Recinti e paletti

«Direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l’intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese.

In queste persone la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D’Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo di imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l’imbecillità appare – e in un certo senso e fino a un certo punto è – fantasia.

In una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica di “impiegati d’ordine”; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati – non resistendo alla competizione con gli intelligenti – come poveri “cavalieri d’industria”; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia». (Leonardo Sciascia)

Io due o tre paletti per i miei sistemi di relazione li metto. Mica me ne sto a tirar su muraglie alte e fitte, che un po’ di ecumenismo m’è rimasto. Nemmeno mi faccio o Savonarola o Torquemada, a seconda dei casi, mettendomi a fissare limiti comportamentali ai prossimi più prossimi. Un recintino alto il giusto, che da lì non si passa, ma basta avere le chiavi e c’entri facile, appunto, schivando quei due o tre paletti che misi all’uopo. Certo, se ti piace far cagnara, urlare e sbraitare, parlare di mala maniera, lì non c’entri. Se ti sollazzi di bum bum, di cucine molecolari, se sei astemio per convincimento ideologico, non è che ti tratto male, ma te ne fai una ragione a star dall’altra parte del labile confine. Se sei uno che si mette a saccheggiarti casa, dipende, se sei Fra Dulcino, ti dico dove ho messo i preziosi (questa mi viene facile che di preziosi non ne ho, se non taluni da frigorifero), per il resto portati pure quello che ti pare, foss’anche solo virtuale, che alle cose m’affeziono poco, e anche con le idee ho rapporti conflittuali. Ma se sei entrato a casa mia sei pure ben consapevole di quello che ci trovi, se no cosa ci sei venuto a fare?

Posto questo, il recintuccio, con tanto di paletti agli angoli, mi si è sempre mostrato trasparente, e di là di quell’invisibile barriera, talora, pure solo di sgambescio, qualcuno ti s’avvicina, per un istante o due, che più di tanto non gli è concesso, né credo si ponga interesse particolare a starsene in quella specie di ghetto. È cosa che capita a chi vive sotto questo cielo, però, che non può negarsi l’affratellamento collettivo, non dico con tutte le 7 miliardi e più di creature umane che ci vivono, ma con una parte pur esigua di esse. Capita, dunque, che poi li leggi sul giornale, che hanno rubato a sette ganasce, che si sono spartiti posti e prebende, frodato e truffato, per carità, fino a prova contraria. E ti fa sempre specie, ché non ti abitui. Che rubare, l’ho detto, non è cosa gradita, ma anche lì dipende. Che poi, di primo acchito, mi verrebbe pure di fare i nomi, financo i cognomi, che tanto li hanno fatti pure i TG, con tanto di fototessera che pareva scattata da Lombroso in persona. Ma se li facessi punterei l’occhio sul caso, non sul fatto che del caso è assai più diffuso. Ch’è quello, il fatto intendo, la malattia. Che non si cura solo col carcere degli scemi del villaggio globale che sono incappati nelle tenaglie strette della giustizia (che ci vadano, senza passare dal via, si spera). Ma con una bella quantità di sedute psichiatriche collettive che spieghi al resto non ancora beccato – ed ho ragione di credere che sia resto assai cospicuo – che quella di passare pezzi consistenti della propria miserabile esistenza a cercare di capire come fregare il prossimo tuo (e non come te stesso) è malattia, che pure è patologia anelare il potere assoluto, che anche si fa sindrome grave il sottrarsi a starsene quieti, che ne so, a godersi una pensioncina bevendo un bicchiere con gli amici al bar, che ti fa anche buon sangue e non ti viene l’ansia d’accumulazione compulsiva di dobloni e poteri. Che se poi te ne stai buono e tranquillo, mi sa pure che non t’angosci, anche se, capisco benissimo, che se ti sei strafogato qualche milione fregando e frodando, il tutto di tutti, non t’avvedi di certo che non ti sei rubacchiato la collanina nuova di madama la marchesa, o il rolexino di mister Pippone, ma ti sei rubato l’equivalente d’una partita di chemioterapici, il buono mensa per qualche bambino della materna, la pulizia del parco giochi… E lo so che tu non te ne rendi conto, che la cosa il sonno non te lo toglie, che sei un tossico e pure dipendente, ma allora fatti curare, ma da uno bravo, se nel frattempo non gli hanno chiuso il reparto per mancanza di fondi, che quelli se li sono intascati i fenomeni come te.

L’abisso non è surrogato

«Dopo la mezzanotte il vento s’era messo a fare il diavolo, come se sul tetto ci fossero i gatti del paese, e a scuotere le imposte. Il mare si udiva muggire attorno ai fariglioni che pareva ci fossero riuniti i buoi della fiera di S. Alfio, e il giorno era apparso nero peggio dell’anima di Giuda. Insomma una brutta domenica di settembre, di quel settembre traditore che vi lascia andare un colpo di mare fra capo e collo, come una schioppettata fra i fichidindia. Le barche del villaggio erano
tirate sulla spiaggia, e bene ammarrate alle grosse pietre sotto il lavatoio; perciò i monelli si divertivano a vociare e fischiare quando si vedeva passare in lontananza qualche vela sbrindellata, in mezzo al vento e alla nebbia, che pareva ci avesse il diavolo in poppa; le donne invece si facevano la croce, quasi vedessero cogli occhi la povera gente che vi era dentro.» (I Malavoglia, Giovanni Verga)

E francamente a me di tutto questo gran ciarlare dell’uomo che s’è fatto tale a forma di miliardo su miliardo non me ne importa niente. Nemmeno mi viene da mettermi lì a cercare coerenze nel mondo dove non ce n’è, a partire da chi si fa i figli e come, che è importante metterne al mondo tanti e poi tanti, in una maniera o l’altra, che questo vale per taluno e per tali altri non ha senso. Ma guardo lontano, con occhi di dentro per distanza siderale, a casa mia, che poi si fece mare e tale rimase, ché lì, se ti muore qualcuno è, appunto, uno che ti muore in casa.

E ieri la tempesta e la bufera altri morti ne ha fatti, tutti figli di un dio che non pare avvedersi che una sponda non vale l’altra, che una riva non sempre pare riva, il porto salvo non è più appannaggio di chi lo chiese. E tanti si fecero a scavare abissi, che furono bambini, donne, uomini, tutta gente che anelava solo di respirare mentre buttava fuori l’ultimo gemito di disperazione, ad occhi sgranati. Taluno sopravvisse, che meritava una mano sulla spalla, un conforto che si deve a chi perde un caro congiunto, anche uno che non conosceva ma di cui incontrò sguardo di disperazione e fame d’aria negata. Ma quello che meritarono fu solo un’altra detenzione che grande fu quella pena di cercare la vita degna d’essere tale a vissuto quotidiano, senza razzi e candide vetture impomatate d’intelligenze artificiali. Tutti in carcere che quelle mura pure a due soldi soltanto, le abbiamo issate noi che adesso siamo colpevoli dell’aria negata e d’un abisso ch’è metafora del capitombolo d’Ulisse.

Scorreva piano

“Dalla creazione del mondo, la barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progresso. Nel corso dei secoli, l’abbiamo soltanto ricoperta con una mano di vernice, nient’altro.” (Jack London)

Pure vi fu scoperta clamorosa che quella mano di vernice non servì solo a ricoprire la rugginosa natura dell’uomo, la sua permanente decadenza allo stadio più degenerato, era pure tossica. Ché pare, l’uomo, l’unica creatura che anela al proprio stesso sterminio ed ogni animale, dalla più screanzata delle meduse che sbeffeggia il tutto d’intorno coi suoi tentacoli urticanti, sino all’elegante zebra, guarda quella strana creatura con sospetto in permanenza, quasi vi si legge nello sguardo desiderio salvifico che faccia in fretta a condurre a termine la sua opera innata, a sospiro di sollievo di resto del creato. Me ne sovvenne certezza di detta mia sensazione ad osservazione precisa del fiume che mi scorre ai piedi e che ora non vedo più, rigagnolo putrescente lì dove un tempo fece storia di memorie dantesche, sostentamento d’interi popoli. Oggi, a consultazione precisa di corrente sua in forma di sputacchio, non condurrebbe bottiglia con messaggio al mare mio adorato. Si rifiuterebbe per stanchezza di sostenere peso ulteriore, nemmeno, credo, mi concederebbe la promessa di provarci che m’ascrisse alla specie che lo prosciugò e ridusse a vena d’infinita stanchezza. A far quattro chiacchiere non credo basterebbe a far cambio d’idea, che par rassegnato a lambire civiltà morente, e se anelito di vita vi scorre dentro è pure ad esso quello di speranza d’estinzione di massa di suddetta specie di barbara essenza.

Oggi lessi con frastornata distrazione ultime notizie, tali che mi fecero venir voglia di farmi fiume secco pure io. A guerra non c’è scampo che se taluno vuole e propone pace è a venir d’orticaria che viola patto precostituito, e a corsa ad armo di bombarda tutti si fanno a chi primo arriva che non si dica che non partecipammo a destino glorioso d’estinzione di massa, quale dinosauri goffi di ubriacatura. Altro disgraziato a fascio morì d’annego che notizia non fu tale più, a giornalettume preoccupa che non si giunga a pace e che, dunque, s’intraveda scorcio per chiacchiera su banca che quella pure affoga per mio ostinato ed incomprensibile chissenefrega. C’è promessa di salvataggio per caveau che a farla breve si riempie di provento di bomba, per morir d’annego non si fece barriera di salvataggio che liberissimi si è a non partire per morir di fame o sotto colpo di cannone. E a secco di fiume risposi che a barchetta per navigazione paciosa sostituirò infradito che bastò a sostegno di corrente.

“Al largo, cielo e mare erano saldati senza una giuntura e nello spazio luminoso le vele conciate delle barche che salivano con la marea sembravano immobili fastelli rossi di tele appuntite tra luccicori di aste verniciate. Sulle rive basse che correvano piatte a perdersi nel mare si era posata una nebbia leggera.” (Joseph Conrad) Quella, la nebbia, si fece d’improvviso pesante come cintura di piombo.

L’artista

Tu vedi un blocco,
pensa all’immagine:
l’immagine è dentro
basta soltanto spogliarla.

(Michelangelo Buonarroti)

Conobbi e, c’è seria probabilità, conoscerò, artisti d’ogni fatta e luogo, geniali modellatori di materia, capaci di plasmare immagini, suoni, opere ed omissioni, a creare capolavori d’espressione elevatissima, talora concettualmente indecifrabili che non rinunciarono a profondità in luogo di comprensione. Ma è memoria mia, pure se ormai a scarsa frequentazione nella sua opera integra, che ve n’è uno che non seppe giungere secondo, e che quel tal secondo alle sue spalle, parve, ancorché illuminato, dover guardar lontano quel primo sopra tutti.

Me ne avvidi d’opera a tratto di costa a semi abbandono, ch’è di quelli ormai radi che per tutela antica non violata fecero divieto di soggiorno a chiasso inconsulto financo a giorno d’intorno a grande festa d’estate. Che è artista unico ed irripetibile, che trasporta opere ad esposizione millenaria, modella legno e roccia, rimuove rena e la lascia a dimensione altra, la spiana e l’accumula ad aiuto di vento.

Che non s’avvede che relitto è scarto, ma ne riarticola posizione e forma, ne liscia il contenuto intimo, lo scava e lo proietta a dimensione di bellezza autentica, lo staglia ad orizzonte che spettatore veda, a forma di contrasto di vertigine, perfezione di sua struttura imperfetta. Liscia semi, barcolla frammento, leviga giunco, infilza albero, smotta la pietra e il sasso rotola e si smussa, financo coccio di vetro diviene miracolo di gioielleria che mercante da dietro banco non s’approfitta che pare furto esporre opera raffinatissima di levigatura d’anno dopo anno. E io, ancora bimbo, ebbi facoltà di vedere musei su musei di detto artista, a costa strapiena, che distanza impediva asfaltatura di nobile esposizione e Bagno un tanto a chilo, peggio, a cottimo di servizio a plasticume dorato, non sostituì l’Expo universale di meraviglia autentica. A ruspa non era ancora concesso spazio, per lido di lindo fiammeggiante, che non v’era necessità di spazzare via tutto per fare spazio a grande cantante da ritmo ad osanna, con testi scritti a sapienza d’antica conoscenza di regola aulica di lingua e ricchezza di vocabolario, che solo con cotale sapienza, a sapere di tutto a poesia, si può evitare la stessa per concepimento di verso a regressione ad infante e mugugno gutturale, senza tema d’incontrarlo a scherzo di caso.

Okkio

E mentre tal ministro della Repubblica si fa scudo del non è colpa sua se ci sono sbarchi, assai poco, pare, che è a preoccupazione che taluno non sbarca. Che a tutta brava gente ch’apre pure sacrestie ad accoglimento a tanto al chilo di profugo DOCG, tramando novella, credo d’Africa che, a ligio a salute pubblica, prima di scriverla le feci tampone, pure mi assicurai che a leggerla non si prende vaiolo. Ve la dò pure con accompagno di musica.

“Era così piccolo, il topolino, che da quella feritoia sotto il battiscopa ci passava solo lui, manco quel forellino era visibile agli occhi della coppia di contadini che abitavano la casa. Era più piccolo pure degli altri topolini dei dintorni, era nato così, ma quello che pareva svantaggio fu fortuna sua che lo rese invisibile. Nella sua tana ci stava comodo comodo ed era felice. La mattina, quando i due umani uscivano di casa, lui veniva fuori di lì e raccattava le mollichine sotto il tavolo, che si faceva dei bei pranzetti. Qualche volta cascava anche qualche pezzo di buccia di cacio e per lui era festa grande. Se la portava nel suo rifugio e pure ci beveva sopra qualche goccia d’acqua che veniva giù da un tubo rugginoso. Stava bene ed era contento.

Pure si sentiva utile ché, a ripulire d’avanzi il pavimento, faceva che la casa non s’infestasse di formiche. Una sera, che s’era saziato, se ne stava in panciolle quando udì uno strano armeggiare da oltre il battiscopa. Da un forellino lì nei pressi puntò l’occhio a cercar di capire che succedeva. Il contadino stava mettendo su qualcosa di tremendo, una trappola proprio per lui. Non ne aveva mai vista una, ma la riconobbe facile, che gliela aveva descritta un tempo, ch’era ancora un sorcetto da nulla, un suo zio. Quello, lo zio, c’era incappato malamente e ci aveva rimesso la coda che non ebbe più equilibrio e camminava che pareva ubriaco. La notte la passò a tremare di paura, era terrorizzato che non sapeva che altro stessero preparando per dargli la caccia, nemmeno era convinto si fossero fermati alla trappola. La mattina, che ancora tremava e nemmeno aveva chiuso occhio, appena udì che i due se ne uscirono di casa, si precipitò fuori che non ebbe manco il coraggio di razzolare sotto il tavolo della cucina per far colazione. Giunto nell’aia, cominciò a squittire così forte che la gallina, il maiale e la mucca lo udirono e si precipitarono per capire cosa stesse succedendo. “Cosa c’è, sorcetto? – Disse la mucca – Cos’hai da urlare?”. Tremando, spaventato pure dall’idea di non riuscire a farsi capire, il topolino disse che aveva visto tirar su quella macchina infernale, la trappola. Ma la gallina gli fece pronta: “Io capisco che tu possa essere preoccupato, ma cosa c’entriamo noi? Non è mica per noi quella cosa?” E pure il maiale disse la sua: “Caro sorcio, mi dispiace veramente per te, ma, tutto sommato, non è un problema nostro”. Infine la mucca: “Eh, caro sorcio, il destino ci appartiene e come tale dobbiamo occuparci ciascuno del nostro. Comunque, ti auguro buona fortuna”. Ridendo e sghignazzando, i tre si allontanarono. Il topolino, adesso, oltre che terrorizzato, era pure mortificato, si sentiva umiliato, invisibile più di quanto la sua piccola statura ce l’avesse reso. Sfidando la sorte se ne tornò al suo buco, zampetta dopo zampetta, guardingo e tremante. Quella notte stessa, si sentì un gran frastuono provenire da oltre il battiscopa, un rumore tale da paralizzarlo. Ormai era certo che oltre quella barriera sottile si stava consumando qualcosa di orribile. Ma volle guardare ancora dal forellino spia. La trappola era scattata, ma su un serpente velenoso che, prima d’essere ucciso dal contadino, era riuscito a mordere la donna ch’era stramazzata al suolo tra le urla. Persino si dispiacque, il topolino, che alla fine la coppia l’aveva pure sfamato. Fu fortuna per la donna che i medici riuscirono ad intervenire rapidi e le salvarono la vita. Ma la convalescenza fu lunga e il contadino sapeva che la miglior medicina per un malato è un bel brodino caldo. Così ammazzò la gallina e lo preparò alla sua compagna. Non passarono che poche settimane che quella si rimise in piedi completamente guarita, e fu tanta la gioia che organizzarono una grande festa invitando tutto il vicinato. Con tutti quegli ospiti a festa, per la grazia ricevuta da Domineddio, non si poteva che ammazzare il maiale. Ma finiti i bagordi, giorno dopo giorno, i due sposi dovettero fare i conti con i debiti accumulati per pagar le cure, addivenendo all’unica conclusione che occorreva vender la mucca al macellaio. La povera bestia fu caricata su un carro, e quando giunse al mattatoio, vide tra le ultime sue lacrime, l’immensità della trappola per topi.”

Radio Pirata 13 (a me medesimo, a chi lo sa)

Oggi Radio Pirata va a numero 13, che siccome porta sfiga, me lo dedico a puntata per me medesimo e a chi s’accolla rischio, che non socializzo sventure se non per delega. Vi riciclo pure foto vecchie che ho ad esausto armamentario d’immagine, altro è in altra casa lontana, in questa ho grattato fondo d’hard disk. Pure di musica m’accenno a patria mia che è mondo intero, ma occhio strizzo a luogo di natali. E di subito mi parto a nota.

Ad ogni buon conto, mettetela come vi pare, uno che nasce su un’isola sta già viaggiando. Perché il mare, tutto intorno, fermo non ci sta, e si muove di correnti e flutti, in definitiva, viaggia conto terzi.

Perciò migranti si nasce, non ci diventi solo se ti devi mettere a camminare. Se hai mare davanti, per forza sei migrante, anche se non ti piace, perché qualcuno o un’onda, che s’è contrariata di vento o bufera, lì ti ci ha portato, pure prima che tu nascessi.

Nell’insularità è connaturata la pigrizia più atavica, quella persino trascendente, che si fa connotazione definitiva ed archetipo illustrativo di genti. E del resto che ti agiti a fare se sei proprio dentro il gorgo più gorgo, il tutto che si muove permanentemente? Fatica sprecata. Che mai fu tale per ascolto di musica.

Che poi anche tutta quell’acqua, pure salata, che ci pensi e ci ripensi, a che ti serve tutta quell’acqua salata? Di bere non si beve e ti tocca portarti un fiasco di vino rosso che è fatto con l’uva là dietro, che s’è innaffiata di salmastro, così sa di terra e pure di mare. Pare come certe canzoni, che sanno di tutto, pure tutto il contrario loro, che s’affermano di puntuale fremituccio sotto pelle

Che è obiettivo che te ne stai a mare a tempo sempre. Pure se la lastra di mare è così ferma che ti dà l’idea che qualunque cosa ci si possa lanciare sopra poi rimbalza. Ti sfiora l’idea che puoi metterti a camminare sulla sabbia per contare quante orme riesci a fare. Ti sfiora, appunto, prima che vedi dove puoi fermarti e che bastano solo pochi passi. Il tempo non c’è sul mare pure a tempo di musica.

Certe volte a mare ci stai solo a guardare le barche. Quelle piccole e malmesse sono libro di tante pagine, pochi versi intensi su ogni facciata, un quadro incorniciato di blu e del colore della rena, che si ravviva di cromatismi quando arriva il crepuscolo, piove o un’aurora si fa strada fra le nuvole a tempesta.

Sono quadri d’un pittore che s’è scordato di firmarli, di mettere in calce una data, un frammento di riconoscibilità, che pure le ha provate tutte prima di metterli in mostra. Poi s’è arreso, senza rendersi conto d’aver firmato un capolavoro con nome d’altro. Le guardi e ti torna in mente immantinente una musica.

E voi, viaggiatori persi che siete attraccati su quest’isola che non vuole guerra né lì né altrove, avete un messaggio da lasciare nella bottiglia? Io ve lo cambio a baratto di musica.

Ri-critica del regresso formale

Che è mentre – al primo giorno di lavoro di rientro da libagioni sconsiderate – m’avvedo della morte della scuola per desiderio ideologico inesausto, che m’imbatto in una gustosa citazione. Ma prima ci dò di musica d’accompagno.

Il quoziente d’intelligenza medio della popolazione mondiale, che dal dopoguerra agli anni ’90 era aumentato, nell’ultimo ventennio è invece in diminuzione…È l’inversione dell’effetto Flynn. Una delle cause potrebbe essere l’impoverimento del linguaggio. Diversi studi dimostrano infatti la diminuzione della conoscenza lessicale e l’impoverimento della lingua. La graduale scomparsa dei tempi verbali dà luogo a un pensiero quasi sempre al presente: incapace di proiezioni nel tempo. La semplificazione dei tutorial, la scomparsa delle maiuscole e della punteggiatura sono esempi di “colpi mortali” alla precisione e alla varietà dell’espressione. Meno parole e meno verbi coniugati implicano meno capacità di esprimere le emozioni/elaborare un pensiero. Gli studi hanno dimostrato come parte della violenza derivi direttamente dall’incapacità di descrivere le proprie emozioni attraverso le parole. Senza parole, non c’è ragionamento. Si sa che i regimi totalitari hanno sempre ostacolato il pensiero, attraverso una riduzione del numero e del senso delle parole. Se non esistono pensieri, non esistono pensieri critici. Facciamo parlare, leggere e scrivere i nostri figli, i nostri studenti. Anche se sembra complicato. Soprattutto se è complicato. Perché in questo sforzo c’è la libertà”. (Christophe Clavé) Pure mi ricordo che della cosa scrissi tempo addietro, e pure quello vi riciclo, che sono ecologista integrale.

“Quando addivenni ad assecondare l’idea di questo blog, m’ero, per così dire, lasciato irretire dall’idea d’uno spazio statutariamente ed esclusivamente diaristico, un esatto contraltare per cose assai più serie (meglio sarebbe, però, appellarle quali seriose) altrove ubicate, opera d’un me con nome e cognome e non di questo me “nessuno”. Questo l’intendimento primigenio nella creazione del refugium peccatorum. Capita, tuttavia, che ci si trovi utilmente stimolato ad altro, indotto a mischiare le carte. E così, l’amica cara che ti riporta l’irrequietezza per uno studio recente, t’accende la miccia. Per farla breve, dagli scienziati del Ragnar Frisch Centre for Economic Research, in Norvegia, giunge voce che lo slancio dell’Effetto Flynn, quello della crescita vertiginosa, sin dagli inizi del ‘900, del Q.I. mondiale, pronto ad incontrarsi con l’infinito, in realtà avrebbe raggiunto il suo picco già negli anni ’70, per poi iniziare un lento, inesorabile declino.

È vero che vi sono studi persino precedenti a quelli di Flynn, che ci raccontano dell’inadeguatezza del Q.I. poiché questo sarebbe in grado di misurare, e pure in modo assai poco efficace (presuppone elementi culturali di partenza con approcci estremamente astratti, appannaggio esclusivo di certi ambiti sociali, e non per castighi genetici) solo talune intelligenze, per intenderci, al più quella linguistica e quella logico-matematica. Ed invece, la teoria delle intelligenze multiple ne evidenzia almeno altre cinque: l’intelligenza spaziale, l’intelligenza interpersonale o sociale, l’intelligenza introspettiva, l’intelligenza cinestetica o procedurale, l’intelligenza musicale. Dunque, la consapevolezza dell’esistenza di approcci più complessi, in qualche modo, dovrebbe ridimensionare la portata degli studi norvegesi, rendendoli meno drammatici. E questo a primo acchito. Ma non me ne sono fatto così persuaso, giacché, accanto ad altre evidenze, paiono dimostrarsi qualcosa di più che una semplice teoria, la banale lettura di statistiche opinabili. Nel confrontarmi con la natura dura e cruda, ancorché asettica, dei dati, mi sovviene la ricerca più di casa nostra, ma sublime nella sua accezione più pura, condotta dal mai abbastanza compianto Tullio De Mauro, circa il progressivo impoverimento del linguaggio nei giovani. Nel 1976, De Mauro condusse uno studio sui vocaboli normalmente in uso degli studenti dei ginnasi italiani: erano, allora, circa 1600. Vent’anni dopo, nel 1996, si produsse in una nuova rilevazione da cui emerse che erano crollati a 6 o 700. Mi viene l’orrifico pensiero di quante parole abbiano oggi in uso. Mettendo insieme le due cose, anche per perfetta sovrapposizione temporale, e senza citare Wittgenstein o Heidegger – in generale mi producono eruzioni cutanee – mi pare evidente che la capacità di produrre un pensiero complesso, dipenda in buona parte dal linguaggio che lo sostiene, dunque dalla sua natura articolata. Meno il linguaggio è ricco, meno efficace sarà la sua capacità di rappresentare la complessità. In definitiva, ammettendo l’esistenza di “molte” intelligenze, ognuna di queste è funzione del linguaggio con cui viene elaborata e può esprimersi. Il linguaggio complesso libera la creatività, produce ricerca di bellezza oltre i confini predefiniti del prêt-à-porter, di fatto sviluppa le intelligenze. Viceversa, il suo impoverimento produce la delega ad altri del pensare. Si configurerebbe così una condizione in cui l’intelligenza non scompare in assoluto, ma si distribuirebbe in modo ineguale, diventando appannaggio di elité che alimentano la decadenza del pensiero articolato, sostenendo l’impoverimento del linguaggio in funzione di una sorta di monopolio che le porrebbe ai vertici indiscussi della piramide evolutiva. Agli altri, appollaiati sui gradini più bassi del monumento, non rimarrebbe che qualche frase sbiascicata, elaborata più con le viscere che dalla ragione. E questo sino ad una sorta di brontolio primordiale, a fonemi monosillabici e scomposti, con cui s’invoca il vertice divino perché soddisfi bisogni essenziali nemmeno del tutto consapevoli. Ammetto, seppure il mio è osservatorio ristretto, di realtà piccole e statisticamente irrilevanti, che, nel mio lavoro d’insegnante, della cosa mi pare d’essermi avveduto. Pure a partire dai libri di testo, ormai più ricchi di schemi semplificativi, mappe concettuali, immagini e patinature, piuttosto che di contenuti. E la scuola diviene valutatoio a crocette, prima ancora che luogo di formazione sociale, di esplorazione appassionata dei saperi per disvelare talenti, dunque, per liberare intelligenze. E chi insegna non è più tenuto ad insegnare bene, piuttosto obbligato a progettare, pianificare, relazionare ogni colpo di tosse, compilare tabelle in modo impeccabile, crocettare anche lui. Con l’obiettivo finale d’una pagellina, per ora limitata agli studenti, poi, per osmosi ideologica, trasferita ai docenti. Non ci ho mai creduto, ma mi rattrista che se prima ero in abbondante compagnia, in un rovescio d’AlliGalli, ora siamo in quattro, sparuti come i capelli che c’ho in testa.

Pure, per desiderio divergente, non so se avete notato – me lo evidenziava un amico che di musica se ne intende – come le lunghe suite in voga negli anni ’60 e ’70, complesse e musicalmente articolate, come pure con liriche estese e poetiche, siano state sostituite da canzoni brevissime di due o tre minuti al massimo, con quattro frasi ripetute allo sfinimento. Pare passato un millennio pieno da quando sul retro delle copertine dei King Crimson, leggevi Pete Sinfield, words and inspiration. E del resto, nei totalitarismi si bruciavano i libri, taluni si mettevano al bando, si impediva la scuola aperta e per tutti, si proclamava l’ordine rassicurante, il nemico d’orrende complessità, si invocava la sintesi, la logica del fare, dell’orario da rispettare, della disciplina. Insomma, s’ingrossavano le fila dei trogloditi alla base della piramide, persino li si rendevano felici con qualche vittima sacrificale, uno zingaro, un omosessuale, un nero o un ebreo, all’uopo un comunista. E così, con la vista oscurata dalla trave nell’occhio, non ci s’avvede che Zenone chiede la carità sotto un portico scrostato, che non gli hanno dato nemmeno il reddito di cittadinanza. Pure, nell’oggi, non è nemmeno necessario mettere su le arene per il sangue dei reziari, né v’è necessità di falò di libri, arti e bellezza; basta proclamarne l’inutilità, non apertamente che si rischia la sommossa, piuttosto sotto traccia, indurre in camera caritatis qualche intellettuale supponente, mentre ai campi di sterminio s’avvia ogni ipotesi di congiuntivo.

E se invece avesse avuto ragione Lamarck? Se quella cosa secondo cui le specie tenderebbero a preservare se stesse per volontà innata? Come le giraffe che si sarebbero allungate il collo per i germogli più teneri e dolci delle fronde più alte, e le gru le zampe per non sciuparsi il bel piumaggio? Se in funzione della conservazione della specie avessimo partorito la volontà di un bel repulisti di autosterminio di massa, relegando il cervello ad organo vestigiale per la gestione delle funzioni vegetative, sostituendolo per quelle più elevate con un più adeguato social?”

Recinti e paletti

Io due o tre paletti per i miei sistemi di relazione li metto. Mica me ne sto a tirar su muraglie alte e fitte, che un po’ di ecumenismo m’è rimasto. Nemmeno mi faccio o Savonarola o Torquemada, a seconda dei casi, mettendomi a fissare limiti comportamentali ai prossimi più prossimi. Un recintino alto il giusto, che da lì non si passa, ma basta avere le chiavi e c’entri facile, appunto, schivando quei due o tre paletti che misi all’uopo. Certo, se ti piace far cagnara, urlare e sbraitare, parlare di mala maniera, lì non c’entri. Se ti sollazzi di bum bum, di cucine molecolari, se sei astemio per convincimento ideologico, non è che ti tratto male, ma te ne fai una ragione a star dall’altra parte del labile confine. Se sei uno che si mette a saccheggiarti casa, dipende, se sei Fra Dulcino, ti dico dove ho messo i preziosi (questa mi viene facile che di preziosi non ne ho, se non taluni da frigorifero), per il resto portati pure quello che ti pare, foss’anche solo virtuale, che alle cose m’affeziono poco, e anche con le idee ho rapporti conflittuali. Ma se sei entrato a casa mia sei pure ben consapevole di quello che ci trovi, se no cosa ci sei venuto a fare?

Posto questo, il recintuccio, con tanto di paletti agli angoli, mi si è sempre mostrato trasparente, e di là di quell’invisibile barriera, talora, pure solo di sgambescio, qualcuno ti s’avvicina, per un istante o due, che più di tanto non gli è concesso, né credo vi ponga interesse particolare a starsene in quella specie di ghetto. È cosa che capita a chi vive sotto questo cielo, però, che non può negarsi l’affratellamento collettivo, non dico con tutte le 7 miliardi e più di creature umane che ci vivono, ma con una parte pur esigua di esse. Capita, dunque, che poi li leggi sul giornale, che hanno rubato a sette ganasce, che si sono spartiti posti e prebende, frodato e truffato, per carità, fino a prova contraria. E ti fa più specie quando la notizia riguarda proprio l’immediato d’intorno del confine coi paletti. Che rubare, l’ho detto, non è cosa gradita, ma anche lì dipende. Che poi, di primo acchito, mi verrebbe pure di fare i nomi, financo i cognomi, che tanto li hanno fatti pure i TG, con tanto di fototessera che pareva scattata da Lombroso in persona. Ma se li facessi punterei l’occhio sul caso, non sul fatto che del caso è assai più diffuso. Ch’è quello, il fatto intendo, la malattia. Che non si cura solo col carcere degli scemi del villaggio globale che sono incappati nelle tenaglie strette della giustizia (che ci vadano, senza passare dal via, si spera). Ma con una bella quantità di sedute psichiatriche collettive che spieghi al resto non ancora beccato – ed ho ragione di credere che sia resto assai cospicuo – che quella di passare pezzi consistenti della propria miserabile esistenza a cercare di capire come fregare il prossimo tuo (e non come te stesso) è malattia, che pure è patologia anelare il potere assoluto, che anche si fa sindrome grave il sottrarsi a starsene quieti, che ne so, a godersi una pensioncina bevendo un bicchiere con gli amici al bar, che ti fa anche buon sangue e non ti viene l’ansia d’accumulazione compulsiva di dobloni e poteri. Che se poi te ne stai buono e tranquillo, mi sa pure che non t’angosci, anche se, capisco benissimo, che se ti sei strafogato qualche milione fregando e frodando, il tutto di tutti, non t’avvedi di certo che non ti sei rubacchiato la collanina nuova di madama la marchesa, o il rolexino di mister Pippone, ma ti sei rubato l’equivalente d’una partita di chemioterapici, il buono mensa per qualche bambino della materna, la pulizia del parco giochi… E lo so che tu non te ne rendi conto, che la cosa il sonno non te lo toglie, che sei un tossico e pure dipendente, ma allora fatti curare, ma da uno bravo, se nel frattempo non gli hanno chiuso il reparto per mancanza di fondi, che quelli se li sono intascati i fenomeni come te.