Antimerce (Allonsanfàn parte ventiseiesima: l’arte outsider di Grazia Ferlanti)

Grazia Ferranti è tipica esponente di quella che ormai s’è affermata come «outsider art», forma espressiva cui si approda come sponda salvifica oltre le derive quotidiane. È lì l’Arte di chi, per immaginari collettivi mercificati, d’arte non deve occuparsi. Il termine supera ed ingloba l’Art Brut, le esperienze lontane del pittore francese Jean Dubuffet, va oltre ogni categorizzazione. Le produzioni sono non convenzionali, concepite quali percorsi intimi, esclusivi, da autodidatti, in forme talora riabilitative, altre volte catartiche e di riscoperta. Permane sempre, però, una solida volontà di ricerca dialettica e comunicativa del sé attraverso l’arte.


Grazia Ferlanti è tutto questo e in qualche modo fa sue anche esperienze altre, le amplifica con sensibilità originali cui sovrappone il proprio quotidiano. Nata a Modica nel 1988, dalla sua città, da quel quartiere abbarbicato su un costone roccioso, scavato letteralmente nella roccia, si è allontanata solo per breve tempo, per lavorare altrove, nella ristorazione. Una grave malattia l’ha costretta ad un lungo periodo riabilitativo durante il quale si è avvicinata al collettivo Artisti Associati Matt’Officina di Modica dove ha conosciuto il pittore Marco Terroni Grifola, amico fraterno da cui ha appreso le principali tecniche pittoriche. Ho incontrato Grazia per la prima volta proprio a Matt’Officina, lei non parlava delle sue cose, pareva occuparsi d’altro. Aveva una sorta di pudore intimo nel mostrarsi per quello che era, un’artista. Mi accorsi però che non era lì per caso solo dopo aver notato un dipinto su carta di buona dimensione che mi colpì, faceva bella mostra di sé in cucina, dove Grazia pare trovarsi proprio a suo agio. Chiesi di chi fosse. Era il suo.


All’inizio della sua esperienza ha preferito concentrarsi sulla pittura ad olio, con un percorso di rappresentazione di sé stessa, di ricostruzione ed esplorazione del proprio essere. Le sue opere sono esplosioni di colori, solo in apparenza e ad un occhio distratto ingenue, con quella precisa separazione cromatica, il tratto che confina le tonalità in un ambito precisamente definito, la disposizione spaziale che segue logiche incomprensibili, istintuali ammiccamenti a certa psichedelia. Ad uno sguardo attento appare invece evidente la rappresentazione di parti d’un sé disordinato, un caos generativo cui non occorre mettere ordine, non è necessario se la disposizione eterodossa del proprio io coincide con aspirazioni e pulsioni comunicative da non imbrigliare. Dell’io di Grazia, nei suoi dipinti s’avverte la profondità, pure la natura di fermento permanente, non riconducibile a categorizzazioni d’alcun tipo. È arte che si autoriproduce, attraversa fasi dialettiche serratissime con l’artista che la plasma, finisce essa stessa per plasmare Grazia, la rende differente, la racconta senza infingimenti, produce narrazioni libere. Ma c’è, nascosta tra i meandri di quei ghirigori trasformati in magia espressiva, anche la sua Modica, l’intricata sua morfologia, incomprensibile a primo acchito, intersezione d’anime rade, di aperture improvvise, imbuti inattesi di rocce e quel crogiolo di case indefinito tra cascate di cespugli di capperi che si aprono varchi nelle fessure tra le mura e la roccia. Grazia anche lei pare scavarsi una propria identità, un proprio modo di esrpimersi. Partecipa a quel complexus, lo fa come soggetto eversivo (nel senso latino dell’e-vertere, cambiare direzione) giacché, come un’antenna, capta più o meno consapevolmente i segnali del proprio ambiente sociale e culturale (quindi politico), li filtra col proprio vissuto, li trasforma in determinazione creativa. Lo fa quando sensibilità non avvezze all’immaginazione – quindi ad andare oltre -, non sono capaci di coglierne nemmeno i vagiti più rumorosi. Le cose di Grazia appartengono all’immaginario che le ha prodotte, non sono alienabili giacché quel percorso è già stato compiuto. Il suo vissuto impone una lettura differente e soggettiva della sua opera, ne rende l’essenza di antimerce, giacché la merce è tale solo se ne è garantita la riproducibilità seriale. Grazia, invece, è cangiante, non s’accomoda, nemmeno ci prova. Non le appartiene l’idea della compatibilità, del fare le cose «per bene», dunque, se si racconta, si racconta così, non cerca scorciatoie ruffiane, nemmeno ammicca a certa serialità di maniera. Outsider art, pienamente, completamente altra. Ma forse è talmente arte questa da rendere, in qualche modo, outsider, brandello d’arte e convenzione, il crogiolo artistico conclamato come tale da immaginari che stentano a concepire l’arte come comunicazione «onesta», premiante nel gusto degradato della serialità della merce.


Grazia Ferlanti è ancora in mostra per qualche giorno presso l’A/telier di via Pizzo a Modica (RG), in una collettiva che esplora proprio l’arte outsider.

Ieratici, eretici (Allonsanfàn parte venticinquesima: oltre il martirio con Raffaello De Vito e Sergio Poddighe)

Difficile metter insieme artisti differenti quando si concepisce una mostra, la collettiva è straniante, spesso non raggiunge obiettivi narrativi comuni, nemmeno li sfiora, sono solo immagini alle pareti. Talora si sceglie il tema, l’artista lo esegue, certo con la propria sensibilità, ma, appunto, lo esegue, non lo partorisce, non è roba sua. Rarissimo vedere espressioni artistiche che si completano, pare autentico miracolo trovarne maturate a distanza, da esperienze lontane, storie diverse, mestieri – nell’accezione più ampia del termine – a tratti persino alternativi.

Le biografie artistiche di Sergio Poddighe e Raffaello De Vito sono talmente altre da non presumere che si sia realizzato il «miracolo» della convergenza evolutiva, che i due abbiano potuto concepire produzioni artistiche procedendo parallelamente, trovando una sintesi narrativa che si esprime in un unicum sorprendente. I due dialogano, intrecciano una dialettica serrata, paiono completarsi in un gioco di rimandi che pare studiato e che in realtà è idem sentire. Consapevolezza personale – il personale è politico – che trova vie di fuga nell’espressione creativa, procede sino a quella sorta d’imbuto dove le produzioni si toccano, si completano, si intrecciano. «Ieratici, Eretici» non è una collettiva, nemmeno una doppia personale, è una mostra sola con due volti che si guardano, che si cercano producendo alchimie preziose, si avviluppano in un complexus mai scontato.
Come si dice in questi casi, cominciamo dal principio, da ciò che fu il verbo e poco importa se dai soggetti ieratici di Sergio Poddighe o dalle presunte eresie di Raffaello De Vito. Sergio crede in una sorta di connaturata dimensione angelica dell’essere umano, una propensione a librarsi in volo. L’angelo lo fa, l’infernale precipita, sceglie una direzione differente per esprimere se stesso. Il volo è il sogno, l’avere una prospettiva altra, ricongiungere il proprio sguardo con l’infinito. La metafora dell’angelo è perfetta, ma quanto c’è davvero di sacro nel desiderio di sollevarsi da terra, e quanto invece non è un desiderio naturale di fuga, come fu per Icaro, forse più come Dedalo che pretese un’ascesa ancor più completa? È nella natura umana spingersi oltre, valicare confini asfittici, tracciati per limitare l’istinto di vagare per la terra, la libertà di movimenti che ha spinto interi popoli ancora più in là, sino ad ogni anfratto conosciuto, come se approdassero dalle nuvole in una dimensione altra.

E quanto quel volo è interrotto, consumatosi nella voglia di oltre che è nel fanciullo, proibito dalle catene della convenzione? Il sogno si snatura, le ali divengono organo vestigiale, come una coda mancata, il cenno d’artiglio d’uno smalto sintetico su unghie laccate. Il resto è progressiva amputazione, la perfetta rappresentazione della perdita d’umanità nel cerchio stretto del concreto, l’atrofia dell’organo del volo coincide con quella del desiderio primigenio, conduce all’asfittico del quotidiano. I lavori di Poddighe sono la rappresentazione del contesto dei desideri umani e dell’uomo stesso come soggetti esclusivi dell’apparire, metafora della parzialità dell’essere. L’uomo, dunque, è entità incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Il volo del bambino lascia spazio al vuoto dell’adulto. E questi vuoti l’umanità riempie creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo allontanamento dalla stessa concreta condizione umana. Proprio sulla condizione umana le opere suggeriscono una riflessione profonda, una riflessione ed un’analisi che possono essere affrontate da più punti di vista, poiché l’accettazione della complessità, quindi delle diverse angolazioni dell’osservazione, è l’unico strumento attraverso cui è possibile costruire una prospettiva di ricomposizione dell’essere umano. Mentre questa ricomposizione passa proprio dal tornare indietro all’organo vestigiale, la sua definitiva riscoperta come condizione salvifica. Al contrario l’eterodirezione dei comportamenti è il vicolo stretto della disgregazione, dell’annichilimento, il martirio di soggetti comuni che hanno semplicemente rinunciato ad essere, non hanno osato la fuga tra le nuvole, non sono più angeli fanciulli, levati in alto dal desiderio primordiale dell’infinito vertiginoso. Poddighe ci racconta questo mancato ricongiungimento con gli strumenti che gli sono più congeniali, un surrealismo post litteram che ammicca alle cose di Breton, alle copertine stralunate delle Mothers of Invention, si esprime con caratteri originalissimi, si riconosce nell’uomo qualsiasi, nel giovane, nella donna, nel vecchio, che consumano il proprio doloroso disumano nell’anaerobico quotidiano. I soggetti di Poddighe sono talmente comuni da risultare invisibili, eppure mostrano senza pudore le proprie parzialità, mancano del doveroso silenzio della consapevolezza della propria drammatica condizione, sostituita dalla disperazione del vacuo apparire.
E quel martirio di cui narra è dentro il dogma d’una società obbediente, il dettato è preciso, la prospettiva esatta. È il processo educativo che conta, le masse obbediscono, il martirio delle moltitudini invisibili è scelta imposta, cultura dell’abbandono della propria emancipazione, la salvezza è altrove, non è di questo mondo. Il volo avviene solo dopo che le spoglie mortali si sono consumate nella loro essenza vitale. Raffaello De Vito individua uno dei più potenti strumenti di coercizione culturale nel martirologio, lo trova nei «santini», il promemoria formato tascabile che indica la strada, l’unica percorribile, il sacrificio estremo come unica prospettiva di salvezza. Raffaello se ne accorge, interviene su quelli, li riarticola e sostituisce l’educatore con l’educato, il soggetto diviene moltitudine dimenticata, non è più venerabile santissimo, è quotidiano sterminio. L’idea è quella d’un fake che amplifica la natura mantrica dell’immagine originale, in cui il soggetto poco importa chi sia, è fondamentale che dia al dolore ed alla sofferenza una componente salvifica che seppellisca l’istinto primordiale.
Non c’è passaggio umano, cambiamento d’una qualche fatta che non abbia preteso martiri, vittime sacrificali. Il santo è sempre – o quasi – martire, il miracolo è la prospettiva che scaturisce da quel martirio. Ed il martirio è una sorta d’espiazione per una condizione che è già di per sé sacrificale, appartiene agli ultimi. La devozione più profonda, pure nella religiosità archetipica, nella sua simbologia, è la rievocazione del sacrificio, il martirologio è punto di riferimento della fede, in realtà nasconde prospettive di trasformazione, di subalternità al dettato.
I Santini, tweet ante litteram, che raccontano vicende di sopraffazione, di martirio, appunto, hanno rappresentato per tantissimi una sorta di protezione dalla stessa tragedia. In realtà non ne hanno nascosto affatto l’evenienza ch’essa si presenti, nel qual caso appare ineluttabile, premessa per una vita altra di compenso. Ogni categoria sociale ha il proprio riferimento nel santo che ha fatto da parafulmine, ha pagato per i posteri, in qualche modo li ha liberati dal patirne le stesse pene. Ed è protezione semplice, a portata di borsetta, portafoglio, l’avvertimento che il cambiamento può avvenire solo attraverso il sacrificio, con l’esempio. Hanno iconografie apparentemente semplici i santini, al tempo ricercate, ché ogni dettaglio non appare superfluo, è narrazione atipica, semplifìcata ma esaustiva. Il punto è che la categoria degli ultimi, in definitiva dei martiri, non pare esaurirsi nella iconografia classica. Raffaello De Vito coglie l’enorme portata simbolica della trasmissione del messaggio sacrificale che era nel «santino», ne amplia la rappresentazione all’infinita platea degli ultimi. La sua è ricerca anche fisica, negli ambienti più consueti di quella presenza, chiese, monasteri e negozi di ecclesiastica. A quei soggetti ridisegna i contorni e non v’è in questo alcuna volontà blasfema, al contrario coglie la formidabile dirompenza di immagini iconiche di farsi mappe concettuali per veicolare i nuovi martirologi. Cambia i volti dei santi, le loro effigi classiche, i protettori degli ultimi lasciano solo impronte delle proprie gesta, cedono il posto alle nuove vittime della società involuta, fanno spazio a nuove immaginette che, come le vecchie, presumono d’avere capacità esorcizzanti il declino d’umanità private della propria stessa essenza.
La tecnica che Raffaello usa è raffinata, egli è conoscitore abilissimo di grafiche, fotografie ed immagini. Subordina le sue competenze ad un processo di riscrittura autenticamente «umano», trasforma il mito religioso in quotidianità, compie il passaggio inverso rispetto al canonico: il santo, nella iconografia classica, ha un nome, è la parte per il tutto, s’identifica nell’ultimo che si sacrifica per il resto d’intorno, per dare una possibilità ancora col proprio sacrificio, con la propria testimonianza ed opera, a chi soffre condizioni di privazione, di vessazione, di prevaricazione, sfruttamento, violenza; in epoche in cui l’esempio virtuoso pare ombra fuggente, quasi violazione di norme comportamentali non scritte ma esattamente codificate, nei santi di Raffaello è la pletora degli ultimi che parla in prima persona, si fa soggetto collettivo che produce voce corale. Il martire non è più uno, si fa moltitudine, schematizzata nell’immagine mutuata dalla tradizione. Ed il martirologio mostra la sua vera essenza, quella della sopraffazione legittima, anzi auspicabile per il mantenimento d’una condizione gerarchica, in cui il potere si legittima nella disfatta degli ultimi.

Questa di Raffaello è operazione coraggiosa, straniante come poche, in divenire giacché i nuovi martiri sono elenco che non pare abbia fine, donne vittime di femminicidio, di regimi feroci, vittime dei cambiamenti climatici, migranti sfruttati, bambini sotto le bombe, preda di pedofili, ma anche schiavi delle nuove tecnologie, e poi lavoratori che muoiono sul posto di lavoro, medici ed infermieri che hanno contrastato il Covid e che da eroi divennero nessuno. Ognuno può aggiungerne altri, quelli che gli pare, ché ogni ladrone ha la propria devozione.
E questa mostra si concede a chiunque la voglia, basta chiedere per averla (magari all’A/telier di Modica Alta), non c’è da pagar nulla, solo verificare se ci sono le condizioni materiali per trasferirla dove si vuole.

La pietra che vive (Allonsanfàn parte ventiquattresima: le incisioni di Angelo Modica)

Avevo già anticipato che avrei parlato di Angelo Modica qui. Lo faccio riprendendo un mio scritto pubblicato su una rivista che si occupa di Outsider Art, quella che un tempo veniva definita Art Brut, quell’universo artistico lontano dal mondo rutilante delle gallerie, delle sale espositive, delle accademie e della critica. L’arte – degli «altri» – che si avvicina al suo concetto primordiale e più autentico.

Angelo Modica la sua città se la porta dentro già nel nome, «un paese a forma di melograna spaccata», diceva Mastro Don Gesualdo Bufalino. Una montagna scavata dai fiumi, e sulle pareti a strapiombo sul fondo valle l’alveare d’antiche sepolture, abituri che, con la pietra di risulta d’ulteriori estrazioni, s’aggettano a diventare case e palazzi, il disegno d’un presepe perfetto. Pure collassano, quelle pietre, sotto i colpi furibondi d’un terremoto, ma rivivono ancora, diventano le fondamenta per il colpo d’occhio che si respira dal Belvedere del Pizzo, quello che domina il paese dalla sua parte alta, dove Angelo è nato 83 anni fa, do#v’è sempre vissuto, se si esclude quel certo periodo di tempo trascorso all’estero ad inseguire la promessa per una vita migliore.

Quelle pietre Angelo le conosce bene, sono le stesse che affollano i campi, le fertili campagne d’intorno, che assumono forme e dimensioni esatte sotto i colpi di perizia raffinatissima del martello in testa dei
“mastri de mura”, si fanno tessere del fitto e vertiginoso mosaico dei muretti a secco. Suo padre questo faceva, “u mastro de’ mura”, e Angelo, nella sua vita in campagna, ne ebbe eredità d’insegnamenti preziosi per costruire quell’arabesco infinito che racconta la storia dell’arte di rendere fertile la terra, della necessità di far ruotare le colture, del maggese, dei recinti per le bestie, protezioni dal vento di Scirocco che spazza l’altopiano nelle giornate più calde, ci ricorda d’un padre che la#sciò il suo podere ai figli in parti eguali. Sono le pietre che emersero da fondali marini antichi, che recano con sé la storia che precedette gli uomini, fini sedimenti carbonatici, gusci invisibili di piccole creature sedimentate a fine vita, che creano sostrato di destino per gli uomini che sarebbero arrivati. Le conosce bene Angelo quelle pietre duttili, proprio come le conoscevano abili scalpellini che ricavarono figure grottesche dalle loro forme imperfette, quasi a voler sconfiggere la maledizione della terra che trema, esorcizzare con quelle immagini la paura e lo sconforto del perdere tutto, tutto fuorché la pietra. Angelo non le ha mai abbandonate quelle pietre, per una vita le ha accatastate, a proteggere le radici d’un ulivo, a far spazio a quelle di viti per un vino dal sapore aspro che sa di terra e di sale. Le conosce bene per averle viste prolungarsi e rivivere in forme nuove nei ‘mannaruni’, nel dedalo dei muretti, all’ombra d’un carrubo o d’un gelso, per riposarvisi sopra dalla fatica dei campi, con caci giusti, olive, pane di casa ed un grappolo di ‘racina’.


Quando la sua Pinuccia, la compagna d’una vita, se n’è andata e le sue figlie hanno preso strade altre, come si compete ai ragazzi che crescono, Angelo se n’è riappropriato, vi ha inciso sopra la storia delle sue memorie con strumenti semplici, un martello, la punta d’un cacciavite. O forse semplicemente quella storia l’ha tirata fuori da dove era sempre stata, dove era consapevole vi fosse la narrazione d’una vita. Proprio nel solco di quella che un tempo si definiva Art Brut ha raccontato se stesso, la sua vicenda personale, i suoi luoghi, il proprio immaginario nelle forme sorprendenti di essenze, d’alberi, delle cose che ha avuto a fianco in ogni istante del suo quotidiano. Don Angelo Modica supera, nell’essenziale della sua produzione, il paradigma dell’arte contemporanea quale merce, non cerca sfoghi narcististici, approvazione e pubblico, si esprime e basta. (le foto in basso delle opere di Angelo Modica sono di Alberto Sipione)

Documenta la sua simbiosi con la pietra, con i luoghi dov’è vissuto e vive, la racconta per quello che è, qualcosa che gli appartiene nell’intimo. Non fa gruppo o genere, è solo lui, le sue pietre, le sue memorie, la sensibilità di un uomo che non cerca facili accondiscendenze. Non si concede fronzoli, ha financo quasi un pudore intimo nel parlare delle sue cose, della sua arte, si limita a mostrarle con un sorriso che sa di gratitudine a chi glielo chiede. L’idea di esporre le sue opere all’A/telier pare sia fatto connaturato alla ricerca di una dimensione dell’arte che non s’adegua ai luoghi canonici
che l’immaginario collettivo mercificato ha predisposto. L’Atelier di Modica Alta, del resto, è uno spazio espositivo dove non dovrebbe esserci, semplicemente l’anticamera d’una abitazione trasformata ad un uso condiviso, per ospitare arte, al centro d’un quartiere che non v’è preposto, popolare e vecchio, intriso di tradizione ma non abbastanza vicino a fasti da cartolina come quello più in basso. Vi si fermano rari turisti, quelli che sono adusi a esplorazioni faticose a percorrenza di vicoli stretti, dedali di stradine e scalinate erte ancora scavate nella pietra, silenzi profondi, scarpinanti che s’attrezzano allo stupore dell’improvvisa apertura sul presepe di case. È quartiere dove la domenica presto puoi fare ancora colazione con vino e bollito, come facevano i contadini d’un tempo, dove puoi trascorrere serate sotto le scale d’una chiesa sempre con qualcosa da bere che non necessita di mutui a tasso d’usura a conto fatto.
Basta mettere tre sedie fuori da quel posto e può fermarsi qualcuno ad occasionale passaggio, che s’appassiona ad una esposizione di cui non sapeva nulla, e di quella si mette a discutere come si ritrovasse in un luogo già noto, con lo sfondo del jazz di Miles o The Goldberg Variations di Bach suonate da Glenn Gould. Pure si ferma Peppe, custode dell’imponente chiesa prossima, birra e sigaretta in mano, e sempre il vecchio Don Angelo, l’abilissimo “mastro” di muri a secco, che
s’accomoda con libro in mano o grappolo d’uva della sua vigna, perché d’istinto, come tira fuori ghirigori di racconti dalla pietra, Don Angelo sa bene cosa vuol dire Outsider Art, nemmeno intende rinunciare a farne parte.

Le vibrazioni del viaggio (Allonsanfàn parte ventiduesima: “Live from the Globe” di Stefano Meli)

Gettato sull’erba vergine, in faccia alle strane costellazioni io mi andavo abbandonando tutto ai misteriosi giochi dei loro arabeschi, cullato deliziosamente dai rumori attutiti del bivacco. I miei pensieri fluttuavano: si susseguivano i miei ricordi: che deliziosamente sembravano sommergersi per riapparire a tratti trasumanati in lontananza, come per un’eco profonda e misteriosa, dentro l’infinità maestà della natura…” (Canti Orfici, Dino Campana)

Stefano Meli non pare mai tipo da prove lunghe ed estenuanti, è sempre da buona la prima, che quella è la sola giusta. Le corde della sua chitarra vibrano sempre di viaggio e scoperta, e se i suoni sono quelli che hanno capacità di sollevare la polvere di deserti lontani, a me, pure, mi danno sensazioni di percorrenze di trazzere sperdute a margine d’un altrove che è casa nostra condivisa, come condiviso si fece un fiasco di vino dal sapor di terra e di sale. Vibrano quelle corde, ancora, per un disco nuovo che si fece vivo – ma quando mai non lo fu? – dal vivo, in una serata al Globe di Ragusa. Qualcosa spizzicata qua e là tra le cose sue, roba di Viceversa Records, tutte con quella propensione a lasciare aperta la storia d’un altro viaggio.

Viaggio notturno, tra la fioca luce dei lampioni d’una qualche Suburbia, pure attraversamento d’altro, comunque giammai a itinerario fermo, prestabilito, solo corso per vite libere, come altro non può essere. Quest’ultimo lavoro di Stefano questo mi ricorda, scorrimento lento in terra iblea, quando si fa terra d’altrove, concorre con Patagonie e deserti. E quello m’evoca forse solo per nostalgia di luoghi e affratellamenti di cui mai facemmo a meno. Qualche volta bisogna fare rotta altrove, oltre la cittadella presa d’assalto. L’altopiano sulle guide non c’è, lo consente. Ci puoi fare decine di chilometri e non incontrarci nessuno, che presenza umana invece è dappertutto, in dedalo infinito di muri a secco, pietre su pietre strappate alla terra. C’è ancora un altro blues che vibra lì.

Quadrati, rombi, trapezi, cerchi ed ovali, raccontano storie antiche. Antichi abituri che non smisero mai d’essere abitati, che di destinazione d’uso fecero gioco bislacco, financo sepoltura di vassallo d’Eblon divenne chiesa di Bisanzio, tombe si fecero magazzini, ovili, abitazioni di chissà quante genti da mille mila anni per bagaglio d’ampia fantasia a necessità impellente. L’intarsio è roba di ordito intricatissimo, d’eleganza somma, sguardo di vertigine si spinge sinché ce n’è. E poi, d’improvviso dicchi e pieghe della crosta, per irrequietezza di mantelli incandescenti, di sommovimenti terribili, pure strapiombi infiniti, dove le acque gelide di fiumi si fecero e si fanno strada a scavare tane per trote, volpi, ghiandaie e biacchi iridescenti. C’è comanda di suoni giusti tra quei cento anfratti che nascosero velli d’oro e trovature in fondo ad arcobaleni. Tutto si fa ingresso a terra di Lotofagi e smarrisci ogni tema di ritorno. Terra di fiabe, terra d’apparenza sola, che di colori si fece tavolozza densa, e non si curò che di chi ne seppe cogliere l’indispensabilità d’ogni cromatismo. È terra che puoi attraversare come ti pare, ma se c’è una corda giusta che t’accompagna, come filo d’Arianna, è quella che vibra ancora nelle cose di Stefano. E a proposito, il 21 presenta il suo Apache qui.


Elogio della lentezza, pure della pipa

M’ero fatto persuaso, già in illo tempore, che la pipa avesse coordinate in sovrapposizione esatta di quelle di precisissima lentezza, dunque ne feci un qualche uso, pure se fui più avvezzo, nei secoli dei secoli, a rollar cartine su tabacchi d’una certa qualità dozzinale. Mi capitò che tra innumerevoli traslochi la mia svanisse nel nulla, quasi per affezione e fedeltà all’ei fu, altra non ne cercai. Pure ne conservai visione in mano, e per aspirazione adeguata, a praticanti di sindacalismo profuso, intellettuali d’arguzia sopraffina, scrittori rivoluzionari e comunque soggetti avvezzi ad impiego di mente e concetto. Ma mai disdegnai dal pensarla in uso a marinai immemori di promesse, fabbri d’una qualche raffinatezza, abilissimi artigiani e manovalanze convulse, che se ne concedevano l’uso quasi a voler riconnettersi con tempi altri che non furono di semplice operosità, piuttosto per riappropriarsi, tutt’altro che indebitamente, con dimensioni a tempo dilatato, magari ad accompagnamento esatto ed irrinunciabile di giusta musica, di un whisky torbato, d’un orizzonte lindo d’infinito.

Che poi quella, la pipa, ad immaginario mio torna e ritorna, che quasi mi sorpresi di non sorprendermi quando, ad incedere per urbanità secondarie, a cospetto d’antica scuola dismessa, trovai un tal portone spalancato verso quel dato mondo mai dimenticato. Ch’io, vecchio professore in disarmo di neurone e deformato professionalmente, vedevo in detto stabile null’altro che tappeti di registri a far da pavimento su copertura di maioliche andate d’usura, densi di note su note a certificar progressi o elargire sentenze definitive di bocciature improrogabili. Ed invece, oltre la porta, s’apri il mondo insospettabile di Totò Amorelli, condiviso col buon Giuseppe, abile assistente suo. Ed è mondo di pipe e creatività sorprendenti, dunque di pace e lentezze. Non indugio ad elencare a chi Totò ne fornì di prestigiosissime, rischierei di farmi dimentico financo dei più noti, ma dal 1980, quando s’era messo a ricavar fornelli da radiche varie nella sua Caltanissetta, in tanti ne godettero delle forme suadenti, delle geometrie variabili per aspirazioni poderose di miscele di tabacchi dal gusto del viaggio definitivo. Ed egli, Totò, tira fuori con lentezza d’invidia, quelle misture pregiate che vengono da Siria od Americhe, a creare il disegno del mosaico globale della lentezza nel goderne il profumo.

In terra di Modica si dà persino a ricavar pipe dal carrubo, pianta che gronda di linfa ferruginosa e rossa, tanto che, un tempo, potandone un paio per far spazio sotto le ampie fronde per dimora di frescura estiva in quel pezzo di campo che fu di mia pertinenza, m’avvidi che pareva sanguinassero sì da volgermi a compassione per l’orrenda amputazione da me inflitta. Totò – ha qualcosa che mi ricorda, nell’aspetto e per i suoi sornioni baffetti, Clark Gable – è ospite magnifico, non trascura di mostrarti i dettagli del suo lavoro, e subito fui edotto – senza necessaria sottolineatura – che la sua non è opera d’abilissimo artigiano, piuttosto creazione d’artista superlativo. “Non lavorerei mai su commissione, sarebbe svilente”, dice, ché se uno vuole una pipa giusta lì la trova, fosse presidente d’una qualche superpotenza, principe d’Arabia, mercante di ori, disgraziato bracciante d’agricoltura, pescatore di frodo, come me professorino di piccolissima scuola, pure semplice turista di passaggio. Di quelle pipe non ce n’è una che pare un’altra e ve n’è a centinaia, pure di più. E quanti ne conosco d’artisti di prestigio che fanno pienone a mostre osannate, per curatele di levatura eccelsa un tanto al chilo, che imbrattano o imbrattarono tele l’una a fotocopia della precedente. Ho visto pipe ad abbraccio con corna di cervo, dente di facocero, altre a doppio fornello, ad aspirar ora una miscela poi un’altra, pure insieme a mistura di fumo in virtù di circostanza. Ceppi e radiche d’ogni legno s’arrotondano, mostrano venature cangianti in afflato d’infinito. Ce n’era una lunga mezzo metro e tal fu il suo nome, “Mezzometro”. Mi racconta che in America, un tale d’aspetto convenzionale al luogo, sbalordito, gli chiedesse il prezzo. Glielo rivelò e quello, ancor più sorpreso, ribatté con un “veramente?”. Poi Totò fu di maggior precisione, al centimetro, s’intende. Ch’era come voler dire me la tengo, ché un’altra così non c’è da farla, e ne lasciò la vista a favore di chi s’appresta al suo prezioso museo. Ch’esperienza starsene lì, a godere pure del profumo del legno e del tabacco giusti, a farsi solluchero di calme contemplative quanto divertite. Poi, alla fine, ti riconcilia col mondo e le cose, pure con pezzi consistenti d’umanità. Forse un giorno rinuncerò ad avvoltolare cartine e tornerò a quell’amore antico, ad una dimensione perduta e ritrovata del godere del tempo. Nel qual caso saprei dove andare. Nel frattempo vi lascio un consiglio, se siete a Modica, fateci un salto in quel di via Garibaldi 52, entrate, è amore a prima vista quel piccolo gioiello di museo, financo per chi non fuma.

Il tempo sovvertito (Allonsanfàn parte ventesima: la ricerca di Antonella Giannone)

Antonella Giannone è artista che a dispetto della sua giovane età pare assai consapevole della sua ricerca espressiva. Le sue opere regalano la piacevolissima sensazione che i colori non siano stati semplicemente “depositati” – ancorché con tecnica raffinata – su un supporto, ma che invece si siano fatti spazio attraverso antiche sovrapposizioni, immagini d’infanzia, memorie vissute, tal altre raccontate. La bidimensionalità del piano svanisce in rilievi tattili, profondità materiche, presenti; immagini spariscono, riappaiono come un fiume carsico in forme e determinazioni nuove, quali concrezioni identitarie. Memoria e prospettiva convivono in un unicum narrativo fatto di dettagli sfumati, non semplici richiami nostalgici o cristallizzazioni del presente, nemmeno si accomodano in visioni taumatugiche o – com’è assai più consueto – spaventate del futuro, rappresentano nella loro complessità/unitarietà una precisa consapevolezza interiore.

Sono opere che non fermano l’istante, non lo rendono in narrazioni statiche, precise, permanenti, s’esprimono piuttosto come in una sequenza temporale dinamica. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le orme del tempo che si stratificano diacronicamente: così, la traccia più recente non cancella le precedenti, talvolta le opacizza soltanto, sempre e solo per un periodo effimero, salvo poi esaltarle in qualsiasi altro momento, in una qualsiasi altra rilettura. Lo stesso tempo gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori deposti al suo scorrere, ne mostra i precedenti nel gioco cromatico della sorpresa che l’opera di Antonella Giannone sa magnificamente disvelare.


La ricerca di Antonella Giannone pare prodursi dentro un percorso inesausto di esplorazione introspettiva, non smette mai di ripartire da qualcosa che, profittando di contributi esatti di memorie precise, di esperienze, si riappropria e ritiene i suoi colori. In questo è assai evidente come l’artista si sottragga agli stereotipi d’immaginari collettivi i cui sguardi distratti hanno reso la memoria in stinti grigi fastidiosi. Pure non partecipa ai formalismi consueti che in forma di presunte operazioni artistiche si fanno folklore. Al contrario crea l’effetto sublime e collaterale della messa a fuoco d’un Io che è fatto di memorie irrinunciabili, invisibili per chi è vittima inconsapevole del gioco d’inganno del tempo, per chi ha scelto la disillusione dell’accelerarsi quale pratica quotidiana, per chi si limita alla loro versione rutilante e mercantile prêt-à-porter. Le atmosfere trasognate e soffuse sono richiamo a più attente esplorazioni, a ricerca mai esausta d’un cammino in cui il tempo interiore pare esprimersi in modo obliquo, non consueto, si fa cornice precisa di tutto e dell’esatto suo contrario, l’apparente nulla delle nebbie, dentro cui v’è l’esplosione d’ogni colore conosciuto.


Antonella Giannone vive e lavora a Modica dove ha iniziato i suoi studi artistici al Liceo Artistico Tommaso Campailla. Consegue il diploma accademico di II livello in pittura nel 2016, presso l’Accademia di Belle Arti di Catania. Mantiene costanti, la ricerca, lo studio e l’attività pittorica, partecipando a mostre collettive e personali. Si occupa di didattica dell’Arte, utilizzata per la sua valenza educativa e sociale, nella conduzione di laboratori artistici attivati sia nelle scuole che al Dipartimento di Salute Mentale. Negli ultimi anni ha insegnato presso l’Accademia di Belle Arti “Mediterranea” di Ragusa.

Dialettica della follia, in mostra a Modica Alta

In mostra a Modica Alta nella Chiesa dei SS. Nicolò ed Erasmo, a cura dell’Associazione Immagina (inaugurazione il 4 gennaio alle 18,30), Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe, quindi anche, stesso orario ma il 14 gennaio allo spazio A/telier (“Visioni loco(e)motive”).

Non è cosa semplice, mai, far dialogare artisti diversi, ma capita che, al di là di manifeste distanze stilistiche, essi possano esprimere insospettabili convergenze. Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe sono, a primo acchito, talmente lontani da non immaginare come le loro opere possano prodursi in un comune percorso narrativo.

Pare abbiano in comune al massimo taluni cenni biografici: sono entrambi siciliani, intanto, e questo non è dato che si possa trascurare, pure se l’uno, Monteleone, nella classicissima categorizzazione degli isolani dello storico direttore dell’Ora Nisticò, è siciliano di scoglio, tenacemente abbarbicato alla sua terra, in un bilico costante che oscilla tra Modica e Palazzo Adriano. L’altro, Poddighe, palermitano di nascita, è più siciliano di mare, ché non si fece scrupolo a lasciare che fossero soltanto furibonde nostalgie e brevissime incursioni a garantirgli il legame con l’isola. Entrambi si sono formati nel mondo delle accademie, quella di Firenze per Monteleone, Poddighe ha invece frequentato Roma. I trascorsi di studio attento sono evidentissimi in perizie tecniche raffinate, evolute in decenni di pratica. Hanno insegnato discipline pittoriche nei licei artistici prima di farsi pensionati praticamente in simultanea.
Dal punto di vista stilistico sono praticamente antipodici. Monteleone appare scanzonato, i suoi soggetti sono ombre che si muovono su tappeti di colore, non è tipo che s’arrende alle cupezza del tutto d’intorno. È, dunque, pittore resistente, già dai tempi in cui non ci s’avvedeva che c’era di che farsi partigiano, piuttosto s’anelava assuefazione. Nel suo atelier-abitazione, un vecchio magazzino riattato all’uopo, si respira storia, si legge sulle pareti un lunghissimo percorso artistico. Si sente il vociare felicemente scomposto dei suoi allievi, cui cerca ancora di tirar fuori estri creativi oltre il tempo scuola. Perché la sua non era la scuola d’un paradigma aristotelico, piuttosto Stoa, caparbia voglia di scoprire i talenti nelle dita e negli occhi dei suoi ragazzi.

Come faceva il Maestro Manzi quando insegnava a leggere e scrivere a milioni di italiani, lui smantella sovrastrutture per liberare la creazione d’un linguaggio nuovo, non soggetto ai valutatoi prescrittivi del contemporaneo. I suoi lavori aderiscono alla ricerca incessante della bellezza attraverso un tratto apparentemente ingenuo, mossa efficace e spiazzante contro la sproporzione delle forze in campo. Corvi e Vele e il giallo (“ch’è colore bastardo”), il suo Don Chisciotte, le sette palme che danzano, i treni a vapore oscillano tra nostalgie e gioco autentico. Ignazio, che è figlio di ferroviere, come lo furono Quasimodo e Vittorini dalle stesse parti, sa cosa c’è da aspettarsi ad ogni stazione, ad ogni fermata, i fazzoletti levati al cielo, umidi di lacrime e colorati di rossetti, fasci di palme stesi ad asciugare per una domenica di festa. La sua opera è preziosa poiché non si limita ad esporsi, invita al convivio, come le sue mostre, dove è quinta condivisa di pomodori e caci, olive, uova sode e pani caldi, manco a dirlo, vini pista e ammutta che incendiano le budella col gusto della terra bruciata dal sole. Le note di Schifano ci sono tutte, inseguite dai suoi studi fiorentini, messaggi di avanguardie isolane ed approdi per ogni continente. Colori precisi e tratti sfumati, contorni nitidi e ombre fuggenti, nel tutto che si disincrosta dell’eccesso sino a renderci l’essenza del pensiero più autentico, sono la sintesi dell’oggetto che amplifica la nostalgia per le forme esatte. Quadri che fanno suoni, melodie di motori sbuffanti, scalpiccio di zoccoli e fruscii di piume, ma pure odori forti, commenti soffusi. risa giuste. Il suo lavoro di anni, le sue opere, sono barricate altissime che provano a reggere a difesa degli ultimi presidi d’umanità.
I lavori di Poddighe, invece, hanno più l’apparenza di desolata contemplazione del tramonto dell’uomo, sono la rappresentazione esatta della disumanizzante mercificazione dei suoi sogni. I desideri umani perdono completamente il carattere di processo decisionale autonomo, sono eterodiretti, rappresentano adesione incondizionata ed acritica ad un unico modello prescrittivo. L’uomo stesso appare come entità devitalizzata, relegata alla parzialità dell’essere, dunque, incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo svuotamento. Con l’avvento del capitalismo, l’uomo cede dapprima una quota parte del suo tempo al lavoro alienato, allo sfruttamento, al giogo produttivo, poi rinuncia a ciò che resta del suo vissuto per destinarlo al consumo, quindi, esaurito pure quel tempo, diviene esso stesso merce. E l’uomo-merce è ridotto a mera immagine, si autoriproduce in forme standardizzate e seriali, non ritiene alcuna identità, è solo un piccolo ingranaggio della gigantesca macchina della massificazione produttiva. Il suo è un richiamo alla società dello spettacolo che annichilisce i singoli, li relega a monomeri costitutivi d’un tutto conforme in cui essere e apparire coincidono. I selfie in sequenza compulsiva dei social ne paiono la rappresentazione più eloquente. Eppure, in ogni passaggio, anche il più crudo della sua produzione artistica, Poddighe non rinuncia mai all’ironia, non smette di prendere in giro i tempi grami delle sue rappresentazioni, gioca persino con questi come con se stesso. Riesce ad alleggerire il carico pesante della frustrazione. Definisce persino una via di fuga dal contingente, per altri aspetti disegna una prospettiva politica, poiché recupera il senso etimologicamente più puro del termine, quello che deriva dalla Polis greca, sottinteso di impegno e partecipazione. Egli partecipa, infatti, lo fa con competenza da intellettuale, poiché si interroga sui processi. Anche se nelle sue opere permane la percezione di un fatalismo quasi disperato, è proprio quella sottile ironia, quel saper raffigurare con linguaggio schietto l’esistente, che ha insito il superamento dell’alienazione.


Da un punto di vista tecnico spinge al limite il rapporto tra produzione digitale e pittura classica, attraversa in modo personalissimo i segni d’un surrealismo operativo e concreto, in cui il dettaglio non è orpello estetico, diviene, piuttosto, elemento narrativo che manifesta il complexus delle relazioni uomo-oggetto, ne eviscera la perversione.
I due si interrogano sulla follia, lo fanno con consapevolezza piena, superando i paradigmi consueti. Metterli a confronto non è impresa così temeraria, giacché la loro narrazione, mentre si concentra su differenti punti d’osservazione, costruisce un mosaico esatto in cui ogni tessera è un’opera, ciascuna complemento d’un’altra. Si confrontano col significato di follia a partire dal suo presunto opposto, la percezione della “norma”, della “moda”. Monteleone usa, per questo, l’archetipo illustrativo del pazzo, la sua accezione più pura, persino letteraria, scovata nelle parole di Cervantes. I suoi Don Chisciotte appaiono sfumati ed indefiniti, ombre e basta, con lo sfondo di profondità senza tempo, senza spazio. Ombre e basta, perché questa è nell’immaginario collettivo la pazzia, solo l’ombra cui non volgere lo sguardo. È deviazione standard da comportamenti normali, quelli che tengono i più, che accettano codifiche, quali che siano consegne e conseguenze. Il pazzo, il dago, il reietto, il miserabile, meglio non guardarlo, non vederlo, lasciarlo nell’oscurità d’una improbabile indeterminatezza, con lo sfondo colorato e rutilante della “moda” (concetto statistico.matematico, come da definizione “la moda (o norma) di una distribuzione di frequenza X è la modalità (o la classe di modalità) caratterizzata dalla massima frequenza. In altre parole, è il valore che compare più frequentemente). Eppure quella divergenza dal normale esprime bagagli smarriti d’umanità che parole ed immagini riarticolano in pensieri complessi, perché la grammatica della follia è apertura d’orizzonte, ricerca d’utopie, di sogni realizzati. Don Chisciotte partecipa ai destini umani, alla sua immanente schiavitù dell’apparire, alla sua privazione della libertà d’essere, è, in definitiva, l’uomo compiuto.

A quella schiavitù rivolge lo sguardo Poddighe, I suoi sono soggetti perfetti, esteticamente collocati nel cliché della normalità. Soggetti privi di pensiero divergente, dunque incapaci di concepirne uno critico e complesso oltre quello dello stereotipo. Non accettano d’inserirsi nella dialettica sociale in forme conflittuali e partecipative, sono corpi prêt-à-porter, adesioni perfette a modelli preconfezionati, la fantasia al potere è abolita. Ma l’adesione al cash & carry del quotidiano ha necessità di vittime sacrificali, non accetta gratuità, pretende amputazioni d’umanità, metaforicamente rese negli smembramenti dei corpi.
La dialettica della follia si compone nel dialogo tra i due punti di vista, ne rende efficace la narrazione, va oltre la “norma”, si fa strada nel dubbio. La concezione atavica del “pazzo” si estende, finisce col riguardare il visionario, quello che supera la cortina di fumo dell’apparenza. I due, dunque, propongono una versione alternativa della narrazione consueta, e il “pazzo”, a costo d’essere “espulso” dalla conformità, non rinuncia alla completezza dell’essere umano poiché nella sua natura c’è lo sguardo verso l’oltre, non s’arrende all’ovvio. Rinunciare alla visione altra, produce la follia non dichiarata della convenzione, denuncia d’omologazione sino al definitivo annullamento del singolo, derubricato a numero, ad oggetto.


Oltre la natura umana l’oggetto per Monteleone diventa esperienza trasognata, le sue locomotive ad esempio, prendono vita da segni essenziali, un ritorno ad una dimensione fanciullesca. L’artista guarda i suoi treni come un mondo perduto, li interpreta con divertita nostalgia. Poddighe, invece, studia l’evoluzione dell’uomo al cospetto di quegli oggetti, il processo di progressivo compenetrarsi reciproco, il primo che diviene macchina, ingranaggio asettico e disanimato, il secondo che acquista centralità, che appare dominante.


Dialogo a distanza tra due concezioni diverse dell’arte, convergenti sui temi dirimenti dell’oggi, materiale e tangibile, èare occasione concreta per un andar oltre.

Dialettica della follia (Allonsanfàn parte diciassettesima: confronti, Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe)

Non è cosa semplice, mai, far dialogare artisti diversi, ma capita che, al di là di manifeste distanze stilistiche, essi possano esprimere insospettabili convergenze. Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe sono, a primo acchito, talmente lontani da non immaginare come le loro opere possano prodursi in un comune percorso narrativo.

Pare abbiano in comune al massimo taluni cenni biografici: sono entrambi siciliani, intanto, e questo non è dato che si possa trascurare, pure se l’uno, Monteleone, nella classicissima categorizzazione degli isolani dello storico direttore dell’Ora Nisticò, è siciliano di scoglio, tenacemente abbarbicato alla sua terra, in un bilico costante che oscilla tra Modica e Palazzo Adriano. L’altro, Poddighe, palermitano di nascita, è più siciliano di mare, ché non si fece scrupolo a lasciare che fossero soltanto furibonde nostalgie e brevissime incursioni a garantirgli il legame con l’isola. Entrambi si sono formati nel mondo delle accademie, quella di Firenze per Monteleone, Poddighe ha invece frequentato Roma. I trascorsi di studio attento sono evidentissimi in perizie tecniche raffinate, evolute in decenni di pratica. Hanno insegnato discipline pittoriche nei licei artistici prima di farsi pensionati praticamente in simultanea.
Dal punto di vista stilistico sono praticamente antipodici. Monteleone appare scanzonato, i suoi soggetti sono ombre che si muovono su tappeti di colore, non è tipo che s’arrende alle cupezza del tutto d’intorno. È, dunque, pittore resistente, già dai tempi in cui non ci s’avvedeva che c’era di che farsi partigiano, piuttosto s’anelava assuefazione. Nel suo atelier-abitazione, un vecchio magazzino riattato all’uopo, si respira storia, si legge sulle pareti un lunghissimo percorso artistico. Si sente il vociare felicemente scomposto dei suoi allievi, cui cerca ancora di tirar fuori estri creativi oltre il tempo scuola. Perché la sua non era la scuola d’un paradigma aristotelico, piuttosto Stoa, caparbia voglia di scoprire i talenti nelle dita e negli occhi dei suoi ragazzi.

Come faceva il Maestro Manzi quando insegnava a leggere e scrivere a milioni di italiani, lui smantella sovrastrutture per liberare la creazione d’un linguaggio nuovo, non soggetto ai valutatoi prescrittivi del contemporaneo. I suoi lavori aderiscono alla ricerca incessante della bellezza attraverso un tratto apparentemente ingenuo, mossa efficace e spiazzante contro la sproporzione delle forze in campo. Corvi e Vele e il giallo (“ch’è colore bastardo”), il suo Don Chisciotte, le sette palme che danzano, i treni a vapore oscillano tra nostalgie e gioco autentico. Ignazio, che è figlio di ferroviere, come lo furono Quasimodo e Vittorini dalle stesse parti, sa cosa c’è da aspettarsi ad ogni stazione, ad ogni fermata, i fazzoletti levati al cielo, umidi di lacrime e colorati di rossetti, fasci di palme stesi ad asciugare per una domenica di festa. La sua opera è preziosa poiché non si limita ad esporsi, invita al convivio, come le sue mostre, dove è quinta condivisa di pomodori e caci, olive, uova sode e pani caldi, manco a dirlo, vini pista e ammutta che incendiano le budella col gusto della terra bruciata dal sole. Le note di Schifano ci sono tutte, inseguite dai suoi studi fiorentini, messaggi di avanguardie isolane ed approdi per ogni continente. Colori precisi e tratti sfumati, contorni nitidi e ombre fuggenti, nel tutto che si disincrosta dell’eccesso sino a renderci l’essenza del pensiero più autentico, sono la sintesi dell’oggetto che amplifica la nostalgia per le forme esatte. Quadri che fanno suoni, melodie di motori sbuffanti, scalpiccio di zoccoli e fruscii di piume, ma pure odori forti, commenti soffusi. risa giuste. Il suo lavoro di anni, le sue opere, sono barricate altissime che provano a reggere a difesa degli ultimi presidi d’umanità.
I lavori di Poddighe, invece, hanno più l’apparenza di desolata contemplazione del tramonto dell’uomo, sono la rappresentazione esatta della disumanizzante mercificazione dei suoi sogni. I desideri umani perdono completamente il carattere di processo decisionale autonomo, sono eterodiretti, rappresentano adesione incondizionata ed acritica ad un unico modello prescrittivo. L’uomo stesso appare come entità devitalizzata, relegata alla parzialità dell’essere, dunque, incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo svuotamento. Con l’avvento del capitalismo, l’uomo cede dapprima una quota parte del suo tempo al lavoro alienato, allo sfruttamento, al giogo produttivo, poi rinuncia a ciò che resta del suo vissuto per destinarlo al consumo, quindi, esaurito pure quel tempo, diviene esso stesso merce. E l’uomo-merce è ridotto a mera immagine, si autoriproduce in forme standardizzate e seriali, non ritiene alcuna identità, è solo un piccolo ingranaggio della gigantesca macchina della massificazione produttiva. Il suo è un richiamo alla società dello spettacolo che annichilisce i singoli, li relega a monomeri costitutivi d’un tutto conforme in cui essere e apparire coincidono. I selfie in sequenza compulsiva dei social ne paiono la rappresentazione più eloquente. Eppure, in ogni passaggio, anche il più crudo della sua produzione artistica, Poddighe non rinuncia mai all’ironia, non smette di prendere in giro i tempi grami delle sue rappresentazioni, gioca persino con questi come con se stesso. Riesce ad alleggerire il carico pesante della frustrazione. Definisce persino una via di fuga dal contingente, per altri aspetti disegna una prospettiva politica, poiché recupera il senso etimologicamente più puro del termine, quello che deriva dalla Polis greca, sottinteso di impegno e partecipazione. Egli partecipa, infatti, lo fa con competenza da intellettuale, poiché si interroga sui processi. Anche se nelle sue opere permane la percezione di un fatalismo quasi disperato, è proprio quella sottile ironia, quel saper raffigurare con linguaggio schietto l’esistente, che ha insito il superamento dell’alienazione.


Da un punto di vista tecnico spinge al limite il rapporto tra produzione digitale e pittura classica, attraversa in modo personalissimo i segni d’un surrealismo operativo e concreto, in cui il dettaglio non è orpello estetico, diviene, piuttosto, elemento narrativo che manifesta il complexus delle relazioni uomo-oggetto, ne eviscera la perversione.
I due si interrogano sulla follia, lo fanno con consapevolezza piena, superando i paradigmi consueti. Metterli a confronto non è impresa così temeraria, giacché la loro narrazione, mentre si concentra su differenti punti d’osservazione, costruisce un mosaico esatto in cui ogni tessera è un’opera, ciascuna complemento d’un’altra. Si confrontano col significato di follia a partire dal suo presunto opposto, la percezione della “norma”, della “moda”. Monteleone usa, per questo, l’archetipo illustrativo del pazzo, la sua accezione più pura, persino letteraria, scovata nelle parole di Cervantes. I suoi Don Chisciotte appaiono sfumati ed indefiniti, ombre e basta, con lo sfondo di profondità senza tempo, senza spazio. Ombre e basta, perché questa è nell’immaginario collettivo la pazzia, solo l’ombra cui non volgere lo sguardo. È deviazione standard da comportamenti normali, quelli che tengono i più, che accettano codifiche, quali che siano consegne e conseguenze. Il pazzo, il dago, il reietto, il miserabile, meglio non guardarlo, non vederlo, lasciarlo nell’oscurità d’una improbabile indeterminatezza, con lo sfondo colorato e rutilante della “moda” (concetto statistico.matematico, come da definizione “la moda (o norma) di una distribuzione di frequenza X è la modalità (o la classe di modalità) caratterizzata dalla massima frequenza. In altre parole, è il valore che compare più frequentemente). Eppure quella divergenza dal normale esprime bagagli smarriti d’umanità che parole ed immagini riarticolano in pensieri complessi, perché la grammatica della follia è apertura d’orizzonte, ricerca d’utopie, di sogni realizzati. Don Chisciotte partecipa ai destini umani, alla sua immanente schiavitù dell’apparire, alla sua privazione della libertà d’essere, è, in definitiva, l’uomo compiuto.

A quella schiavitù rivolge lo sguardo Poddighe, I suoi sono soggetti perfetti, esteticamente collocati nel cliché della normalità. Soggetti privi di pensiero divergente, dunque incapaci di concepirne uno critico e complesso oltre quello dello stereotipo. Non accettano d’inserirsi nella dialettica sociale in forme conflittuali e partecipative, sono corpi prêt-à-porter, adesioni perfette a modelli preconfezionati, la fantasia al potere è abolita. Ma l’adesione al cash & carry del quotidiano ha necessità di vittime sacrificali, non accetta gratuità, pretende amputazioni d’umanità, metaforicamente rese negli smembramenti dei corpi.
La dialettica della follia si compone nel dialogo tra i due punti di vista, ne rende efficace la narrazione, va oltre la “norma”, si fa strada nel dubbio. La concezione atavica del “pazzo” si estende, finisce col riguardare il visionario, quello che supera la cortina di fumo dell’apparenza. I due, dunque, propongono una versione alternativa della narrazione consueta, e il “pazzo”, a costo d’essere “espulso” dalla conformità, non rinuncia alla completezza dell’essere umano poiché nella sua natura c’è lo sguardo verso l’oltre, non s’arrende all’ovvio. Rinunciare alla visione altra, produce la follia non dichiarata della convenzione, denuncia d’omologazione sino al definitivo annullamento del singolo, derubricato a numero, ad oggetto.


Oltre la natura umana l’oggetto per Monteleone diventa esperienza trasognata, le sue locomotive ad esempio, prendono vita da segni essenziali, un ritorno ad una dimensione fanciullesca. L’artista guarda i suoi treni come un mondo perduto, li interpreta con divertita nostalgia. Poddighe, invece, studia l’evoluzione dell’uomo al cospetto di quegli oggetti, il processo di progressivo compenetrarsi reciproco, il primo che diviene macchina, ingranaggio asettico e disanimato, il secondo che acquista centralità, che appare dominante.


Questo dialogo a distanza tra due concezioni diverse dell’arte, convergenti nei temi dirimenti dell’oggi, diverrà materiale e tangibile in mostra a Modica, già agli inizi del prossimo anno, a cura dei ragazzi di Immagina (“Dialettica della follia”) e dello spazio A/telier (“Visioni loco(e)motive”). Sarà occasione concreta per un andar oltre.

In Contemporanea, in estemporanea

È ottima idea quella di istituire la Giornata del Contemporaneo da parte dell’AMACI (Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani), soprattutto in evidenza dello stato di cose nel mondo dell’arte in questo paese. Le prospettive non sembrano essere più rosee per il futuro, dunque, battere un colpo non è cosa di trascurabile rilevanza. Far bilanci sullo stato dell’arte contemporanea in Italia sarebbe comunque arduo, l’ambito pare sempre più relegato ad una nicchia estremamente specializzata, dentro cui l’artista tende progressivamente a perdere centralità a favore d’altri soggetti. L’arte non dialoga con altro se non con se stessa e, di più, a costruire tale dialogo non sono più nemmeno i soggetti che vi sono deputati, soppiantati nella propria capacità decisionale da regole altre, eterodirette, mercantili, d’appartenenza quasi religiosa a scuderie di critiche e curatele. I luoghi dell’arte paiono cittadelle fortificate, che si concedono per liberalità del principe ad apparenza di libera fruizione, purché non se ne rimetta in discussione l’edificazione, il funzionamento della macchina.

L’A/telier di Modica Alta (se ne parla ancora qui), crea una rottura paradigmatica rispetto all’esistente, perché non compete con le grandi istituzioni culturali dell’arte contemporanea, non costruisce l’evento dirompente ed archetipico, sposta il confronto in una dimensione altra, non convenzionale, estemporanea, crea il non luogo dell’arte per tornare all’arte attraverso una sua narrazione altra.

La sua adesione, insieme agli artisti di MATT’Officina (di loro, del loro spazio, se ne parla qui), alla giornata dell’8 Ottobre rivede la logica del taglio del nastro, la fascia istituzionale, la fanfara. Sostituisce la liturgia del consueto con la pratica all’interno d’un contesto spiazzante, il quartiere, la strada, il centro storico che si spopola, che non riesce a farsi spazio in angoli di cartolina, dentro la contraddizione delle città che ridisegnano il proprio skyline di modernità, rimuovono la dialettica sociale, i sistemi di relazione. La città convenzionale che ospita il “contemporaneo”, è quella che si è palesata: “Lo spazio urbano assembrato diventa fantasma della sua crescita indiscriminata, sempre più privato, sempre meno pubblico, sociale, definitivamente distanziato, come nei giochi d’ossimori si compete, tanto più è affollato. Il reale, trasformato in immagine spettacolare, è quinta scenografica d’una rappresentazione farsa, in cui le mura cingono d’assedio gli assedianti, non più le mura di Campanella dov’è la storia della scienza, il progetto educativo condiviso dei destini magici e progressivi dell’uomo. Le mura s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, sovvertendo l’ordine mentale costituito, quello che cerca l’orizzonte libero e di vertigine dello sguardo dell’animale in gabbia. Dunque, l’animale in gabbia, alla catena, ha qualcosa di più umano dell’umanità stessa, poiché invoca per sé lo spazio aperto, rifugge dal pericolo mortale dell’assalto all’unisono alla stessa preda. Le immagini degli eloquenti muri della città ideale di Platone, sono ora grate elettrificate e luminescenti, gli orrori della merce che trabocca dalla caricatura d’una cornucopia di svendite morali e materiali. Pure l’effimero artistico, in quanto concetto, sparisce nelle celle delle fiumane umane, diventa superfluo necessario, vocazione definitiva alla barbarie annichilente. Le architetture/prigioni delle periferie commerciali, e di dormitori, pure quelle di centri storici mercatizzati, non sono innocenti oggetti devitalizzati, ma espressione urlante del potere sociale che reclama le sue vittime. E se l’agnello o l’orrendo porco, s’avvedono del loro imminente sacrificio all’altare della tavola imbandita, con lacrima ed urlo straziante, il residuo umano vi s’immola con fanciullesca indifferenza. La progressione verso la forma estrema del mercato, il narcisismo individualista, ha soppiantato persino le oscene gerarchie dei rapporti di produzione convenzionali.

Ed il consumo diventa religione di stato, di sovrastato, religione della religione. Solo il lavoro rende liberi in quanto apre la via alla speranza redentiva del consumo, del consumo d’una merce, purché sia, pure solo nella sua percezione virtuale e fuggente. Le città assaltate hanno perso ormai persino quel flebile richiamo al modernismo, financo superato le creazioni monolitiche della dittatura ceauseschiana, le volontà di Marinetti di deviare canali per affogare la vetusta Venezia, o Le Corbusier che anelava l’autostrada che spaccasse in due Parigi. Gli spazi vitali non esistono se non nel sentire, ormai folle, di chi deraglia dalla “normalità” di chi è persona e non gente. La follia è solo di quei pochi che s’avvedono della malattia come dolorosa e furente.” Dunque, si prova a far altro, con apparente follia. Con la quinta aperta dell’esposizione di Pamela Vindigni e Unica (qui), gli artisti associati di MATT’Officina, Pamela Vindigni, Grazia Ferlanti, Marco Terroni Grifola, Giuseppe Kastano, Wildart, Luca Del Guercio, sulla strada, in via Pizzo, a Modica Alta, produrranno arte, in estemporanea, dialogando tra loro, con chi interviene, con chi è solo di passaggio, col contesto, riesumando fantasie sepolte, condivisioni che parevano perdute per sempre.

La fanfara sarà la chitarra di Stefano Meli (qui), capace di rifilare staffilate metalliche e polverose alle traiettorie desuete del convenzionale, far vibrare note d’esplorazione di spazi aperti sulla vertigine di imprevedibili infiniti. Quegli infiniti che l’arte “giusta” preserva per sé e per chi ha occhi giusti a guardare, certe qualità dell’anima che non s’attestano sulle posizioni di banali obbedienze.

Altre storie di donne (Allonsanfàn parte sedicesima: Unica e Pamela Vindigni)

Unica e Pamela Vindigni, in mostra dal 24 settembre allo spazio L’Altelier di Modica Alta, paiono artiste diverse, hanno storie e linguaggi differenti, biografie ed origini lontane, eppure, attraverso le loro opere, concepiscono un dialogo di convergenze, sorprendentemente affine.

Usano la materia in modo personale, riconoscibilissimo, la plasmano per consentirsi una profonda esplorazione d’un universo di genere – quello femminile – ce lo rendono, entrambe, in una prospettiva liberata. Partono, dunque, da sponde antipodiche, approdano insieme, al di là delle costrizioni dell’apparire, del metodo, compiono lo stesso viaggio di ri-scoperta.

Leonie Adler (Unica) è artista contemporanea, nata a Pune, in India, con radici irlandesi, è cresciuta e vive in Svizzera. La sua anagrafica non è, come appare dalle sue realizzazioni, un dato neutro, un timbro su un passaporto, è elemento pregnante della sua formazione artistica. Infatti, le sue forme geometriche esatte, disegni ad ago e filo, esprimono un’attrazione fatale per l’ambiente, lo interpretano quale contenitore di culture, ella stessa è consapevolmente scrigno di diversità che si uniscono ad ogni passaggio d’ordito. Il contrasto cromatico tra le sue forme ne evidenzia il desiderio di riscoperta, induce alla ricerca d’un viaggio intimo nello spazio e nel tempo attraverso traiettorie spiazzanti, un susseguirsi di cambiamenti repentini di direzione, quasi a voler significare la ricerca precisa del dettaglio, il non volersi precludere nulla che le appartiene, che appartiene al tutto d’intorno.

Ma è anche desiderio di fuga da quotidiani standardizzati e labirintici, il rifiuto di direzioni preconfezionate, della banalità prêt-à-porter. Nonostante la scelta del filo, dell’ago, dunque, Unica non rassomiglia affatto alla più celebre delle tessitrici, non è Penelope, i suoi complessi intrecci non sono trame che si sfilacciano, si scuciono, ma memoria di una direzione precisa ancorché mai scontata, flusso di informazioni che non si esaurisce ma che fa d’ogni passaggio condizione essenziale per l’esistenza del successivo. Rassomiglia ad Arianna, invece, i suoi orditi indicano percorsi salvifici di liberazione, includono la possibilità del ritorno. In quel tornare a casa, alle sue radici, come nelle articolazioni più complesse dell’intimo, non v’è mai ricerca appagante di staticità, d’un passato che invecchiato si trasforma in presente, ma la prospettiva d’un nuovo viaggio, di nuove esperienze che, a paradosso di apparenza d’accumulo, lo rendano ogni volta più leggero, più agile. Pare che Unica si ricerchi, si ritrovi, infine, nelle sue origini, nelle sue infinite discendenze, e su quelle può contare – paesaggi della memoria d’un vissuto – come intensa scarica emozionale per una nuova ripartenza. In buona parte autodidatta, ha tuttavia assorbito perfettamente le prospettive artistiche di Louise Bourgeoise e dell’artista tessile svizzera Lissy Funk. È anche membro dell’associazione artistica GAAL.

Pamela Vindigni, siciliana di Modica (RG), è artista di tecnica raffinata, frutto di studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze e di una vasta attività esperienziale. Ha partecipato a diverse mostre collettive e personali, esplorando, oltre alla pittura ed alla scultura, altri linguaggi espressivi ed esibendosi quale attrice e performer. La sua visione dell’arte è sociale, solidaristica, non prescinde mai dal rapporto dialettico con altre forme del linguaggio e della comunicazione. Questi tratti fondanti la sua pratica l’hanno indotta a fondare, nel 2017, il gruppo “Artisti Associati – Matt’Officina”, impegnato nella riqualificazione dell’ex mattatoio comunale di Modica e divenuto un laboratorio artistico polivalente, un luogo di produzione collettiva e creativa oltre che di accoglienza d’esperienze.

Le sue sculture riscoprono la natura primigenia del corpo, lo denudano delle sovrastrutture, lo spogliano dell’effimero, lasciano che si esprima quale strumento di comunicazione essenziale. Alcuni suoi volti, scarni d’espressione, pare leggano negli accadimenti una sostanziale disumanizzazione. Pamela Vindigni, quando si concentra sulle forme delle donne, le libera da costrizioni, da stereotipi arcaici. Rappresenta la maternità con ironia, sottolineando al contempo una specificità di genere e smantellando la subcultura patriarcale che relega le donne al ruolo esclusivo e subalterno di madre e moglie. La leggerezza con cui ci rende la gravidanza non è, dunque, solo la rappresentazione prossima del parto quale passaggio funzionale alla procreazione, alla conservazione della specie, cui deve seguire la gabbia totalizzante della cura parentale, ma diviene, anche e soprattutto, metafora di concepimenti, elaborazioni, pratiche creative ed irrinunciabili, di idee, progetti, riscritture sociali e politiche. L’opera di Pamela è, in effetti, “politica”, non nel senso deteriore che oramai s’attribuisce al termine, ma in quello che ne recupera il significato etimologicamente più puro e profondo, dal concetto di Polis, il contenitore per eccellenza del desiderio di partecipazione. È pratica che aderisce ai processi sociali, alle vicende comuni, li legge, intende rideterminarli anche, con consapevolezza d’analisi, abilità d’usare strumenti espressivi plurimi e mai scontati, volontà di esserci con la propria identità di genere, di persona, d’artista.