La bellezza sepolta

La bellezza non è per tutti, pure se tutti dovrebbero pascersene, ma non è per tutti. E se l’arte t’attrezza ad arrivarci, manco l’arte è per tutti. Che v’è un mondo che ne è stato privato ex legis. Ci andate alle prime, voi? La percezione, quella che ti sta sotto la pelle come friccicorio pruriginoso, l’avevo già da un pezzo, le clausure (a)sociali tra quattro mura me ne hanno, al più, fatto il gentile omaggio della conferma, consegnato il responso diagnostico. Non è per tutti perché v’è stata, nel tempo, la consuetudine a nasconderla, la coazione a ripetere del celarla allo sguardo, che alla fine funziona. Poiché non interessa quello che non conosci, dunque, seppure la bellezza esiste, non è detto che tu la conosca. Nessuno t’obbliga ad accostarti a quello che non hai mai visto: della luna te ne viene meno la curiosità, se al suo posto t’hanno mostrato il pozzo dov’è caduta.

La bellezza è per i salotti buoni, li ce ne trovi un artefatto sintetico, quanto meno il passaporto (in)sanitario per farci un salto dentro, qualora te ne venisse voglia. Poi, mi pare, che lasciarne al salotto buono l’esclusiva sia una bella mossa per chi se l’è inventata. È così che rifanno le città, le riarticolano purché non si veda la bellezza intorno, nemmeno quella che c’è nelle loro viscere, nelle fondamenta. Sono prodotti ideologici, con cenni manifesti di patologie delicatissime, acute, gravi. Hanno solo vie d’uscita verso il consumo, vie di fuga murate, orizzonti occlusi. Le periferie di Suburbia sono anaidentitarie rispetto ad alfabeti evoluti d’umanità, coazioni a ripetere di costruzione di protoidentità subumane, cittadelle fortificate distese sul magma sconfitto della prospettiva creativa. Sono escrescenze ectoplasmiche che tendono a ricongiungersi, occupando i luoghi vitali che vi si inframezzano, procedendo con contaminazioni psicotiche di riqualificazioni architettoniche, per spazi capitalistici d’interdizione. L’architettura è l’alibi demiurgico per la creazione di un sistema sociale verticistico, che impone allontanamento ed esclusione. Produce l’atomizzazione dei sistemi di relazione e della comunicazione sociale. La frammentazione sociale rende il disagio non più collettivo, ma questione personale, esalta l’individuo anche nella sua condizione di malessere profondo, ne disvela le contraddizioni e le ambiguità come non patologiche, piuttosto banali effetti collaterali necessari. La percezione della propria malattia svanisce nella barbarie e nel rifiuto – per non accettazione, neppure conoscenza – delle forme più elementari d’articolazione del pensiero divergente dal dogma. La bellezza semplicemente non esiste più poiché non esiste più il progetto creativo, mentale, naturale, che la interpreta e la genera, pure a partire dalla sofferenza. Non esiste più poiché è forma relazionale pura e aggregativa.

Il salotto buono ne mantiene per sé brandelli funerari, esposti nel proprio spazio vitale. Si cinge del recinto protettivo dell’immensità periferica, e si nutre del totem dell’economia circolare, i cui rifiuti – che non esistono per dogma concepito da chi li produce, come nelle sacre scritture – si ammassano sotto i tappeti di Hyperpolis, provocando la mostruosa ed aberrante adesione postculturale al consumo felice e responsabile.

Il sistema è perfetto, non c’è complotto, non c’è regia, è il corpo che si autoinvolve in una direzione specifica, con le proprie staminali che rigenerano i tessuti cancellando la memoria di ciò che era. Risolve le sue patologie inglobandole, rendendole sistemiche, financo le trasforma in cura per la stessa malattia.

Ma scappa, talora, che qualcuno s’accorge d’essere malato, qualcuno che s’è fissato ch’esiste la bellezza, e se gliene precludi la vista se ne sta a cercarla in tondo, scansando il resto. Se non la trova, ma pure la cerca, si mette a frequentare il piccolo mondo antico di chi fa la stessa cosa, fa banda di pazzi con quello, si mette ad armeggiare con cose delicate, riannoda il cerchio spezzato, magari ne parla, rischia il contagio. E così s’avvede che il punto di vista è irrilevante. Ciò che è oggettivo non è opinabile, è soltanto tale e quale a se stesso. Scopre che il progetto circolare non ha solo una tangente, certo non solo in quel punto dov’è la prospettiva obliqua, angolare, bugiarda, il quid verso l’orbita scontata. Che quella è solo l’opinione diffusa, anche il punto d’accumulo orribilmente affollato. Solo l’ultima traccia dell’obbligo di tenere la destra o cosa volete che sia un po’ di coda al casello, al cestello, al carrello.

Roba da far gridare allo scandalo: in un momento come questo, mettersi a cercare la bellezza. Roba che nei salotti buoni sobbalzano, pure non hanno il vaccino, se quel male dilaga.

Il tempo sovvertito (Allonsanfàn parte ventesima: la ricerca di Antonella Giannone)

Antonella Giannone è artista che a dispetto della sua giovane età pare assai consapevole della sua ricerca espressiva. Le sue opere regalano la piacevolissima sensazione che i colori non siano stati semplicemente “depositati” – ancorché con tecnica raffinata – su un supporto, ma che invece si siano fatti spazio attraverso antiche sovrapposizioni, immagini d’infanzia, memorie vissute, tal altre raccontate. La bidimensionalità del piano svanisce in rilievi tattili, profondità materiche, presenti; immagini spariscono, riappaiono come un fiume carsico in forme e determinazioni nuove, quali concrezioni identitarie. Memoria e prospettiva convivono in un unicum narrativo fatto di dettagli sfumati, non semplici richiami nostalgici o cristallizzazioni del presente, nemmeno si accomodano in visioni taumatugiche o – com’è assai più consueto – spaventate del futuro, rappresentano nella loro complessità/unitarietà una precisa consapevolezza interiore.

Sono opere che non fermano l’istante, non lo rendono in narrazioni statiche, precise, permanenti, s’esprimono piuttosto come in una sequenza temporale dinamica. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le orme del tempo che si stratificano diacronicamente: così, la traccia più recente non cancella le precedenti, talvolta le opacizza soltanto, sempre e solo per un periodo effimero, salvo poi esaltarle in qualsiasi altro momento, in una qualsiasi altra rilettura. Lo stesso tempo gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori deposti al suo scorrere, ne mostra i precedenti nel gioco cromatico della sorpresa che l’opera di Antonella Giannone sa magnificamente disvelare.


La ricerca di Antonella Giannone pare prodursi dentro un percorso inesausto di esplorazione introspettiva, non smette mai di ripartire da qualcosa che, profittando di contributi esatti di memorie precise, di esperienze, si riappropria e ritiene i suoi colori. In questo è assai evidente come l’artista si sottragga agli stereotipi d’immaginari collettivi i cui sguardi distratti hanno reso la memoria in stinti grigi fastidiosi. Pure non partecipa ai formalismi consueti che in forma di presunte operazioni artistiche si fanno folklore. Al contrario crea l’effetto sublime e collaterale della messa a fuoco d’un Io che è fatto di memorie irrinunciabili, invisibili per chi è vittima inconsapevole del gioco d’inganno del tempo, per chi ha scelto la disillusione dell’accelerarsi quale pratica quotidiana, per chi si limita alla loro versione rutilante e mercantile prêt-à-porter. Le atmosfere trasognate e soffuse sono richiamo a più attente esplorazioni, a ricerca mai esausta d’un cammino in cui il tempo interiore pare esprimersi in modo obliquo, non consueto, si fa cornice precisa di tutto e dell’esatto suo contrario, l’apparente nulla delle nebbie, dentro cui v’è l’esplosione d’ogni colore conosciuto.


Antonella Giannone vive e lavora a Modica dove ha iniziato i suoi studi artistici al Liceo Artistico Tommaso Campailla. Consegue il diploma accademico di II livello in pittura nel 2016, presso l’Accademia di Belle Arti di Catania. Mantiene costanti, la ricerca, lo studio e l’attività pittorica, partecipando a mostre collettive e personali. Si occupa di didattica dell’Arte, utilizzata per la sua valenza educativa e sociale, nella conduzione di laboratori artistici attivati sia nelle scuole che al Dipartimento di Salute Mentale. Negli ultimi anni ha insegnato presso l’Accademia di Belle Arti “Mediterranea” di Ragusa.

Dialettica della follia, in mostra a Modica Alta

In mostra a Modica Alta nella Chiesa dei SS. Nicolò ed Erasmo, a cura dell’Associazione Immagina (inaugurazione il 4 gennaio alle 18,30), Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe, quindi anche, stesso orario ma il 14 gennaio allo spazio A/telier (“Visioni loco(e)motive”).

Non è cosa semplice, mai, far dialogare artisti diversi, ma capita che, al di là di manifeste distanze stilistiche, essi possano esprimere insospettabili convergenze. Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe sono, a primo acchito, talmente lontani da non immaginare come le loro opere possano prodursi in un comune percorso narrativo.

Pare abbiano in comune al massimo taluni cenni biografici: sono entrambi siciliani, intanto, e questo non è dato che si possa trascurare, pure se l’uno, Monteleone, nella classicissima categorizzazione degli isolani dello storico direttore dell’Ora Nisticò, è siciliano di scoglio, tenacemente abbarbicato alla sua terra, in un bilico costante che oscilla tra Modica e Palazzo Adriano. L’altro, Poddighe, palermitano di nascita, è più siciliano di mare, ché non si fece scrupolo a lasciare che fossero soltanto furibonde nostalgie e brevissime incursioni a garantirgli il legame con l’isola. Entrambi si sono formati nel mondo delle accademie, quella di Firenze per Monteleone, Poddighe ha invece frequentato Roma. I trascorsi di studio attento sono evidentissimi in perizie tecniche raffinate, evolute in decenni di pratica. Hanno insegnato discipline pittoriche nei licei artistici prima di farsi pensionati praticamente in simultanea.
Dal punto di vista stilistico sono praticamente antipodici. Monteleone appare scanzonato, i suoi soggetti sono ombre che si muovono su tappeti di colore, non è tipo che s’arrende alle cupezza del tutto d’intorno. È, dunque, pittore resistente, già dai tempi in cui non ci s’avvedeva che c’era di che farsi partigiano, piuttosto s’anelava assuefazione. Nel suo atelier-abitazione, un vecchio magazzino riattato all’uopo, si respira storia, si legge sulle pareti un lunghissimo percorso artistico. Si sente il vociare felicemente scomposto dei suoi allievi, cui cerca ancora di tirar fuori estri creativi oltre il tempo scuola. Perché la sua non era la scuola d’un paradigma aristotelico, piuttosto Stoa, caparbia voglia di scoprire i talenti nelle dita e negli occhi dei suoi ragazzi.

Come faceva il Maestro Manzi quando insegnava a leggere e scrivere a milioni di italiani, lui smantella sovrastrutture per liberare la creazione d’un linguaggio nuovo, non soggetto ai valutatoi prescrittivi del contemporaneo. I suoi lavori aderiscono alla ricerca incessante della bellezza attraverso un tratto apparentemente ingenuo, mossa efficace e spiazzante contro la sproporzione delle forze in campo. Corvi e Vele e il giallo (“ch’è colore bastardo”), il suo Don Chisciotte, le sette palme che danzano, i treni a vapore oscillano tra nostalgie e gioco autentico. Ignazio, che è figlio di ferroviere, come lo furono Quasimodo e Vittorini dalle stesse parti, sa cosa c’è da aspettarsi ad ogni stazione, ad ogni fermata, i fazzoletti levati al cielo, umidi di lacrime e colorati di rossetti, fasci di palme stesi ad asciugare per una domenica di festa. La sua opera è preziosa poiché non si limita ad esporsi, invita al convivio, come le sue mostre, dove è quinta condivisa di pomodori e caci, olive, uova sode e pani caldi, manco a dirlo, vini pista e ammutta che incendiano le budella col gusto della terra bruciata dal sole. Le note di Schifano ci sono tutte, inseguite dai suoi studi fiorentini, messaggi di avanguardie isolane ed approdi per ogni continente. Colori precisi e tratti sfumati, contorni nitidi e ombre fuggenti, nel tutto che si disincrosta dell’eccesso sino a renderci l’essenza del pensiero più autentico, sono la sintesi dell’oggetto che amplifica la nostalgia per le forme esatte. Quadri che fanno suoni, melodie di motori sbuffanti, scalpiccio di zoccoli e fruscii di piume, ma pure odori forti, commenti soffusi. risa giuste. Il suo lavoro di anni, le sue opere, sono barricate altissime che provano a reggere a difesa degli ultimi presidi d’umanità.
I lavori di Poddighe, invece, hanno più l’apparenza di desolata contemplazione del tramonto dell’uomo, sono la rappresentazione esatta della disumanizzante mercificazione dei suoi sogni. I desideri umani perdono completamente il carattere di processo decisionale autonomo, sono eterodiretti, rappresentano adesione incondizionata ed acritica ad un unico modello prescrittivo. L’uomo stesso appare come entità devitalizzata, relegata alla parzialità dell’essere, dunque, incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo svuotamento. Con l’avvento del capitalismo, l’uomo cede dapprima una quota parte del suo tempo al lavoro alienato, allo sfruttamento, al giogo produttivo, poi rinuncia a ciò che resta del suo vissuto per destinarlo al consumo, quindi, esaurito pure quel tempo, diviene esso stesso merce. E l’uomo-merce è ridotto a mera immagine, si autoriproduce in forme standardizzate e seriali, non ritiene alcuna identità, è solo un piccolo ingranaggio della gigantesca macchina della massificazione produttiva. Il suo è un richiamo alla società dello spettacolo che annichilisce i singoli, li relega a monomeri costitutivi d’un tutto conforme in cui essere e apparire coincidono. I selfie in sequenza compulsiva dei social ne paiono la rappresentazione più eloquente. Eppure, in ogni passaggio, anche il più crudo della sua produzione artistica, Poddighe non rinuncia mai all’ironia, non smette di prendere in giro i tempi grami delle sue rappresentazioni, gioca persino con questi come con se stesso. Riesce ad alleggerire il carico pesante della frustrazione. Definisce persino una via di fuga dal contingente, per altri aspetti disegna una prospettiva politica, poiché recupera il senso etimologicamente più puro del termine, quello che deriva dalla Polis greca, sottinteso di impegno e partecipazione. Egli partecipa, infatti, lo fa con competenza da intellettuale, poiché si interroga sui processi. Anche se nelle sue opere permane la percezione di un fatalismo quasi disperato, è proprio quella sottile ironia, quel saper raffigurare con linguaggio schietto l’esistente, che ha insito il superamento dell’alienazione.


Da un punto di vista tecnico spinge al limite il rapporto tra produzione digitale e pittura classica, attraversa in modo personalissimo i segni d’un surrealismo operativo e concreto, in cui il dettaglio non è orpello estetico, diviene, piuttosto, elemento narrativo che manifesta il complexus delle relazioni uomo-oggetto, ne eviscera la perversione.
I due si interrogano sulla follia, lo fanno con consapevolezza piena, superando i paradigmi consueti. Metterli a confronto non è impresa così temeraria, giacché la loro narrazione, mentre si concentra su differenti punti d’osservazione, costruisce un mosaico esatto in cui ogni tessera è un’opera, ciascuna complemento d’un’altra. Si confrontano col significato di follia a partire dal suo presunto opposto, la percezione della “norma”, della “moda”. Monteleone usa, per questo, l’archetipo illustrativo del pazzo, la sua accezione più pura, persino letteraria, scovata nelle parole di Cervantes. I suoi Don Chisciotte appaiono sfumati ed indefiniti, ombre e basta, con lo sfondo di profondità senza tempo, senza spazio. Ombre e basta, perché questa è nell’immaginario collettivo la pazzia, solo l’ombra cui non volgere lo sguardo. È deviazione standard da comportamenti normali, quelli che tengono i più, che accettano codifiche, quali che siano consegne e conseguenze. Il pazzo, il dago, il reietto, il miserabile, meglio non guardarlo, non vederlo, lasciarlo nell’oscurità d’una improbabile indeterminatezza, con lo sfondo colorato e rutilante della “moda” (concetto statistico.matematico, come da definizione “la moda (o norma) di una distribuzione di frequenza X è la modalità (o la classe di modalità) caratterizzata dalla massima frequenza. In altre parole, è il valore che compare più frequentemente). Eppure quella divergenza dal normale esprime bagagli smarriti d’umanità che parole ed immagini riarticolano in pensieri complessi, perché la grammatica della follia è apertura d’orizzonte, ricerca d’utopie, di sogni realizzati. Don Chisciotte partecipa ai destini umani, alla sua immanente schiavitù dell’apparire, alla sua privazione della libertà d’essere, è, in definitiva, l’uomo compiuto.

A quella schiavitù rivolge lo sguardo Poddighe, I suoi sono soggetti perfetti, esteticamente collocati nel cliché della normalità. Soggetti privi di pensiero divergente, dunque incapaci di concepirne uno critico e complesso oltre quello dello stereotipo. Non accettano d’inserirsi nella dialettica sociale in forme conflittuali e partecipative, sono corpi prêt-à-porter, adesioni perfette a modelli preconfezionati, la fantasia al potere è abolita. Ma l’adesione al cash & carry del quotidiano ha necessità di vittime sacrificali, non accetta gratuità, pretende amputazioni d’umanità, metaforicamente rese negli smembramenti dei corpi.
La dialettica della follia si compone nel dialogo tra i due punti di vista, ne rende efficace la narrazione, va oltre la “norma”, si fa strada nel dubbio. La concezione atavica del “pazzo” si estende, finisce col riguardare il visionario, quello che supera la cortina di fumo dell’apparenza. I due, dunque, propongono una versione alternativa della narrazione consueta, e il “pazzo”, a costo d’essere “espulso” dalla conformità, non rinuncia alla completezza dell’essere umano poiché nella sua natura c’è lo sguardo verso l’oltre, non s’arrende all’ovvio. Rinunciare alla visione altra, produce la follia non dichiarata della convenzione, denuncia d’omologazione sino al definitivo annullamento del singolo, derubricato a numero, ad oggetto.


Oltre la natura umana l’oggetto per Monteleone diventa esperienza trasognata, le sue locomotive ad esempio, prendono vita da segni essenziali, un ritorno ad una dimensione fanciullesca. L’artista guarda i suoi treni come un mondo perduto, li interpreta con divertita nostalgia. Poddighe, invece, studia l’evoluzione dell’uomo al cospetto di quegli oggetti, il processo di progressivo compenetrarsi reciproco, il primo che diviene macchina, ingranaggio asettico e disanimato, il secondo che acquista centralità, che appare dominante.


Dialogo a distanza tra due concezioni diverse dell’arte, convergenti sui temi dirimenti dell’oggi, materiale e tangibile, èare occasione concreta per un andar oltre.

Il salotto buono

La bellezza non è per tutti, pure se tutti dovrebbero pascersene, ma non è per tutti. E se l’arte t’attrezza ad arrivarci, manco l’arte è per tutti. Che v’è un mondo che ne è stato privato ex legis. Ci andate alle prime, voi? La percezione, quella che ti sta sotto la pelle come friccicorio pruriginoso, l’avevo già da un pezzo, le clausure (a)sociali tra quattro mura me ne hanno, al più, fatto il gentile omaggio della conferma, consegnato il responso diagnostico. Non è per tutti perché v’è stata, nel tempo, la consuetudine a nasconderla, la coazione a ripetere del celarla allo sguardo, che alla fine funziona. Poiché non interessa quello che non conosci, dunque, seppure la bellezza esiste, non è detto che tu la conosca. Nessuno t’obbliga ad accostarti a quello che non hai mai visto: della luna te ne viene meno la curiosità, se al suo posto t’hanno mostrato il pozzo dov’è caduta.

La bellezza è per i salotti buoni, li ce ne trovi un artefatto sintetico, quanto meno il passaporto (in)sanitario per farci un salto dentro, qualora te ne venisse voglia. Poi, mi pare, che lasciarne al salotto buono l’esclusiva sia una bella mossa per chi se l’è inventata. È così che rifanno le città, le riarticolano purché non si veda la bellezza intorno, nemmeno quella che c’è nelle loro viscere, nelle fondamenta. Sono prodotti ideologici, con cenni manifesti di patologie delicatissime, acute, gravi. Hanno solo vie d’uscita verso il consumo, vie di fuga murate, orizzonti occlusi. Le periferie di Suburbia sono anaidentitarie rispetto ad alfabeti evoluti d’umanità, coazioni a ripetere di costruzione di protoidentità subumane, cittadelle fortificate distese sul magma sconfitto della prospettiva creativa. Sono escrescenze ectoplasmiche che tendono a ricongiungersi, occupando i luoghi vitali che vi si inframezzano, procedendo con contaminazioni psicotiche di riqualificazioni architettoniche, per spazi capitalistici d’interdizione. L’architettura è l’alibi demiurgico per la creazione di un sistema sociale verticistico, che impone allontanamento ed esclusione. Produce l’atomizzazione dei sistemi di relazione e della comunicazione sociale. La frammentazione sociale rende il disagio non più collettivo, ma questione personale, esalta l’individuo anche nella sua condizione di malessere profondo, ne disvela le contraddizioni e le ambiguità come non patologiche, piuttosto banali effetti collaterali necessari. La percezione della propria malattia svanisce nella barbarie e nel rifiuto – per non accettazione, neppure conoscenza – delle forme più elementari d’articolazione del pensiero divergente dal dogma. La bellezza semplicemente non esiste più poiché non esiste più il progetto creativo, mentale, naturale, che la interpreta e la genera, pure a partire dalla sofferenza. Non esiste più poiché è forma relazionale pura e aggregativa.

Il salotto buono ne mantiene per sé brandelli funerari, esposti nel proprio spazio vitale. Si cinge del recinto protettivo dell’immensità periferica, e si nutre del totem dell’economia circolare, i cui rifiuti – che non esistono per dogma concepito da chi li produce, come nelle sacre scritture – si ammassano sotto i tappeti di Hyperpolis, provocando la mostruosa ed aberrante adesione postculturale al consumo felice e responsabile.

Il sistema è perfetto, non c’è complotto, non c’è regia, è il corpo che si autoinvolve in una direzione specifica, con le proprie staminali che rigenerano i tessuti cancellando la memoria di ciò che era. Risolve le sue patologie inglobandole, rendendole sistemiche, financo le trasforma in cura per la stessa malattia.

Ma scappa, talora, che qualcuno s’accorge d’essere malato, qualcuno che s’è fissato ch’esiste la bellezza, e se gliene precludi la vista se ne sta a cercarla in tondo, scansando il resto. Se non la trova, ma pure la cerca, si mette a frequentare il piccolo mondo antico di chi fa la stessa cosa, fa banda di pazzi con quello, si mette ad armeggiare con cose delicate, riannoda il cerchio spezzato, magari ne parla, rischia il contagio. E così s’avvede che il punto di vista è irrilevante. Ciò che è oggettivo non è opinabile, è soltanto tale e quale a se stesso. Scopre che il progetto circolare non ha solo una tangente, certo non solo in quel punto dov’è la prospettiva obliqua, angolare, bugiarda, il quid verso l’orbita scontata. Che quella è solo l’opinione diffusa, anche il punto d’accumulo orribilmente affollato. Solo l’ultima traccia dell’obbligo di tenere la destra o cosa volete che sia un po’ di coda al casello, al cestello, al carrello.

Roba da far gridare allo scandalo: in un momento come questo, mettersi a cercare la bellezza. Roba che nei salotti buoni sobbalzano, pure non hanno il vaccino, se quel male dilaga.

Dialettica della follia (Allonsanfàn parte diciassettesima: confronti, Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe)

Non è cosa semplice, mai, far dialogare artisti diversi, ma capita che, al di là di manifeste distanze stilistiche, essi possano esprimere insospettabili convergenze. Ignazio Monteleone e Sergio Poddighe sono, a primo acchito, talmente lontani da non immaginare come le loro opere possano prodursi in un comune percorso narrativo.

Pare abbiano in comune al massimo taluni cenni biografici: sono entrambi siciliani, intanto, e questo non è dato che si possa trascurare, pure se l’uno, Monteleone, nella classicissima categorizzazione degli isolani dello storico direttore dell’Ora Nisticò, è siciliano di scoglio, tenacemente abbarbicato alla sua terra, in un bilico costante che oscilla tra Modica e Palazzo Adriano. L’altro, Poddighe, palermitano di nascita, è più siciliano di mare, ché non si fece scrupolo a lasciare che fossero soltanto furibonde nostalgie e brevissime incursioni a garantirgli il legame con l’isola. Entrambi si sono formati nel mondo delle accademie, quella di Firenze per Monteleone, Poddighe ha invece frequentato Roma. I trascorsi di studio attento sono evidentissimi in perizie tecniche raffinate, evolute in decenni di pratica. Hanno insegnato discipline pittoriche nei licei artistici prima di farsi pensionati praticamente in simultanea.
Dal punto di vista stilistico sono praticamente antipodici. Monteleone appare scanzonato, i suoi soggetti sono ombre che si muovono su tappeti di colore, non è tipo che s’arrende alle cupezza del tutto d’intorno. È, dunque, pittore resistente, già dai tempi in cui non ci s’avvedeva che c’era di che farsi partigiano, piuttosto s’anelava assuefazione. Nel suo atelier-abitazione, un vecchio magazzino riattato all’uopo, si respira storia, si legge sulle pareti un lunghissimo percorso artistico. Si sente il vociare felicemente scomposto dei suoi allievi, cui cerca ancora di tirar fuori estri creativi oltre il tempo scuola. Perché la sua non era la scuola d’un paradigma aristotelico, piuttosto Stoa, caparbia voglia di scoprire i talenti nelle dita e negli occhi dei suoi ragazzi.

Come faceva il Maestro Manzi quando insegnava a leggere e scrivere a milioni di italiani, lui smantella sovrastrutture per liberare la creazione d’un linguaggio nuovo, non soggetto ai valutatoi prescrittivi del contemporaneo. I suoi lavori aderiscono alla ricerca incessante della bellezza attraverso un tratto apparentemente ingenuo, mossa efficace e spiazzante contro la sproporzione delle forze in campo. Corvi e Vele e il giallo (“ch’è colore bastardo”), il suo Don Chisciotte, le sette palme che danzano, i treni a vapore oscillano tra nostalgie e gioco autentico. Ignazio, che è figlio di ferroviere, come lo furono Quasimodo e Vittorini dalle stesse parti, sa cosa c’è da aspettarsi ad ogni stazione, ad ogni fermata, i fazzoletti levati al cielo, umidi di lacrime e colorati di rossetti, fasci di palme stesi ad asciugare per una domenica di festa. La sua opera è preziosa poiché non si limita ad esporsi, invita al convivio, come le sue mostre, dove è quinta condivisa di pomodori e caci, olive, uova sode e pani caldi, manco a dirlo, vini pista e ammutta che incendiano le budella col gusto della terra bruciata dal sole. Le note di Schifano ci sono tutte, inseguite dai suoi studi fiorentini, messaggi di avanguardie isolane ed approdi per ogni continente. Colori precisi e tratti sfumati, contorni nitidi e ombre fuggenti, nel tutto che si disincrosta dell’eccesso sino a renderci l’essenza del pensiero più autentico, sono la sintesi dell’oggetto che amplifica la nostalgia per le forme esatte. Quadri che fanno suoni, melodie di motori sbuffanti, scalpiccio di zoccoli e fruscii di piume, ma pure odori forti, commenti soffusi. risa giuste. Il suo lavoro di anni, le sue opere, sono barricate altissime che provano a reggere a difesa degli ultimi presidi d’umanità.
I lavori di Poddighe, invece, hanno più l’apparenza di desolata contemplazione del tramonto dell’uomo, sono la rappresentazione esatta della disumanizzante mercificazione dei suoi sogni. I desideri umani perdono completamente il carattere di processo decisionale autonomo, sono eterodiretti, rappresentano adesione incondizionata ed acritica ad un unico modello prescrittivo. L’uomo stesso appare come entità devitalizzata, relegata alla parzialità dell’essere, dunque, incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo svuotamento. Con l’avvento del capitalismo, l’uomo cede dapprima una quota parte del suo tempo al lavoro alienato, allo sfruttamento, al giogo produttivo, poi rinuncia a ciò che resta del suo vissuto per destinarlo al consumo, quindi, esaurito pure quel tempo, diviene esso stesso merce. E l’uomo-merce è ridotto a mera immagine, si autoriproduce in forme standardizzate e seriali, non ritiene alcuna identità, è solo un piccolo ingranaggio della gigantesca macchina della massificazione produttiva. Il suo è un richiamo alla società dello spettacolo che annichilisce i singoli, li relega a monomeri costitutivi d’un tutto conforme in cui essere e apparire coincidono. I selfie in sequenza compulsiva dei social ne paiono la rappresentazione più eloquente. Eppure, in ogni passaggio, anche il più crudo della sua produzione artistica, Poddighe non rinuncia mai all’ironia, non smette di prendere in giro i tempi grami delle sue rappresentazioni, gioca persino con questi come con se stesso. Riesce ad alleggerire il carico pesante della frustrazione. Definisce persino una via di fuga dal contingente, per altri aspetti disegna una prospettiva politica, poiché recupera il senso etimologicamente più puro del termine, quello che deriva dalla Polis greca, sottinteso di impegno e partecipazione. Egli partecipa, infatti, lo fa con competenza da intellettuale, poiché si interroga sui processi. Anche se nelle sue opere permane la percezione di un fatalismo quasi disperato, è proprio quella sottile ironia, quel saper raffigurare con linguaggio schietto l’esistente, che ha insito il superamento dell’alienazione.


Da un punto di vista tecnico spinge al limite il rapporto tra produzione digitale e pittura classica, attraversa in modo personalissimo i segni d’un surrealismo operativo e concreto, in cui il dettaglio non è orpello estetico, diviene, piuttosto, elemento narrativo che manifesta il complexus delle relazioni uomo-oggetto, ne eviscera la perversione.
I due si interrogano sulla follia, lo fanno con consapevolezza piena, superando i paradigmi consueti. Metterli a confronto non è impresa così temeraria, giacché la loro narrazione, mentre si concentra su differenti punti d’osservazione, costruisce un mosaico esatto in cui ogni tessera è un’opera, ciascuna complemento d’un’altra. Si confrontano col significato di follia a partire dal suo presunto opposto, la percezione della “norma”, della “moda”. Monteleone usa, per questo, l’archetipo illustrativo del pazzo, la sua accezione più pura, persino letteraria, scovata nelle parole di Cervantes. I suoi Don Chisciotte appaiono sfumati ed indefiniti, ombre e basta, con lo sfondo di profondità senza tempo, senza spazio. Ombre e basta, perché questa è nell’immaginario collettivo la pazzia, solo l’ombra cui non volgere lo sguardo. È deviazione standard da comportamenti normali, quelli che tengono i più, che accettano codifiche, quali che siano consegne e conseguenze. Il pazzo, il dago, il reietto, il miserabile, meglio non guardarlo, non vederlo, lasciarlo nell’oscurità d’una improbabile indeterminatezza, con lo sfondo colorato e rutilante della “moda” (concetto statistico.matematico, come da definizione “la moda (o norma) di una distribuzione di frequenza X è la modalità (o la classe di modalità) caratterizzata dalla massima frequenza. In altre parole, è il valore che compare più frequentemente). Eppure quella divergenza dal normale esprime bagagli smarriti d’umanità che parole ed immagini riarticolano in pensieri complessi, perché la grammatica della follia è apertura d’orizzonte, ricerca d’utopie, di sogni realizzati. Don Chisciotte partecipa ai destini umani, alla sua immanente schiavitù dell’apparire, alla sua privazione della libertà d’essere, è, in definitiva, l’uomo compiuto.

A quella schiavitù rivolge lo sguardo Poddighe, I suoi sono soggetti perfetti, esteticamente collocati nel cliché della normalità. Soggetti privi di pensiero divergente, dunque incapaci di concepirne uno critico e complesso oltre quello dello stereotipo. Non accettano d’inserirsi nella dialettica sociale in forme conflittuali e partecipative, sono corpi prêt-à-porter, adesioni perfette a modelli preconfezionati, la fantasia al potere è abolita. Ma l’adesione al cash & carry del quotidiano ha necessità di vittime sacrificali, non accetta gratuità, pretende amputazioni d’umanità, metaforicamente rese negli smembramenti dei corpi.
La dialettica della follia si compone nel dialogo tra i due punti di vista, ne rende efficace la narrazione, va oltre la “norma”, si fa strada nel dubbio. La concezione atavica del “pazzo” si estende, finisce col riguardare il visionario, quello che supera la cortina di fumo dell’apparenza. I due, dunque, propongono una versione alternativa della narrazione consueta, e il “pazzo”, a costo d’essere “espulso” dalla conformità, non rinuncia alla completezza dell’essere umano poiché nella sua natura c’è lo sguardo verso l’oltre, non s’arrende all’ovvio. Rinunciare alla visione altra, produce la follia non dichiarata della convenzione, denuncia d’omologazione sino al definitivo annullamento del singolo, derubricato a numero, ad oggetto.


Oltre la natura umana l’oggetto per Monteleone diventa esperienza trasognata, le sue locomotive ad esempio, prendono vita da segni essenziali, un ritorno ad una dimensione fanciullesca. L’artista guarda i suoi treni come un mondo perduto, li interpreta con divertita nostalgia. Poddighe, invece, studia l’evoluzione dell’uomo al cospetto di quegli oggetti, il processo di progressivo compenetrarsi reciproco, il primo che diviene macchina, ingranaggio asettico e disanimato, il secondo che acquista centralità, che appare dominante.


Questo dialogo a distanza tra due concezioni diverse dell’arte, convergenti nei temi dirimenti dell’oggi, diverrà materiale e tangibile in mostra a Modica, già agli inizi del prossimo anno, a cura dei ragazzi di Immagina (“Dialettica della follia”) e dello spazio A/telier (“Visioni loco(e)motive”). Sarà occasione concreta per un andar oltre.

In Contemporanea, in estemporanea

È ottima idea quella di istituire la Giornata del Contemporaneo da parte dell’AMACI (Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani), soprattutto in evidenza dello stato di cose nel mondo dell’arte in questo paese. Le prospettive non sembrano essere più rosee per il futuro, dunque, battere un colpo non è cosa di trascurabile rilevanza. Far bilanci sullo stato dell’arte contemporanea in Italia sarebbe comunque arduo, l’ambito pare sempre più relegato ad una nicchia estremamente specializzata, dentro cui l’artista tende progressivamente a perdere centralità a favore d’altri soggetti. L’arte non dialoga con altro se non con se stessa e, di più, a costruire tale dialogo non sono più nemmeno i soggetti che vi sono deputati, soppiantati nella propria capacità decisionale da regole altre, eterodirette, mercantili, d’appartenenza quasi religiosa a scuderie di critiche e curatele. I luoghi dell’arte paiono cittadelle fortificate, che si concedono per liberalità del principe ad apparenza di libera fruizione, purché non se ne rimetta in discussione l’edificazione, il funzionamento della macchina.

L’A/telier di Modica Alta (se ne parla ancora qui), crea una rottura paradigmatica rispetto all’esistente, perché non compete con le grandi istituzioni culturali dell’arte contemporanea, non costruisce l’evento dirompente ed archetipico, sposta il confronto in una dimensione altra, non convenzionale, estemporanea, crea il non luogo dell’arte per tornare all’arte attraverso una sua narrazione altra.

La sua adesione, insieme agli artisti di MATT’Officina (di loro, del loro spazio, se ne parla qui), alla giornata dell’8 Ottobre rivede la logica del taglio del nastro, la fascia istituzionale, la fanfara. Sostituisce la liturgia del consueto con la pratica all’interno d’un contesto spiazzante, il quartiere, la strada, il centro storico che si spopola, che non riesce a farsi spazio in angoli di cartolina, dentro la contraddizione delle città che ridisegnano il proprio skyline di modernità, rimuovono la dialettica sociale, i sistemi di relazione. La città convenzionale che ospita il “contemporaneo”, è quella che si è palesata: “Lo spazio urbano assembrato diventa fantasma della sua crescita indiscriminata, sempre più privato, sempre meno pubblico, sociale, definitivamente distanziato, come nei giochi d’ossimori si compete, tanto più è affollato. Il reale, trasformato in immagine spettacolare, è quinta scenografica d’una rappresentazione farsa, in cui le mura cingono d’assedio gli assedianti, non più le mura di Campanella dov’è la storia della scienza, il progetto educativo condiviso dei destini magici e progressivi dell’uomo. Le mura s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, sovvertendo l’ordine mentale costituito, quello che cerca l’orizzonte libero e di vertigine dello sguardo dell’animale in gabbia. Dunque, l’animale in gabbia, alla catena, ha qualcosa di più umano dell’umanità stessa, poiché invoca per sé lo spazio aperto, rifugge dal pericolo mortale dell’assalto all’unisono alla stessa preda. Le immagini degli eloquenti muri della città ideale di Platone, sono ora grate elettrificate e luminescenti, gli orrori della merce che trabocca dalla caricatura d’una cornucopia di svendite morali e materiali. Pure l’effimero artistico, in quanto concetto, sparisce nelle celle delle fiumane umane, diventa superfluo necessario, vocazione definitiva alla barbarie annichilente. Le architetture/prigioni delle periferie commerciali, e di dormitori, pure quelle di centri storici mercatizzati, non sono innocenti oggetti devitalizzati, ma espressione urlante del potere sociale che reclama le sue vittime. E se l’agnello o l’orrendo porco, s’avvedono del loro imminente sacrificio all’altare della tavola imbandita, con lacrima ed urlo straziante, il residuo umano vi s’immola con fanciullesca indifferenza. La progressione verso la forma estrema del mercato, il narcisismo individualista, ha soppiantato persino le oscene gerarchie dei rapporti di produzione convenzionali.

Ed il consumo diventa religione di stato, di sovrastato, religione della religione. Solo il lavoro rende liberi in quanto apre la via alla speranza redentiva del consumo, del consumo d’una merce, purché sia, pure solo nella sua percezione virtuale e fuggente. Le città assaltate hanno perso ormai persino quel flebile richiamo al modernismo, financo superato le creazioni monolitiche della dittatura ceauseschiana, le volontà di Marinetti di deviare canali per affogare la vetusta Venezia, o Le Corbusier che anelava l’autostrada che spaccasse in due Parigi. Gli spazi vitali non esistono se non nel sentire, ormai folle, di chi deraglia dalla “normalità” di chi è persona e non gente. La follia è solo di quei pochi che s’avvedono della malattia come dolorosa e furente.” Dunque, si prova a far altro, con apparente follia. Con la quinta aperta dell’esposizione di Pamela Vindigni e Unica (qui), gli artisti associati di MATT’Officina, Pamela Vindigni, Grazia Ferlanti, Marco Terroni Grifola, Giuseppe Kastano, Wildart, Luca Del Guercio, sulla strada, in via Pizzo, a Modica Alta, produrranno arte, in estemporanea, dialogando tra loro, con chi interviene, con chi è solo di passaggio, col contesto, riesumando fantasie sepolte, condivisioni che parevano perdute per sempre.

La fanfara sarà la chitarra di Stefano Meli (qui), capace di rifilare staffilate metalliche e polverose alle traiettorie desuete del convenzionale, far vibrare note d’esplorazione di spazi aperti sulla vertigine di imprevedibili infiniti. Quegli infiniti che l’arte “giusta” preserva per sé e per chi ha occhi giusti a guardare, certe qualità dell’anima che non s’attestano sulle posizioni di banali obbedienze.

Il prezzo giusto

… oggi nessuno si scandalizza, la società ha trovato dei modi per annullare il potenziale provocatorio di un’opera d’arte, adottando nei suoi confronti il piacere consumista.” (André Breton)

Sergio Poddighe è un amico, di lui, delle sue cose avevo già parlato qui, pure qui. Abbiamo fatto cose insieme, abbiamo riscoperto le nostre siculitudini, siciliani di mare aperto, con la valigia per un altrove, quel desiderio struggente di tornare, roba impertinente che si fa viva come un fenomeno carsico. Ma abbiamo pure giocato, anche coi nostri nomi, ch’io prestai voce ed armonica sgangherata a questa cosa qui di sotto che ha disegni immaginifici suoi.

Mi ha mandato un suo scritto, pubblicato su un suo social.

Sergio Poddighe, nel suo studio

Me l’ha mandato per e-mail, che io sono poco social. ve lo ripropongo ché mi piacque parecchio: “Se da un lato le visite ai musei ci mostrano un persistente interesse per l’arte, dall’altro assistiamo ad una fortissima resistenza a renderla propria. L’acquisto di un quadro, nella mente dei più, rimane prerogativa dei ricchi, magari ignoranti, ma capaci di investire. Tutti gli altri guardano all’opera d’arte come ad un oggetto inaccessibile. A mio parere, la colpa di questa impasse la si deve anche agli artisti: il valore in denaro che danno alla propria opera è quasi sempre esagerato. Con l’equazione “più lo prezzo, più lo carico di valore”, l’artista visivo ha trasformato il suo prodotto in un bene di lusso, rendendone più difficile sia l’acquisizione che la circolazione. Personalmente, se una persona di medio reddito viene nel mio studio desideroso di acquistare un quadro, cerco di fargli un prezzo ragionevole. Non si tratta di sminuire il valore dell’opera, ma di applicare due principi: onorare l’interesse verso il lavoro; rendere il manufatto artistico un oggetto accessibile. Ho gestito per un anno e mezzo una piccola galleria (esponevo solo opere altrui) e una frase ricorrente era: “questo quadro mi piace molto, ma non ho il coraggio di chiedere quanto costa… so già che non è alla mia portata”. Un pittore non dovrebbe tentare di vendere un quadro ad un prezzo che egli stesso non potrebbe permettersi. Un’inversione di tendenza aiuterebbe la crescita di tutti, accorciando la distanza tra chi ama l’arte e chi la produce.” (Sergio Poddighe)

Posto che sono d’accordo con quanto scrive Sergio, che ciò potrebbe apparire non autentica sorpresa – le persone si frequentano se c’è idem sentire, almeno da qualche parte -, mi va di aggiungere qualcosa, quale nota a margine d’una ricerca imperfetta, che è compito statutario di queste pagine mie. A premessa ricordo che certe avanguardie che fecero storia dell’arte furono più avvezze a frequentazioni di bettole che non di salotti buoni, pure m’è dato a sapere che espressioni elevatissime d’arte trassero ispirazione da privazione e non dal lusso. Tante esperienze di straordinaria bellezza sono finite in dimenticatoi cupi perché non si confrontarono mai in modo efficace con regole, non di bellezza e talento, ma di economie asfittiche e grigie. Oggi, l’artista che non fa scelta diversa da ricerche di prebenda, di curatele un tanto al chilo a prezzo d’oreficeria, di critico ad esaltazione per alzo quotazione, che non si fece sussieguoso ed accondiscendente con fatto di mercato e potente di turno, rimase invisibile. E mi preme dire a Sergio, ch’egli, che è artista di talento limpido, come altri (pochi, invero) par suo, e che fece scelta diversa, non avrà palcoscenico degno, sarà, come l’arte sua, confinata a poco, che c’è il mondo del valore di scambio che non consente che l’arte giunga a chiunque; lo spazio adeguato a che venga resa nota gli verrà precluso, verrà sottratto a lui, ma anche a tutti quelli che ne avrebbero tratto certo giovamento. Aggiungo, l’artista non è soggetto neutro, egli viaggia per il mondo, ne ha, in qualche modo, consapevolezza: dunque, se ritiene che la sua sia arte da grande prezzo pratica una scelta ideologica e nulla più. Egli aspira a vetrina e grande compenso per una ragione sola, perché egli ha, istintivamente, a prova provata di suo agire, un’idea altrettanto ideologica della società. Egli ama la gerarchia sociale, ama il doblone quale criterio di valutazione degli uomini, non è interessato a che la sua arte giunga al più ampio pubblico possibile, che dia un contributo critico alla lettura del mondo, sia di godimento a tanti. Egli aspira alle folle solo se fatte di pubblico pagante, al più in forma di claque al momento del suo ultimo vernissage. Sarà artista costui? Forse si, ma la bellezza è un’altra cosa, non è roba esclusiva. Per quanto mi riguarda questi rimarranno solo mercanti, che vendono la propria arte non perché è bella, ma perché vale un gonfio conto in banca.

Ancora sino all’ultima osteria

Puntuale come il tristo mietitore, tutti gli anni da qualcuno a questa parte, m’arriva la telefonata, che ormai si sa che fra qualche settimana sono operativo in terra d’origine. Che è telefonata d’angoscia autentica, ad aggiungersi a caldo d’asfissio, agli esami non finiscono mai. Ma poiché ne parlai già, e che la storia si ripete spesso uguale a se stessa, non ve ne riparlo quale fatto nuovo, mi limito a riciclo di ciò che già ebbi a raccontare in illo tempore. Al più vi dò musica d’aggiunta.

“Ho ricordi vividi della mia gioventù, almeno in parte. Della fine del liceo si, della pletora di progetti che m’affollavano i neuroni, come in un raccordo autostradale. Arrivai alla maturità con qualche anticipo, che allora s’usava di saltare la prima classe delle elementari, e poiché ero proscritto alla leva in Marina (per quella si partiva prima e ci si stava di più), la famigerata cartolina azzurra me l’aspettavo da un momento all’altro, tanto più che m’ero assuefatto all’idea di togliermi il dente, subito subito, e senza manco sfruttare l’università per dilazionare i tempi. Ammetto ch’ero dilaniato tra il desiderio d’una fuga disertoria e romanzesca verso un paese esotico dove si combatteva ancora qualche guerriglia rivoluzionaria, e la possibilità di sfoggiare la bella divisa bianca da ufficiale e gentiluomo al gran ballo delle debuttanti. Nonostante l’adesione convinta alla prima ipotesi, finii per optare per la seconda, che già allora l’idea di cose troppo complicate non mi sconfinferava. Il desiderio d’avventure epiche richiede, per potersi avverare, fatiche sovrumane cui già allora non ero aduso. Insomma, di quello mi ricordo, d’altri accadimenti pure, di quelli tra i banchi, con annessi compagni di viaggio, invece, nada de nada. Qualche nome non troppo abbinato ad un volto, talora un cognome di sfuggita. Ma le mie superiori mi sono passate dentro senza lasciare segno alcuno, quasi con stanchezza, senza un guizzo.

Per cui, quando il solito vecchio compagno che invece tiene ben vivido l’archivio di quegli istanti di vita vissuta – per me – inutili, periodicamente s’appresta a farsi promotore della famigerata “rimpatriata”, a me mi becca l’orticaria. Che poi a dire non ci vengo mi pare pure che faccio lo snob, che me la tiro. Qualche anno fa c’è stata la prima puntata. Mi rintracciarono tramite un cugino, che non sapevano nemmeno se fossi ancora vivo o morto. Non dissi di no e andai, con la mestizia nel cor. Che m’immaginavo adipi strabordanti, canuzie e calvizie, fallimenti esistenziali e professionali cui mi sarei imbattuto con – parziale – dolore e che riguardavano persone di cui non avevo più alcuna memoria. Ma quando mai. Pareva d’essere a Dallas. Tutti belli e ricchi, eleganti e giovanilissimi, che io, come al solito strascicavo ciabattando, pure per il caldo afoso sul promontorio, e non mi sarei sorpreso mi lasciassero una cinquemila lire avanzate da una pizza tra liceali, così, per pietà. Mi tolsi di torno appena possibile. Non senza un qualche interrogativo. Come avevano fatto? Semplice arrivò la risposta. S’erano arrabattati per tutta una vita per diventare così, avevano speso anni e anni per assomigliarsi tutti, frequentando gli stessi circoli non s’erano mai persi di vista, le stesse università prestigiose, le stesse vacanze. Per dirla tutta, s’erano fotocopiati, parevano frutto d’un vecchio Gestetner a manovella. S’erano dati obiettivi, scavando una tacca sul tronco d’una palma come certi naufraghi disperati, ogni volta che ne raggiungevano uno. Una vita così, non un guizzo, uno sghiribizzo, un colpo di testa. Tutto pianificato, nessuna sorpresa. Questo pure dai loro soddisfatti racconti. Ho capito, dunque, perché non me ne ricordavo uno che fosse uno. Loro sono l’orgoglio del paese, le creature che con il loro impegno incessante tengono alto il PIL, nostro signore e padrone – nemmeno con letterarie braghe bianche -. Ecco perché, ieri sera, la telefonata d’invito è arrivata senza avere risposta. Le mie noie me le scelgo accuratamente. Non ho mai fatto, se non per brevi e nemmeno troppo intensi periodi, quello per cui ho studiato – quello me lo porto semplicemente dentro, e non mi dispiace -; ho imparato a leggere e scrivere nelle bettole più scalcagnate del pianeta, mi sono rimasti nei ricordi d’un tempo pescatori e falegnami, artisti dimenticati, meravigliosi attori di strada, giocolieri e puttane, che certe altre rimpatriate parrebbero più ultime cene o corti dei miracoli. Ne ho fatti colpi di testa, strambate e virate, cambi di prospettiva e giri di vita per diventare finalmente Nessuno. Però mi sono divertito, che non m’annoio mai più di tanto, anche quando mi trastullo nel nulla più assoluto davanti ad un pezzo di mare all’alba o in un vicolo deserto al tramonto sino a notte fonda, né m’è parso talora di patire di ciò. Pure di fotocopie me ne sono fatte poche. Sono azzardo per il paese, che il PIL lo abbasso. Mantengo però vivide le economie dei luoghi dove ho imparato tutto, le ultime osterie in cima alle più ripide scalinate, quelle ai margini del porto, dove si perdono le luci delle lampare e dove c’è sempre un fiasco di vino e – lì si – una storia da raccontare o da ascoltare, poi, eventualmente, anche da scrivere e leggere.”

Immagina (Allonsanfàn parte nona: la scuola oltre la scuola)

È cominciato tutto come progetto di Giornalismo Televisivo per bambine e bambini, ragazze e ragazzi, come ce ne sono molti in giro per lo Stivale, a cura di associazioni culturali, centri di aggregazione, parrocchie, scuole, tanti da riempire pagine gialle. Ma è subito evidente che quell’esperienza è anche altro.

Rispetto a certi laboratori scolastici non si è consumata la liturgia della compilazione delle tabelle, per tempi destinati, risorse, e poi l’approvazione, lo sgranarsi asettico di abilità, conoscenze, competenze, obiettivi, finalità, l’analisi delle ricadute, gli strumenti di valutazione. La cosa ha preso un’altra piega, a partire dalla oggettiva originalità dell’esperienza, la qualità di ciò che veniva prodotto. L’amministrazione comunale di Modica concede a quelle bambine e bambini, a quelle ragazze e ragazzi, uno spazio proprio dove continuare ad incontrarsi, una vecchia chiesa abbandonata nel quartiere di Modica Alta.

La ripuliscono, recuperano altari, cantoria, pulpito e sacrestia, la trasformano in luogo d’aggregazione, mettono su una biblioteca (incredibilmente cartacea) ma, soprattutto, quelle bambine e bambini, ragazze e ragazzi, 50 in tutto, d’età compresa tra i 7 ed i 17 anni, si organizzano, cominciano a ribaltare il paradigma che li relega a passivi recettori delle progettazioni di adulti, scelgono invece loro cosa fare. Iniziano un’interlocuzione serrata con le istituzioni, con le scuole, con associazioni ed enti culturali, programmano percorsi, promuovono eventi, si integrano nel territorio, ne divengono soggetti attivi, attori protagonisti della sua valorizzazione, disvelano identità culturali, ne trovano la sintesi con i nuovi strumenti espressivi. Il quartiere, quella parte di centro storico che s’allontana dai fasti da cartolina della Modica più in basso, quella che si istoria del barocco patrimonio dell’umanità, li accoglie, li riconosce. Quando occupano il piccolo slargo dinnanzi alla chiesa per il biomercato non se ne lagna nessuno, “ci organizziamo” dicono, anche se quel budello si restringe in altre curve e quei pochi posti d’auto disponibili fanno comodo, che il resto del quartiere è vicoli, scale, strade strette, difficile percorrerlo a quattro ruote, impossibile parcheggiarvi. Nell’estate del 2021 progettano e realizzano Le Vie dell’Immaginario, un percorso esattamente per quelle strade quasi dimenticate che non s’avvedono della mondanità donata dai passaggi di Montalbano. Trasformano piccole chiese, cortili, frammenti di archeologia incastonati tra i vicoli silenziosi in luoghi per esporre opere di artisti che celebrano i cento anni dalla nascita di Federico Fellini, i suoi film. In chiesa si ricostruiscono, con grande attenzione per i dettagli, scene significative dei film del regista di Otto e Mezzo. In tutto ci vanno quattromila persone. In cantiere c’è Le Vie dell’Immaginario per il 2022, dedicato ad Alice nel Paese delle Meraviglie. Quest’anno il gruppo si formalizza nell’associazione Immagina, un nome che evoca volontà di prodursi in un’idea, in una visione, dentro cui si consolida una matrice etica, non come prospettiva astratta, piuttosto come abito da lavoro. L’associazione ha una struttura politica, nel senso che recupera il significato etimologicamente più puro e profondo del termine, da quel concetto dimenticato della Polis greca, consolida i legami attraverso un rapporto orizzontale e democratico, si confronta e costruisce comunità, sistemi di relazioni. La capacità di strutturare percorsi culturali e, in definitiva, la loro realizzazione, prescinde da una visione “scolastica” dell’associazionismo, nemmeno appare mai autocelebrativa. Dei processi di formazione sociale recupera, invece, d’istinto, per osmosi, i paradigmi propri delle esperienze pedagogiche più innovative, il dialogo, la relazione tra pari. Offre un’opzione di sperimentazione civile di notevolissimo interesse, un punto di riferimento da cui attingere informazioni, proposte, modalità operative anche per la scuola. In questo senso si prefigura, anche per l’età di chi fa parte di Immagina, come una sorta di scuola oltre la scuola, dove il libro di testo s’accompagna alla pratica costruttiva del concepimento d’un nuovo vocabolario, d’una nuova grammatica della condivisione e della relazione sistemica. Lo sguardo ed il punto di vista di queste ragazze, di questi ragazzi, non si ferma al vissuto quotidiano del proprio territorio, si interroga sulle dinamiche sociali, sulle grandi questioni, con un approccio ragionato. Bellissimo, in questo senso, il video “Grammatica di pace”, per la qualità della realizzazione, la profondità del testo, immaginifico manifesto d’autentica, appassionata, sentita opposizione alla guerra. Il prodotto finale della loro azione quotidiana è libero da condizionamenti, è frutto di creazione dal basso, condivisa, non è giudicabile con pagelline o inutili pletore di indicatori che il mondo degli adulti pretende quale sterile quantificatore della formazione degli adolescenti, financo per misurarne la maturazione della personalità. I legacci burocratici della scuola appaiono d’improvviso inutili al cospetto di energie liberate: nessuno lì resta indietro, s’avverte la precisa prospettiva che ciascuno può dare qualcosa al collettivo, ricavarne molto di più in cambio, e questi ragazzi ne sono consapevoli. Si muovono dentro questo ruolo con naturalezza sorprendente, quasi a significare che v’è, in una generazione ritenuta da più parti inadeguata – l’alibi perfetto per burocrati indistinti per ingabbiarla ulteriormente dentro strutture piramidali -, un enorme potenziale relazionale inespresso. Potenziale che si libera, produce risultati imprevedibili e spiazzanti, che nulla hanno da invidiare qualitativamente alle produzioni cosiddette mature. Immagina è laboratorio sociale, culturale, politico in senso lato, dimostra sperimentalmente quanto sia dirimente ed indispensabile allontanare dai percorsi formativi le derive burocratiche, gli artefatti della valutazione, del giudizio, mostra, in definitiva, l’urgenza di ripensare radicalmente le prospettive educative e pedagogiche, gli spazi aggregativi dentro e fuori la scuola. Poiché sicuramente esiste una peculiarità della scuola delle conoscenze, dei saperi disciplinari, che necessita di più cospicui interventi in risorse umane, economiche e strutturali, non si può, al contempo, non pensare ad una scuola anche delle competenze relazionali, della critica, delle pratiche democratiche, dell’immaginario e della fantasia, nemmeno si può continuare a concepirla senza tempi ampi, ingolfandola nel burocraticismo di progettazioni verticistiche, sradicate da contesti e peculiarità umane e sociali, in definitiva dai talenti.

Immagina

La biennale (Allonsanfàn parte ottava: ancora su Sergio Poddighe)

Che v’è traccia di biennio grigio, fra poco s’avrà d’accadimento che giornale su giornale, TV su TV, come Torre di Babele, pure ogni social e a-social, proferiranno memorie a ricordo di tutto ebbe inizio, di quando l’umanità scivolò in incubo d’assurdo. Io mi porto avanti, che non celebro, ma m’attrezzo di musica.

M’è dato – immagino come ai più – di pensare al mancante di questi due annucci belli, trascorsi in ambascia da atomica, per pensiero a ciò che non c’è, che, a dir pur il vero, non è tanto pure se è troppo. Che mi manca farmi il lavoro mio dabbene, e non di rincorsa ad ansia, a crocettare moduli espansi a logaritmo, e di tanto chieder conto a francobolli a monitor o facce a vincolo di maschera, espressioni irrisolte, antologia di parte mancante. Manco di movimento a bellezza, di libro condiviso tra libri, di mostra orchestrata a chiacchiera d’autore, di concertino a base ritmica di whisckettino, la solitudine in chiave di Sol a contrappunto d’improvvisazione. Trattengo lacrime, che m’impigrisce d’usarne per l’arte che muore. che al biennio mi faccio mia personalissima biennale, mi ricordo d’artisti, e, con aggiornamento appena a plausibile, mi riprendo in mano cosa vecchia eppur giovane.

E chi lo può sapere quando finisce, che fior fiore d’esperti s’arrabattano come alchimisti di medio evo, a non buttar giù le porcellane buone, a non turbare suscettibilità di tribunali d’inquisizione social, che quelli maneggiano punizioni e torture peggio di certi tenutari di scantinati d’antichi castellacci e di anticamere di forche papaline. A dirla, che fui pescatore, si naviga a vista. Posto questo, che mi pare di buon senso, quasi chiacchiera da bar, forse pure peggio, ci sarà poi da rifar casse pubbliche a fondo grattato, che chi pagherà sa già dell’oro alla patria. Poi, ciascuno, fa i conti con le proprie vittime. E chi sceglie di campare d’arte, che già era cosa assai complicata a tempi di vacche grasse, ora, con bovini a stecchetto, s’attende di attraversare il deserto. Che se compro un quadro bello – quello mi permetto, non di più – spendo quanto un paio di telefonini, ma il quadro, ch’è anticamera d’inferno, se non lo brucio a camino a tempi ancor più di magra, mi dura, l’altro me lo danno a scadenza. Se compro un libro, e metti caso mi viene pure schiribizzo a lettura, rubo tempo, ore e giorni, a rischio che mi spunta lo spiritello critico, m’arricchisco di prospettive e non di cash & carry. Tolgo tempo ad altro a scadenza, a fila alla cassa. Se mi vedo una mostra o spettacolo di teatro, non solo tolgo tempo a cose che hanno più apPIL, ma poi me ne vengo fuori con strane idee, forse anche solo con idee. M’arrischio di possessione, che, fatta salva la “nobile” eccezione, cultura non è missione a gratificazione d’anima, o magari roba a camparci a dignità, è cosa d’affari, di prebende, familismi. Mi posso, che ne so, per suadente lusinga di cliente, considerare che sono attore memorabile, fotografatore (da notare il neologismo, contraltare d’accezione corretta) ispirato, dipingitore (anche qui, mi supero in politically correct, che potevo dire imbrattatele, ma sono persona dabbene) sublime, scrittore arguto e raffinato, e pure, a somma fortuna che s’accompagna ad ego smisurato, essere cugino del sindaco, cognato dell’assessora, nipote del plurimilionario fabbricatore, che pensa ch’è meglio mi dedichi all’arte, dovesse saltarmi lo sghiribizzo di metter bocca negli affari di famiglia. Questi, che di prebende fecero virtute, la crisi non la patiranno, e si vedranno garantiti posti e fortune, notorietà imperitura. Che se poi, con umile portamento, gli chiedi di condividere almeno spazi e non denari, ti guardano come fossi il lazzaro senza speranza di resurrezione, che c’è pericolo di contagio (ma quale contagio?), ti rigirano il no, sotto forma di c’è chi può e chi no: ed io può, che da quelle parti troppa cultura bene non fa.

Allora, a me, che di talento non dispongo, ma che, per disponibilità e temperamento, nell’arte (che costa assai meno d’altro a scadenza) trovo soddisfacimento per certe pulsioni elementari, mi viene in mente la pletora degli altri, che non li manda Picone e che non hanno facce le cui sembianze sono assimilabili ad altre zone anatomiche. Ecco, tra questi ce ne sono di bravi, di talento portentoso, che hanno studiato, ma non diritto di cittadinanza, per carattere e ritrosia. Talvolta, – assai spesso, invero -non hanno santi in paradiso che li illuminano d’incenso. E allora io voglio fare una cosa, cosa da poco, roba che vale quel che vale, che certe volte conta il pensiero. Io questo ho, il blog, e glielo apro, li presento, li ospito come fosse casa loro, anzi, è casa loro. Che importa in quanti leggeranno, che sarà comunque uno in più.

E allora comincio subito con uno che trovo veramente bravo, perché me lo ritrovo magicamente tra il surrealismo di Breton, le copertine delle Mothers of Invention, pure tra amici cari: Sergio Poddighe.

I lavori di Poddighe sono la rappresentazione del contesto dei desideri umani e dell’uomo stesso come soggetti effimeri, metafora della parzialità dell’essere. L’uomo, dunque, è entità incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Riempie i propri vuoti creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo allontanamento dalla concreta condizione umana. Proprio sulla condizione umana le opere suggeriscono una riflessione profonda, una riflessione ed un’analisi che possono essere affrontate da più punti di vista, poiché l’accettazione della complessità, quindi delle diverse angolazioni dell’osservazione è l’unico strumento attraverso cui è possibile costruire una prospettiva di ricomposizione dell’essere umano, a partire dalla constatazione della propria progressiva mutilazione.

Sergio Poddighe è nato a Palermo nel 1955. Si è diplomato al Liceo Artistico della sua città e in seguito presso l’Accademia di Belle Arti di Roma (corso di pittura). Ha insegnato Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico Statale, dal 1990 risiede ed opera ad Arezzo. Si è interessato agli aspetti simbolici e psicologici del segno grafico (per questo ha frequentato per un anno l’Istituto di Studi Grafologici di Urbino), come delle espressioni legate al mondo dell’illustrazione, del fumetto e della pubblicità. Ha prestato la sua opera per l’esecuzione di decorazioni, copertine di libri, manifesti legati a spettacoli ed eventi culturali. La sua ricerca pittorica si snoda attraverso percorsi espressivi diversi: dalla grafica, alla sintesi tra manipolazione digitale e pittura propriamente detta. Ha all’attivo numerose personali e partecipazioni a rassegne d’arte contemporanea in Italia e in Europa (Francia, Germania, Belgio, Svizzera, Austria, Romania, Croazia). Ha esposto in rassegne d’arte contemporanee in Usa (New York City, Houston, San Diego, Los Angeles), e al padiglione italiano di Art Basel Miami (edizione 2010); con i reduci di questa rassegna ha partecipato, in seguito, a “ Venti artisti internazionali a Palazzo Borromeo” , Milano. In Florida, inoltre, presso la contea di Walton, ha allestito due personali. Sue opere fanno parte d’innumerevoli collezioni private e pubbliche.

https://www.sergiopoddighe.it/