Esilio a non precisa dichiarazione

“Oh, la bellezza di una coppiera che allunga
le dita con la sposa del vino, cinta di collane di schiuma!
Ti ha dissetato con un vino puro, fatto veramente
d’uva, splendido qual sole che sorga
d’un tratto sulla sua sfera vermiglia.
Ah, come si risveglia in seno a colei
i cui canti fugano gli affanni!
Diventa il corpo — grazie al suo benefico
agire — come pervaso di dolci aliti di piacere,
e la mano della coppiera sembra quasi parlare
fascinose parole, e trar suoni
da incantevoli cetre…”
(Ibn Hamdis)

“Di Salvatore Quasimodo nella cui poesia il tema dell’esilio (l’esilio che generazioni di siciliani, per sfuggire alla povertà dell’isola, hanno sofferto e soffrono) si lega amaro e dolente, ma splendido nella memoria dei luoghi perduti, a quello del poeta arabo Ibn Hamdis, siciliano di Noto. E questa può anche essere una chiave per capire la Sicilia: che alla distanza di più di otto secoli un poeta di lingua araba e un poeta di lingua italiana hanno cantato la loro pena d’esilio con gli stessi accenti: “vuote le mani, – dice Ibn Hamdis, – ma pieni gli occhi del ricordo di lei”. (Leonardo Sciascia)

Perché Ibn Hamdis, poeta che pare immenso, era arabo e pure siciliano. Dunque si fece i conti con la ferocia liberatoria di Ruggero, allorché il suo “stupido” sultanato non venne a conflitto con altro prossimo. Che i due contendenti attenti assai a disegnar bellezze, si scordarono d’armare adeguati giannizzeri. S’affidarono, dunque, a tal Ruggero ed ai suoi civilissimi mangiatori di carne cruda a bivacco da qualche parte peninsulare. Quelli, risolta la tenzone, pensarono bene di prendersi tutto facendosi liberatori. Tralascio, più per evitar lungaggini, d’affermare che cristiani ed ebrei vivacchiavano discretamente da quelle parti senza necessità di liberazioni non troppo richieste. Il poeta e tanti altri fecero a combattimento per difesa di patria, ma poi furono a caccio per esilio permanente. Il prode Ruggero, a spada ammorbata di vittima, si fece a stupore per tanta bellezza conquistata che si conciò che pareva sultano converso facendosi pure far scomunica papale. Ad esclusione di parentesi illuminata di Stupor Mundi, saraceno fu vietato ed ebreo s’obbligò a marrano, ad esilio, oppure oggetto di polvere alla polvere.
Ma bellicosa armata di liberazione si portò dietro certa mitologia che rimase a fatto di cosa sicula come enormità di spettacolo, l’Opra de’ Pupi. E che miti i pupari, a muovere pupi a ritmo perfetto e sincronia immaginifica, a rotear spade a colpo ferire. Di quelle precisissime figure, autentiche opere d’arte (e chiedo venia che non ve ne fornisco foto che non ne trovai qui ed ora), si facevano voce narrante di fatti a canovaccio mai scritto a precisione, campioni d’improvvisazione con timbri attoriali a concorrere con immensi protagonisti di teatri di prosa. Pure io, bimbo, di tanto in tanto m’attrezzavo a tal spettacolo con entusiasmo da prima alla Scala e cosa di festa autentica.
Ci fu fatto che avvenne in una fine estate, con coloritura di pubblico pagante e plaudente a virar verso il bruno fitto, causa esposizione solare d’estate senza crema antibrucio. Ad apparizione sua, il prode Orlando, con tanto di rutilante commento narrante, sguainò la Durlindana e si mise a mozzar teste di saraceni con precisione chirurgica d’abilissimo signore del tiro fili. Ma avvenne cosa mai vista né sentita che pubblico bimbo insorse. E sarà stato perché il vil turco, tinto all’uopo di bruno, pareva ora lo zio, ora papà, ancora nonno di questo o quell’altro, anche ce n’era taluno con faccia più lucida di creatura a somiglianza precisissima d’amico del cuore. Abile puparo comprese l’antifona e a nuovo sguainar di Durlindana, il prode Orlando perse la testa per mano infedele a festa grande che con la sua finì il rotear di teste altrui. Che mi viene morale in scrittura d’altro conterraneo di Ibn Hamdis: “Si firmerebbero poche dichiarazioni di guerra se chi le dichiara dovesse per legge firmarle col proprio sangue.” (Gesualdo Bufalino)

Ponti di parole

Ci appartiene quello che scriviamo? Chi lo sa? Penso che ognuno risponda per sé, decide cosa farne delle sue parole, di quelle che dice in confidenza, di quelle che urla ai quattro venti, di quelle che scrive in lettera riservata, o libera nella rete (che ossimoro vertiginoso). Io sono nessuno, dunque le mie parole sono di nessuno, chi le vuole se le prenda pure, che le scrissi liberamente, dunque sono libere, non anelano a proprietà. Vado un tantinello di musica, così, come atto liberatorio.

Scrivo per desiderio di rendere libere le parole, consentire loro di volare. Talora ne trovo già scritte, che volano da altri quaderni, e che somma soddisfazione quando paiono esattamente quelle che avrei voluto scrivere io. Capita che le trovi esatte e giuste nel momento stesso in cui concepii quello stesso pensiero, e chi se ne frega se non ne ebbi l’imprimatur, che a me “l’ho scritto io” non importa. Proprio ora m’attrezzavo a buttar giù una cosarella e la trovai d’altro. Che meraviglia le convergenze tra gente lontana nel tempo, nello spazio.

“Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l’ evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell’ omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poichè con le isole il punto è questo: sono di per sè parchi naturali e riserve dove lo “specifico” indigeno resiste più a lungo: sicchè rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale… Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benchè non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l’ Alitalia e l’ Autostrada del Sole. Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. Proprio su la Repubblica (31 agosto) Arbasino ci attribuiva una smania di staccarci dalla nazione e ce ne concedeva licenza. Obietto che, dai tempi di Salvatore Giuliano, fra le maschere sanguinose della mafia il fantasma del separatismo non è più ricomparso: e che oggi un eventuale referendum secessionista non raccoglierebbe in Sicilia più di mille o duemila suffragi… La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d’ Italia, dall’ Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d’ Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina… Con tutto ciò, come negare l’ esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’ esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l’ aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.” (Gesualdo Bufalino)

Disordine e indisciplina cosmici

“Che mai sarebbe il mare e il cielo,

e le isole e le stelle,

e quanto all’occhio umano si offre,

che mai sarebbe questo spento suono di cetra

se io non gli infondessi suono e anima e parola?”

(Friedrich Hölderlin, Empedocle)

Mai fu bastevole starsene a contemplare l’infinito, coi trabocchi d’altro che si frappongono tra esso e lo sguardo, se non si intrattenesse col tutto d’intorno amabile conversazione. Se non si cogliesse che in quello ci sono suoni e parole che scivolano lente, tali altre s’agitano di moti compulsivi che fremono di desiderio di racconto. Pure non valse la pena d’annoiarsi su una sedia volta all’indecifrato se non vi fu volontà d’ascolto per la nuova narrazione che si ricompone nei meandri antichi delle solitudini definitive. Dette solitudini, però, s’ebbe a concretezza d’osservazione, mai furono davvero tali, piuttosto si prefigurarono come brulichio permanente, quale onda di marea che s’alterna a risacca di rimbalzo, tempesta e bufera che si fanno a soverchianti forze a scontro finale con bonaccia e calma piatta. Davvero ci si fonde con l’infinito e con tutto ciò che fu strada verso d’esso quando sapori e suoni, colori e profumi non paiono più darsi confine preciso, s’impelagano a fusione perfetta, piuttosto, paiono ragazzini che scivolano verso la palla che rotola all’unisono, ad un tutto insieme che non prevede geometria di gioco, precisa programmazione. Ma che meraviglia farsi strada nel kaos della percezione, nel quel che viene viene. E se comincio a metter punto qua e là, non fu tale per definire l’accapo del ricomincio, ma solo momento di fermata a godimento, che me ne feci concessione con bicchiere pieno e musica che mai si fece così giusta nel rilasciare effluvio potente.

Vabbè, a scanso d’equivoco, “imitazione di Empedocle. Troveranno sull’Etna, a tre metri dal cratere, una scarpa Varese numero 42…” (Gesualdo Bufalino)

On the road

Appropinquandosi le ferie, attraversai lo stivale – non so se avete presente quanto è lungo e tortuoso lo stivale – pure oltre il tacco, sino a quei posti stupidi, dove non piove mai, direbbe Brassens, sino a quel paese a forma di melograna spaccata (se capitate da quelle parti, quest’estate, fate un fischio, mi raccomando), t’aggiungerebbe Gesualdo Bufalino. È viaggio lungo e periglioso, percorrere tutto quel tratto in autostrada pare la traversata del deserto, a schivare certi decerebellati che ci hanno il pedale dell’acceleratore come escrescenza ectoplasmica del cervello, che non conoscono freni, né motori, nemmeno inibitori. La gimkana è urticante e ti sovviene il desiderio profondo della reintroduzione delle pene corporali, delle bacchettate sulle dita, a dir poco.

Che poi io e la velocità abbiamo perso contatto da mo’, da quando l’ultimo autovelox non m’ha tirato fuori la freccia e m’ha sorpassato in linea continua, infliggendosi da solo pesante ammenda con tanto di foto segnaletica. Non regala tregua quel serpentone d’asfalto incandescente, coi suoi ingorghi ottusi, i rallentamenti improvvidi e brutali, autogrill che servono proteine liofilizzate, al sapore del nulla sotto vuoto spinto, e caffè che pare che li pubblicizzi Antonello Falqui in persona, che però manco la parola hanno della bevanda antisonno. La mia macchinina che non è esattamente fuoriserie superoptional, peraltro, non pare nemmeno lei adusa a far mille mila chilometri in una volta. Poi a me l’autostrada mi comincia a mezz’ora da casa, e mi finisce ad un quarto d’ora l’agognata meta. Senza scampo dunque. Mi sono messo pure a viaggiare leggero, che pure il pensiero di scaricare la macchina mi fa tremare le vene ai polsi, che a meta raggiunta mi serve poco. Per me è fatto consueto, dunque, che l’autostrada la evito e me ne vado di strada traversa, che lì trovo ristoro e lentezze. Stavolta non potei derogare ad affrontar supplizio ch’ebbi fissato appuntamento con un tal avvocato per questioni di condominio – che forse meglio sarebbe camminare su carboni ardenti, farsi cavar denti senza anestesia – pure mi ritrovai a partire con febbriciattola impertinente, che a classe mia alunni paiono vecchi catarrosi e non c’è distanza nemmeno mascherina a protezione (io la tengo ancora), con virus tutti fuorilegge, a soffermarsi solo a condizione di clandestinità. E poi, vista mare a notte fonda, parte il picchetto immancabile dei camionisti a giusta lamentazione d’attesa epica, a bloccare auto che hanno transito d’altro traghetto a più rapido scorrimento. Ed a sfinimento fatto mi toccò tirar fuori tessera di sindacato e far a mediazione anch’io, a costo di buscarle da parte e controparte. Così vanno le cose che mi riuscii per esperienza lunga di contrattazione a far ripartire il serpente acciaioso a risparmio d’un’oretta buona. E poi l’ultimo budello, tre ore circa che pare percorrenza di campo di patate, ad evitar le buche profonde, che per le altre non c’è scampo, sino all’alba d’un nuovo giorno.

Però, se una nota di svago ebbi da questo lungo viaggio, mi venne dal radiogiornale che m’aggiorna su liberalizzazione di sparo a vista del cinghiale. Che già mi vedo eleganti signore con scarpa di coccodrillo uscir di casa armate di doppietta mentre pascolano Fuffy, gentili galantuomini doppiopettati gettar rifiuti a cassonetti con tracolla di bazooka antibestia. Già m’avvedo dello sparo e del conseguente “ops, mi pareva proprio un cinghiale, era nero e grufava tra i rifiuti”

Radio Pirata 46 (il ritorno di Radio Londra)

Riappare Radio Pirata che ha successo planetario, e fila che pare farmacia da tampone, che di tante collaborazioni c’è offerta che devo fare selezione dura. Taluni ragazzi meritano e gli do spazio sotto, con voce loro e musica d’altri. Che subito partirei di musica a far colonna sonora a pace e meraviglia, che ad altri piace ritmica di bombe come bimbi a gioco d’azzuffo. E riappare in forma di rilancio a gemellaggio per uopo con Radio Londra.

Che mi pare, almeno così, per sentito dire, che a fare la guerra sempre è facile, che a dichiararla c’è tempo uno sbadiglio per chi ha dito su pulsante. Mi dice il ragazzo qua che “Quando i ricchi vanno in guerra, sono i poveri che muoiono.” (Jean-Paul Sartre)

Capisco meglio una rissa d’osteria, una guerra di santi, una faida di quartiere e di palio; meglio Cerchi contro Donati, romanisti contro laziali, automobilisti in furore; perfino negri contro bianchi e viceversa… Torve dissennatezze, naturalmente, ma che nascono da uno sgarro, un’incompatibilità, un torto presunto, un pregiudizio, e sono in qualche modo un rovescio dell’amore, s’apparentano alla passione. Ma sparare a freddo su uno che è nato all’altro capo del mondo, che non hai mai visto, che non ti conosce e non parla la tua lingua, per ragioni che non sai, che non ti toccano, decise da altri, indenni in stanze blindate, persuasi di figurare dopodomani nella storia!”(Gesualdo Bufalino, Il malpensante)

Si è scritto in passato che è dolce e meritevole morire per la patria. Ma in una guerra moderna non c’è niente di dolce né di meritevole nella tua morte. Morirai come un cane senza una buona ragione.” (Ernest Hemingway, Note sulla prossima guerra)

Che quella di passare pezzi consistenti della propria miserabile esistenza a cercare massacro di prossimo (non come se stesso) per taluno è malattia, che pure è patologia anelare potere assoluto, che anche si fa sindrome grave il sottrarsi a starsene quieti, che ne so, a godersi una pensioncina bevendo un bicchiere con gli amici al bar, che ti fa anche buon sangue (che non si versa come d’altri) e non ti viene ansia d’accumulazione compulsiva di dobloni, bazooka e poteri, neppure di minchiate a cottimo.

Certo che se s’è strafogato tutto di tutti, non s’avvede che non s’è sgraffignato la collanina nuova di madama la marchesa, o il rolexino di mister Pippone, ma s’è rubato vite, a bombe ha buttato equivalente di chemioterapici, buono mensa per qualche milioncino di bimbi… E lo so che taluno non se ne rende conto, che la cosa il sonno non glielo toglie, che è tossico, e pure dipendente, ma allora talaltro gli può dire, così a consiglio spassionato, fatti curare, ma da uno bravo, se nel frattempo non gli hanno chiuso il reparto che di fondo c’è l’esausto, che tutto finì a scommessa di Risiko, o se li sono intascati i fenomeni come lui e degli amici suoi. (Questa l’ho detta da me, che non delegavo il primo venuto, semmai offro da bere e buon tutto)

Che radio che si rispetti ci ha i suoi inviati per inchieste dai risvolti insospettabili. E io telefono a mastro di pennello, che ha casa in cima alla collina, con vista a infinito di mare mio e spiaggia che sa di deserto, a dune cangianti. S’affaccia a veranda e m’assicura – ch’io tengo ad attendibilità delle fonti – che ha preso bidonate di caffè a smaltire sbornia della sera, per cui garantisce lucidità d’informazione.

Vede da lì che jet sfrecciano che non se n’erano mai visti, pure navi a cannone schierato gli pare di vedere, che non ha binocolo ma discreta fiducia in diottrie a disarmo, che almeno quelle non fanno arsenale. M’aggiunge, ma io me ne dissocio che è opinione sua, che a salvare disgraziati a barcone non c’è tale prodigo schieramento di forze. E rivado a musica, per brano di suggestione antica.

Che c’è puzza di guerra terminale, che è tutta analisi di politici a raffinatissima preparazione, qual migliori, cui s’aggiunge pletora immaginifica di giornalismo a cottimo, che tesse lodi di mediazioni, o che critica le stesse, a seconda di pruriti da orticaria sotto le ascelle.

Che mi ricordo del tempo che certi ceffi, par di bucanieri a servizio di regina, pur se a portafoglio gonfio di furto a destrezza, faccia avevano d’apparire a pubblico di reti unificate a dir, con voce rotta ad emozione e somma maestria d’attorame consumato, che le cose erano gravi, che ci toccava a breve bagno di sangue, oppure anche no. Che faccia comunque ce la mettevano. E andiamo ancora a musica.

Che mi sono fatto persuaso, a tempo, che ragione aveva Mastro Don Gesualdo Bufalino, che vi cito pari pari ch’io, di certo, meglio non pronunciavo il concetto: “Si firmerebbero poche dichiarazioni di guerra se chi le dichiara dovesse per legge firmarle col proprio sangue”. E io che sono nessuno, mi pregio di continuare a musica che vi rallegra domenica.

Che di stentoree dichiarazioni oramai s’è fatta piena la storia, che il prezzo di bolletta aumenta, ma aumenta per disgraziati che gli altri ci hanno assicurazione di conto solido. Pure, se scoppia la guerra, il mondo nostro pare dimentico di quel piccolo effetto collaterale che l’evento si porta dietro da che è tale: ci scappano i morti a fasci, che raro li ritrovi tra chi la guerra la dichiarò. E musica sia, a solluchero di pensiero lieve.

Che se c’è voglia di rosso, io, che di sangue buono ne ho poco, mi faccio latore di proposta di legge che di rosso s’inondino le vie, le strade, le piazze, pure i laghi per piacere di pesci, ma che sia di quello buono, di contadino, che sa del legno della botte, della terra arsa, pure di quella umida a rugiada della notte. E chiudo di musica. Che ho mal di testa per sera prima di adesione a concetto.

Cari tutti, che a balcone vostro sia bandiera bianca, che al mio c’è sempre stata.

Radio Pirata 16 (prendetevela comoda, grazie)

Radio Pirata 16 arriva ch’è primavera, s’immola a lentezza che ad altri piace bomba ipersonica a fragore sordo, a morto scontato, pure ce n’è assai di più anche su Curdi, che tanto occhio è altrove, che chi sgancia quella passa per faccio la pace. E Radio Pirata si fa d’eversione feroce, che mentre piace a mondo scavare in fondo con gran boato, e a tanti aggrada mito accelerativo di partecipo pure io che ci ho mani a grilletto, si fa invece bradipica ch’è missione tenace di resa incondizionata per avanzata impetuosa a contempo. Si parte a musica che poi si dà parola a giovani leve di diserzione.

Che la guerra è sempre lampo, che pare crescita di prezzo a bolletta. “Perché è scomparso il piacere della lentezza? Dove mai sono finiti i perdigiorno di un tempo? Dove sono quegli eroi sfaccendati delle canzoni popolari, quei vagabondi che vanno a zonzo da un mulino all’altro e dormono sotto le stelle? Sono scomparsi insieme ai sentieri tra i campi, insieme ai prati e alle radure, insieme alla natura?” (Milan Kundera)

Al tempo in cui non c’era il tempo. per andarsene appena fuori confine non v’era necessità di portarsi dietro i permessi di soggiorno, ma buone gambe o un buon cavallo o una barca che non affonda troppo presto. A quel tempo senza tempo, ma pure oggi, secondo me, “vi fu sempre nel mondo assai più di quanto gli uomini potessero vedere quando andavano lenti, figuriamoci se lo potranno vedere andando veloci.” (John Ruskin)

Nonostante la mia pigrizia, ho fatto un mucchio di cose che non avrei dovuto fare. Però ho confermato l’esattezza del suo giudizio per quanto riguardava il tralasciare di fare molte cose che non avrei dovuto assolutamente tralasciare. La mia pigrizia è sempre stato il mio cavallo di battaglia. Ma non mi vanto di ciò, è un dono di natura. Sono in pochi a possederlo.

C’è una gran quantità di pigri, ci sono mascalzoni a bizzeffe, ma un ozioso genuino è una rarità. Non è il tipo che se ne va in giro con le mani in tasca. Al contrario, la sua più sorprendente caratteristica sta nel fatto che è sempre vorticosamente indaffarato. Infatti è impossibile godere della pigrizia fino in fondo se non si ha parecchio lavoro da compiere. Non è affatto divertente non far nulla quando non si ha nulla da fare. Perdere tempo diventa allora una mera occupazione, e un’occupazione tra le più affaticanti. L’ozio è come i baci, per essere dolce deve essere rubato.” (J. Jerome K. Jerome)

Che a correre siamo tutti bravi, che manco sappiamo com’è fatto il tutto d’intorno, sommersi da pulsioni che non sono pulsioni, s’affermano a desiderio espresso conto terzi, che pare che ci soffiano il traguardo sotto il naso. E pure fosse, “quanta fretta! E che smania, ogni giorno, di ingurgitare e vomitar una moda, un autore, un’idea! Mentre non abbiamo ancora finito, temo, di capire i presocratici…” (Gesualdo Bufalino)

A settimana che comincia, vi dico, a scopo terapeutico, per legittima difesa, pure per rivoluzione esiziale, prendetevela comoda, fate finta di non aver dovere d’impresa, che la storia d’umanità pare “una piramide che si regge sulla punta” (Robert Musil) e non c’è verso che non barcolli, che se te ne stai buono e non partecipi a scrollone te ne avvedi e fai in tempo a scansarti, pure a sorreggerla, se è il caso.

Radio Pirata 5 (ancora più Radio Londra)

Riappare Radio Pirata che ha successo planetario, e fila che pare farmacia da tampone, che di tante collaborazioni c’è offerta che devo fare selezione dura. Taluni ragazzi meritano e gli do spazio sotto, con voce loro e musica d’altri. Che subito partirei di musica a far colonna sonora a pace e meraviglia, che ad altri piace ritmica di bombe come bimbi a gioco d’azzuffo.

Che mi pare, almeno così, per sentito dire, che a fare la guerra sempre è facile, che a dichiararla c’è tempo uno sbadiglio per chi ha dito su pulsante. Mi dice il ragazzo qua che “Quando i ricchi vanno in guerra, sono i poveri che muoiono.” (Jean-Paul Sartre)

Capisco meglio una rissa d’osteria, una guerra di santi, una faida di quartiere e di palio; meglio Cerchi contro Donati, romanisti contro laziali, automobilisti in furore; perfino negri contro bianchi e viceversa… Torve dissennatezze, naturalmente, ma che nascono da uno sgarro, un’incompatibilità, un torto presunto, un pregiudizio, e sono in qualche modo un rovescio dell’amore, s’apparentano alla passione. Ma sparare a freddo su uno che è nato all’altro capo del mondo, che non hai mai visto, che non ti conosce e non parla la tua lingua, per ragioni che non sai, che non ti toccano, decise da altri, indenni in stanze blindate, persuasi di figurare dopodomani nella storia!”(Gesualdo Bufalino, Il malpensante)

Si è scritto in passato che è dolce e meritevole morire per la patria. Ma in una guerra moderna non c’è niente di dolce né di meritevole nella tua morte. Morirai come un cane senza una buona ragione.” (Ernest Hemingway, Note sulla prossima guerra)

Che quella di passare pezzi consistenti della propria miserabile esistenza a cercare massacro di prossimo (non come se stesso) per taluno è malattia, che pure è patologia anelare potere assoluto, che anche si fa sindrome grave il sottrarsi a starsene quieti, che ne so, a godersi una pensioncina bevendo un bicchiere con gli amici al bar, che ti fa anche buon sangue (che non si versa come d’altri) e non ti viene ansia d’accumulazione compulsiva di dobloni, bazooka e poteri, neppure di minchiate a cottimo.

Certo che se s’è strafogato tutto di tutti, non s’avvede che non s’è sgraffignato la collanina nuova di madama la marchesa, o il rolexino di mister Pippone, ma s’è rubato vite, a bombe ha buttato equivalente di chemioterapici, buono mensa per qualche milioncino di bimbi… E lo so che taluno non se ne rende conto, che la cosa il sonno non glielo toglie, che è tossico, e pure dipendente, ma allora talaltro gli può dire, così a consiglio spassionato, fatti curare, ma da uno bravo, se nel frattempo non gli hanno chiuso il reparto che di fondo c’è l’esausto, che tutto finì a scommessa di Risiko, o se li sono intascati i fenomeni come lui e degli amici suoi. (Questa l’ho detta da me, che non delegavo il primo venuto, semmai offro da bere e buon tutto)

Cari tutti, che a balcone vostro sia bandiera bianca, che al mio c’è sempre stata.

La mia cosa preferita

Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”. (J.D. Salinger, “Il giovane Holden”)

E musica, all’uopo, sia.

Che, per tornare all’incipit, m’è pure capitato di leggere una cosa che m’ha lasciato senza fiato e di chiamare l’autore per dirglielo. Anagrafica vigliacca, cicli biologici assai poco attenti alle dinamiche di cultura, al senso di relazione vera, m’hanno ridotto tale fortunata opportunità. Pure non saprei cosa mettere tra i libri che mi porterei dietro, in caso di trasloco definitivo su isola deserta, immaginando di perdere l’ultimo Venerdì. È cosa che cambia, mutevole nel tempo, financo nello spazio temporale di mezza giornata o poco più. Talora mi porto dietro di pensiero trilogie di Musil, Horcinus orca, Alla ricerca del tempo perduto o La nausea, che mi sovvengono in momenti d’introspezione vocata al sacrificale impegno di mente. Talaltra mi ritrovo in mano una cosarella di Jerome K. Jerome o Ricette immorali, pure l’Uomo invaso, che non m’è dato di sovraccaricarmi di categoriche abnegazioni di pensiero, cedo piuttosto al solluchero, al cenno di svago, alla lettura felice di sorriso, qual bicchiere di vino di contadino. Ci sono momenti, persino, che m’affratello a letture di saggi definitivi e vertiginosi, che richiedono lenti d’ingrandimento concettuali, ancora mi compiaccio di cataloghi patinati dedicati ad artisti scomparsi. Mi taccio, dunque, per manifesta volubilità. E pure di musica sono incerto, che è invece certo che di jazz feci virtù definitiva, ma se m’ascolto una cosarella degli Animals, o lunghe sperequazioni modali di certo Prog, anche talune sganasciate canzonacce di protesta ad osteria, c’è il caso che m’illumino d’immenso. Non vado lontano, che ne ho maggiori certezze rispetto a letture più o meno passate, dal dichiarare che con ciò che aprì e chiuse questo scritto, c’è roba che mi porterei dietro in quel viaggio di naufragio.

Isola dei Porri (Mar d’Africa)

Posto questo, non potrei immaginarmi naufrago senza uova e cipolle, che insieme uniscono di sfericità imprecise l’atto voluttuoso della forma che tende alla rappresentazione approssimativa del mondo, al contempo la sua vertiginosa semplicità interpretativa nell’affabile unione tra terra e vita. Nell’uovo v’è questa metafora definitiva dell’inizio, ed in tutte le sue forme molteplici. Che sia semplicemente cotto a vino, un filo d’olio e origano di timpa, un crostino appena, come nell’antiapericena al barettino di Piero, una sera di tarda primavera, che il resto del mondo s’affastella intorbi a qqtartine d’improbabili cromatismi e sapori plastici. Sia pure semplicemente spiattellato a olio bollente, in qualsiasi pranzo mordi & fuggi, con o senza camicia, con solo sale e pizzico di pepe.

La cipolla è cibo misterioso, che si disvela a veli, come Salomè in una danza. Che certo non invita a relazioni intime, ma in ciò sottintende interiorizzazioni relazionali, dialoghi con se stessi. Pure c’è uovo e uovo, che taluni li fanno galline felici, scorazzanti d’aie, talaltri paiono costruzioni antibiotiche cui manca solo il bugiardino. Allo stesso modo c’è cipolla e cipolla, che la sottile dispiegatura dei veli talora nasconde solo lacrime al taglio, di gusto non ve ne fu che traccia. Ma ci sono cipolle che invitano a grazie al creato, come le rosse di Tropea, quella di Zerli, pure di Giarratana, di cui ne vidi anche di due chili e tre senza batter ciglio. Ma quando queste meraviglie s’incontrano, è lì che nasce l’intimo ricongiungimento a natura, l’estasi che si manifesta come sole al tramonto. Che modo migliore non c’è che battere uova, grossolanamente, a striature di albumi e pennellate di tuorli, con grattugie di pecorini pepati ad inferno, o caci di stagionatura matusalemmica sino a consistenza laterizia (con una sola t, che intendo roba a mattonella), sapidi a dismisura. È sull’impasto cremoso e discontinuo che scenderà pioggia fine di cipolla, del cipollotto, del porro, se occorre, a crudo, che mantenga croccantezza. Quindi pois di finissimo trito d’erba – altrettanto cipollina – o, d’alternativa non di ripiego, prezzemolo. Ancora una sbattutina, dunque, e che il tutto divenga soffice cuscino di riposo sull’olio bollente, per appena leggera doratura d’ambo i lati, possibilmente con rigiro al salto per soddisfazioni d’acrobazia.

V’è il caso che il contadino sapiente che vi fornì entrambi gli ingredienti, saprà di certo integrar di vino suo. E se, nel frangente dell’intimissima estasi del consumo, bussano alla porta, con voce rotta d’emozione a simular malanno, dite che siete contagioso e non aprite.

Leggi come mangi

Io, che di liturgie non m’intendo, certe volte m’adeguo. E al pranzo della domenica, in tal faccende affaccendato, mi dibatto d’amenità nella bettola del cuore, camuffata di trattoria. I ravioli di zucca ci stanno un po’ prima di farsi spiattellare accanto al fiasco, quanto basta per l’occhiata fugace a quei due o tre domenicali che d’affezione m’inseguono la mattina del feriale. Sbirciati tanto per rendersi edotti di che pagine è fatta l’estate libresca.

Tripudio d’orrore, che s’accavalla alle torme della sera prima, a prosciugarsi le tasche d’orrendi manufatti sintetici, promossi a cibo da menti fervide. E m’avvedo, d’esperienza sghemba, dell’esistere d’un sottile ma robusto legame tra gusti letterari e gastronomici, sintomo di tempi grami; ancorché non abbia riflessi rapidissimi, me ne sono accorto anche io. Ci sono gommapiume ripiene di cadaveri di bestie esangui e sofferte, che mai conobbero libertà, che hanno retrogusto pungente e rancido, con salse e bibite antigravitazionali, di melasse e glucosi. Sapori che palati prelogici ambiscono collocare al rango di cene, accompagnandoli – se gli riesce almeno quello – a certe letture che, appunto, sanno di rancido, di zucchero di carie, stuccano. A me queste cose – nessun pregiudizio nei confronti di chi ne fa uso massiccio, per carità, che sono per il vivi e lascia vivere -, che spesso si accompagnano mirabilmente a talune musiche elementari, mi fanno aumentare, ora la glicemia, ora il colesterolo, sia solo che ne legga la quarta di copertina, sia solo che ne ammiri la presentazione a piatto. Dunque, evitandole con cura, soprassiedo nel darvene giudizi sommari, pur ammettendo che potrei non esserne all’altezza, giacché della loro esplorazione mi sono privato a lungo, né ritengo di sottopormi a radicali ripensamenti. Vi sono invece certe cene che non si dimenticano, quel dentice, quasi nature, innaffiato con un bianco che fluisce pacato e non interferisce col gusto, lo esalta piuttosto, come una lente d’ingrandimento ne illustra i dettagli e ne evita l’affastellarsi in una moltitudine confusa di sensazioni indistinte. Rimane nella memoria, non accenna ad abbandonare la sua essenza di ricordo felice, semmai si dispone con sapiente lentezza, senza sgomitare, diacronicamente accanto ad altre esperienze, pur mantenendo posizioni privilegiate. E ivi echeggia certe arie mozartiane, un Ravel da orchestre dirette dagli dei. Vi sono, lì nei pressi, certi saraghi del Mar d’Africa, attesi senza fatica all’amo per ore, e che abboccano mentre l’alba si esercita in cromatismi spiazzanti; cornici di pomodori colti negli orti dell’Olimpo, con lo sfondo lontano della fiammeggiante irrequietezza della tomba di Empedocle, e ancora chicchi di melograna giunti direttamente dalla terra dei Lotofagi. Se consumati poi invogliano le palpebre al sonno lieve, ed alla veglia spingono senza indugi verso letture lente, complesse, articolate, sofferte, che però ci fluiscono per sempre dentro, in forma di una ruga in più, un guizzo comportamentale, un’attitudine… Distinguo su ripiani facili da raggiungere le coste importanti di certe cose di Sciascia, Vittorini, Sartre, D’Arrigo, Virginia Woolf… Tutta roba che, quando se ne parla, riecheggia come tappa fondamentale della nostra esperienza formativa, ed un piatto assume consistenza letteraria, almeno quanto un libro fondamentale lascia al palato quel gusto permanente che deriva da ingredienti esiziali per cuochi abilissimi nell’amalgamare le parole. Eppure, accanto a ciò, c’è anche dell’altro… E se “L’uomo senza qualità” invoglia alla liturgia d’una Sacher, almeno quanto “Il garofano rosso” spinge verso il rito di un budino di mandorle, così certi banchi di frutti di mare, pomodori secchi, olive farcite e peperoncini diabolici, immersi in un Suk di colori e profumi, offrendoci l’opportunità di consumi rapidi ed estemporanei, accelerano il desiderio di tornare a sfogliare libercoli leggeri, che sembrano scivolare via come va giù un mitilo al limone, o un tocco di pepato fresco. Certo, v’è forse un po’ di pudore nell’ammettere che quelle letture d’un paio d’ore, street reading consumato sulla panchina d’un parco, a sedere su un muraglione dirimpetto al mare, o sotto un albero di ulivo saraceno, pure distratti dalla risacca o dagli uccelli (e non solo dal loro canto), possano averci formato gusto e memoria; ma che bellezza “Tre uomini in barca (per non parlare del cane)”, “l’uomo invaso”, “Ricette immorali”. Che meraviglia – di tanto in tanto, e senza esagerare – far finta di essere sani!