Esilio a non precisa dichiarazione
“Oh, la bellezza di una coppiera che allunga
le dita con la sposa del vino, cinta di collane di schiuma!
Ti ha dissetato con un vino puro, fatto veramente
d’uva, splendido qual sole che sorga
d’un tratto sulla sua sfera vermiglia.
Ah, come si risveglia in seno a colei
i cui canti fugano gli affanni!
Diventa il corpo — grazie al suo benefico
agire — come pervaso di dolci aliti di piacere,
e la mano della coppiera sembra quasi parlare
fascinose parole, e trar suoni
da incantevoli cetre…”
(Ibn Hamdis)
“Di Salvatore Quasimodo nella cui poesia il tema dell’esilio (l’esilio che generazioni di siciliani, per sfuggire alla povertà dell’isola, hanno sofferto e soffrono) si lega amaro e dolente, ma splendido nella memoria dei luoghi perduti, a quello del poeta arabo Ibn Hamdis, siciliano di Noto. E questa può anche essere una chiave per capire la Sicilia: che alla distanza di più di otto secoli un poeta di lingua araba e un poeta di lingua italiana hanno cantato la loro pena d’esilio con gli stessi accenti: “vuote le mani, – dice Ibn Hamdis, – ma pieni gli occhi del ricordo di lei”. (Leonardo Sciascia)





















Perché Ibn Hamdis, poeta che pare immenso, era arabo e pure siciliano. Dunque si fece i conti con la ferocia liberatoria di Ruggero, allorché il suo “stupido” sultanato non venne a conflitto con altro prossimo. Che i due contendenti attenti assai a disegnar bellezze, si scordarono d’armare adeguati giannizzeri. S’affidarono, dunque, a tal Ruggero ed ai suoi civilissimi mangiatori di carne cruda a bivacco da qualche parte peninsulare. Quelli, risolta la tenzone, pensarono bene di prendersi tutto facendosi liberatori. Tralascio, più per evitar lungaggini, d’affermare che cristiani ed ebrei vivacchiavano discretamente da quelle parti senza necessità di liberazioni non troppo richieste. Il poeta e tanti altri fecero a combattimento per difesa di patria, ma poi furono a caccio per esilio permanente. Il prode Ruggero, a spada ammorbata di vittima, si fece a stupore per tanta bellezza conquistata che si conciò che pareva sultano converso facendosi pure far scomunica papale. Ad esclusione di parentesi illuminata di Stupor Mundi, saraceno fu vietato ed ebreo s’obbligò a marrano, ad esilio, oppure oggetto di polvere alla polvere.
Ma bellicosa armata di liberazione si portò dietro certa mitologia che rimase a fatto di cosa sicula come enormità di spettacolo, l’Opra de’ Pupi. E che miti i pupari, a muovere pupi a ritmo perfetto e sincronia immaginifica, a rotear spade a colpo ferire. Di quelle precisissime figure, autentiche opere d’arte (e chiedo venia che non ve ne fornisco foto che non ne trovai qui ed ora), si facevano voce narrante di fatti a canovaccio mai scritto a precisione, campioni d’improvvisazione con timbri attoriali a concorrere con immensi protagonisti di teatri di prosa. Pure io, bimbo, di tanto in tanto m’attrezzavo a tal spettacolo con entusiasmo da prima alla Scala e cosa di festa autentica.
Ci fu fatto che avvenne in una fine estate, con coloritura di pubblico pagante e plaudente a virar verso il bruno fitto, causa esposizione solare d’estate senza crema antibrucio. Ad apparizione sua, il prode Orlando, con tanto di rutilante commento narrante, sguainò la Durlindana e si mise a mozzar teste di saraceni con precisione chirurgica d’abilissimo signore del tiro fili. Ma avvenne cosa mai vista né sentita che pubblico bimbo insorse. E sarà stato perché il vil turco, tinto all’uopo di bruno, pareva ora lo zio, ora papà, ancora nonno di questo o quell’altro, anche ce n’era taluno con faccia più lucida di creatura a somiglianza precisissima d’amico del cuore. Abile puparo comprese l’antifona e a nuovo sguainar di Durlindana, il prode Orlando perse la testa per mano infedele a festa grande che con la sua finì il rotear di teste altrui. Che mi viene morale in scrittura d’altro conterraneo di Ibn Hamdis: “Si firmerebbero poche dichiarazioni di guerra se chi le dichiara dovesse per legge firmarle col proprio sangue.” (Gesualdo Bufalino)