qualche goccia d’acqua che veniva giù da un tubo rugginoso. Stava bene ed era contento.

Pure si sentiva utile ché, a ripulire d’avanzi il pavimento, faceva che la casa non s’infestasse di formiche. Una sera, che s’era saziato, se ne stava in panciolle quando udì uno strano armeggiare da oltre il battiscopa. Da un forellino lì nei pressi puntò l’occhio a cercar di capire che succedeva. Il contadino stava mettendo su qualcosa di tremendo, una trappola proprio per lui. Non ne aveva mai vista una, ma la riconobbe facile, che gliela aveva descritta un tempo, ch’era ancora un sorcetto da nulla, un suo zio. Quello, lo zio, c’era incappato malamente e ci aveva rimesso la coda che non ebbe più equilibrio e camminava che pareva ubriaco. La notte la passò a tremare di paura, era terrorizzato che non sapeva che altro stessero preparando per dargli la caccia, nemmeno era convinto si fossero fermati alla trappola. La mattina, che ancora tremava e nemmeno aveva chiuso occhio, appena udì che i due se ne uscirono di casa, si precipitò fuori che non ebbe manco il coraggio di razzolare sotto il tavolo della cucina per far colazione. Giunto nell’aia, cominciò a squittire così forte che la gallina, il maiale e la mucca lo udirono e si precipitarono per capire cosa stesse succedendo. “Cosa c’è, sorcetto? – Disse la mucca – Cos’hai da urlare?”. Tremando, spaventato pure dall’idea di non riuscire a farsi capire, il topolino disse che aveva visto tirar su quella macchina infernale, la trappola. Ma la gallina gli fece pronta: “Io capisco che tu possa essere preoccupato, ma cosa c’entriamo noi? Non è mica per noi quella cosa?” E pure il maiale disse la sua: “Caro sorcio, mi dispiace veramente per te, ma, tutto sommato, non è un problema nostro”. Infine la mucca: “Eh, caro sorcio, il destino ci appartiene e come tale dobbiamo occuparci ciascuno del nostro. Comunque, ti auguro buona fortuna”. Ridendo e sghignazzando, i tre si allontanarono. Il topolino, adesso, oltre che terrorizzato, era pure mortificato, si sentiva umiliato, invisibile più di quanto la sua piccola statura ce l’avesse reso. Sfidando la sorte se ne tornò al suo buco, zampetta dopo zampetta, guardingo e tremante. Quella notte stessa, si sentì un gran frastuono provenire da oltre il battiscopa, un rumore tale da paralizzarlo. Ormai era certo che oltre quella barriera sottile si stava consumando qualcosa di orribile. Ma volle guardare ancora dal forellino spia. La trappola era scattata, ma su un serpente velenoso che, prima d’essere ucciso dal contadino, era riuscito a mordere la donna ch’era stramazzata al suolo tra le urla. Persino si dispiacque, il topolino, che alla fine la coppia l’aveva pure sfamato. Fu fortuna per la donna che i medici riuscirono ad intervenire rapidi e le salvarono la vita. Ma la convalescenza fu lunga e il contadino sapeva che la miglior medicina per un malato è un bel brodino caldo. Così ammazzò la gallina e lo preparò alla sua compagna. Non passarono che poche settimane che quella si rimise in piedi completamente guarita, e fu tanta la gioia che organizzarono una grande festa invitando tutto il vicinato. Con tutti quegli ospiti a festa, per la grazia ricevuta da Domineddio, non si poteva che ammazzare il maiale. Ma finiti i bagordi, giorno dopo giorno, i due sposi dovettero fare i conti con i debiti accumulati per pagar le cure, addivenendo all’unica conclusione che occorreva vender la mucca al macellaio. La povera bestia fu caricata su un carro, e quando giunse al mattatoio, vide tra le ultime sue lacrime, l’immensità della trappola per topi.”

Incipit

A tempo perso ho giusto incipit per nuovo lavoro di gestazione lunga solo perché tempo pare tiranno inesorabile. Che incipit si fece a convergenza con desiderio a oggetto dello stesso per ricerca di distacco, e non me ne venne di maggiore idoneità a racconto di mi faccio altro rispetto al tutto, che è tutto che pare assedio di fortilizio a fronte di deserto aperto.

C’è scoglio e scoglio, che non tutti sono uguali. C’è scoglio finto, eletto a frangiflutto, di pietra per scherzo, manufatto di calcestruzzo d’innaturale cubo, schiavo già a concepimento, a prendere schiaffo di mareggiata per protezione di banchina di molo, a non far di rena di lido polvere di marea, a reggersi a barriera per porre divieto di diruto a villetta fronte mare, a budello di strada a fresco di palma solo voragine di falesia. C’è scoglio a supponenza, che mette culo a nord e muso a sud, pure a viceversa, a prender sberle da vento di maestro, ma che non si fa a sottrazione di scirocco e libeccio. Tal altro scoglio si fa ponente e levante insieme, che di grecale patisce l’onda, ma pure a provenza s’espone, a farsi rosicare frammento ad ogni uggio di tempo. C’è scoglio mansueto, che s’alliscia piano di risacca, si infila collana di cistoseira, all’uopo s’adatta ad ospizio per sole, si finge spiaggia rubiconda a color medesimo d’arenaria. C’è scoglio pure che non s’avvede di brutalità di bufera, che prima s’alza a promontorio, poi, a grattar d’onda a tempesta, diventa amputazione, pare nave d’Argonauta pronta a varo e, a confine suo, fatta isola, si cinge di posidonia.

Ce n’è altro che di corrosione di sale si camuffa a riccio puntuto, diviene collezione di lama di rasoio e qui non si cammina. Se ne videro che prima furono in vetta a ripido strapiombo, poi, per scavo d’inesorabile cavallone, si fecero scoglio riverso per crollo improvviso, e ancora portano traccia di antica postura in radice d’arbusto cotto al sole. Se ne scorsero di biancheggianti di calcare, tali altri furono di nero basalto o dorati di friabile argilla. Certi paiono a gobbe di cammello o unica di dromedario, su altri si scavano pozze, diventano alveari di granchio e paguro, s’istoriano della patella, si tingono di mitilo. Tutti questi, tanti altri, non s’affermano d’ospitalità mondana per forza, talora stanno alla larga da fasto di cartolina, s’accucciano a braccia di mare, ne reggono l’urto d’intemperanza, si carezzano di bonaccia, ma pare fanno all’unisono trampolino per sguardo acceso a volta d’orizzonte, passerella per infinito, si tingono di colore di sangue e vino quando la distesa dinnanzi s’inghiotte il sole, per poi risputarlo a luogo opposto. Si strisciano di bianco di sale, talora patiscono il tratto nero della pece, l’azzurro della pietra celeste che impazzimento produsse al polpo a tana di sotto. Se ne vedono che pare che aspettano compagnia, si dispongono ad acqua cheta, ma pure fanno resistenza a fortunale, che sollevano lo spruzzo ad altezza di vertigine e fanno omaggio di sale al tutto d’intorno. Ma non c’è, mai ci fu, mai ce ne sarà, scoglio che si sottrasse a braccia ad aggrappo per porto salvo, che pare – scoglio intendo – a cuore assai ampio per accoglimento d’altro che fece cammino d’intemperia. Che tra uomini fu a poca rilevanza di percentuale rispetto a moltitudine totale di scogli chi mostrò cuore di pari ampiezza che quei pezzi di pietra.

Proposta modesta

E dopo che passa tre minuti, sciopero diventa roba già a dimentico, nemmanco a trafiletto all’indomani, solo risposta di ministrissimo che dice son “tutte balle”. E che volete che scrivo oggi? Che mi vien di dormire, al più non vedo. Che riciclo, allora, che è cosa che faccio con sommo piacere, ad aggiungo richiesta a voi che fareste ad atto di rivoluzione che abbassa reddito di cittadinanza di bombardaroli? Al più vi mando musica altra ch’aggiungo alla già data.

“Che questo è paese straordinario, con fuga di cervelli a millantato credito, che il meglio è qui che resta. Di talenti abbiamo zeppo faccialibro, pure televisioni a reti unificate a fermo immagini di bomba d’esplosione acuta. Paese di gente che sa, che argomenta invero di raffinatissimo pensiero, che ieri l’altro seppe varare, su proprio profilo, riforme d’istituzione di grande statista, trovò soluzione da Nobel d’economia a bolla speculativa, risolse pandemie da sgamato virologo, ora s’appresta a sentenza definitiva su indagine geopolitica. E faccio musica, ch’io di quello m’intendo, pure di frittata e cipolla, che son nessuno e tale resto fino a fine di miei giorni che auspico per colpo apoplettico, non d’atomica.

Che paese così non poteva che esprimere politico elevatissimo, banchiere da paura, giornalismaio che Pulitzer pare conferito a scribacchio di cronaca per saga della mortadella. Paese così è roba che mette paura a chi fa panno basso, a chi naviga a vista d’ignoranza, che non capisce, ch’io fui preso da terrore atavico che tra questi m’annovero. Che non comprendo è fatto ovvio, che mi sfugge che re d’accoglienza sono uguali e pari a quelli che a bombarda per respinta si attrezzavano per profugo Africano, Afghano, Curdo o Siriano. Pure, mi chiesi, a lettura di giornalistone che per trema di polsi non nomino, che v’è ipocrisia in pacifismo da rincaro per bolletta, che di suo pari mica ci si può mettere a riflettere che costo di benza è ad orefice, e gas per bucatino al burro pare a prezzo di Brunello per chi sfanga il mese a milleedue. Che politico che dice che alzo di prezzi è colpa di boia per guerra, mette stato d’emergenza, ma non disinnesca accise per aumento, avrà ragioni sue, che a me, che sono a mente semplice, sfuggono nella loro struttura di vertigine di comprensione.

Ma poiché ognuno a suo dire risolve, pure se non sono ognuno ma nessuno, m’azzardo all’uopo a dire la mia, che tanto vale quel che vale. Che mi viene lo sghiribizzo di pensare a soluzione di sciopero globale e di popolo non oligarca, e per giorni uno, mica a blocco d’autostrada, a feroce picchetto, nemmeno a fermo coatto di macchinario. Ma per giorni uno mi verrebbe di pensare ad evento funesto per stile di vita a civilissimo occidente, a far come i selvaggi, stesi al sole di clima impazzito, senza nulla operare per giorni uno, nemmeno spesa a centro di commercio. Per giorni uno, per fermo immagine d’istantanea, immagino passeggiata a parco, pranzo a pane e pomodoro, lettura collettiva di libro, non in fila a cassa o pompa di benzina.

Per giorni uno immagino popolo disteso a scoglio, a non far altro che scruto d’orizzonte, racconto di nuvola, sasso a stagno. Per giorni uno vedo immagine d’eversione feroce in nulla collettivo, in divenire nessuno e tutti al contempo, a lentezza inesorabile attrezzarsi per non consumo di un tanto al chilo, a briciola per fringuello. Per giorni uno vedo offerta di bicchier di vino di contadino a tal che non conosco, sguardo di non rimprovero ad altro che non ci appartiene, ad auto a parcheggio dimentico. Per giorni uno m’avvedo di torma nullafacente, strascicante in ciabatte, senza lustrino, senza sciortino, senza pellicciotto, con canotta disinvolta, a immondizia bandita. Per giorni uno senza faccialibro o altro ammennicolo, senza news di scampanata a morto, la TV a espressione di lavatrice, a grattare corde di chitarra, a sussurro di poesia, a canzone per coro. Per giorni uno basta, che vena ai polsi trema ad altro se si ripresenta quel giorno uno, che pare bombardamento a tappeto.”

Radio Pirata 21 (per amor d’interventismo)

Radio Pirata torna per quota Ventuno, che non è quota a pensione che in libretto di quella c’è scritto fine pena mai. Torna e si fa Repubblica, pure s’attrezza a guerra, con arsenale che superpotenza pare ha petarduccio di bimbo monello a festa di morti. Che se non partecipi ad azzuffo vai a smidollo, pari amico di zar che ora tutti non riconosce più, che pare Supremo di Pietro Aretino che “di tutti parlò male fuorché di Dio, scusandosi col dir non lo conosco”. Che arma possente di Radio Pirata è tale che oltre è a banal fattura di morto, che tanto è di portento che soffia vita e resuscita l’ammazzato. E si parte subito con superbomba.

E la paura di guerra fa novanta, come numero di morti a giusto ieri, a poco largo di coste di civiltà, in Mar d’Africa mio, che quelli fanno a vedere quanto è profondo il mare, mica sono profugo vero, che gli piace l’annego facile, e paese civile, che ha a cuore democrazia, non può impedire soddisfacimento di intrinseco desiderio di far finta d’essere pesce, pure lesso.

Pure giornalettume a commozione autentica per disgrazia d’ex oltre cortina non ha inchiostro a sfaldo per scrittura di tale morto ammazzato per dabbenaggine, pare financo per viltà di sbagliar candeggio. E io sparo bomba a musica che la metà basta a brivido.

Che cambio di clima pare ha tessera bolscevica, che gioca a rimprovero che asciuga il fiume grande e scoperchia nave di seconda guerra, che poi mai s’è conclusa e pare che te lo rinfaccia. Che fiume, ad accordo complottista con effetto serra e pioggia da altra parte, non ha spirito di democrazia, e di libertà fece cartoccio a discarica abusiva, pare lancia messaggio non richiesto. Che è vil fellone pure fiume, pure cambio di clima, pure tutti e due antichi di pensiero che non si rinnovano a dollaro, rublo e bombardo esatto. Qui a tenzone si tira dritto ad evento bellico e si sgancia supermissile ad improvviso di lunga gittata di nota.

Che ieri giovane è morto di lavoro, che a più di cento da inizio anno puzza di disfattismo che ha grazia di finire a trafiletto. Che è fortuna che stampa illuminata non casca in trappola e non dichiara che pure quella è guerra che a taluno scompensato potrebbe apparire tale. Si tratta solo di remo a contro corrente, di disprezzo per libertà e diritto di far soldo a iosa, che quello è puntello di democrazia e di stato liberale. Che fu fortuna che governo di migliori non presta attenzione a fatto così e, di lungimiranza, abolì pandemia a decreto di visione amplissima. Sgancio altra bomba a suono immortale.

Che è bella la guerra, che induce a parlar di cosa seria, non di scemenza di tutti i giorni, spacciata a tragedia di chi ha critica endovena, e non s’avvede di destini fulgidi d’umanità in mano a intelletto superiore. E vi faccio buona domenica a tutti, domenica di fiume di rosso rubino, e a chi se lo può permettere auguro orizzonte nitido in far di sole a scoglio o rena deserta. Che vi chiudo comunicazione di Radio Pirata con sibilo di grande spessore bellico a soffiar vita a fiato imperituro.

Proposta modesta

Che questo è paese straordinario, con fuga di cervelli a millantato credito, che il meglio è qui che resta. Di talenti abbiamo zeppo faccialibro, pure televisioni a reti unificate a fermo immagini di bomba d’esplosione acuta. Paese di gente che sa, che argomenta invero di raffinatissimo pensiero, che ieri l’altro seppe varare, su proprio profilo, riforme d’istituzione di grande statista, trovò soluzione da Nobel d’economia a bolla speculativa, risolse pandemie da sgamato virologo, ora s’appresta a sentenza definitiva su indagine geopolitica. E faccio musica, ch’io di quello m’intendo, pure di frittata e cipolla, che son nessuno e tale resto fino a fine di miei giorni che auspico per colpo apoplettico, non d’atomica.

Che paese così non poteva che esprimere politico elevatissimo, banchiere da paura, giornalismaio che Pulitzer pare conferito a scribacchio di cronaca per saga della mortadella. Paese così è roba che mette paura a chi fa panno basso, a chi naviga a vista d’ignoranza, che non capisce, ch’io fui preso da terrore atavico che tra questi m’annovero. Che non comprendo è fatto ovvio, che mi sfugge che re d’accoglienza sono uguali e pari a quelli che a bombarda per respinta si attrezzavano per profugo Africano, Afghano, Curdo o Siriano. Pure, mi chiesi, a lettura di giornalistone che per trema di polsi non nomino, che v’è ipocrisia in pacifismo da rincaro per bolletta, che di suo pari mica ci si può mettere a riflettere che costo di benza è ad orefice, e gas per bucatino al burro pare a prezzo di Brunello per chi sfanga il mese a milleedue. Che politico che dice che alzo di prezzi è colpa di boia per guerra, mette stato d’emergenza, ma non disinnesca accise per aumento, avrà ragioni sue, che a me, che sono a mente semplice, sfuggono nella loro struttura di vertigine di comprensione.

Ma poiché ognuno a suo dire risolve, pure se non sono ognuno ma nessuno, m’azzardo all’uopo a dire la mia, che tanto vale quel che vale. Che mi viene lo sghiribizzo di pensare a soluzione di sciopero globale e di popolo non oligarca, e per giorni uno, mica a blocco d’autostrada, a feroce picchetto, nemmeno a fermo coatto di macchinario. Ma per giorni uno mi verrebbe di pensare ad evento funesto per stile di vita a civilissimo occidente, a far come i selvaggi, stesi al sole di clima impazzito, senza nulla operare per giorni uno, nemmeno spesa a centro di commercio. Per giorni uno, per fermo immagine d’istantanea, immagino passeggiata a parco, pranzo a pane e pomodoro, lettura collettiva di libro, non in fila a cassa o pompa di benzina.

Per giorni uno immagino popolo disteso a scoglio, a non far altro che scruto d’orizzonte, racconto di nuvola, sasso a stagno. Per giorni uno vedo immagine d’eversione feroce in nulla collettivo, in divenire nessuno e tutti al contempo, a lentezza inesorabile attrezzarsi per non consumo di un tanto al chilo, a briciola per fringuello. Per giorni uno vedo offerta di bicchier di vino di contadino a tal che non conosco, sguardo di non rimprovero ad altro che non ci appartiene, ad auto a parcheggio dimentico. Per giorni uno m’avvedo di torma nullafacente, strascicante in ciabatte, senza lustrino, senza sciortino, senza pellicciotto, con canotta disinvolta, a immondizia bandita. Per giorni uno senza faccialibro o altro ammennicolo, senza news di scampanata a morto, la TV a espressione di lavatrice, a grattare corde di chitarra, a sussurro di poesia, a canzone per coro. Per giorni uno basta, che vena ai polsi trema ad altro se si ripresenta quel giorno uno, che pare bombardamento a tappeto.