La nave dei folli (ancora in viaggio)

Mentre della nave che va non v’è traccia, si palesa che, se non ci fu affogo a massa, taluno abbia restituito anime vaganti di speranza ad aguzzini certi, ché occhio non vede cuore non duole. Io vado a banale ripubblicazione di cosa vecchia per lieve sensazione di nausea sopraggiunta ad impedimento di scrittura nuova e compiaciuta.

“…la nave dei folli non era, poi, totalmente un parto della fantasia. Al contrario, era piuttosto comune la prassi di allontanare i matti dalla comunità dei normali, eventualmente proprio affidandoli a gente di mare. Accadeva spesso che venissero affidati a battellieri, a Francoforte, nel 1399, alcuni marinai vengono incaricati di sbarazzare la città di un folle che passeggiava nudo. Le città europee hanno spesso dovuto veder approdare queste navi di folli”. (Michel Foucault)

La follia arriva e batte bandiera sconosciuta. Non ha patria né dio, nemmeno padre e madre, pare tale, la follia, intendo, che non si palesa con documento d’imbarco, s’allontana e basta, a cerca di porto salvo per disperazione d’essere niente e nessuno. La cittadella fortificata del mondo dei sani se ne difende, invita a respingimento, con accordo tra tiranno e tiranno a far che pure accoglienza di pazzo è cosa da folli. D’avanzata sanità di mente si tinge distruzione e guerra, parve laurea a saggezza affondare nave dei folli, bombardo di città di dissenso, ripiegare a tasso d’umanità pari a curva concava.

Orizzonte scruta non per vertigine di visione, solo per scorgo a vista nemico che arriva, che se poi non si palesa ad esodo qual vien dichiarato, che importa, che semplice attesa d’invasione è a generazione di paura e fremito di pelle di popolume a suddito di illuminatissimi, che immantinente si tinge di vessillo patrio a nome noto, sotto egida di tiranno a difendere belle, armate sponde, a sventolar bandiera di grande savio di giustezza conclamata. Il resto è dago, pazzo, diverso per colpa ed essenza di sua scelta, che non nacque né a colore giusto, né a terra di saggezza. Pazzo più pazzo è a sostegno d’idea che pazzia fu per causa di mondo di giusti che non s’avvidero che pazzi fecero a furor di tempesta, a fulmine di guerra, a sfrutto a schiavo creatura e natura. Egli attende anche per sé medesimo imbarco coatto – che presto arriva – di chi, pazzo tra i pazzi, ricerca altra sponda per vita, anziché schiantare a terra desolata senza far rumore a non disturbo saggissimo manovratore.

C’è una nave in mezzo al mare

“Bella nave che vai sul mare,
quante cose puoi portare?”
“Posso portare mille persone,
cento sacchi di carbone,
tre scialuppe ed una lancia
e un capitano con la pancia.
Corro in men che non ti dico
dalla Cina a Portorico,
la tempesta ed il tifone
mi fanno il solletico al timone…
Ma se un giorno del malanno
di bombe e cannoni mi caricheranno,
sai che faccio per ripicco?
Colo a picco!”.
(Gianni Rodari)

C’è una nave in mezzo al mare, se ne va che è storia vecchia pure se ancora è nuova. Ha sopra cinquecento persone, ci son donne e bimbi pure pare più di cinquanta. Uno dei bimbi è baciato da bella sorte che sulla nave c’è nato. Che è cosa bella assai nascere cullato dall’onde. Tre giorni fa motore fece sbuffo non chiaro, poi brontolò e si mise a farsi cosa avariata. E la nave resta lì che acqua comincia a prendere un poco a bordo senza invito. Così parte allarme. E che problema c’è? Ci abbiamo caccia che in un battito di ciglia vanno dove gli pare a velocità di superman, bombardieri che si fanno periplo di globo terracqueo a subito subito. Pure ci hanno radar che ti contano peli di naso. Ci vanno, ti dicono esatta posizione di bimbo appena nato con tutta allegra compagnia, e si manda subito a far soccorso grande nave fregata, pure cacciatorpediniere basta, che, tolto qualche cannoncino, c’è più spazio pure per gioco di bimbo. E si deve far presto che c’è mare, adesso, che s’è messo a far capricci, che non è che lo fa apposta, lui ha le sue dinamiche, si cura poco delle nostre. Se ci ha da far bizza la fa, che tocca a noi prudenza e bontà di soccorso, approntare porto salvo, per donna, uomo e bimbo.

Ma non partì con rombo di tuono grande stormo muscoloso, e a far ricerca furono soliti che poi ci hanno porto salvo a parte estrema di pianeta. Magari, mentre c’è ancora acqua ed in abbondanza, a pianura a piede d’Appennino dove prima si faceva insalata. Cerca che ti ricerca, solite navi per tali missioni, non trovano ancora nave di bimbo. E se cercasti bene, ne v’è notizia d’approdo a tale o talaltro di porto salvo, se altro non ebbe a far soccorso, nave sparita ha sorte di chiarezza che gela, che speranza rimane intervento misterioso. Ma problema che si fa notiziona su pagina grande di prima su giornalissimi è chi fa commissario, ch’io voterei per Basettoni, che a personaggio di carta c’è ancora frammento – altrove perso – d’umanità.

A furor di vento

Che pare, di questi tempi, che tutto proceda in direzione univoca, scivolamento verso barbarie quando non di palesato inebetimento. Che se c’è cosa che potrà andar storta, per linea dritta ci andrà a prescindere, e l’ottimismo pare roba da caratteristi di cinema anni ’70, fa scappar riso, talora amaro. Pure m’accorgo che a remar contro si fa fatica parecchia a remo senza pala, come a cacciar fumo con battipanni a sfondo d’uso eccessivo. Faccio musica a parzial conforto, pure mi ci dedico con ricerca a grande impegno per regine autentiche.

Che mi venne voglia di tempesta, a cambio di bonaccia a direzione precisa, vento che spiazza piuttosto, che non ti fa apparire direzione chiara, che smuove le carte, si fa scompiglio di pensieri, che se ne faccia pila nuova, ad ordine inverso e criterio di divergenza. Nostalgia c’è di scogli e rene, ma non di beati tramonti, desiderio invece ho di fortunali a schiocco di tempesta, onda che s’alza a cielo, precipita a tonfo, marea che si riveste di maremoto, gorgo di Scilla e Cariddi, vento possente ed incerto di Scirocco. Che “lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus orca)

Che me ne frega ormai della brezzolina leggera e rinfrescante, che di noia mi portò all’esausto, che non mi feci persuaso affatto che quella passa se non a colpi d’incedere inesorabile di folata a tutto sfare, a scoperchio case e mi porto via ogni cosa. Che non fu terribile come la noia dell’attesa d’un giorno dopo l’altro, che il primo pare uguale al secondo e pure a quello che viene, se non nella stanchezza che s’accumula e diventa sgomento d’ignavia del tutto d’intorno. Anelo bufera, che quella sia, che di cartolina a fronte d’azzurro nitido non me ne faccio niente, voglio scuro di sorpresa che fece notte pure il giorno fitto di luce: “Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare.”

Il pazzo è nell’aria

Pare crivello irrisolvibile la quadratura del cerchio, che vi fu paesano mio di cui non frequentai medesime scuole per sfalsamento d’anagrafica, tale Archimede d’aggettivazione pitagorica, che disse che tale cosa non è possibile. Quale assioma derivato c’è ovvietà che chi nasce torto dritto non diventa, che è come dire che se sei tondo non ti fai quadrato nemmanco a smoccolare in aramaico. Ad evidenza di fatto mi faccio persuaso – che è cosa ormai ovvia financo a me che faccio d’arrivo a deliberazione cosa di ritardo – ch’ebbi torto sempre e comunque. Dunque, qualunque cosa io scriva o dica è sbagliata per definizione di dogma.

Che seppure immaginassi d’aver ragione, e mi capita a presupposto di narcisistica presunzione, io sarei a destino individuato quale pazzo. E cos’è la pazzia? Forse solo deviazione standard da comportamenti normali, quelli che tengono i più, che accettano codifiche, quali che siano le consegne. Il pazzo, il dago, il reietto, il miserabile, meglio non guardarlo, non vederlo, lasciarlo nell’ombra è meglio, che i suoi connotati rimangano indefiniti, solo un’ombra sullo sfondo colorato e rutilante della “moda” (concetto statistico.matematico, come da definizione “la moda (o norma) di una distribuzione di frequenza X è la modalità (o la classe di modalità) caratterizzata dalla massima frequenza. In altre parole, è il valore che compare più frequentemente”).

Il pazzo va posto a luogo di delirio contrassegnato a precisione, che non vi siano possibilità di contatto col mondo normale. In definitiva io sono pazzo, mi ci ritrovo ad esserlo non da solo, pare che altri ve ne siano in giro, pochi ma brutti, talune volte criminali.

È pazzo chi dice che se c’è alluvione che sommerge lo mondo e vento a tempesta è cosa da clima che cambia, cemento fin sopra capello. Ma norma, sanità di mente a decreto e legge d’istituzione sacra ed inviolabile è che non che non se ne può più d’ambientalismo che insozza e blocca traffico. Pure grandi tra grandi dicono che per far pace bisogna far grande guerra e se uno dice facciamo fermo immagine che parlarsi è meglio che spararsi, fosse anche papa in persona, è pazzo. Ma allora, facciamo precisione a mondo dei pazzi, riapriamo i manicomi e mettiamoci dentro pacifisti, ambientalisti, creature solidali. Meglio, facciamo sostituzione etnica d’Africa che ce li mandiamo tutti coi barconi a fatto di foglio di via, rilancio di posta.

“…la nave dei folli non era, poi, totalmente un parto della fantasia. Al contrario, era piuttosto comune la prassi di allontanare i matti dalla comunità dei normali, eventualmente proprio affidandoli a gente di mare. Accadeva spesso che venissero affidati a battellieri, a Francoforte, nel 1399, alcuni marinai vengono incaricati di sbarazzare la città di un folle che passeggiava nudo. Le città europee hanno spesso dovuto veder approdare queste navi di folli”. (Michel Foucault)

Confederazione d’anime

Piglio cosa vecchia che a farne nuove mi mancò tempo, pure prestanza fisica d’ultimo. E poi ho da metabolizzare che sono torto che nacqui tondo e quadrato non ci divento. Che se dico che c’è cambio di clima e piove che manco Giove Pluvio se la pensava così e faccio morto ad annego in zona commerciale e sfollato a massa in pieno centro, è colpa mia che dissi che c’è cambio di clima. Se c’è guerra e dico pace, pure c’è guerra per mia precisa responsabilità, che non volli grande sberla nucleare che ci si leva il dente e si fa la pace tra superstiti. Fortuna volle che morto d’annego per grande viaggio a fuga da guerra e fame non è colpa mia, è colpa sua che si fa morto d’annego per fuga da guerra e fame, che se stava dov’era al massimo crepava di guerra e fame, non certo d’annego che magari là da dove parte acqua non ce n’è, che serve tutta a miniera per gioiello prezioso di madama la marchesa. V’aggiungo musichina pure.

Credere di essere “uno” che fa parte a sé, staccato dall’incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un’illusione, peraltro ingenua, di un’unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot ed il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone. Il dottor Cardoso fece una piccola pausa e poi continuò: quella che viene chiamata norma, o il nostro essere, o la normalità, è solo un risultato, non una premessa, e dipende dal controllo di un io egemone che si è imposto nella confederazione delle nostre anime; nel caso che sorga un altro io, più forte e più potente, codesto io sposta l’io egemone e ne prende il posto, passando a dirigere la coorte delle anime, meglio la confederazione, e la preminenza si mantiene fino a quando non viene spodestato a sua volta da un altro io egemone, per un attacco diretto o per una paziente erosione. Forse, concluse il dottor Cardoso, dopo una paziente erosione c’è un io egemone che sta prendendo la testa della confederazione delle sue anime, dottor Pereira, e lei non può farci nulla, può solo eventualmente assecondarlo.” (Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira)

Ad essere possessione di confederazione d’anime io non mi sottraggo, pure come farei ad essere contraltare di pensiero di siffatta elevatissima teoria? Ne riconobbi financo alcune di dette anime sin da che ebbi facoltà d’intendere e volere, che m’ero appena attrezzato di denti da latte. Un paio furono d’inizio – sempre anime, dico, non denti da latte – che poi si fecero a moltiplicazione. Talune, a radicalizzarsi d’originale, vennero fuori da quelle, che parevano escrescenza ectoplasmica; tali altre furono a nascita di sintesi tra differenti, orripilante incrocio tra oche di Lorentz e cani di Pavlov. E questo è quanto, che divennero ciurma numerosa ed io solo contenitore d’essa, nave espropriata. Semmai fui a problema d’aggiunta che nessuna di quelle ebbe a vocazione di far io egemonico, ad interesse di metamorfosi a guida convinta. Se ve ne fu una che, a scapito d’altre – o per intendimento d’altre, direi, meglio – si fece a virtù condottiera, fu solo per distrazione a gioco di resto d’equipaggio, che abbindolò l’ultimo a donazione di cerino in mano.

Così quella, anziché prendere redini e timone, passa tempo suo, pure il mio che ne fui coinvolto ob torto collo, a ciondolare distrattamente sulla tolda, ipotizzando di non farsi notare, a che altra anima si distragga, sì da scaricare su quella la patata bollente di indirizzo giusto di prua. Che le mie son anime oziose, cialtronesche, dedite più alle libagioni che a seria attività di cabotaggio, per vocazione di nullafacenza, a mal disposizione per indole di comando. Neppure sono compiacenti a delega, esse disdegnano comando per sé stesse, detestando chi se ne fece portatore insano proponendosi a metamorfosi d’esistenza.

Così traggo linfa vitale da conflitto non per prender potere, bensì per evitarlo, ignorarlo, annichilirlo, declassificarlo o, secondo dei casi, derubricarlo a facezia. Fu corsa a mio intimo ad arrivar ultimo, a rendermi irreversibilmente invisibile oltre linee d’orizzonte, che la ciurma ha pensiero attivo nel non guidare la nave, attende solo sorpresa di approdi per deriva che è a decisione di corrente a sballonzolare chiglia di robustezza sedicente.

Weekend, di musica

Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.

“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.

A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.

Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)

Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.

Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.

E voi avete colonne sonore?

La riconquista della noia

Non mi pare di discernere più se d’infinita stanchezza ho da render responsabile strascichi del malanno che mi piombò in casa senza invito e che tali pare lascia, o di quell’essenza primordiale che fa la noia al cospetto del tutto solito e senza fine di coazione a ripetere.

Che pure di noia mi pascerei, pure a lungo, ma sol che sia io a sceglierne i confini esatti. Non di noia imposta m’aggrado, di quella insulsa noia operativa di mercenario che da trincea a trincea ha speranza che la prossima non sia l’ultima per ostilità di nemico, o d’avvitatore di bullone a catena di montaggio per catena lunga ed infinita a volontà di burocrate bizantino.

Pare che ad ora non vi sia che prender atto, attendere la sera per tiro inesausto di cicca e bicchiere di rosso senza fondo, a cancellare pensieri ostili, ché tanto quelli si ripresentano ad albeggiare proprio come seguono il ritmo che tocca a rotazioni terrestri. E ora s’accompagnano a fiacca che pare definitiva. E v’è in un gesto limitato solo desiderio profondo d’annoiarsi a modo di sé stessi, non per orgoglio produttivo, ch’io m’annoierei a rango di felicità sublime se m’acquietassi a semplice vista d’infinito da scoglio d’accoglienza, quale naufrago od esploratore che si cheta a meta conseguita, che non molla la presa quale mitilo tenace. E non di noia perirei in detto caso come per quella di reiterazione del gesto eterodiretto e constatazione del nulla che porta al nulla, con passaggio di consegna tra barbarie di merce e merce di barbarie che fa morto d’ammazzo che vendo di più e sfianco braccia e teste per sfruttamento ad libitum.

“La società, non per compassione, ma a causa delle proprie strane necessità, si era occupata di quei due uomini, vietando loro ogni pensiero indipendente, qualsiasi iniziativa, qualsiasi allontanamento dalla routine; e vietandoglielo pena la morte. Potevano vivere solo a condizione di essere macchine. E ora, sciolti dalla materna protezione di uomini con la penna dietro l’orecchio, o di uomini con galloni dorati sulle maniche, erano come quegli ergastolani che, liberati dopo molti anni, non sanno che farsene della libertà. I due non sapevano che farsene delle loro facoltà, essendo entrambi, per mancanza di pratica, incapaci di pensiero indipendente.” (Joseph Conrad)

Tempo perso

Sempre più affaccendato, con ancora tirata da leggero e persistente malessere per stanchezza, strascico di fatto che fu morbo d’infesto, ci si ritrova schiavi di tempo, che mai, pare, ve n’è abbastanza. Pure mi decido che non indugerò su ciò che non mi viene adesso, che ne guadagno a sufficienza per impiegarlo al meglio nel non far niente, che è cosa in cui ho talento autentico. E se mi viene di scrivere, ma non abbastanza, vi riciclo il già scritto che scriverei pure io così, ma senza meglio di certo. Nè vi manco di musica, spero buona, che aggradi ai più, che vi leggete il seguito con quella di fondo.

“Quante persone, lungo questo viaggio, stivano la barca fino a rischiare di farla affondare di cose sciocche che pensano essenziali al piacere e al comfort, ma che in realtà sono soltanto inutile zavorra? Come riempiono la povera piccola imbarcazione fino all’albero di bei vestiti e grandi case, di domestici inutili e di una miriade di amici alla moda ai quali non importa un fico secco di loro, e dei quali a loro importa ancora meno, di costosi divertimenti che non divertono nessuno, di formalità e mode, di finzioni e ostentazioni, e di – oh, la più pesante, la più folle delle zavorre! – della paura di che cosa penserà il vicino, di lussi che possono soltanto nauseare, di piaceri che annoiano, di vuote mostre di sé che, come la corona ferrea del criminale di un tempo, fanno sanguinare e tramortiscono il capo dolorante che la porta! È zavorra uomini… tutta zavorra! Gettatela fuoribordo.

Rende la barca così pesante che remare vi sfinisce. La rende così lenta e pericolosa da manovrare che l’ansia e la preoccupazione non vi concendono mai un attimo libero; e non avete mai un momento di riposo per sognare pigramente, mai un momento per osservare le nuvole che sfiorano le onde spinte dal vento, o i scintillanti raggi di sole che giocano con le increspature, o i grandi alberi sull’argine che si curvano per fissare la loro immagine riflessa, o il bosco tutto verde e oro, o i gigli bianchi e gialli, o i giunchi che ondeggiano oscuri o i falaschi, o le orchidee o gli azzurri non-ti-scordar-di-me. Liberatevi della zavorra, uomini!

Lasciate che l’imbarcazione della vostra vita sia leggera, carica soltanto di quello di cui avete bisogno: una casa accogliente e qualche semplice piacere, un paio di amici degni di questo nome, qualcuno da amare e che vi ami, un gatto, un cane, e una o due pipe, cibo e indumenti a sufficienza e da bere in abbondanza, perché la sete è una compagna pericolosa. La barca sarà più facile da governare, e non sarà tanto soggetta a capovolgimenti, e se si capovolgerà non sarà così grave; la merce semplice e di buona qualità sopporta un bagno. Avrete tempo per pensare oltre che per lavorare. Tempo per scaldarvi al sole della vita… tempo per ascoltare le melodie eoliche che il vento divino trae dalle corde del cuore umano tutt’intorno a noi… tempo per… Scusate tanto. Divagavo.” (Tre uomini in barca, per non tacer del cane, Jerome K. Jerome)

Mi faccio un totem

Ah i guru, che cosa magnifica i guru, quando cercano posizione corretta a favore di flash, di click o d’altro che immortali immagine loro e la renda a popolume adorante quale totem definitivo di bellezza insuperata. Quelli, i guru, tutto capirono della vita che si fecero pagare un tanto al chilo da mille mila persone a teatro strabordante per dire esattezza di come svolgimento debba essere di vita ad altri.

Che ruolo magnifico e specifico hanno i guru, leader di pensiero, totem di venerazione, che alleggeriscono peso di pensiero ad ognuno che lo serba così a far carico di lavoro esclusivo, a farsi sfruttamento per giiustificato motivo che guru seppe trovare tra le pieghe (pure le piaghe) della mente

Ascoltai santi guru, talora a soluzione di sorriso, tale altra volta a digrigno feroce di dente che offerta è vasta, ad imporre felicità a venti quattro. Chi non ebbe a goderne di detta gioia intrinseca d’ascolto si fece peggior nemico di sé stesso per mancati plasmi d’immagine esatta a precisa somiglianza. V’è pure guru che invoca dolore su dolore, ferma espiazione come fatto d’obbligo. E se non v’è dolore bastevole, metaforico cilicio sarà a colpire fedifrago che se ne sottrasse. E piccola borghesia dolente ebbe a ciascuno membro suo guru a scaffale di social o d’altro canale TV, pulpito amorevole, libro denso di fai ciò che dico a costo modesto. Io pure ebbi grande guru cui rimasi ad affezione autentica per portento di messaggio ch’egli trasmise. Ei fu Pilu Rais, grande navigatore con barca a sganghero e miserabile piega di sguardo a tempesta di sale. Egli, intriso di saggezza, a domanda precisa su destino d’umanità, elaborò risposta a scanso d’equivoco: non mi rompete i c…

Contrappasso a perdere, in un 25 Aprile d’un giorno qualunque dell’anno

Di memoria ne ho che va a zonzo, pure ad antico, che ancora serba cose d’interesse. Ciascuna di quelle dette cose, come se ebbe a dotazione filtro di precisissimo brevetto, mi dice che domani non c’è discussione, che detto giorno che fu primo è a merito che è tale solo se fu inizio.

C’era che, poco più che bimbo, calavo volantino a mosca nel fosso di parte esterna di molo, e mi tirai su ope e scorfani in un certo numero, buoni per brodetto. Dentro il porto salvo, che il mare pareva stirato a raso, don Angelo, a cima legata di lampara, sbrogliava la rete sua. Che il silenzio era tale da sobbalzo al mondo intero per motoscafo feroce di cavalli. Ch’io mi rivolsi al vecchio, e, giovane creatura, m’espressi di stupore per tale roboante manifestazione di potenza, che con quello ci poteva andare pure lui, senza perdere intera notte, alla secca del miracolo. Il vecchio nemmeno sollevò il capo per il suo “cu minchia si ni futti?” Forse per affezione alla barca di sussistenza, che più di tale non era. Poi mi invitò a far giro per cambiar darsena a bordo, pure rapido, mi disse che l’altro approdo, a borbottio di motore vetusto, si disponeva a mezz’ora almeno, e l’orizzonte, che il mare era calmo a piatto, presagiva cambio repentino di libeccio. Saltai a bordo, e non si fece che un chilometro o due, che il furibondo fuoribordo che scosse il mare, se ne giaceva a panne, che lassù, padre notabile e figlio, coetaneo mio, si sbracciavano che non c’era domani, neppure, dissero, il walkie talkie gli funzionava, e razzo a segnale, pareva petardino a santa patrona. Il vecchio si contrasse in sforzo di lancio di cima e, sbuffando col motore a scarburo di lampara, trainò a riparo certo, e a rinuncia di viaggio proprio, la belva pluricavallata, mentre l’increspo, a previsione esatta, si fece cattivo. Appena in tempo toccammo porto salvo, che il tale del fulmineo scafo, a gratitudine, tirò fuori la grossa banconota per conferirla al vecchio salvatore. Ma quello rifiutò a sdegno, manco alzò occhio, che la gente a mare si aiuta e non per compenso. Il ragazzo come me s’era allagrimato di paura, e io pure, a momenti, mi appellavo a preghiera per improvviso stravolgimento d’onde. Che sono passati anni, che quello pure diventò notabile come l’avo, ed è ragione che io mi feci asociale, che mi dicono invoca cannoneggiamenti quotidiani per chi arriva da lido lontano a disperazione, che se annega pure, a dispetto d’età, è sempre buon cibo di pescecane.

E questo è fatto preciso che storiellin ebbe morale, appunto, che di 25 Aprile si ebbe a necessità di far giorno lungo quanto anno in totale, pure se c’è taluno e talaltro che anche a giorno uno pare a camminamento con sabbia nelle mutande e ortica a sotto le ascelle.