Il vento fischia, pure io

Sono periodi dell’anno in cui la liturgia si consuma stanca, ad elencare voti e catalogare prestazioni si fa lentamente, più per numeri elevati che per pretesa di precisione. La classifica d’alunni si fa ad appiattimento di differenze, quattro cinque voti a definirne la moltitudine. Numeri esausti ch’io, i numeri, intendo, ben li conosco, e so che non son fatti per quello. Ma tant’è, c’è l’orrida consuetudine di cataloghi e categorie d’umana esistenza. E tanto mi pare tela di Penelope quella prassi liturgica, tanto più che la bomba figlia e fa bomba con incremento demografico a contrasto d’incremento umano, ed uno mai poté valere uno. Uno pare qualunque, altro pare niente. Cullato da nessunitudini, ad ansiosa compilazione di verbalini, riciclo già scritto.

«Il dramma è finito. Perché allora qualcuno si fa avanti? Perché uno è sopravvissuto alla distruzione.

Accadde che, dopo la scomparsa del Parsi, io fossi colui che i Fati destinarono a prendere il posto del prodiere d’Achab, quando questo prodiere assunse il posto vacante; e quello stesso che, quando all’ultimo giorno i tre vennero scaraventati dalla lancia rollante, cadde a poppa. Fu così che, galleggiando all’orlo e ben in vista della scena seguente, quando mi raggiunse il risucchio indebolito della nave affondata, venni tirato ma lentamente verso il vortice che si chiudeva.

Quando lo raggiunsi, il vortice s’era calmato in uno stagno di schiuma. Tutt’intorno, allora, e sempre avvicinandomi alla bolla nera, in forma di bottone, dell’asse di quel circolo lentamente roteante, io girai come un altro Issione. Finchè, raggiunto quel centro vitale, la bolla nera scoppiò. Liberato per via della molla ingegnosa e per la sua grande leggerezza venendo a galla con gran forza, il gavitello bara balzò per il lungo, su dal mare, ricadde e mi galleggiò accanto. Sostenuto da quella bara, per quasi un giorno intero e una notte, andai alla deriva su un mare morbido, funereo. I pescicani disarmati mi guizzavano accanto come avessero lucchetti alla bocca; i selvaggi falchi marini passavano coi becchi inguainati.
Il secondo giorno, una vela s’avvicinò, e finalmente mi raccolse.
Era la bordeggiante Rachele che, nella sua ricerca dei figli perduti, trovò soltanto un altro orfano.» (Moby Dick, Herman Melville)

La Rachele è tormento d’attesa, scorcio dimenticato, non resiste all’apocalisse d’astio viscerale che lega ogni avventura d’umanità alla sua naturale rovina. C’è una Rachele con la vela issata per ognuno, a favore di venti giusti, siano placidi ponentini di bonaccia, siano sferzanti libecciate. Persino per chi ne nega la necessaria esistenza, l’ignora con la protervia che illumina solo l’obiettivo sacro che in nuce contiene il suo stesso fallimento prima o poi scruterà oltre l’onda per distinguerne il passaggio di speranze. La Rachele vola sulle onde, non schiamazza alla vista del sangue, s’ovatta di silenzi, non intacca i colori, non rende il mare vissuto meno profondo, non disturba l’ignavia del tempo. C’è una Rachele per ognuno, per fortuna.

Talora la si vede navigare come sa fare, in fondo ad una bottiglia, il fil di fumo d’una sigaretta, tra le pagine d’un libro, le note giuste da fischiare che fanno Fee-Fi-Fo-Fum.

Un’altra città

«La città in cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo. Non credere che si possa smettere di cercarla». (Le città invisibili, Italo Calvino)

La città è crocevia d’anime, non ha niente a che vedere con lo skyline di brutalità estetica delle megalopoli. Lì si consuma il delirio dell’isolamento carcerario delle coscienze, non è previsto il contatto tra gli sguardi, i corpi non si incontrano pur se si affollano. Ci si evita per definizione, finanche se intenti ad occupare lo stesso metro quadro, a respirare la stessa aria mefitica. La città d’oggi si esprime in cubature, non registra quella caparbia conquista dello spazio, non giunge a progettare i luoghi della condivisione, progetta quelli del consumo e basta. Quello diventa l’unica prospettiva condivisa, non c’è altro. L’altro viene derubricato a prassi desueta, non necessaria, soppiantato da uno spazio virtuale di falsi incontri, uno spazio di conquista violenta, di rivendicazione d’una identità che appare propria ma che si esprime attraverso parametri di compatibilità eterodiretti, eteroconfezionati. L’identità si spegne nell’istante in cui se ne rivendica virtualmente la difesa ad oltranza, contro il nemico alle porte, contro il dogma della merce respirata. Lo stile di vita pare scelta volontaria, non si avvede l’abitante della città mondo di quanto sia lontana l’idea d’una propria unicità. Pure soffre al pensiero stesso di poter essere unico, ché unico è sinonimo di diverso, di solitudine e la diversità è il nemico mortale della città contemporanea. Eppure si affolla di diversità dunque diventa essa stessa corruzione del suo paradigma fondativo, si fa contraddizione in termini. Vive per accrescersi, pretende di non farlo in un gioco al massacro che si conduce ad escludendum, verso la sconfinata periferia d’una riserva indiana di disperazione.

Nel gioco delle tre carte continuo per l’ultimo giorno ad aggirarmi per la città che fu, tra i vicoli antichi, alla ricerca di corpi, di anime, di sospiri di ciò che fu la ricerca imperfetta dell’incontro, dell’essenza dell’essere condiviso. Provo a trovarne la forza vitale, la respiro e l’avverto, contro l’idea di vita d’un modello d’altrove che si avviluppa nelle sue necrosi definitive.

P.S. Oggi, da queste parti, solo Mingus, per una ragione. Ieri facevano 45 anni che se ne andava a Cuernavaca, in Messico. Aveva cinquantasei anni. Quello stesso giorno cinquantasei balene si spiaggiarono in una baia messicana, forse, pensarono, era stata interrotta la loro ricerca imperfetta.

Auguri – e fan tre – alla polvere

E per il terzo anno consecutivo, come si compete ai fine anno che questo bloghettino ha attraversato, faccio sommi auguri a tutta quella polvere che finirà sotto il tappeto delle memorie collettive di noi brava gente di mondo civilissimo e democratico. E pure faccio omaggio in musica.


Comincio dai primi granelli di polvere che spariscono come sono arrivati al primo salto di bottiglia di spumante a supermarket d’hard discount, ma anche a ristochef a superstella di firmamento. Auguri a tutta la gente di Gaza, a quella che oggi ancora è sotto le bombe che non scelse per togliersi mal di denti, che si vede casa rasa al suolo che certi tali non ebbero altro argomento che bomba su bomba in ogni parte della mappa, ad ammazzar ci provarono gusto, che se non è per ammazzo faccio morto comunque a togliere genere di conforto e cura per bimba e bimbo, ma pure per donna o uomo che sia. Auguri che siete prossimi venturi a divenir pulviscolo a gonfiare l’immondo tappeto a copertura di sfavillio di grande kermesse di rinascimento di potenza moderata a tiro fuori petroli per costruisco grattacielo.

Auguri ai già dimenticati, mai furono invero ricordati se non per pubblico ludibrio d’invasori, che s’aggrapparono a scialuppa a ricerca di porto salvo per miglior vita, ma forse solo per vita, a far fuga da bomba loro, da tetra miseria a mangiar sassi e sputar oro per altri, a sfrutto sino a sfinimento sinché a mar d’Africa non fecero ad affondare per vedere profondità d’abisso.

A tutti questi auguri ne faccio a iosa, ad ogni migrante, ad ogni pirata che scappa da casa sua invasa, ad ogni disgraziato che va via da inferni in terra, che non ebbe quiete nemmeno a mangiar solo tozzo di pane e cipolla. Tutti fecero polvere, sotto il tappeto e granelli di sabbia in fondo al mare, surrogato di cibo per pesce, inscatolati da prigionissime di grandi democrazie per progresso di diritto di più forte.

Auguri ad ogni donna che fece fine di topo in gabbia per volontà di possesso, e che ebbe ardire di dire no a maschietto impenitente di patriarca emulo a consapevolezza. Ed auguri anche a famiglie di queste che si sentirono dare del coglione che apriron bocca a dire che morte d’ammazzo è fatto di cultura e basta. Anche queste son sotto il tappeto già da un pezzo, il tempo di uno sbadiglio durò lo sdegno per loro dipartita. Oggi è divertimento, giornata di pallone torna a far sangue ed arena.

Auguri ai dimenticati che s’appresentarono al lavoro a far fatica per spacco schiena e fecero che non tornarono a casa a centinaia per stritolatura di tramoggia, asfissio di fuga di gas, imbufalimento di ruspa e trattore, crollo di ponteggio vario. Polvere siete e polvere ritornerete, sotto il tappeto per destino fulgido ed imperituro di sor padron da le bele braghe bianche.

Auguri anche ai miserabili che sotto un ponte od in fila per tre col resto di due chiedono carità di pasto caldo, che sono occupabili e non meritano aiuto di obolo di stato, che fanno ad ingrosso ad armata industriale di riserva, braccia per sfrutto ad libitum sino a che feci di polvere pulviscolo ancor più sottile che sotto l’angolo del grande tappetone c’è spazio.

Ed auguri a tutti noi che siamo qui a leggerci come piccola famigliola di giusti affetti, taluni, come me, non usiamo calici ma bicchieri di vino di cantina scalcagnata ma anche chi si concede piccolo vezzo di bollicine di dimenticanza va augurio mio ché so, che se è qui, già domani ricomincia a pensare che c’è tanta polvere sotto il tappeto, e non ce la fa a lasciarla lì senza muovere suo sguardo di cuore, nemmeno riesce a levarsi di dosso indignazione per fine compulsiva d’umanità.

Ci sono delle barche

La traversata era cominciata e la nave, come un frammento staccato dalla terra, correva solitaria e rapida come un piccolo pianeta. Intorno ad essa gli abissi del cielo e del mare si univano in una irraggiungibile barriera. Una grande solitudine sembrava avanzare tutt’intorno con la nave, sempre mutevole e sempre eguale ed eternamente monotona ed imponente. Di tanto in tanto un’altra vela bianca errante carica di vite umane appariva lontano e spariva diretta verso il suo destino.
(Joseph Conrad)

Ora sono solo numeri, numeri sparsi, oltre i necrologi, mentre è discussione accesa sul nulla che avvolge l’ultimo naufragio, solo ieri. Quello, il naufragio, non c’è più, non c’è mai stato, non se ne sente il bisogno di raccontarlo, non v’è necessità se non a dimensione di trafiletto scordato.

Pure, il porto salvo, era lì, che ci sono tali che a forza di braccia fanno tratti più lunghi, roba da applausi, record e medaglie. Il corpo sfinito dalla fuga infinita non regge. Il racconto dei sopravvissuti si fa cosa che non si descrive con semplice strazio. Altre anime vedranno quanto è profondo il mare, Altre bare le attendono, ci sarà legno per farne ancora, useremo i relitti spiaggiati poi passeremo alla plastica, ricicleremo, che ci piacciono le economie circolari, il vuoto a rendere. Chissà come sarà questo Natale.

Conosco delle barche
che restano nel porto per paura
che le correnti le trascinino via con troppa violenza.
Conosco delle barche che arrugginiscono in porto
per non aver mai rischiato una vela fuori.
Conosco delle barche che si dimenticano di partire
hanno paura del mare a furia di invecchiare
e le onde non le hanno mai portate altrove,
il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.

(Jacques Brel)

Fischiettando nell’attesa

«Il dramma è finito. Perché allora qualcuno si fa avanti? Perché uno è sopravvissuto alla distruzione.

Accadde che, dopo la scomparsa del Parsi, io fossi colui che i Fati destinarono a prendere il posto del prodiere d’Achab, quando questo prodiere assunse il posto vacante; e quello stesso che, quando all’ultimo giorno i tre vennero scaraventati dalla lancia rollante, cadde a poppa. Fu così che, galleggiando all’orlo e ben in vista della scena seguente, quando mi raggiunse il risucchio indebolito della nave affondata, venni tirato ma lentamente verso il vortice che si chiudeva.

Quando lo raggiunsi, il vortice s’era calmato in uno stagno di schiuma. Tutt’intorno, allora, e sempre avvicinandomi alla bolla nera, in forma di bottone, dell’asse di quel circolo lentamente roteante, io girai come un altro Issione. Finchè, raggiunto quel centro vitale, la bolla nera scoppiò. Liberato per via della molla ingegnosa e per la sua grande leggerezza venendo a galla con gran forza, il gavitello bara balzò per il lungo, su dal mare, ricadde e mi galleggiò accanto. Sostenuto da quella bara, per quasi un giorno intero e una notte, andai alla deriva su un mare morbido, funereo. I pescicani disarmati mi guizzavano accanto come avessero lucchetti alla bocca; i selvaggi falchi marini passavano coi becchi inguainati.
Il secondo giorno, una vela s’avvicinò, e finalmente mi raccolse.
Era la bordeggiante Rachele che, nella sua ricerca dei figli perduti, trovò soltanto un altro orfano.» (Moby Dick, Herman Melville)

La Rachele è tormento d’attesa, scorcio dimenticato, non resiste all’apocalisse d’astio viscerale che lega ogni avventura d’umanità alla sua naturale rovina. C’è una Rachele con la vela issata per ognuno, a favore di venti giusti, siano placidi ponentini di bonaccia, siano sferzanti libecciate. Persino per chi ne nega la necessaria esistenza, l’ignora con la protervia che illumina solo l’obiettivo sacro che in nuce contiene il suo stesso fallimento prima o poi scruterà oltre l’onda per distinguerne il passaggio di speranze. La Rachele vola sulle onde, non schiamazza alla vista del sangue, s’ovatta di silenzi, non intacca i colori, non rende il mare vissuto meno profondo, non disturba l’ignavia del tempo. C’è una Rachele per ognuno, per fortuna.

Talora la si vede navigare come sa fare, in fondo ad una bottiglia, il fil di fumo d’una sigaretta, tra le pagine d’un libro, le note giuste da fischiare che fanno Fee-Fi-Fo-Fum.

Patriarca è chi patriarca fa

“Gli uomini ogni volta mettono un tale impegno, nel farti sentire una puttana, e naturalmente un impegno del tutto inconscio, ed è qui che essi vincono.” (Il taccuino d’oro, Doris Lessing)

C’è precisamente la misura dell’epifenomeno, che sa di morte a fasci tra donne che fecero solo un errore, scappò loro di dire “no”. Che vuol dire che a morte annunciata corrisponde solo apice di piramide di tanti “si” estorti, silenzi pretesi ed ottenuti a mezzi di sopraffazione, di annichilimento per sganassone e parola feroce. Patriarca è colui che pretende soffocamento d’ogni “no” ed anelito di ribellione di donna, ma anche d’ultimo chiunque esso sia, purché miserabile e sofferente. Che di miseria e fragilità il patriarca si nutre, gode a misura colma, pure quando si veste da donna ma non parve adesione la sua ad universo femminino, che quello è senza piramide. Detto universo è sempre senza gerarchia di patriarca, e donna che vi aderisce a forma incondizionata fa tradimento di sé stessa. Ma detto patriarca è violento sempre, a fatto che non ama piccolissima particella che è «no», tanto poco la ama se viene da donna, altrettanto meno da chi non ha ricevuto invito a suo banchetto esclusivo, che parve orgia e basta. «Le donne tengono insieme le cose, favoriscono i nostri importanti appuntamenti coi grandi eventi con le loro multiformi attività, così umili che, interrogate alla fine della giornata su quello che hanno fatto, spesso rispondono: Oh, niente.» (Doris Lessing)

Forse ci fu e c’è pure qualche uomo che fece lo stesso, ma egli è ribelle, è marginale, evaso da carceri di patriarcato, conta quanto due di coppe con briscola a denari. Perché davanti a fatto efferato donna dice «basta», uomo inveisce, che pare a preoccupazione che fu sgamato, e urla «taglia il coso, lavoro forzato», e cose così.

E piccolo omaggio farei a donna, che non è nemmeno 8 marzo, nemmanco mi ci avvicino, poi faccio a cosparsa di capo di cenere conto mio, conto terzi.
«A 17 anni e basta, fu presa dal mafioso Melodia, che agì con aiuto di dodici amici, tutti di gran coraggio da maschio vero. Franca fu violentata, malmenata, lasciata a digiuno, tenuta segregata per otto giorni; poi, i parenti del fenomeno Melodia contattarono il padre di Franca per la “paciata” e matrimonio riparatore a tanto di rito per parroco dabbene. Padre e madre di Franca giocarono a finta di “che bello” e fecero arrestare la banda. Che legge di repubblica proponeva che il matrimonio era gomma a matita per stupro, altrimenti c’era il “donna svergognata”.

Il giudice Giovanni Albeggiani, per fermo immagine di Franca, fece mannaia sulla banditaglia, ma la leggiastra fu abrogata dopo sedici anni, e altri quindici ne passarono per 1996, che poi stupro è contro persona non contro morale. Eccola Franca, che pure porta per cognome fiore.
“Per me quella vicenda rappresentò una vera e propria disgrazia, ho dovuto attraversare momenti tristi, di sofferenza, è stata un’esperienza decisamente negativa. Ritenni quel gesto non un atto di grande coraggio, ma una normale scelta dettata dal cuore. Feci quello che mi sentivo di fare, furono i media, in seguito, a rendere la vicenda un evento storico.
La gente parla sempre a sproposito, nel bene o nel male, dicevano che mi vendevo le interviste ai giornali per soldi, mi mortificavano con le loro false affermazioni. Ero contenta quando sentivo di altre ragazze che si erano salvate facendo la mia stessa scelta, mi faceva piacere sapere che, anche se indirettamente, ero stata io ad aiutarle. Quella legge era ingiusta e andava cambiata, c’è sempre una prima volta, e io fui quella che diede inizio al cambiamento. Mi sposai e decisi di condurre una vita dedita alla normalità, lontana dai riflettori. Abitai tre anni a Monreale, dove mio marito lavorava, per poi trasferirmi di nuovo ad Alcamo quando ottenne il trasferimento. Abbiamo due figli, uno studia Scienze naturali e l’altro lavora come commercialista. Con loro non abbiamo mai affrontato a pieno la questione, sanno già tutto dagli altri, che mi descrivono sempre come una donna molto coraggiosa.
Mi sono sempre sentita molto serena, come se non fosse mai accaduto niente. Guardo a quei giorni come se avessi seguito bene e da vicino la cronaca che ha visto coinvolta un’altra persona. Per me non è stato facile allora riprendere la vita di tutti i giorni, ma quella scelta fu decisiva. Semplicemente non volevo sposarmi con un uomo che non amavo e preferivo restare tutta la vita da sola piuttosto che farlo. Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi donna: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti; non è difficile.”»

La terra brucia (pure i non luoghi)

“Non è necessario immaginare che saranno il fuoco o il ghiaccio a porre fine al mondo. Ci sono altre due possibilità: una è la burocrazia, l’altra la nostalgia” (Frank Zappa)

Certi giorni sono per me quelli d’anadromo – gli altri, pure, ma marco il territorio meglio in certe circostanze -. Me ne sto in paesone, che si svuota di turistumi e locali in festa a certe ore. S’apprestano tutti ai campi profughi, con portabagagli strabordanti di beni di sussistenza, dall’anguria alle cotolette del giorno prima, sedute e tendoni da circo, più ampi possibile, che contendono spazi vitali alla concorrenza, mettono su conflitti geopolitici sul litorale, che qui c’ero prima io. Vado controcorrente perché raggiungo la spiaggia ad orario improbabile, che manco s’è fatto giorno. Ho appuntamento con Pilu Rais. “Non lo so che trovo, ma passa che due cose sempre ci sono”, mi dice il giorno prima al telefono. I notturnamboli abbandonano a quell’ora la scena, li riconosci barcollanti, pure per il movimento anomalo e ondulatorio delle automobili. L’invasione della carreggiata è una possibilità, per cui scelgo strade traverse, allungo un po’, ma aumento le probabilità di sopravvivenza sino alla barca.

Becco la lampuga, fa caldo e il pesce, che già è scarso cerca refrigerio pure lui negli abissi. Aveva una ricciola, ma non la mangio, è pesce vorace, non lo sai con cosa ha cenato la sera prima, e sono tempi che, laggiù, in fondo al Mar d’Africa, il campo profughi – quello vero – s’è fatto fitto, diventa dispensa. Preferisco i pesci di passo, la lampuga, appunto, se qualcuna è rimasta, poi ci ha gli Omega 3. Il ritorno è già a luce fatta, e mi pare d’attraversare l’inferno, la terra ancora brucia, l’ulivo saraceno che s’era fatto monumento ancora frigola. Non sapete quanto possa continuare a bruciare un ulivo, pare un cero alla Madonna, non finisce mai. Pure il carrubo dello zio Vincenzo, che d’estate dava ombra alla tavolata in campagna a dieci e più persone, ora pare un tizzoncino di brace.

La Terra brucia, perché qualcuno ha dato fuoco alle polveri. E di piromani ce n’è assai. Che non sono solo quelli che, cerino alla mano, appicciano la fiamma. Tanti ce n’è ancora che manco lo sanno che sono piromani. Che si sventagliano in spiaggia e si lamentano dei 50 gradi, ma ci hanno il carrarmato da cinquemila di cilindrata, con un milione di cavalli che sgasa putrefazione mesozoica, che ci hanno cinquantasei telefonini di silici e quarzi, che per farne uno radono al suolo il Congo e prosciugano un paio di cataratte equatoriali, che ci hanno le batterie dell’ibrido – che non inquina, che è verde, perché lo fanno Biancaneve e i sette nani con la tessera del WWF, mica in una fabbrica che brucia tempesta – che per trovare il litio devono fare una spianata dove ci sono le Ande. E io me ne sto al paesone svuotato, ma prima mi faccio il caffettino da Piero: “niente mare oggi?”. Da lì torno, ci sono stato che era alba quasi fresca. E il fiume, quest’anno – che non c’è più, asciugato di mala maniera – pare corridoio di sassi, e ci vado a far quattro chiacchiere con quelli, avvezzi ad ascolto, non obiettano pure se sanno tutto. Faccio finta che la terra non brucia oggi, che il ghiaccio dei poli s’è solo preso una vacanza, per galleggiare nei mojiti, mi butto nei vicoli che dai colori mi faccio distrarre, domani semmai mi corruccio d’infinito.

“Paradosso del nonluogo: lo straniero smarrito in un paese che non conosce, lo straniero «di passaggio», si ritrova soltanto nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio, dei grandi magazzini o delle catene alberghiere. L’insegna di una marca di benzina costituisce per lui un punto di riferimento rassicurante ed è con sollievo che ritrova gli scaffali del supermercato i prodotti sanitari e alimentari o i casalinghi consacrati dalle marche multinazionali.” (Marc Augè, e un altro l’abbiamo perso, chi resta è problema)

Weekend, di musica

Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.

“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.

A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.

Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)

Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.

Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.

E voi avete colonne sonore?

La calce ed il cotto (parte seconda)

Pare che la natura s’attrezza a ripigliarsi il suo, che fece di terra che trema e vento di scirocco furibondo sue armi letali, a dispetto d’onnipotenza umana. Mi giunge voce, che son lontano assai in questo momento, che la fornace si sgretola malamente, a forza di bufera che non s’arresta. Mi sovviene che è poca cosa che pure anime migranti si misero a condizione d’inghiottimento per onda alta metri e metri. Ma è sempre cosa di miei ricordi che sparisce, e infonde tristezza di vertigine.

“Lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus orca) E a sommo di mestizia riprendo cosa antica.

“Mi dicono, taluni, ch’io vivo a nostalgia, che è cosa non rispondente al vero, poiché del bel tempo andato non ho affezione particolare, che fu tempo di travagli. Ma v’erano, tuttavia, marasmi di dettagli di solluchero allora, dunque – saggio di filosofia quale Epicuro – me li serbo ancora, che non sono più apparentati solo con quel tempo, rimangono nell’oggi, lontani, dunque, dall’essere esclusive rimembranze, come certe musiche che suonano ancora.

Talune di quelle cose si perdono, me ne dolgo e a quelle si, rivolgo rimpianto. Ozio e lentezze mi sono ancora cari, quali cenni di svago, pure cose di densità palpabile ancora m’appartengono. Preciso, invero, che mai mi rivolsi più di tanto ad affezionarmi alle cose di stretta proprietà, le tratto con svogliatezza, se escludo dal novero dischi e libri. Ma cose di legame ne conservo, che non sono mie, nemmeno mi sconvolge l’idea possano essere d’altri, che la bellezza rifiuta l’appartenenza, rifugge del concetto proprietario. Sempre, nella valutazione che non è bello ciò che è bello, che principio di bellezza, forse, non è fatto assoluto. Che di certe bettole che mi furono aule di scuola, sentii disquisire malissimo, in contrappunto non cantante con certe tavole apparecchiate a lusso. Di tali personaggi di cui m’innamorai, e che fecero storia contorta di sé, mi pare di ricordarne censura. Pure per certi vini, che sapevano di terra e sale, e mi vennero a conforto – financo d’economie approssimative – ricordo espressioni di disgusto.

La fornace, vecchia cattedrale che dalla punta si sdraia sulle onde, ghermisce di camino il cielo, e s’apparecchia al tramonto come quinta estatica sul tutto d’intorno, è una di quelle siffatte idee concrete che mi convive di simbiosi.

Seppure non me la godo quanto mi parrebbe, me ne faccio racconto, memoria presente, e il reincontro attendo con le ansie vaghe di chi ha caduca certezza delle cose. Consunta nelle malte incendiate, lei, s’è retta – capolavoro d’architetti che non pensarono alla storia – un secolo e più, d’equilibri precari di pietre, sottese a leggerezza, a sorreggersi l’un con l’altra, pare, a dispetto di leggi newtoniane, pure di convenzioni socio(il)logiche nelle contraddizioni dell’oggi. Ma ogni anno, il rinnovato afflato, mi pare che s’abbandoni al desiderio di sparire e, mentre mi rendo ancora nessuno al suo cospetto, lei adesso smunge, si compenetra con la sabbia generatrice, s’affolla di salsedini e si concede al vento, pietra su pietra. Mi dice, or ora, il maestro sulla punta del corvo, di pennelli e scalpelli assai edotto, che s’amputò un’ala, che quella mai rivedrò se non in cocci. Un po’ più monca, piano piano, la fornace pare s’arrende, forse al desiderio di divenire nostalgia, ricordo d’ozi e lentezze, sigarette rubate, in bilico di falesia. O forse issa bandiera bianca di calce e cotti sul comignolo più alto, per sopraggiunta noia e stanchezza di irruzioni cash & carry.

Conosco delle barche

La traversata era cominciata e la nave, come un frammento staccato dalla terra, correva solitaria e rapida come un piccolo pianeta. Intorno ad essa gli abissi del cielo e del mare si univano in una irraggiungibile barriera. Una grande solitudine sembrava avanzare tutt’intorno con la nave, sempre mutevole e sempre eguale ed eternamente monotona ed imponente. Di tanto in tanto un’altra vela bianca errante carica di vite umane appariva lontano e spariva diretta verso il suo destino.
(Joseph Conrad)

Ora sono solo numeri, numeri sparsi, oltre i necrologi, mentre è discussione accesa sul nulla che avvolge l’ultimo naufragio, solo ieri. Quello, il naufragio, non c’è più, forse non c’è mai stato, non se ne sente il bisogno, non v’è necessità se non a dimensione di trafiletto scordato.

Pure, il porto salvo, era lì, che ci sono tali che a forza di braccia fanno tratti più lunghi, roba da applausi, record e medaglie. Il corpo sfinito dalla fuga infinita non regge. Sei uomini, tre donne, una è incinta, un’altra è giovane, ha perso i sensi per fame, sete, freddo, teneva tra le braccia il suo bambino, scivolato via, finito inghiottito dalle onde. Questi sono quelli che non ce l’hanno fatta per ultimi, ed il racconto dei sopravvissuti si fa cosa che non si descrive con semplice strazio. Altre anime vedranno quanto è profondo il mare, Altre bare le attendono, ci sarà legno per farne ancora, useremo i relitti spiaggiati poi passeremo alla plastica, ricicleremo, che ci piacciono le economie circolari, il vuoto a rendere. Chissà chi vince il festival.

Conosco delle barche
che restano nel porto per paura
che le correnti le trascinino via con troppa violenza.
Conosco delle barche che arrugginiscono in porto
per non aver mai rischiato una vela fuori.
Conosco delle barche che si dimenticano di partire
hanno paura del mare a furia di invecchiare
e le onde non le hanno mai portate altrove,
il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.

(Jacques Brel)