Radio Pirata 65 (settimana cruciale che viene, settimana cruciale che va)

Torna a furor di popolo Radio Pirata, che s’è fatta numero Sessantacinque, traguardo d’invidia autentica per chi non fa giro di boa nemmeno a sessantaquattro. E torna con convincimento ch’è di necessità assoluta far musica e notiziola in qua ed in là, per scovar talento dove talento c’è, a dar possibilità d’emergere a giovane che ha penna facile e vuole darlo a vedere al mondo intero. Che Radio ha volontà di talent scout e si da vetrina a giovane che vuol far di sua scrittura affermazione ad applauso. Ma andiamo subito con musica giusta che settimana comincia di lunedì e detto lunedì è di tali nebbie che ad allietarlo in nota non si fa etto di danno.

Che c’è settimana che si chiuse che odora di zolfo e piombo, per escalescione di guerra a parte del mondo che fu tutta. Che guerra fa a bombarda anche a chi non s’avvede che bomba casca su testa sua perché non sentì botto chiaro e si fece domenica a mangiar pizza tranquillo per scontrino da ecatombe. Che detta guerra è ‘ndo cojo cojo, ma sempre fa centro precisissimo a tale che ebbe a disgrazia di nascere di manto disgraziato, e se s’è fatto malato poi non trova cura che medico ed infermiere, pure medicina facile facile, non c’è per acquisto mancato a sottrazione di finanza, che quella, finanza, serve a far cosa buona e giusta che fu smercio di boma per guerra a dritta e manca.

Ambasciator non porta pena, si disse a saggezza antica, ma antica saggezza è superata e si bombarda ambasciata con tanto di morto e ferito, che se poi taluno che si vide recapitar ambasciator a modo di Attilio Regolo s’altera, – che già era ad alterazione permanente – fa a lancio di ogni cosa a modo pure lui per far morto e ferito. Ma che sia ora spazio a giovane virgulto di penna, ch’egli ritiene interessante messaggio suo, a speranza nostra che non faccia crollo di esagerata audience di Radio Pirata. «Quando i ricchi si fanno la guerra, sono i poveri a morire.» (Jean Paul Sartre) E meno male che fu sintetico, che se continuava a dirla lunga a fatto d’accumulazione di baggianata c’era rischio che audience di Radio Pirata si faceva colo a picco in un tempo di niente.

E quella che se ne andò fu anche settimana di strage che pare coazione a ripetere, in luogo di lavoro dove per sicurezza di risparmio non s’aggiunse troppa altra sicurezza. Che pare cosa non troppo a fatto occasionale che uno se ne va a lavoro, saluta a casa affetti o solitudini, a seconda dei casi, si accomoda a far fatica, poi non torna. E se affetti furono colti d’improvvisa devastazione, pure solitudini, che per cosa conclamata paiono d’anime migranti, pare urlino cose di disperazione. «Attraverso fitte di dolore, ore, squadre e livelle, il job diventava una realtà familiare, una sensazione nuova, brivido di uomini e pietre ed acciaio. Era un gioco, una corsa, una partita, in cui tutti erano attori muscolari, dal fischio del mattino a quello della sera, ed egli era uno di loro. Era giorno di paga e fra poche ore la busta avrebbe segnato un breve armistizio. Era la guerra per la vita, e Paolino era un soldato. Non era come al gioco delle biglie, dove giocava per divertirsi; era un vero assedio, un assedio condotto da uomini maturi e accaniti contro una fame sempre in agguato, contro il nemico ereditario.» (Cristo fra i muratori, Pietro Di Donato) E pure noi abbiamo dato l’obolo d’apparizione a quest’altro che anela a fama imperitura, ma se continua a scriver ad affondare successo di Radio Pirata con insopportabile retorica pauperista, più che fama si becca fame. Che noi, ad altra sorte adusi, mandiamo musica ch’è meglio assai.

E c’è grande isola che si fece matrigna di tenutario di direzione artistica di Radio, che pare essere a secco come piscio di cammello in deserto. E c’è ovvietà in questo che temporalone si ferma, che a traghettamento lento ed infingardo ci vuole tempo indefinito, così rinuncia ad attesa e scarica acqua ad un altrove a bidonata che fa danno, pure a chicco di grandine a strigliar tetto di decappottabile a lusso precisissimo. E prima che isola a forma di tre – che di perfezione fece a meno per esclusiva modestia – si boccheggia di sete, c’è fortuna che s’ebbe direttorio illuminatissimo di levatura cosmica che disse ponte sia, che tutto si sveltisce, pure tasca si piena assai e rapida e a pienare serbatoio poi ci si pensa, se me lo ricordo. E prima di cedere la parola ad altro giovane cercatore si sorti buone per minchiate scritte a cottimo, per non bombardare l’ultima speranza d’un qualche ascoltatore di Radio, andiamo di musica.

«Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l’ evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell’ omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poichè con le isole il punto è questo: sono di per sè parchi naturali e riserve dove lo “specifico” indigeno resiste più a lungo: sicchè rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale… Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benchè non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l’ Alitalia e l’ Autostrada del Sole. Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. Proprio su la Repubblica (31 agosto) Arbasino ci attribuiva una smania di staccarci dalla nazione e ce ne concedeva licenza. Obietto che, dai tempi di Salvatore Giuliano, fra le maschere sanguinose della mafia il fantasma del separatismo non è più ricomparso: e che oggi un eventuale referendum secessionista non raccoglierebbe in Sicilia più di mille o duemila suffragi… La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d’ Italia, dall’ Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d’ Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina… Con tutto ciò, come negare l’ esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’ esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l’ aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.» (Gesualdo Bufalino, su La Repubblica, 19 settembre 1985 su la Repubblica)

Il verso della ruota

«Il vecchio Bouligaud era morto e la mentalità degli operai del signor Fleurieur era molto cambiata. Percepivano adesso dei salari vistosi e le loro mogli si comperavano le calze di seta. La signora Bouffardier citava alla signora Fleurier dettagli preoccupanti: – La mia donna mi raccontava d’aver visto ieri dal rosticciere la piccola Ansiaume, che è figlia di un bravo operaio di tuo marito e di cui ci siamo occupate quando perdette la mamma. Ha sposato un operaio specializzato in riparazioni di Beaupertuis. Ebbene! Ordinava un pollo da venti franchi! E con un’arroganza! Niente è abbastanza buono per loro; vogliono avere tutto quello che abbiamo noi.» (Il muro, Jean-Paul Sartre)

C’è un tasso di criminalità diffuso nel verbo consueto, ce n’è tanto che mi pare di difficoltà insormontabile provare ad intelligerne la natura mefitica. C’è una dissimulazione del problema che non ha precedenti, una sorta di miasma che si leva da ogni canto senza che si colga la direzione del vento che ce lo consegna moltiplicato d’ogni altro olezzo. È questo il senso del nulla che attanaglia quotidiani screanzati, quelli che non dissimulano disgrazia in cristallizzazione definitiva. Che detta disgrazia va annientata, ma non in modo consueto e di umane doti – che pure pare non siano mai esistite, ma ve n’è letteratura ricca a raccontarcene la fandonia d’esistenza – ma nel modo spiccio del raffinatissimo chirurgo che asporta il male con colpo secco di bisturi, a preservare certe presunte integrità. E la pietas si può spendere per l’infermo che sopravvive, non per la triste appendice che va via a far di sé bella mostra temporanea di trofeo solo in barattolo per annegamento in formaldeide.


Così non capisco quale devastazione ci attraversa che si sente parlare a sproposito di guerra di popolo, di civiltà, di religione e cancellazione di questo o quello ecosistema umano, in favore di libertà democratiche a vestititino di carnevale a celarne l’orrenda fattezza del reale. La guerra non fu mai di popoli, poiché lo stesso popolo è diverso se veste con accuratezza panni da ricco banchiere, con collezione di bolide a interno d’ermellino, yacht a lusso superlusso, fa venditore di barilotti di tossine d’oro nero, appiccia fuoco a pioggia torrenziale e s’acquista calciatorone a gol più gol, pure squadra intera. Quello pare popolo civilissimo, d’ordito rinascimentale pure se mette cappio al collo a donna che s’attrezza a chioma al vento, se fa fustigazione per esito finale a giovanotto che si fece spinello o tal altro che si bevve quartino di vino. Quello merita appellativo di moderazione che non si oppose più di tanto a massacro di suo simile e talora lo fece egli stesso in sordina a tanto chi se ne frega. Ma se detto popolo si fece di contadino che gratta pietra per ricavare cipollotto a nutrir famigliola, si fece pastore di capra a brucar sabbia di deserto, quello merita distruzione permanente, deve fare fine di popoli altri che tutti furono colpevoli di peccato da infingardi, vili e traditori di sacri principi di civiltà elevatissima, si fecero, senza ritegno, miserabili. Occhio alla penna, a tutti quelli che si sentono al sicuro dentro confini di sacre patrie democratiche, taluni di loro patiscono o patiranno di medesima malattia che necessita d’estirpazione, essi stessi fanno untori di roba di tremenda miseria e gira la ruota gira, ma pare scorre sempre a stesso verso che fu quello di storia d’uomo.

Un ponte (con alluvione di nausea)

La Nausea non è in me: io la sento laggiù sul muro, sulle bretelle, dappertutto attorno a me. Fa tutt’uno col caffè, son io che sono in essa.” (Jean Paul Sartre) C’è che l’attacco di ripulsa mi porta lontano dall’aver voglia di pensare, scrivere non mi resta che a comando, ti dò il titolo e vai. Senza titolo vado di vecchio, che sono attento all’ambiente e riciclo.

Nazarene bianche, Nazarene nere.
Del fiume a le rive
si guardan da tanto i conventi,
si guardan con occhio di vecchia amicizia
le piccole torri, una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Due volte s’incontran, le bianche e le nere,
sul ponte, sul ponte che unisce i conventi,
li unisce da tanto per vecchia amicizia,
le piccole torri si guardan ridenti
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Le piccole chiese al crepuscolo s’aprono,
ne sortono leste le suore ed infilano il ponte;
nel mezzo s’incontran, s’inchinano
le bianche e le nere,
si recan l’un l’altre a la piccola chiesa al saluto;
vi fanno una breve preghiera
e leste rinfilano il ponte.
Di nuovo s’incontran, s’inchinan le file,
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
” (Aldo Palazzeschi)

I ponti li fecero generosi operai, pietra su pietra, bilichi delicati, arcate sorprendenti, manovalanze esperte di volontà a congiungimento di sponde di fiumi impetuosi, ed isole che divennero promontori. I ponti furono di progetto fatti ad unire da geniali architetti, su valichi di frontiera, sentieri di capre, terreni d’acquitrinio, paludi di creature fameliche che non fecero più paura.

Furono fatti di povere corde, di barche impilate, legni e pietre raccattati in un qualsiasi dove. Pure ce ne furono d’ingegnosi, che resistettero a millenni di barbarie, taluni si fecero immagini da cartolina, simboli, sperimentarono ardite soluzioni d’equilibrio. Tali altri furono fragili, si fecero a crollo drammatico, ma divennero metafora sorprendente di necessità di consolidamento di punti di contatto, allarme che non se ne mettesse a discussione l’esistenza, non se ne facesse per distrazione occasione d’abbattimento e rovinosa caduta. Solo nelle guerre, – allorché scorre il sangue di vinti e vincitori – come nella barbarie, s’abbattono i ponti.
Talora vi sono ponti che di progetto fecero a meno. Oceani a navigazione libera non sono forse ponti? Vette elevate non ebbero esse stesse, che d’animo impervio si tinsero, capacità di congiungere più che di far di divisione, a consentire all’occhio la curiosità dello sguardo che vaga sino all’oltre? Non furono financo i deserti nati quali ponti per essere attraversati in lungo e largo, per giungere d’oasi ad oasi, coste su coste? Non ebbero isole lontane sembianza di ponte, che fecero da ristoro per navigazioni senza precisa meta che non fosse di esclusiva scoperta?
Questa è dei ponti la natura più intima, l’unica necessaria, siano i ponti che abili manovalanze eressero dal nulla, solo armate di mani e sogno d’andare, desiderio di viaggio e sorpresa, siano anche fatti d’oro di nemico che fugge, e i ponti che non paiono ponti, come le vaste pianure, i grandi monti, le sterminate praterie, i mari infiniti. La storia degli uomini è la storia dei loro ponti, di quelli che costruirono, di quelli che elessero a tali, quelli che non ci furono. E se oggi quei ponti, come canali e fazzoletti di mare, qualcuno vuole chiudere, abbattere, doganare e seppellire, allora quel qualcuno nega volontà d’umanità di mille mila anni, di superamento di costrizione, della mente di trovare legittimo congiungimento con l’altrove. Dunque, nega se stesso quale ad appartenenza all’umana genia, se ne espulse, si mise a gattabuia e manco se ne rese conto, mentre provava ad assembrarci pure gli altri che si fecero gregge mansueto. E ad ulteriore sconforto fece progetti per ponti d’inutilità e flagello d’ambiente.

Per risopraggiunta di nausee

Riposto pari pari ciò che già feci a post, ché nausea non si spense nemmeno a magnesia ad ingurgito con imbuto. Nemmeno mi venne scrittura fluida a descrizione di disturbo che fece a me guerra a tutto tondo ad ogni umano che fu ultimo. Morto d’annego ebbe colpa d’esser tale e morto di bombarda si trovò a far scudo con cranio suo per gloria suprema di vendo sparo a grappolo. Pure sul resto che mi fece nausea devo far a silenzio autoimposto che altrimenti mi vien da scrivere elenco che par di telefono a parlar con linguaggio poco dabbene.

Tutto era pieno, tutto era in atto, non c’era intervallo, tutto, perfino il più impercettibile sussulto, era fatto con un po’ d’esistenza. E tutti questi esistenti che si affaccendavano attorno all’albero non venivano da nessun posto e non andavano in nessun posto. Di colpo esistevano, e poi, di colpo non esistevano più: l’esistenza è senza memoria; di ciò che scompare non conserva nulla — nemmeno un ricordo”. (Jean Paul Sartre, La nausea)

Non mi veniva di scrivere d’altro, manco ora che sta arrivando la bufera e non ho che ombrelli a telai dismessi. Che quell’altro me invece ne aveva voglia, lui che, quand’era giovane, pareva ch’era già vecchio, che i suoi amori glieli sceneggiava Resnais e li cantava Jaques Brel. Che gli dicevano ch’era sbarcato da nave d’Argonauta, da secolo ignoto, che s’apprestava su uno scoglio ogni mattina, vestito come veniva, sino alle ciabatte, che pareva che lì c’era nato, cosa che poi era. Pure – gli dicevano – che il mondo d’intorno se ne andava da un’altra parte, che l’avevano lasciato lì, sempre su quello scoglio, come istantanea cotta al sole, ultimo Mohicano, su quella Rive Gauche ch’apparteneva a lui ed a quattro signore che s’ammestieravano d’antico.

Che pure s’ammetteva social ante litteram, di dita unte al tetraetile di Gestetner, di cui – per caso puro – non c’è morto per impronte digitali su uova sode, manco per il tracannare di zibibbi all’arsenico e gazzosa. Che con fogli e colla in mano aveva conosciuto stampella a mesi, formato economy – che quello passava la mutua –, per ginocchia a grattugia, nell’incontro con ferri di cappucci neri arditi d’ignoto, persi nel tempo, irrispettosi di titolazioni quotidiane che ne danno natali recenti e morti antiche. Che non vollero affratellarsi con mammoni e mannari nelle novelle della nonna. Di destino crudele patì le spire, in giovane età già vecchia, ma pure le pene del disarmo nucleare d’un Settimo, in fila poi per sussidio di disoccupazione. Che avrei dovuto scrivere per sussiego alla sua ineluttabile pulsione primordiale all’angoscia sotto pelle? Per assecondare l’arrovello, l’intorciniarsi di budella? Che pare non s’avveda, né da mo’, nemmeno da poi, che la prospettiva sghemba la rende ancor più tale? E mai si fece lucido per lo scivolo del tutto che è viscido e d’intorno. Impara, ancora, pur da vecchio immemore, che tale fu prima del primo dente da latte, per perseverare nella sua senescenza definitiva. Al di più, che non l’assecondo che rare volte, nell’ipotesi redentiva del cosmo, lo invito al desco, al chiaro dello scuro del rosso, alla saxata di Coltrane, urlo di vertigine, a parlare dell’ultimo Ray Sugar, alle geometrie di Cifalà, a sogni sotto zampe d’elefante, di Nico e la Redgrave, mica di cose serie, a contorno della frittatina con cipolle, che stasera, tanto, non è cosa di mettersi a relazionare, e tra noi l’alito pesante s’ammette.

Viaggio dentro il paesaggio

E visto che non mi fu consentito per causa di tempo tremendo di non farlo, mi piace, così, per celia, di parlarvi d’attraversamenti fotografici di paesaggio. Pure capita che il paesaggio è a presenza umana, che talune di dette presenze non mi sono ostili come tal altre. Dunque io quelle vi propongo che l’altre mi interessano assai meno. Ma vi faccio dettaglio di ciò che penso che, manco sarebbe da dire, questa è cosa che si fa a suono di musica giusta e precisa.

Quanti sono gli approdi di Ulisse? L’isola di Calipso, le Terre dei Lotofagi, i giardini di Circe? V’è stata una risposta potente e lunga millenni alla descrizione di un paesaggio fatta da un cieco, un semplice accenno tra vicende dal contesto universale per scatenare rincorse al toponimo che giustificasse una tappa fondamentale del viaggio più vertiginoso della letteratura. E vale lo stesso per certi scorci d’Oriente salgariani – come per i primi, sia pure per diversi impedimenti, mai visti – che hanno rievocato sogni e speranze di derive definitive. Più concrete appaiono certe divagazioni su tramonti indimenticabili nei taccuini di viaggio di Goethe, e poi quel ramo del Lago di Como che volge a mezzogiorno, suggestioni che fossero state immortalate da una qualsiasi pellicola o su qualche milione di pixel, non ci sarebbero giunte in fattezze così nitide e dirompenti. Poi l’invenzione della macchina fotografica ha spiazzato pletore di artisti e letterati costringendoli a cercare altre strade per delineare e trasmettere le suggestioni del paesaggio. Non si poteva più renderlo in forme perfette, più perfette di uno sviluppo almeno. In realtà, prima che la fotografia riducesse la natura descrittiva del paesaggio a pratica manichea ed estetizzante, rasserenante al punto da divenire materia utile per certe sale d’aspetto dentistiche, il volo di fantasia stampava immagini ben più profonde, giacché liberava l’energia del paesaggio, fosse anche semplicemente quello immaginato, e lo poneva in rotta di collisione – o in convergenza – con certe qualità dell’anima dell’artista, con le sue arguzie, talvolta con le sue furbizie.

Ed allora si può presumere che la fotografia abbia prodotto nell’artista l’effetto collaterale dell’insorgere necessario d’un approccio altro col paesaggio, non più meramente descrittivo, ma dialettico, un affare personale, un teté a teté allo specchio. All’artista, persino al fotografo più avveduto direi, quello cioè che non cerca patinature estetizzanti, il colpo di scena ad effetto della visione grandangolare del tutto e subito, neanche nebbioline trasognate, non rimane che interloquire col paesaggio, divenirne parte, attraversarlo per renderne l’essenza primordiale. Non può più lasciare l’impressione di conoscerlo, deve metabolizzarlo, incorniciarne il dettaglio, de-scriverlo, o meglio, re-interpretarlo, modificarlo se ne è il caso. In altre parole de-scrivere il paesaggio può voler dire scannerizzarlo nel suo invisibile, coglierne la molteplicità delle suggestioni, aggiungervene d’altre. Il paesaggio è tale poiché qualcuno l’ha attraversato e ne ha ricavato tratti della propria identità, la sua perfetta narrazione, dunque, non può esserne la sepoltura nell’istante cristallizzato da un click, piuttosto è la ricerca inversa che riporta alla luce una sequenza temporale dinamica. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le tracce del tempo che si sovrappongono, si stratificano diacronicamente; e così la traccia più recente non cancella le precedenti, le opacizza soltanto per un periodo effimero. Ma è lo stesso tempo che gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori depositati dal suo passaggio, ne scopre i precedenti, in un gioco cromatico che il de-scrittore del paesaggio disvela in un unicum narrativo che va oltre l’istante. Questa ricerca non può non consumarsi dentro un percorso di riscoperta, che parte dai luoghi del proprio vissuto anche quando il senso d’abbandono li rende ad occhi distratti prevalente e fastidioso. Effetto collaterale di questo cammino di riscoperta identitaria diventa così la messa a fuoco del dettaglio che sfugge a chi è vittima inconsapevole del gioco d’inganno del tempo, che ha scelto la disillusione dell’accelerazione parossistica come pratica quotidiana, ma che appare invece agli occhi di chi non se ne lascia irretire come irrinunciabile taumaturgia. “Vi fu sempre nel mondo assai più di quanto gli uomini potessero vedere quando andavano lenti, figuriamoci se lo potranno vedere andando veloci”, diceva John Ruskin, e la deriva nel paesaggio, in quello concreto e materiale del quotidiano così come in quello della mente, è proprio un viaggio lento, dentro quei silenzi che in una condizione “urbana” e moderna non sono previsti, appartengono, per l’immaginario collettivo distorto, solo a certe valli antiche e remote. Silenzi in cui però si avverte profondo il respiro del tempo che è passato, rotto solo da qualche richiamo lontano ed ancestrale che proviene da un luogo indefinito. “L’oscurità indietreggia davanti all’illuminazione e le stagioni davanti a stanze con l’aria condizionata: la notte e l’estate perdono il loro fascino, e l’alba sparisce. l’uomo della città pensa di allontanarsi dalla realtà cosmica e per questo non sogna più. Il motivo è evidente: il sogno nasce all’interno della realtà e si realizza in essa”. (Gilles Ivan) La reazione è la deriva nel paesaggio, lo scontro con esso, come per due enormi marmi michelangioleschi, la realtà materiale e la psiche dell’artista, che collidono liberandosi, scheggia dopo scheggia, frammento su frammento, delle sovrastrutture. Il risultato non è scontato, non appartiene ad un progetto ripetibile, si riarticola in senso dialettico ad ogni urto, rivela realtà sorprendenti ed insospettate in ciascuno dei due soggetti a specchio. L’opera finale non è perciò l’epitaffio d’un atto creativo, ad essa tocca di vagare ancora alla ricerca di nuovi orizzonti in un paesaggio di nuove menti, di nuove derive, di improbabili – e nemmeno certi – approdi. La deriva nel paesaggio, così, è alla base di tutto, diviene la rottura sistematica di ogni paradigma, d’ogni già visto, ma continua ad appartenere all’oggetto materiale che scarnifica sino all’essenza e reinterpreta come opera d’arte giacché lo circonda del vuoto. In pratica la deriva è due cose insieme, processo di esplorazione e tecnica di straniamento. “Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela” (Henry Laborit). In entrambi i casi il risultato finale è la nuova scoperta, quella che non è tracciata sulle carte di navigazione, di “rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione”. Impone che il paesaggio non sia definito secondo paradigmi assoluti, ma divenga il luogo d’esplorazione di un’atmosfera.

Nello straniamento l’oggetto paesaggio diviene un insieme di sensazioni che si riarticolano in un Kaos altro, postfondativo, unico ed irripetibile in quanto dipendente dall’osservatore. E persino il paesaggio degradato diviene contenitore di speranze, a patto che lo straniamento ne disarticoli le ragioni statutarie e lo rielabori dentro nuove consapevolezze. Lo spazio banale, evitato, de-costruttivo, viene filtrato dallo straniamento e diventa esperienza fisica, emotiva, contatto primordiale e silenzioso, la quinta scenografica su cui si depositano i presupposti della memoria. I quotidiani vissuti ed eteroposizionati creano la suggestione della trasformazione positiva e progressiva, la situazione che contrasta con l’esistente e ne muta lo stato di cose.

Il progetto di de-scrizione del paesaggio merita una premessa inevitabile in ogni caso, il paesaggio va attraversato lentamente, sia quello immaginato che si materializza in un sogno, una visione, una suggestione, sia quello vissuto, fosse anche quello che il paradigma estetico derubrica ad anonimo e degradato delle periferie di Suburbia. Eppure non può essere un attraversamento programmato, rituale, una ricerca chiavi in mano, piuttosto la situazione che si realizza poiché l’essenziale è solo contingenza. “Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente: gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare… ecco la Nausea”. (J. P. Sartre).

Nausee

Tutto era pieno, tutto era in atto, non c’era intervallo, tutto, perfino il più impercettibile sussulto, era fatto con un po’ d’esistenza. E tutti questi esistenti che si affaccendavano attorno all’albero non venivano da nessun posto e non andavano in nessun posto. Di colpo esistevano, e poi, di colpo non esistevano più: l’esistenza è senza memoria; di ciò che scompare non conserva nulla — nemmeno un ricordo”. (Jean Paul Sartre, La nausea)

Non mi veniva di scrivere d’altro, manco ora che sta arrivando la bufera e non ho che ombrelli a telai dismessi. Che quell’altro me invece ne aveva voglia, lui che, quand’era giovane, pareva ch’era già vecchio, che i suoi amori glieli sceneggiava Resnais e li cantava Jaques Brel. Che gli dicevano ch’era sbarcato da nave d’Argonauta, da secolo ignoto, che s’apprestava su uno scoglio ogni mattina, vestito come veniva, sino alle ciabatte, che pareva che lì c’era nato, cosa che poi era. Pure – gli dicevano – che il mondo d’intorno se ne andava da un’altra parte, che l’avevano lasciato lì, sempre su quello scoglio, come istantanea cotta al sole, ultimo Mohicano, su quella Rive Gauche ch’apparteneva a lui ed a quattro signore che s’ammestieravano d’antico.

Che pure s’ammetteva social ante litteram, di dita unte al tetraetile di Gestetner, di cui – per caso puro – non c’è morto per impronte digitali su uova sode, manco per il tracannare di zibibbi all’arsenico e gazzosa. Che con fogli e colla in mano aveva conosciuto stampella a mesi, formato economy – che quello passava la mutua –, per ginocchia a grattugia, nell’incontro con ferri di cappucci neri arditi d’ignoto, persi nel tempo, irrispettosi di titolazioni quotidiane che ne danno natali recenti e morti antiche. Che non vollero affratellarsi con mammoni e mannari nelle novelle della nonna. Di destino crudele patì le spire, in giovane età già vecchia, ma pure le pene del disarmo nucleare d’un Settimo, in fila poi per sussidio di disoccupazione. Che avrei dovuto scrivere per sussiego alla sua ineluttabile pulsione primordiale all’angoscia sotto pelle? Per assecondare l’arrovello, l’intorciniarsi di budella? Che pare non s’avveda, né da mo’, nemmeno da poi, che la prospettiva sghemba la rende ancor più tale? E mai si fece lucido per lo scivolo del tutto che è viscido e d’intorno. Impara, ancora, pur da vecchio immemore, che tale fu prima del primo dente da latte, per perseverare nella sua senescenza definitiva. Al di più, che non l’assecondo che rare volte, nell’ipotesi redentiva del cosmo, lo invito al desco, al chiaro dello scuro del rosso, alla saxata di Coltrane, urlo di vertigine, a parlare dell’ultimo Ray Sugar, alle geometrie di Cifalà, a sogni sotto zampe d’elefante, di Nico e la Redgrave, mica di cose serie, a contorno della frittatina con cipolle, che stasera, tanto, non è cosa di mettersi a relazionare, e tra noi l’alito pesante s’ammette.

Radio Pirata 46 (il ritorno di Radio Londra)

Riappare Radio Pirata che ha successo planetario, e fila che pare farmacia da tampone, che di tante collaborazioni c’è offerta che devo fare selezione dura. Taluni ragazzi meritano e gli do spazio sotto, con voce loro e musica d’altri. Che subito partirei di musica a far colonna sonora a pace e meraviglia, che ad altri piace ritmica di bombe come bimbi a gioco d’azzuffo. E riappare in forma di rilancio a gemellaggio per uopo con Radio Londra.

Che mi pare, almeno così, per sentito dire, che a fare la guerra sempre è facile, che a dichiararla c’è tempo uno sbadiglio per chi ha dito su pulsante. Mi dice il ragazzo qua che “Quando i ricchi vanno in guerra, sono i poveri che muoiono.” (Jean-Paul Sartre)

Capisco meglio una rissa d’osteria, una guerra di santi, una faida di quartiere e di palio; meglio Cerchi contro Donati, romanisti contro laziali, automobilisti in furore; perfino negri contro bianchi e viceversa… Torve dissennatezze, naturalmente, ma che nascono da uno sgarro, un’incompatibilità, un torto presunto, un pregiudizio, e sono in qualche modo un rovescio dell’amore, s’apparentano alla passione. Ma sparare a freddo su uno che è nato all’altro capo del mondo, che non hai mai visto, che non ti conosce e non parla la tua lingua, per ragioni che non sai, che non ti toccano, decise da altri, indenni in stanze blindate, persuasi di figurare dopodomani nella storia!”(Gesualdo Bufalino, Il malpensante)

Si è scritto in passato che è dolce e meritevole morire per la patria. Ma in una guerra moderna non c’è niente di dolce né di meritevole nella tua morte. Morirai come un cane senza una buona ragione.” (Ernest Hemingway, Note sulla prossima guerra)

Che quella di passare pezzi consistenti della propria miserabile esistenza a cercare massacro di prossimo (non come se stesso) per taluno è malattia, che pure è patologia anelare potere assoluto, che anche si fa sindrome grave il sottrarsi a starsene quieti, che ne so, a godersi una pensioncina bevendo un bicchiere con gli amici al bar, che ti fa anche buon sangue (che non si versa come d’altri) e non ti viene ansia d’accumulazione compulsiva di dobloni, bazooka e poteri, neppure di minchiate a cottimo.

Certo che se s’è strafogato tutto di tutti, non s’avvede che non s’è sgraffignato la collanina nuova di madama la marchesa, o il rolexino di mister Pippone, ma s’è rubato vite, a bombe ha buttato equivalente di chemioterapici, buono mensa per qualche milioncino di bimbi… E lo so che taluno non se ne rende conto, che la cosa il sonno non glielo toglie, che è tossico, e pure dipendente, ma allora talaltro gli può dire, così a consiglio spassionato, fatti curare, ma da uno bravo, se nel frattempo non gli hanno chiuso il reparto che di fondo c’è l’esausto, che tutto finì a scommessa di Risiko, o se li sono intascati i fenomeni come lui e degli amici suoi. (Questa l’ho detta da me, che non delegavo il primo venuto, semmai offro da bere e buon tutto)

Che radio che si rispetti ci ha i suoi inviati per inchieste dai risvolti insospettabili. E io telefono a mastro di pennello, che ha casa in cima alla collina, con vista a infinito di mare mio e spiaggia che sa di deserto, a dune cangianti. S’affaccia a veranda e m’assicura – ch’io tengo ad attendibilità delle fonti – che ha preso bidonate di caffè a smaltire sbornia della sera, per cui garantisce lucidità d’informazione.

Vede da lì che jet sfrecciano che non se n’erano mai visti, pure navi a cannone schierato gli pare di vedere, che non ha binocolo ma discreta fiducia in diottrie a disarmo, che almeno quelle non fanno arsenale. M’aggiunge, ma io me ne dissocio che è opinione sua, che a salvare disgraziati a barcone non c’è tale prodigo schieramento di forze. E rivado a musica, per brano di suggestione antica.

Che c’è puzza di guerra terminale, che è tutta analisi di politici a raffinatissima preparazione, qual migliori, cui s’aggiunge pletora immaginifica di giornalismo a cottimo, che tesse lodi di mediazioni, o che critica le stesse, a seconda di pruriti da orticaria sotto le ascelle.

Che mi ricordo del tempo che certi ceffi, par di bucanieri a servizio di regina, pur se a portafoglio gonfio di furto a destrezza, faccia avevano d’apparire a pubblico di reti unificate a dir, con voce rotta ad emozione e somma maestria d’attorame consumato, che le cose erano gravi, che ci toccava a breve bagno di sangue, oppure anche no. Che faccia comunque ce la mettevano. E andiamo ancora a musica.

Che mi sono fatto persuaso, a tempo, che ragione aveva Mastro Don Gesualdo Bufalino, che vi cito pari pari ch’io, di certo, meglio non pronunciavo il concetto: “Si firmerebbero poche dichiarazioni di guerra se chi le dichiara dovesse per legge firmarle col proprio sangue”. E io che sono nessuno, mi pregio di continuare a musica che vi rallegra domenica.

Che di stentoree dichiarazioni oramai s’è fatta piena la storia, che il prezzo di bolletta aumenta, ma aumenta per disgraziati che gli altri ci hanno assicurazione di conto solido. Pure, se scoppia la guerra, il mondo nostro pare dimentico di quel piccolo effetto collaterale che l’evento si porta dietro da che è tale: ci scappano i morti a fasci, che raro li ritrovi tra chi la guerra la dichiarò. E musica sia, a solluchero di pensiero lieve.

Che se c’è voglia di rosso, io, che di sangue buono ne ho poco, mi faccio latore di proposta di legge che di rosso s’inondino le vie, le strade, le piazze, pure i laghi per piacere di pesci, ma che sia di quello buono, di contadino, che sa del legno della botte, della terra arsa, pure di quella umida a rugiada della notte. E chiudo di musica. Che ho mal di testa per sera prima di adesione a concetto.

Cari tutti, che a balcone vostro sia bandiera bianca, che al mio c’è sempre stata.

Le solite cose

La miglior cosa sarebbe scrivere gli avvenimenti giorno per giorno. Tenere un diario per vederci chiaro. Non lasciar sfuggire le sfumature, i piccoli fatti anche se non sembrano avere alcuna importanza, e soprattutto classificarli. Bisogna dire come io vedo questa tavola, la via, le persone, il mio pacchetto di tabacco, poiché è questo che è cambiato. Occorre determinare esattamente l’estensione e la natura di questo cambiamento.” (Jean-Paul Sartre)

Ci sono due notizie, in questi giorni, cui guerraccia d’Ucraina pare fare quinta scenografica, a progressivo imbarbarimento quotidiano che, fregati da annichilimento collettivo, nemmanco si riconosce a carattere essenziale. Due notizie che con scenografia a dramma di sfascio tutto a bombarda hanno rapporti tali e stretti che pare complicato siano cosa altra. La prima riguarda ragazzo texano di anni diciotto, instabile, forse pazzo, che però si procura arma da battaglione di guerra e fa strage a scuola elementare: diciannove bimbi, due insegnanti, più lui stesso, fanno volo di Grande Tacchino. In un anno, giovane amico fa ricerca, di cosa analoga a quel paese ce n’è ventisette. Pare fatto lontano, ma lo è davvero? Altra notizia, che però per stessa struttura di raccapriccio non s’addice ad altrettanto spazio a prima pagina di giornalettume, è di barcaccia da sganghero che si capovolge a Mar d’Africa: 100 anime cascano in acqua, 80 disperse.

Ad esperienza di miei natali a quello stesso mare, garantisco a fuor di dubbio, che dispersi è di significato che s’è raccattato cibo per pesce. Ma come notizie sono a collegamento con quinta che pare terza guerra? E dammi tempo che ti percio, disse la goccia alla pietra. Che comincio subito da prima, che mi faccio persuaso che è grande democrazia che consente somma libertà di girare ad arma a tutto tondo pure a disadattato. Che è modello di democrazia d’asporto come pizza a taglio, cui c’è corsa a partecipo anch’io. Che giornalettume dice, però, che quella è colpa di lobby di armi. Ma a me pare che anche supero percentuale di PIL che volle, fortissimamente volle, governo di migliorissimi per acquisto di bomba, per decisione d’accordo con grande democrazia di mitra a sposto dove mi pare, ha odore di interesse a fabbrica di guerrafondaio per costruzione di bomba. Che è pure dettaglio che sfugge a giornalettume elevatissimo d’analisi e distrazione per quisquilia e pinzillacchera. Ma questo è parere mio che sono nessuno. Detto questo, tra grande democrazia d’arma ad un tanto al chilo, governo di migliorissimi che segue ad esempio pedissequo qual fedele alleato che non tradisce, superpotenza di zar che è a bombarda fitta a quotidiano risentimento di disgraziato, e che pure grande paese di prezzo basso ed hard discount non pare miracolo di partecipazione popolare, mi viene da dire che la metà basta. E, continuo, che se esporto democrazia buona e giusta, faccio profugo, se faccio gioco di mosca cieca se alleato o socio d’affari non proprio avveduto d’umanità, fa guerra a disgraziato in fondo a lista di disgraziati, poi faccio straprofugo. Che bastava, dico, faccio a rovescio cambio di PIL a favore di lobbettina a mirino puntato, che rifaccio scuola pubblica per bene, ospedale a giusto, pure mando barchetta con chiglia di stagno e salvo vita a mare aperto. Che se ne salvo qualche migliaio, a paese di sessantamilioni, non faccio etto di danno, pure, forse, faccio favore che è crisi che non nasce nessuno. Ma a scanso d’equivoco, su legge che accoglie profugo dico che è cosa buona e giusta d’accoglimento per guerra, ma solo per taluna guerra, pure ci scrivo accanto, a carattere cubitale, cifra precisa, che così s’apre circuito virtuoso e solidale d’accoglienza. Financo sacrestia spalanca porta, che ora s’avvede che c’è profugo a commozione, che morto d’annego, a scanso ancora d’equivoco, forse porta pure, per scompenso di promiscuo di selvaggiume, vaiolo di scimmia, com’è da sussurro di grande, glorioso e giusto virologo.

Radio Pirata 27 (per qualsivoglia crisi)

Radio Pirata addiviene a Ventisette che è giorno pure di pago stipendio, e taluno e tal altro si volsero a cupo per giusto rammarico che in assunto per piatto lavato c’era pretesa di detto. Popolettume volgare che non s’avvede di privilegio di sgobbo a gratis per imparo da stella di firmamento. Io di rammarico faccio nota, che non mi fermo ad antica pretesa che lavoro è a pago e dedico puntata a progresso di musica Prog, che guardo avanti.

Che progresso può essere mai a bandiera d’arcobaleno, che pare patchwork di stracciaiolo di riciclo a fronte di grandezza di bomba a doppio petto? Ha ragione torma di giornalettume che dice pacifismo è vecchio a sedia a rotelle, meglio sana pratica di conflitto, che quella è scelta moderna e consapevole, che se sei per pace vera meglio sganci bomba, se non la sganci almeno comprala, che se non la sganci e non la vuoi allora sei a senza rimedio per zar che sgancia bomba. Che io sgancio ancora Prog.

Che da più parti è a spaventoso pericolo che guerra finisce d’improvviso, che giusto giusto sarebbe catastrofe dopo abolizione a legge di pandemia. Mondo rischia di trovarsi a spiazzo di senza morto a camionata. C’è da avere sacra paura senza più briciolo di paura. Occorre gesto autentico che solo governo di migliori si consente a crisi, che proclama essa d’ufficio per gioco d’anticipo, poi si vede a qual titolo di giornale. Importante che crisi è oro per patria, e oro è tale solo se viene da gengia a sconto, buono per compro oro, che oro di gioiello prezioso di madama la marchesa non è a tocco di solidarietà, che quello è PIL che cresce. Vado di Prog, che mi pare cosa buona e giusta.

Pure c’è tale a malvagio vocato, che si fa ancora a barconate d’annego in mare d’Argonauta e Fenicio, taluno pure si permette arrivo a porto salvo.

Che malacreanza che non sa che a far profugo ora c’è altro. Forse a più in là, a tempo giusto, è comodo d’arrivo di tale profugo di colore diverso, che qualora a pace, ahimè, s’addivenisse, allora varrà pena far tenzone tra profugo e profugo, che ultimo contro ultimo è brand di successo a guardiania di cassaforte. Prog sia, ora.

Ch’io sono stanco, e trasmissione devo chiudere per sopraggiunto certo disagio cui non ho nome da dare, che non me lo ricordo. Che fortuna fu che ricordo ebbe mio giovane a contratto di collaborazione occasionale e saltuaria, che pretende pago esoso, ma io, al massimo, dono privilegio di Radio Pirata e faccio onore di parola: “Questo momento è stato straordinario. Ero lì, immobile e gelato, immerso in un’estasi orribile. Ma nel seno stesso di quest’estasi era nato qualcosa di nuovo: comprendevo la Nausea, ora, la possedevo. A dire il vero, non mi formulavo la mia scoperta. Ma credo che ora mi sarebbe facile metterla in parole. L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità.” (Jean Paul Sartre) Chiudo in Prog per buon Ventisette che domani non v’è più per bolletta.

Radio Pirata 26 (guerriglia di barricata)

Radio Pirata diventa Ventisei, che a guerra che incombe risponde a guerriglia che non fa morto ammazzato, ma stordisce avversario di pace con arma potentissima, di schermaglia ricca a sfaccettatura per danno incommensurabile a brutto e orrido che avanza. Sette note usa a cannoneggiamento e oltre va per affermazione di diritto a bellezza a forma che vi pare, che quella salverà il mondo, che lo disse tale che è a censura che nacque a posto sbagliato. E vado di immaginifica potenza di bombardo a modo mio.

E mentre sparo ad alzo uomo melodia a spiazza l’ascaro, mi concedo di compagnia buona che pare pure di bevuta ottima.

È alla massa degli uomini e delle donne che lavorano, vecchi e giovani, che spetta decidere circa l’essere o non essere del militarismo attuale, e non a quella piccola particella di questo popolo che sta nel cosiddetto abito del re” (Autodifesa di Rosa Luxemburg pronunciata al Tribunale di Francoforte nel febbraio del 1914 contro l’accusa di incitamento alla diserzione)
E sparacchio di mio, a barricata.

La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente egualmente.
” (Bertolt Brecht)
Resisto a botto di bomba con controbotto, pure di fagotto.

Il mondo si divide in due campi: i dominatori e i dominati, gli sfruttatori e gli sfruttati. I paesi poveri non lo sono per incapacità congenita, lo sono a causa di circostanze storiche, che hanno fatto sì che certi paesi abbiano dominato, sfruttato e depredato gli altri per arricchirsi. Quando i ricchi diventano sempre più ricchi, e si parla qui di logica matematica, quando i ricchi sfruttano i poveri, i ricchi diventano sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri.”
“Quando i ricchi si fanno la guerra, sono i poveri a morire.
” (Jean Paul Sartre)
Faccio barriera e cingo bandiera, bianca, mi pare, ch’è da suonare.

Dopo la pioggia viene il sereno,
brilla in cielo l’arcobaleno:
è come un ponte imbandierato
e il sole vi passa, festeggiato.
È bello guardare a naso in su
le sue bandiere rosse e blu.
Però lo si vede – questo è il male –
soltanto dopo il temporale.
Non sarebbe più conveniente
il temporale non farlo per niente?
Un arcobaleno senza tempesta,
questa si che sarebbe una festa.
Sarebbe una festa per tutta la terra
fare la pace prima della guerra.
” (Gianni Rodari)
M’attrezzo ancora a resistere ardito, diserto, s’è il caso, sin dentro lo spartito.