Di viaggio, di sale

Vado di riciclo, che s’avvicina ora di pranzo ed è stato periodo di grandi fatiche. Pure non mi passò la fame ed anzi vi porgo suggerimento che potrebbe far passare la vostra. Mentre mi faccio musica buona.

Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo.

Un luogo di giovanili follie ora deserto, animato un dì dal fiore dei nobili ingegni.

Se sono stato cacciato da un Paradiso, come posso darne notizia?

Se non fosse l’amarezza delle lacrime, le crederei i fiumi di quel paradiso.“

(Ibn Hamdis)

“Che pare sia Medea, quel paese, per come tratta taluni suoi figli, che forse si vendica per insufficiente riconoscimento di propria bellezza a struggere. I viaggi sin lì durano poco, che il tempo non ti concede il lusso dello scoglio a forma di tartaruga, a favor di libeccio, sinché l’oltre non s’inghiotte il sole. Di distanza si paga pegno, talora, che quando si torna, all’appello pure manca qualcuno.

E si cerca conforto in alcova di fornelli, in cenacolo di gusto. Stasera mi compete di farlo, e fu fortuna che spacciatori di colori ne ho ancora, in quel lido lontano blandito d’onde, che è cosa difficile che sin qui, a banco di supermercato, v’arrivi qualcosa che tra ghiaccio e sale non abbia ancora festeggiato almeno un genetliaco. Di vino ne ho, pure non basta se non v’aggiungo colore e suadenza di gusto. Attingo a compiacimento alla sporta del lontano, dove trovo, appunto, sapori e colori, che insieme formano tavolozza perfetta di rimpianto, ma anche palliativo di lontananza. Olive nere, di forno di signora Carmela, cappero ormai quasi solitario, colto di timpa, strappato a marna da abile mano di zio Angelo, profumato di sale in cristallo di mare, pure un tozzo di pane raffermo di segale, che quella cresce a terra arsa di sole, – averne di cornuta m’apparirebbe l’orizzonte, navigherei con Argonauti – peperoncino di coltivazione demoniaca, tra magri interstizi di roccia, esalanti vapori al calor bianco di vulcano. Pomodorini di punta estrema ne trovo anche qua, decenti, armati di dignità quanto basta, come prezzemolo e basilico, non del tutto negletti. D’aglio ho scorte ancora, come d’olio nuovo d’altopiano, al profumo di mandorle. Anche di pasta, a trafilatura di bronzo, di grano duro e antico. Le acciughe, a dar tocco di mare definitivo, me le fa don Tano, in succo d’olive autentiche, mica sguazzanti in brodaglia di spremitura di pianta d’alambicco e sconosciuta in natura, mummificate d’aspetto e gusto, tristi ed assiepate in rispettoso ordine, morte invano.

Ne consegue piatto rapido e sapido, che richiede altresì pianificazioni algoritmiche, che non si concede facilmente all’errore, alla svista, pena amputazione cromatica e caduta di stile. Ordunque, in attesa del bollore d’acqua, merita che s’approntino gli ingredienti. Dapprima propenderei per imbiondimento di quattro o cinque cucchiai del pan grattato di segale in olio, a padellino antiaderente, onde evitare scivolamenti bituminosi. Tre spicchi d’aglio tritati alla bene in meglio, le olive a metà, denocciolate, a grazia ricevuta per molari improvvidi, trito finissimo di basilico e prezzemolo (se ne avete, due foglie di mentuccia non si disdegnano) e i pomodori ciliegini tagliati in quattro. Invero, ho optato per costoluto di Pachino, che ho trovato in confezione regalo ad oreficeria attrezzata, che quelli che restano li baratto a compro oro a strozzo per rata di mutuo. Quello lo tratto di fino, come merita, a cubetti adeguati, animati d’autarchia ché sprigionano aromi d’Olimpo, nemmeno avrebbero bisogno d’ulteriore spinta di condimento per quanto bastano a sé stessi. Di pasta la dose è essenziale, che taluni, intenzionati a viver da malati per crepar sani, s’accontenterebbero d’80 grammi, la razione K opta per 120, io propenderei per un paio d’etti, pure e mezzo. Si butta giù che in concomitanza gli spicchi d’aglio, in saltapasta, sfrigolano, perbacco, sfrigolano in olio bollente, in appassionato amplesso con pomodoro, olive, peperoncino e capperi, e fanno succo di mare riconquistato a sei o sette acciughe a sfaldatura. Ad evitare prosciugamenti fatali, di tanto in tanto, appropriata cucchiaiata d’acqua di cottura della pasta, pescata in superficie, dove l’amido si concentra per rivestire poi di tenere cotonature ad avvolgenza il tutto d’intorno. E non temete di rendere brodosa l’evoluzione bollente, che a quella ci sarà rimedio. Appena scolati, ancora assai al dente, che si avvoltolino lì gli spaghetti, a fiamma viva e vegeta, a completar cottura nell’armonia del mare e della terra più aspra, s’assorbano ogni residuo profumato, arricchito, un attimo prima del tutto è pronto, di erbe a pioggia di scirocco. Poi, che il pangrattato concorra ad assorbire ciò che resta d’umido, ma non per appropriarsene, piuttosto per distribuirne con pedissequa cura del dettaglio ogni aroma, colore, sapore. Infine, a piatto, ancora basilico. È concentrato di terra di Lotofagi, di rimpianti, di memorie antiche e vivide, e se non tratterrete una lacrima a commozione, questa saprà del sale del mare d’Ulisse.

E a chi non piace Atahualpa, consiglio di stapparsi una gazzosa e sgranocchiarsi patatine al glutammato.”

Agave

O rabido ventare di scirocco
che l’arsiccio terreno gialloverde
bruci;
e su nel cielo pieno
di smorte luci
trapassa qualche biocco
di nuvola, e si perde.
Ore perplesse, brividi
d’una vita che fugge
come acqua tra le dita;
inafferrati eventi,
luci-ombre, commovimenti
delle cose malferme della terra;
oh aride ali dell’aria
ora son io
l’agave che s’abbarbica al crepaccio
dello scoglio
e sfugge al mare da le braccia d’alghe
che spalanca ampie gole e abbranca rocce;
e nel fermento
d’ogni essenza, coi miei racchiusi bocci
che non sanno più esplodere oggi sento
la mia immobilità come un tormento.
” (L’Agave sullo scoglio, Eugenio Montale)

Non è cosa della mia terra, viene d’altra parte del mondo e fa combriccola festosa con palmette nane e fichi d’india, che pure questi ultimi non ci nacquero qui da generazione antica. Ma ci stanno, non fanno chiasso, si riuniscono a far banda, che quasi nessuno li scorge, ma tutti assieme fanno simbolo se li guardi da lontano. Che non c’è barbarie a farsi fratello e sorella d’altri, non c’è scompenso in certe occasioni, che talora ti dimentichi di diversità. Che si fanno, anzi, a corale perfetta, che ciascuno suona suo bellissimo strumento, come musica d’insieme che non fa pecca di stonatura. E ne ho prove altre, che una ve la riciclo di sgambescio, che m’aggrada assai, pure ne feci a iosa di questi tempi, mentre altri a perfezione di padre matria, o madre patria, a che sollucchera di più, s’appigliarono per leva su viscere contorte che su plausibile presunzione di possesso d’anima e ragione, a far dell’uno contro tutti, arma perfetta a vittoria singola contro ultimi tra gli ultimi.

“D’Arlecchino apprezzo la condizione patchwork, di tutto insieme. Mi ricorda, così lontano come sembra, nel tempo e nello spazio, certi piatti siciliani, da cui si desume che tempo e spazio siano invenzioni fallaci. La Sicilia, Trinacria, tripartita, triangolare, trilaterale, triste e tribolante è, infatti, essa stessa patchwork, “più di una regione” diceva Sciascia, fa continente, aggiungerei, con quel tre reiterato (ne tralascio i riferimenti alla perfezione, non sarei al di sopra d’ogni sospetto, tanto meno ne sono convinto) che è somma del primo pari e del primo dispari, dunque del tutto e del contrario di tutto. Che luttuoso lusso esservi nato. E la sua cucina ne è l’archetipo illustrativo, la quintessenza del Meltin Pot, che ingloba colori, sapori, odori, senza lesinarne e tralasciarne alcuno, rinunciando così al gioco barbarico ad esclundendum. Ma c’è un piatto la cui composizione ne seppellisce ogni altro, non solo per la sua natura complessa ed articolata, dunque non banale, ma perché richiede tempi lunghi di realizzazione, lentezze gastronomiche che riconciliano al gusto dell’attesa e rendono la festa finale una sorpresa vertiginosa; è un piatto internazionalista, quasi un’anticipazione castro-mao-guevarista d’un movimento di emancipazione planetaria che parte molto dal basso, dalla terra addirittura, anzi, da ogni terra sparsa per il globo, cui attinge senza pregiudizi preculturali, senza curarsi di barriere, dogane, frontiere; è piatto libertario, giacché non ve n’è una ricetta unica, diventa scuola di pensiero; ciascuno può, sulla base d’una vena creativa personale, renderla propria ma senza mai esserne davvero esclusivo detentore giacché il gusto della condivisione alla fine prevale su qualsiasi tendenza edonistico-egoistica; ed infine, è piatto di memorie e storie antiche, che si rincorrono e riemergono, come in un fenomeno carsico, nella natura policromatica di chi le ha tramandate: è la “caponata”. Sulla provenienza esotica di certi ingredienti senza i quali non è tale, pomodori e melanzane, solo per citarne un paio, soprassiedo, se ne stenderebbe un trattato geogastronomico troppo vasto.
Si comincia, con calma, a soffriggere dadini di sedano, carote e cipolle – non troppo piccoli, nemmeno particolarmente spessi – in olio extra vergine di oliva. Ora, so che taluni preparano il soffritto in qualche olio di semi, ciò che non capisco è come mai non sia proibito dalla legge. Invece, per chi possiede consapevolezze acquisite e non soffre di palati prelogici, la scelta sarà semmai tra quali oli d’oliva. Ci sono certi oli toscani e liguri meravigliosi, solo peccano di eccessi di protagonismo, preferiscono stare al centro dell’attenzione e meritano il pulpito; difficilmente li si può costringere ad essere comprimari, piccanteggiano il tutto d’intorno, finiscono per sgomitare, scavalcare la fila. Meglio un olio d’oliva siciliano, capace, se occorre, di accompagnare, mantenendosi leggermente defilato, propone delicatezza di trattamenti ma esprime forza e volontà di mantenersi integro nel calor bianco, insomma, non fa “scruscio”. Poi, non appena il battuto cubico comincerà ad acquisire vaghe consistenze e dorature da oreficerie raffinatissime, si aggiungono olive nere (denocciolate, se ci tenete a molari e premolari), capperi (meglio quelli piccoli e vagamente selvatici, sotto sale o in salamoia, appena scrollati), ed un paio di cucchiai di stratto, non di estratto di pomodoro, di “stratto”. Al limite usate pure il secondo poiché il primo è difficile da reperire. È una salsa di pomodoro molto salata che abili mani lasciano essiccare ai più feroci dei soli agostani del Mediterraneo, cosicché, mentre raggiunge consistenze da pasta dentifricia, si avviluppa dello iodio e della umida salsedine dell’aria, per poi finire in barattolo, ricoperto da un sottile film di olio. Poi, rifiorisce in cottura, attribuendo all’insieme sapori forti e contagiosi. Un bicchiere di bianco vellutato e dalle opportune corposità, preferibilmente fatto con l’uva e non di miscele di bisulfiti (ve ne sono di ottimi nella Sicilia Occidentale – di vini intendo, non di bisulfiti -, ma anche quelli friulani e tirolesi si prestano allo scopo, peraltro proponendo ulteriori contaminazioni mai così ben accette, e poi, bervene un bicchiere, ghiacciato, si intende, accompagna bene tutta la lenta preparazione). Quindi un goccio di aceto di vino bianco, un pizzico di peperoncino rosso, e due grossi cucchiai di miele di timo o di salice degli Iblei, e sulla provenienza di questo non transigo: “da una parte la siepe di sempre dal vicino confine, succhiata dalle api Iblee nel fiore del salice spesso t’inviterà ad entrare nel sonno con il lieve sussurro” (Virgilio, V Ecloga). Il miele, rilasciando gli effluvi profumati di impervie balze calcaree battute dal sole, risuonerà di poesie arabe e racconti da “Mille e una notte”. Ancora un po’, e il ricco connubio riuscirà a maturare il proprio sacro convincimento di sapere – e potere – stupire. A parte avrete soffritto, ciascuno nella sua padella, per consentirne perfetti e diversi tempi di cottura che preservino le giuste reciproche croccantezze, dadi di melanzane e strisce di peperoni rossi, preferibilmente a cornetto. Per qualche minuto fate andare a fuoco lento tutto insieme con un mestolo di salsa di pomodoro ben ristretta e, poco prima che tutto abbia fine, una pioggia abbondante d’un trito di prezzemolo, basilico e qualche foglia di menta, perché cromatismi e profumi freschi stemperino certe asperità. Provate di sale e lasciate riposare, anche per ventiquattrore, tanto vi verrà senz’altro riconosciuta la fatica dell’attesa. Consumatela meglio fredda, accompagnandola con del Nero d’Avola (in abundantia) e, sotto, jazz, giacché da quelle parti si improvvisa, che è poi il talento vero di quel vate che per primo servì caponata ai suoi ospiti.” Che non dubito venissero da ogni parte del globo terracqueo su barche sgangherate e sommo desiderio di convivio.

Attese di pagine unte

C’è, e me ne avvidi- in attesa che signora primavera si ripresenti rinunciando ad ottusi ritardi – sottile ma robusto legame tra gusti letterari e gastronomici. Pure di musica però, che ci vado immantinente.

Ci sono fast food di vaghi retrogusti rancidi, salse e bibite che sanno di melassa, sapori che palati prelogici non solo gradiscono, ma pure mettono a corredo di certe letture – qualora ve ne siano, che capita di rado – che, appunto, sanno di rancido, di melassa, stuccano. A me tali cose – nessun pregiudizio nei confronti di chi ne fa uso massiccio, pervaso dal germe del mordi & fuggi -, che pure s’accompagnano a musichette sui cui testi glisso, mi fanno aumentare, ora la glicemia, ora il colesterolo, sfociano in reflusso gastrico, solo le legga, sia anche le mangi, pure le ascolti. Dunque, privandomene con cura, soprassiedo nel darne giudizio, mi dichiaro incompetente, potrei non essere all’altezza, giacché della loro esplorazione attenta feci a meno, né, ritengo, di sottopormi a radicali ripensamenti. Vi sono, invece, certe cene che non si dimenticano, quel dentice, innaffiato e basta con un bianco che non interferisce col gusto, lo esalta piuttosto, come lente d’ingrandimento ne illustra i dettagli, evita l’affastellarsi d’una moltitudine confusa di sensazioni indistinte. Rimane nella memoria, non accenna ad abbandonare la sua essenza di ricordo felice, semmai si dispone con sapiente lentezza, senza sgomitare, diacronicamente accanto ad altre esperienze di siffatta specie, pur mantenendo posizioni privilegiate. Vi sono, lì nei pressi, certi saraghi del Mar d’Africa, attesi senza fatica all’amo per ore, che abboccano mentre l’alba si esercita in cromatismi spiazzanti; pomodori colti negli orti degli dei, con lo sfondo lontano della fiammeggiante irrequietezza della tomba di Empedocle, ancora, chicchi di melograno giunti direttamente dalla terra dei Lotofagi.

Ivi echeggiano certe suite, certe tirate di fiati, battute a controtempo su clap, pure a tasti bianchi e neri, vibrati di corde. Dimensioni perfette del gusto, del suono, che invogliano le palpebre a socchiudersi, per spalancarsi poi a veglia su letture lente, articolate, sofferte, che però finiscono per scivolarci per sempre dentro, in forma di una ruga in più, un guizzo comportamentale, un’attitudine… Distinguo, su ripiani facili da raggiungere, le coste importanti di certe cose così… Tutta roba che, quando se ne parla, riecheggia come tappa essenziale della nostra esperienza formativa, ed un piatto assume consistenza letteraria, almeno quanto un libro lascia al palato quel gusto permanente che deriva da ingredienti esiziali per cuochi abilissimi nell’amalgamare le parole. Eppure, accanto a ciò, c’è anche dell’altro… E se “L’uomo senza qualità” invoglia alla liturgia d’una Sacher, almeno quanto “Il garofano rosso” spinge verso il rito di un budino di mandorle, così, certi banchi di frutti di mare, pomodori secchi, olive farcite e peperoncini diabolici, immersi in un Suk di colori e profumi, offrendoci l’opportunità di consumi rapidi ed estemporanei, accelerano il desiderio di tornare a sfogliare libercoli leggeri, poche pagine che sembrano scivolare via come va giù un mitilo al limone, o un tocco di pepato fresco s’annega nel sorso d’un Frappato. Certo, v’è forse un po’ di pudore nell’ammettere che quelle letture d’un paio d’ore, street reading consumato sulla panchina d’un parco, a sedere su un muraglione dirimpetto al mare, sotto un albero di ulivo saraceno, pure distratti dalla risacca o dagli uccelli (e non solo dal loro canto), possano averci formato gusto e memoria; ma che bellezza “Tre uomini in barca (per non parlare del cane)”, “l’uomo invaso”, “Ricette immorali”. E se il pensiero corre immediato al perfetto abbinamento letterario gastronomico del Gattopardo, allorché Angelica perdette la sua elegante postura, lanciandosi assatanata, dunque, finalmente, umana, sul timballo di maccheroni, o se gli arancini dei Benedettini deconcentrarono financo i Viceré, è però anche vero che occorre altro che non sia di così difficile asporto quando si decide che la domenica mite di primavera si proclama tale al lusso d’una panchina, a consumo appena d’un libercolo. Non mi rimane che suggerirvene uno che avete già letto, che ci riconsegna la sorpresa d’un ordito, che disvela dettagli sempre nuovi senza l’intralcio d’una trama ignota. Che ne so, un Diario di Eva, o di Adamo, se vi pare, una cosa che scende giù come un bicchiere di Zibibbo fresco, o l’agognato caffè di prima mattina. Ma prima di ritrovare la solita panchina e di scovare la lettura prescelta sullo scaffale in alto a destra, in un mortaio triturate frutta secca, pinoli, nocciole, noci, mandorle, pistacchi non salati, e spolverateli di semi di sesamo. Poi lasciate che il miele di timo (che fortuna se aveste quello di carrubo a portata di mano) si sciolga sino a caramellare sul fondo di una padella; versatevi sopra il trito e amalgamate tutto. Dunque, versatelo ancora bollente su un foglio di carta forno, sino a farlo consolidare in forma di lastra di vetro brunito, e spaccatelo a quadri che infilerete in un cartoccio da portare con voi. Quel crunch di sgranocchiamenti che ne conseguirà sarà allo stesso tempo colonna sonora della vostra lettura e arma di dissuasione di massa per tenere lontane presenze importune. Che meraviglia – di tanto in tanto, e senza esagerare –, che guerre tolgono il sonno, pandemie furono, ex legis, abolite, far finta di essere sani!

Di Norma

Mi capitò, così per chiacchiera, di articolare discussione con certi tipi a rischio d’estinguimento, tali che predicano il “vietato non toccare”, per intenderci. Che pure fanno notare delizie su cui avevo avuto modo di riflettere soltanto in modo assai superficiale, poco consapevole, e cioè che nel progettare qualsiasi umana schifezza si tiene ormai conto di un famigerato “utente tipo”, cui si attribuisce un grado assoluto di “normalità” incontrovertibile e generalizzata. Vado di musica a tipo prescritto.

Ora, pare che questo (utente) tipo, la cui natura concettuale ed indefinita ne è il carattere distintivo, marchio di fabbrica, non s’ammali, abbia tratti standardizzati, non cresca, non muoia, di fatto sostituisce la variabilità umana con tutte le sue debolezze – pure schifezze -, che ne so, la memoria, la stazza, la religione, il voto, l’odore, la faccia e quant’altro. In siffatto modo sollecitato a riflettere, mi balenò per la mente anche la pletora di riforme che affollano i salotti di prime pagine plaudenti a migliori e quotidiane, che ne so, quella della sanità (l’utente sostituisce il malato) o della scuola (in questo caso il modello di studente universale ha il sopravvento sul soggetto in età evolutiva, che matura la propria personalità nei luoghi di formazione sociale, cancella arcaismi di siffatta natura, taluni ispiratori d’eversione quali il Maestro Manzi, Don Milani).

Per di più, all’utente tipo è concesso persino di essere portatore di handicap, ma con caratteristiche precise, come figurano in quei disegnini che indicano parcheggi per disabili, dunque dotati di enormi sedie a rotelle in cui l’omino sparisce incassato tra braccioli monumentali. L’utente “normale”, allo stesso modo, non gode di gusto estetico, ne consegue che ci sono, che ne so, biblioteche talmente brutte che difficilmente consentono l’accesso a chi ha a cura la bellezza della lettura, non è, dunque, a norma. Di converso, se la vostra vecchia zia perde pezzi della sua autonomia, si trasferisce a casa vostra, e vi strafoga di lasagne, se poi non passate più al tornello dell’autogrill, o dello stadio, o dell’aeroporto, è colpa vostra che avete dismesso l’abito dell’utente tipo, vi siete voluti ghettizzare nell’a-normalità di stazza. E certo non siete un bell’esempio per quei milioni di studenti che hanno rinunciato alla propria identità in nome del progresso, per essere classificati in un numero di categorie che entrano nelle dita delle mani e che taluni chiamano voti, come quelli che si prendevano per conventi e monasteri.

In quanto antimoderno, che si rifiuta di diventare utente tipo a difesa di presunta avvilente specificità personale, vi spiego come si fa la Norma, ossia quel piatto tipico che qualcuno vuole far risalire giammai alla norma in quanto tipicizzazione di massa, bensì a quella del “Cigno” Vincenzo Bellini.

Cominciate col preparare una salsa con pomodori freschi, meglio se costoluti di Pachino (non ciliegini), su un soffritto d’aglio, ed addizionatela di abbondante basilico. A parte friggete in olio d’oliva quintalate di melanzane tagliate in fette di mezzo centimetro, ed asciugatele ben bene dell’olio che tendono ad assorbire. Qualcuno, prima che manifestino cambi cromatici nel calor bianco e sfrigolante della padella, le lascia in una salamoia, schiacciate da un peso, per disperdere il retrogusto amarognolo cui l’ortaggio tende. Io non lo faccio giacché quel gusto consolida appetiti, di certo il mio, per il quale, ricordo, ho chiesto deroga alla norma, ma non alla Norma. Cuocete gli spaghetti, conditeli con la salsa in un piatto di ceramica colorata, sufficientemente ampio da farci atterrare elicotteri, dunque ricopriteli senza lasciar spazio a capolini, con lenzuola di melanzane – avrete cura di lasciare quelle che restano in un piatto, lì, a portata di mano, non distante dal fiasco del rosso -. Infine, cotonate il tutto con abbondante nevicata di ricotta salata grattugiata sul momento. A questo punto cominciate a pescare le fette con la ricotta, infilzando il sottostante spaghetto sinché non risulterà nudo. Ricopritelo nuovamente come prima, perché non prenda freddo, e ricominciate, per due, tre volte, se siete inappetenti, esagerate se buone forchette, sino a disvelare i preziosi cromatismi del nudo piatto. Essendo l’operazione lunga e complessa, ancorché gratificante, avrete tempo di ascoltare pezzi consistenti degli eleganti gorgheggi di quell’altra “Norma”, oppure, come faccio io, andate di jazz. Poi fatevi una ragione del non aver capito niente di cosa si intende per norma, ma quanta soddisfazione nell’essere finalmente utente tipo in deroga, dunque stupido ex legis!

Di viaggio, di sale

Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo.

Un luogo di giovanili follie ora deserto, animato un dì dal fiore dei nobili ingegni.

Se sono stato cacciato da un Paradiso, come posso darne notizia?

Se non fosse l’amarezza delle lacrime, le crederei i fiumi di quel paradiso.“

(Ibn Hamdis)

Che pare sia Medea, quel paese, per come tratta taluni suoi figli, che forse si vendica per insufficiente riconoscimento di propria bellezza a struggere. I viaggi sin lì durano poco, che il tempo non ti concede il lusso dello scoglio a forma di tartaruga, a favor di libeccio, sinché l’oltre non s’inghiotte il sole. Di distanza si paga pegno, talora, che quando si torna, all’appello pure manca qualcuno.

E si cerca conforto in alcova di fornelli, in cenacolo di gusto. Stasera mi compete di farlo, e fu fortuna che spacciatori di colori ne ho ancora, in quel lido lontano blandito d’onde, che è cosa difficile che sin qui, a banco di supermercato, v’arrivi qualcosa che tra ghiaccio e sale non abbia ancora festeggiato almeno un genetliaco. Di vino ne ho, pure non basta se non v’aggiungo colore e suadenza di gusto. Attingo a compiacimento alla sporta del lontano, dove trovo, appunto, sapori e colori, che insieme formano tavolozza perfetta di rimpianto, ma anche palliativo di lontananza. Olive nere, di forno di signora Carmela, cappero ormai quasi solitario, colto di timpa, strappato a marna da abile mano di zio Angelo, profumato di sale in cristallo di mare, pure un tozzo di pane raffermo di segale, che quella cresce a terra arsa di sole, – averne di cornuta m’apparirebbe l’orizzonte, navigherei con Argonauti – peperoncino di coltivazione demoniaca, tra magri interstizi di roccia, esalanti vapori al calor bianco di vulcano. Pomodorini di punta estrema ne trovo anche qua, decenti, armati di dignità quanto basta, come prezzemolo e basilico, non del tutto negletti. D’aglio ho scorte ancora, come d’olio nuovo d’altopiano, al profumo di mandorle. Anche di pasta, a trafilatura di bronzo, di grano duro e antico. Le acciughe, a dar tocco di mare definitivo, me le fa don Tano, in succo d’olive autentiche, mica sguazzanti in brodaglia di spremitura di pianta d’alambicco e sconosciuta in natura, mummificate d’aspetto e gusto, tristi ed assiepate in rispettoso ordine, morte invano.

Ne consegue piatto rapido e sapido, che richiede altresì pianificazioni algoritmiche, che non si concede facilmente all’errore, alla svista, pena amputazione cromatica e caduta di stile. Ordunque, in attesa del bollore d’acqua, merita che s’approntino gli ingredienti. Dapprima propenderei per imbiondimento di quattro o cinque cucchiai del pan grattato di segale in olio, a padellino antiaderente, onde evitare scivolamenti bituminosi. Tre spicchi d’aglio tritati alla bene in meglio, le olive a metà, denocciolate, a grazia ricevuta per molari improvvidi, trito finissimo di basilico e prezzemolo (se ne avete, due foglie di mentuccia non si disdegnano) e i pomodori ciliegini tagliati in quattro. Invero, ho optato per costoluto di Pachino, che ho trovato in confezione regalo ad oreficeria attrezzata, che quelli che restano li baratto a compro oro a strozzo per rata di mutuo. Quello lo tratto di fino, come merita, a cubetti adeguati, animati d’autarchia ché sprigionano aromi d’Olimpo, nemmeno avrebbero bisogno d’ulteriore spinta di condimento per quanto bastano a sé stessi. Di pasta la dose è essenziale, che taluni, intenzionati a viver da malati per crepar sani, s’accontenterebbero d’80 grammi, la razione K opta per 120, io propenderei per un paio d’etti, pure e mezzo. Si butta giù che in concomitanza gli spicchi d’aglio, in saltapasta, sfrigolano, perbacco, sfrigolano in olio bollente, in appassionato amplesso con pomodoro, olive, peperoncino e capperi, e fanno succo di mare riconquistato a sei o sette acciughe a sfaldatura. Ad evitare prosciugamenti fatali, di tanto in tanto, appropriata cucchiaiata d’acqua di cottura della pasta, pescata in superficie, dove l’amido si concentra per rivestire poi di tenere cotonature ad avvolgenza il tutto d’intorno. E non temete di rendere brodosa l’evoluzione bollente, che a quella ci sarà rimedio. Appena scolati, ancora assai al dente, che si avvoltolino lì gli spaghetti, a fiamma viva e vegeta, a completar cottura nell’armonia del mare e della terra più aspra, s’assorbano ogni residuo profumato, arricchito, un attimo prima del tutto è pronto, di erbe a pioggia di scirocco. Poi, che il pangrattato concorra ad assorbire ciò che resta d’umido, ma non per appropriarsene, piuttosto per distribuirne con pedissequa cura del dettaglio ogni aroma, colore, sapore. Infine, a piatto, ancora basilico. È concentrato di terra di Lotofagi, di rimpianti, di memorie antiche e vivide, e se non tratterrete una lacrima a commozione, questa saprà del sale del mare d’Ulisse.

E a chi non piace Atahualpa, consiglio di stapparsi una gazzosa e sgranocchiarsi patatine al glutammato.

La mia cosa preferita

Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”. (J.D. Salinger, “Il giovane Holden”)

E musica, all’uopo, sia.

Che, per tornare all’incipit, m’è pure capitato di leggere una cosa che m’ha lasciato senza fiato e di chiamare l’autore per dirglielo. Anagrafica vigliacca, cicli biologici assai poco attenti alle dinamiche di cultura, al senso di relazione vera, m’hanno ridotto tale fortunata opportunità. Pure non saprei cosa mettere tra i libri che mi porterei dietro, in caso di trasloco definitivo su isola deserta, immaginando di perdere l’ultimo Venerdì. È cosa che cambia, mutevole nel tempo, financo nello spazio temporale di mezza giornata o poco più. Talora mi porto dietro di pensiero trilogie di Musil, Horcinus orca, Alla ricerca del tempo perduto o La nausea, che mi sovvengono in momenti d’introspezione vocata al sacrificale impegno di mente. Talaltra mi ritrovo in mano una cosarella di Jerome K. Jerome o Ricette immorali, pure l’Uomo invaso, che non m’è dato di sovraccaricarmi di categoriche abnegazioni di pensiero, cedo piuttosto al solluchero, al cenno di svago, alla lettura felice di sorriso, qual bicchiere di vino di contadino. Ci sono momenti, persino, che m’affratello a letture di saggi definitivi e vertiginosi, che richiedono lenti d’ingrandimento concettuali, ancora mi compiaccio di cataloghi patinati dedicati ad artisti scomparsi. Mi taccio, dunque, per manifesta volubilità. E pure di musica sono incerto, che è invece certo che di jazz feci virtù definitiva, ma se m’ascolto una cosarella degli Animals, o lunghe sperequazioni modali di certo Prog, anche talune sganasciate canzonacce di protesta ad osteria, c’è il caso che m’illumino d’immenso. Non vado lontano, che ne ho maggiori certezze rispetto a letture più o meno passate, dal dichiarare che con ciò che aprì e chiuse questo scritto, c’è roba che mi porterei dietro in quel viaggio di naufragio.

Isola dei Porri (Mar d’Africa)

Posto questo, non potrei immaginarmi naufrago senza uova e cipolle, che insieme uniscono di sfericità imprecise l’atto voluttuoso della forma che tende alla rappresentazione approssimativa del mondo, al contempo la sua vertiginosa semplicità interpretativa nell’affabile unione tra terra e vita. Nell’uovo v’è questa metafora definitiva dell’inizio, ed in tutte le sue forme molteplici. Che sia semplicemente cotto a vino, un filo d’olio e origano di timpa, un crostino appena, come nell’antiapericena al barettino di Piero, una sera di tarda primavera, che il resto del mondo s’affastella intorbi a qqtartine d’improbabili cromatismi e sapori plastici. Sia pure semplicemente spiattellato a olio bollente, in qualsiasi pranzo mordi & fuggi, con o senza camicia, con solo sale e pizzico di pepe.

La cipolla è cibo misterioso, che si disvela a veli, come Salomè in una danza. Che certo non invita a relazioni intime, ma in ciò sottintende interiorizzazioni relazionali, dialoghi con se stessi. Pure c’è uovo e uovo, che taluni li fanno galline felici, scorazzanti d’aie, talaltri paiono costruzioni antibiotiche cui manca solo il bugiardino. Allo stesso modo c’è cipolla e cipolla, che la sottile dispiegatura dei veli talora nasconde solo lacrime al taglio, di gusto non ve ne fu che traccia. Ma ci sono cipolle che invitano a grazie al creato, come le rosse di Tropea, quella di Zerli, pure di Giarratana, di cui ne vidi anche di due chili e tre senza batter ciglio. Ma quando queste meraviglie s’incontrano, è lì che nasce l’intimo ricongiungimento a natura, l’estasi che si manifesta come sole al tramonto. Che modo migliore non c’è che battere uova, grossolanamente, a striature di albumi e pennellate di tuorli, con grattugie di pecorini pepati ad inferno, o caci di stagionatura matusalemmica sino a consistenza laterizia (con una sola t, che intendo roba a mattonella), sapidi a dismisura. È sull’impasto cremoso e discontinuo che scenderà pioggia fine di cipolla, del cipollotto, del porro, se occorre, a crudo, che mantenga croccantezza. Quindi pois di finissimo trito d’erba – altrettanto cipollina – o, d’alternativa non di ripiego, prezzemolo. Ancora una sbattutina, dunque, e che il tutto divenga soffice cuscino di riposo sull’olio bollente, per appena leggera doratura d’ambo i lati, possibilmente con rigiro al salto per soddisfazioni d’acrobazia.

V’è il caso che il contadino sapiente che vi fornì entrambi gli ingredienti, saprà di certo integrar di vino suo. E se, nel frangente dell’intimissima estasi del consumo, bussano alla porta, con voce rotta d’emozione a simular malanno, dite che siete contagioso e non aprite.

Lascia e raddoppia

Via, andiamo subito di musica, che com’ebbi a dire, quella vi resta, e qui ci sta pure bene.

Non so se avete presente quelli che hanno due cognomi, anche tre. Ce ne sono taluni che se li portano con discrezione, non gliene importa più di tanto. Talaltri, invece, ne vanno matti. È cosa che li gratifica, come se essere nati con quella pletora di ridefinizioni anagrafiche sottintendesse condizioni auliche del corpo e dello spirito, superiorità ereditarie (a me vengono in mente cose tipo emofilia e robe che si acuiscono con la scarsa ibridazione per paure patrimoniali, ma io soffro di deformazioni socio-politico-antropologiche). Ci sono poi quelli che ci stanno proprio male se non si prende atto della loro cognomanza binomiale, e te lo fanno notare, per esempio mostrando sufficienza quando, che ne so, appongono firma, qual sigillo regale, su un qualche modulo intriso di burocratismi elementari, irrispettosi del rango di chi legge e sottoscrive, e accompagnano quel gesto d’umana quotidianità su infarciture di pertanti, con dolenti esclamazioni del tipo: “oh, che fastidioso firmare con due cognomi, beati voi – sottintendendo il ‘comuni mortali’ – che non avete lo stesso atavico problema”… e nel frattempo, sollevano prudenti lo sguardo, nella speranza dissimulata di cogliere in quello degli astanti anche una sola espressione che ne disveli stupore frammisto ad invidiosa ammirazione. Ho comunque memoria di certi personaggi che possedevano ormai più titoli e cognomi che averi, e che vivevano nell’angoscioso ricordo di quei tempi in cui un titolo si poteva cedere dietro lauto compenso, a porre pezze precarie a certe propensioni che dilapidavano patrimoni, castelli e latifondi, dietro giochi d’azzardi ed altre umane debolezze. Viceversa, ho contezza di moderni ricchivendoli che devono le proprie fortune ad imprese audaci non proprio trasparenti, e che celano le proprie umili e polverose origini dietro ricerche araldiche che ne disseppelliscano nobili discendenze. Manco a dirlo, pagano fortune per ciò, essendo il mondo pieno di tali ceffi che, di par loro, venderebbero qualsiasi certezza ereditaria. Fortune, se non pari, assai simili a quelle che servono per nutrire monoliti a quattro ruote, con cui divelgono lastre di piccole piazze storiche o asfalti in ampi piazzali, assai rumorosamente, è ovvio, perché nessuno se ne perda l’evoluzione ed estasiato esclami: “che bella macchina s’è fatta il conte”. Ma quelli più sorprendenti sono certuni che inseguono apparenze aristocratiche con l’uso disinvolto di simboli arcaici. Ho visto certi industrialotti che hanno reso partenoniche le colonne che reggono il cancello d’ingresso al capanno prefabbricato e modulare, e su, in vetta ad esse, hanno posto ruggenti sculture leonine, accuratamente invecchiate con processi artificiosi, sicché se ne può dedurre origine antica, possesso da generazioni. Che il povero operaio, ormai dearticolodiciottizzato, pure delocalizzato, non solo mantiene un profilo basso, dopo il seppellimento di tessera sindacale per paura d’impedimento a riattraversamento d’ingresso, ma varca il medesimo al fabricozzo con spirito da novelle Forche Caudine.
Non m’è difficile immaginare che se costruissi il mio albero genealogico, con intendimento d’aggiunta di qualche titolo o cognome a quell’unico piuttosto prosaico che mi porto dietro sin dal mio primo affaccio su questa terra, alle mie spalle, e ripercorrendo a ritroso la storia ed il tempo degli avi, mi ritroverei con qualche pirata, un pescatore di ricci di mare, un cammelliere stanco di sabbia, forse!

Allora non mi resta che consolarmi per questa che sono certo è la verità unica ch’appartiene alla mia genia, con il narrarvi d’un piatto che mai il signor conte, il duca od il marchese, oserebbero assaggiare, giacché il presupposto per gustarne l’essenza sta nell’intingervi le dita in tradizionale condivisione, e giammai essi consentirebbero alle proprie nobili ed ingioiellate falangi di sguazzare nei medesimi intingoli d’altri. Di più, temendo contaminazioni geopolitiche, virali e classiste, mai addiverrebbero alla conclusione di potersi concedere tuffi di pura contaminazione. E si, accenno al cuscus, – doppio nome, ma ripetuto che non si butta nulla – la cui origine è si antica, ma nient’affatto nobile, che appartenne a poveri carovanieri subsahariani. Da lì, senza permessi di soggiorno, varcò frontiere, sorvolò vette elevatissime, naufragò su spiagge d’oceano. Anima migrante, si integra ed integra, poiché si fonda sul desiderio definitivo dei suoi piccoli chicchi d’assorbire le essenze dei luoghi, fossero fatte di poveri tocchi di carni capitati per caso tra le dune d’un deserto, abbondanti pescati sulle coste del Mar d’Africa, o verdure selvatiche d’ogni fatta, ed intingoli. Non disdegna le contaminazioni profonde, dunque, ed anzi le ricerca rifiutando d’ideologia la purezza declamata dell’esclusivo regionale. È realmente l’archetipo illustrativo dell’unità, sin dall’attingerne il contenuto dal piatto (che sia di ceramica colorata, magari con cretti e scorticature) che invita a creare un humus assoluto fatto d’ogni contributo. Infine, è piatto che sin dalla sua preparazione invita alla lentezza, alla meditazione, alla conversazione. Non v’azzardate ad iniziare a prepararlo senza prima esservi assicurati d’avere a portata di mano qualcosa da bere. Per gli astemi c’è il tè, eventualmente, come quello nel deserto. Ma io astemi ne conosco assai pochi, che v’è detto, non aulico ma esplicativo, che “non ti piglio se non t’assomiglio”. Non mi resta che darvene sintesi, una delle tante (tutte hanno diritto di cittadinanza, perché il cuscus è apolide). Alla base v’è la semola di grano duro – ve ne consiglio una metà a grana fine e l’altra un po’ più robusta – che va posta su un piatto di ceramica ampio (mezzo chilo per quattro persone) e spruzzata d’acqua salata. Quindi, con sapiente movimento rotatorio delle dita, si consente ai grani di assorbire il liquido sino ad assumere la caratteristica forma a piccole sfere. Si procede, dunque, alla prima setacciata. Le palline che passano vanno addizionate di semola fresca perché si accrescano sino a raggiungere il diametro desiderato di circa due millimetri. È bene che in questa fase si beva del Frappato fresco, e si conversi del più e del meno. Giacché si presuppone che inizialmente il tasso alcolico non sia ancora accettabile, si può indugiare in conversazioni sull’arte e la bellezza! La cottura avviene nella cuscussiera a vapore, con olio d’oliva, chiodi di garofano, aglio, prezzemolo e peperoncino rosso. Sul fondo consiglio di mettere brodo di pesce misto, fatto di specie poco pregiate, ma ricche di profumi amplificati da aromi. Il vapore del brodo risalirà verso il piano nobile cucinando la semola. Ci vogliono almeno due ore perché la cottura sia completa, non c’è fretta, è ovvio, soprattutto se la compagnia è buona ed il Frappato non è ancora finito. Poi si versa il contenuto su un grande piatto, si rimescola un po’ e si rimette a cuocere per un’altra mezz’ora buona, praticamente un paio di bicchierini, una sigaretta, una decina di pagine di libro giusto, con racconti di viaggio per mare e spazi aperti d’orizzonti, lunghi reef d’afrojazz sullo sfondo. Infine, fatelo riposare ancora al piatto, quindi conditelo con il brodo di cottura filtrato, e servitelo con il pesce che avrete avuto cura di tirare fuori del brodo prima che si disfi, pure con verdure saltate in padella, pomodoro fresco (consiglio, oltre a sedano, carote e cipolla, anche melanzane, zucchine e peperoni). Io aggiungo alle verdure anche un cucchiaio di miele di timo! Poi dateci dentro senza ritegno, limitando l’uso delle posate, ma non quelle di un irrispettoso Nero d’Avola, e se qualcuno dei presenti inorridisce per l’abbinamento di un vino così corposo al pesce, ditegli di farsi gli affari suoi e la prossima volta non lo invitate.

Nei fondi del caffè

Quelli che non si muovono, non si accorgono delle loro catene.” (Rosa Luxemburg)

Mi sono dato tempo dieci minuti per scrivere, che oramai sono a nausea informatica, pure le diottrie me le devo comprare al mercato nero. Che refusi e schifezze giungano al mondo con attenuanti, e mi faccio perdonare di musica (avviatela, senza indugio, ora ed in fondo), forse d’immagini.

La libertà guadagnata a tamponamenti a catena, mi scontra con le ragioni di tempi tempestosi e buferali, che manco il fiume per consegna di messaggio a bottiglia mi rimane, rischioso di infangamenti sopra e sotto, d’inciampo in sabbie mobili a errore di latitudine. L’archivio di chat m’è oscuro, come i caratteri corpo sedici di maxi schermo. Consapevolezze di nuove, prossime, certe prigionie – già in alleanza con abati ingiustamente condannati – m’assillano pure nelle novelle libertà, poiché non si negheranno reclusioni nemmanco a colpi di vaccinonzi, sciabolate rinofaringee negative, bardature astronautiche e vissuti d’ascesi romitica, mica di file alla cassa, sgomitamenti da astinenza di camparino. Nemmeno, mi pare, sarà data pace da alfabeto greco esausto di varianti, che poi si ricorrerà a linguaggio da targhe automobilistiche, col plus e punto zero a far d’aggettivazione. Mi rimane pensiero di spiagge deserte, lì dove il mondo finisce, e quel che c’è oltre non può che essere davvero altro.

Mi giunge voce che Pilu Rais chiede di me, che la lampuga anela al cipollotto e lo sgombro al cappero solitario. Ma di quest’ultimo, d’elegante affusolatezza, compita postura d’argento, me ne trovai all’uopo un paio che non fecero ancora genetliaco. Li dislisco, eviscero e spalanco a portafoglio, li rivesto d’olio bollente, con capperi e taggiasche, denocciolate a cura di gengie distratte. Pomodorini succosi, erba cipollina e finissimo trito di prezzemolo s’occuperanno di discontinuità cromatiche al sapor patrio d’un nessuno senza patria quale io sono, ma pure di profumi che sanno di fughe interminabili. Ci berrò sopra intere riserve di esotici Sirah, senza tema che soverchino il sapore ad omega 3 del cugino di mare. E, di solluchero, mi farò ancora musica, ch,e quale Argo, non soffro ancora d’otiti, nemmeno di stasi olfattive.

Quarantenario

Continua, com’è vero che il sole sorge, il mio viaggio da prigioniero quarantenato. Che tra lockdown e “isolamenti fiduciari”, gli ultimi due anni mi sono apparsi assai stravaganti, pure m’avvedo che non mi finisce qui, che ci ho da mettere in conto altre “pause di riflessione”, da ripensare tutto, che di progetti chiari e definiti non si parla, piuttosto di ravvedimenti. Che per fortuna mia e d’altri, che se n’approfittano all’uopo, nel prima v’è stato chi ha lasciato note d’eredità. Dunque, sovrabbondo, che non si sa mai dovessimo averne carenze per diktat di qualche tipo.

Che la cosa che più mi sarebbe venuta da pensare, m’avessero paventato il tutto, era di assaporar profumi di libertà in ricomposizioni sociali, voglie relazionali di solluchero, gettarmi a capofitto nell’affratellarmi col resto del genere umano. Mi sarebbe venuto in mente di rivestirmi a modino, di rimbellettarmi, deodorarmi a napalm, inamidarmi colletti. Questo immaginavo mi ci sarebbe voluto, ch’è durata due minuti, forse tre. Che invece cominciavano – e continuano – a mancarmi aria e scogli, bufere e tempeste, mari solinghi e fiumi impetuosi, cataratte, galeoni spagnoli al largo, feluche e barchette sballonzolate, financo l’odore acre della scolatura d’alici.

Mi saltano schiribizzi d’incendi neroniani di parchi auto, di percorrere ad infradito sentieri a capra, spuntoni a roccia, di sassi mai cheti, di foreste fitte, mi sovvengono animali tremendi scodinzolarmi d’intorno festanti, che mammoni felini e mannari canini s’atterriscono essi stessi. Di più, cominciai – e persevero – a farmi gaudio di camice stropicciate, maglioni dismessi, traforati dal tempo, barbe antigravitazionali, i tre capelli in testa a prendere strade d’involuzione. E se mi sconfinfera modo di ricongiungimento a massa, v’è in questo voglia di stupore a disgusto del buon senso comune, di ciabattamenti stanchi, di fuggi fuggi, di c’hai na sigaretta, dammi cento lire, d’amplessi memorabili tra simili. Lo stesso virussino s’accomoda a fuga, per tanta screanzata violenza al bon ton, divento immune per sopraggiunta repulsa. Pure non ho remore d’aliti forti, come capita nella civile convivenza, che stasera faccio leva sul mio degradarmi, per piatto da seti ataviche e respingimenti sociali. Che trovo sul fondo della dispensa quattro cipolle che mi taglio a listarelle, pane raffermo – quello mi rimase – che sbriciolo in latte. Tutto insieme contraggo in un unico caotico marasma, fitto di burro, formaggio fuso, sale, peperoncino d’inferno e salvia. Ed il compattato caos inforno al calor bianco, con grattugia di pecorino pepato, che crei scorza d’armatura invalicabile se non d’accetta. E quanto m’aggrada che ci voglia un buon rosso litrozzo per buttarlo giù, mentre mi sento – finalmente – selvaggio in jungla.

I quarantenati

Insomma, m’appare chiaro che mi riquarantenano, che, di tante volte capitò, trattasi piuttosto di cinquantena, pure sessantena, forse, di m’incatena. Ci ho musica, per fortuna, ed all’uopo.

Che gli insegnanti, che comincia la stagione, si sta come d’autunno cadono le foglie, a scavare trincee che poi ci tocca di riempire, così, per tenere alto il morale della truppa, che di Armando Diaz all’orizzonte non v’è traccia. Fatte le scorte per affrontare il gelido isolamento, mi appaio come certi tipi che s’attrezzavano il rifugio antiatomico, solo con la certezza della bomba, attesa senza armatura cementizia e contatore geiger. Che poi non si punta più a quel che sarà, che del doman non v’è certezza, semmai si lancia sguardo nostalgico a ciò che fu, assai più di conforto, che almeno quello ce lo siamo presi. Uno scoglio lontano, così, per dire. Se torna torna, altrimenti ci s’è goduto e si può raccontare, che raccontare è forma di suadente consolazione, o così mi pare che sia, ora, che domani è un altro giorno, si vedrà.

E che racconto, che non mi sovviene, nella pressione degli eventi, quasi nulla alla ricerca del tempo perduto? Mi tocca di trovar conforto nell’angolo più fascinoso di casa, quello cottura, che vi racconto d’un piatto che tutti conoscete, ma credo meriti ribalta che mai ve lo serviranno in luoghi con soffitti a firmamento e conti da trasfusione: spaghetti, aglio e olio. Posto che, nonostante la sua essenzialità, il piatto si presenta come paradigma antidepressivo, è altresì poverissimo, sicché non si può sbagliare poiché, il miserando, non può permettersi di rinunciare al prodotto finito, con la deposizione del fallimento in pattumiera, e, deluso dall’insuccesso, giammai opterà per ben altre ricchezze gastronomiche di cui è, per definizione, sprovvisto. Neppure il quarantenato, quale io sono e fui, costretto alla reclusione, potrà, in vista dell’insuccesso, rallegrarsi del brasato in trattoria. Gli ingredienti sono fondamentali, che si derubrica alla complessità, mai all’essenza del gusto. Aglio (non di quello che ha spicchi da microscopia elettronica), olio (vero, mi raccomando, di contadino), prezzemolo freschissimo, pecorino d’autentica pecora di pascoli non diossinici, pure spaghetti trafilati al bronzo, che non s’incupiscono d’intingolo, lo accolgono suadenti, piuttosto, lo stringono in morbido abbraccio. E mentre l’acqua bolle, si buttan giù quelli, – se siete in quarantena, dunque ad un passo dalla depressione, se ne consigliano almeno due etti e mezzo – che, in padella ampia a parte, fuoco lento che non bruci, olio ed aglio abbondante, a pezzi grossolani, consumano già amplessi memorabili, arrovellandosi al calor bianco, stimolandosi reciprocamente passioni antiche, insopite. E venne il tempo che, a far da incomodo terzo, si getta in mischia il peperoncino, non uno quale che sia, che piccanteggi appena, ma il frutto prezioso per palati incatramati, che se cade in terra ustiona il pavimento, linea la ceramica, corrode il marmo. Lo scontro inizia a divenire cruento, che la temperatura sale, ma non può protrarsi troppo a lungo, occorre ricondurre alla pace, alla delizia della convivenza, creare le condizioni per un nuovo afflato che abolisca convenzioni borghesi. V’è il candido strumento nella pentola che bolle, lì dove la trafilatura rilascia amidi delicatissimi. Pescandoli con cautela, solo quelli, intendo, si rilasciano nell’olio bollente dove sublimano col tutto d’intorno, emulsionando e avvolgendo, derubricando l’ambiente arroventato ad alcove vellutate. Un minuto – ma solo quello – prima che gli spaghetti raggiungano l’al dente perfetto (assaggiateli, assaggiateli, non fidatevi dei tempi di cottura indicati), il trito finissimo del prezzemolo, produrrà freschezze e discontinuità cromatiche. E la pasta saltatela al calor bianco della padella, lasciando che poveri ingredienti s’arricchiscano della loro solida alleanza, attendendo la felice mantecatura col pecorino, come i proletari di tutto il mondo uniti, a fronte alta e determinata ostinazione, anelano al sol dell’avvenire. Mi dimenticavo – non per me, si intenda – per costrutto narrativo, che è piatto che mette sete, e dateci di rosso, aspro e cattivo come certuni da sud pieno, quasi d’Africa, d’Oriente perduto.