C’è nella musica, c’è nelle onde

Rimetto in gioco, solo per qualche frammento di struggente nostalgia, una cosarella d’una certa datatura.

«Fabbricare, fabbricare, fabbricare
Preferisco il rumore del mare
Che dice fabbricare fare disfare
Fare e disfare è tutto un lavorare
Ecco quello che so fare.
»
(Dino Campana)

Se ci sono parole giuste, messe in fila come devono stare, quale è il senso d’aggiungerne altre?
Se pure la musica non pare abbisognare d’altro che non sia se stessa, e le immagini raccontano d’infinito e basta, evocano terra di Lestrigoni, regni di Poseidone, pescatori Fenici, intemperanze di Ciclopi, perché scrivere ancora?

«Quando i miei pensieri sono ansiosi, inquieti e cattivi, vado in riva al mare, e il mare li trasforma con i suoi grandi suoni larghi, li purifica con il suo rumore, e impone un ritmo su tutto ciò che in me è disorientato e confuso.» (Rainer Maria Rilke)

Nostalgie fuori rotta

Parlar di cose che passano per quotidiana abiezione mi venne a noia. Pure prima ne avevo noia ma non frenai dita sui tasti a dir qualcosa. Che ad istante in cui lo feci ne ebbi quasi pentimento ché a struggersi per destini infami d’umanità sepolte, si finisce a scavar tombe insieme ad altri. Pratica che non mi fece mai troppo bene, ch’ebbi desiderio, piuttosto, d’altro che non fu altro che infinito e basta. Così, a rievocar altro mi faccio musica buona, tale che mi trascino da giovane età, pure dopo come conseguenza di lancio pregresso, musica altra rispetto al consueto mio che è a mono tema di jazz, ma che non si fece mai troppo in disparte nei miei pensieri. E l’accompagno con un pezzettino preso da qui, forse pezzo d’autobiografia, forse no. Ma che importa che lo sia o no, giacché è sempre perduto il tempo per scrivere autobiografie di nessuno.


«E giunse il tempo che desiderio di vertigine m’appare solo a sistemar chiappe a scoglio comodo, a favor di tenue brezza di ponente. Lì c’è posizione di sguardo ad altro tempo che andò via a rapidi scivolamenti. Feci collezione di pergamene e titoli a ceralacca, di timbri e pacche sulle spalle, inchiostri di stilografica raccolsi.

Mi ravvidi di saggezze elevatissime di fini accademici, sagaci elucubratori di teorie d’avanzo e professori mi professarono vie salvifiche di conoscenza.

Capitani coraggiosi m’imbellettarono narrazioni d’autentico infinito di profondità e preti e frati e paternostri m’illuminarono d’incenso, mi deliziarono d’omelie un tanto al chilo, pure in odore di santità mi parvero audaci pescatori di ghiozzi a tendenza d’eversione. Le madame dorè, le miti volontarie di misericordia e signori dabbene di circolo esclusivo, di fatta impeccabile doppiopettata e profumo millefiori, mi fecero di sé modello esclusivo e beato. Arguzia finanziaria mi trasmisero autentici scienziati di doblone ed a cure immaginifiche mi sottoposero per trattamento di deviazione.

Che però nacqui storto e storto rimasi, pur se mi sdoppiai a far finta d’assecondo. Che ora, a fase due, non m’è dato di adeguarmi all’immane trogolo di carni e sangue di sacrificio a conforto per Marte e Atena. Che però appresi di non apprendere, pur se assorbii finale convincimento che nemmanco le dame di San Vincenzo riusciranno a far del bene, ch’esse mai seppero cos’è la vita, che imbracciano sotto coscia, ad occulto, mitra e bomba.

Ch’io tutto imparai da puttane senza protettore, a quartiere miserabile dove misi dente da latte, e che, accademia autentica di bellezza, fu soffocato a rango di supermarket per saccheggio conclamato, con reparto d’onnisciente mammasantissima. Pure imparai da lambretta smarmittata di venditore di granchio per cattura a pietra celeste, da pazzo con canottiera su cappotto e camicia avvoltolata in testa, per posto a cappello in mano, a buco tappato per dammi cento lire, ci hai ‘na sigaretta.

Che mi venne ad aula di lezione autentica osteria perduta, di abitanti a perenne nostalgia di bicchiere pieno, e vecchio compagno che s’accompagna a miserabile scarpa rotta, pantalone logoro e mano di calli e calce viva, curvo di schiena ma mai domo a dir di padrone peste e corna. Pure non fu capace di sopravvivenza a quello, nemmanco per saggezza di mutua a scarso d’assistenza e forse per cicatrice di manganello per protesta di contro legge. Imparai dinamiche sofisticatissime d’universo da lavandaia a tempo perso, balia asciutta e odor di varechina. Altro seppi da pescatore silenzioso a barca a puzzo di cherosene e sangue di pesce raffermo, con ruga che solca il volto quale fiume di sale e fatica di sole.

Che nessuno dei secondi ebbe allora a far mai guerra a talaltro, mai tirò indietro la mano a soccorso per chi vien dopo. Pure, a gengie sfatte, non smisero a riso per bimbo che passa, ch’io mi ricordo, che a denti non m’ero provvisto ancora, di tali sdentature di pace, ora che vedo biancheggiare nobili fauci di squali.»

Piccoli, reiterati messaggi nella bottiglia

Mi sono accorto che WP concede un piccolo dato che prima non avevo notato: riporta il numero dei download – si dice così – di file dal blog. Ecco, qualche tempo fa, avevo messo un file scaricabile, una cosa della cui natura avevo parlato qui, dunque non mi ripeto. Ce ne sono stati diversi centinaia, che è cosa che mi dà una certa soddisfazione, e non per ragioni numeriche, nemmeno so se chi ha scaricato il file poi l’ha letto, gli è piaciuto, se ne è stizzito già al primo rigo o poco oltre. È proprio nell’indeterminatezza dell’esito finale di quello scritto che provo gusto, ché in quello sta il messaggio nella bottiglia. Chi lo lancia in mare non saprà mai se qualcuno lo troverà, se lo leggerà in preda a stupore, oppure un’onda dispettosa di risacca non schianterà il vetro sugli scogli, lasciando la carta a macerarsi lenta in acqua e sale.

“Le finestre, talvolta, sono copertine di libri aperti, le porte finestre lo sono di grossi tomi che s’aprono sulle distese di pagine di terrazzi e balconi. Libri di memorie, diari di viaggio, appunti per una fuga. Pagine ancora intonse, da riempire di parole. Mi sono convinto che il Borneo di Salgari deve essere stato scritto su quelle pagine. C’è un momento migliore degli altri per scriverci sopra, quando s’apre la copertina rigida e fuori è appena l’alba. Fa ancora freddo, e l’aria t’entra sotto la pelle, cerca riparo, s’apre varchi e risveglia le curiosità della notte. La luce non mostra ancora la consuetudine, ma fa della penombra l’anticamera della scoperta, come se alla sua esplosione il già visto dovesse trasformarsi nell’inattesa sortita della sorpresa.

Stamane era fresco su quelle pagine, ed il fiume di sotto pareva una striscia dorata rimarcata da piogge abbondanti. Poi i raggi più impertinenti, come un re Mida al contrario che ha cambiato fornitore di stupore, lo trasforma in un budello color rame. E mi viene di lanciargli una bottiglia – ho avuto tempo a sufficienza per procurarmene una vuota, pure con tanto di tappo a tenuta – perché la consegni al mare con un messaggio, un pizzino da niente su cui ho buttato uno scarabocchio, giusto tre parole in fila. Ma mi viene, così per scherzo, l’idea di anticipare la bottiglia. E allora mi precipito su un tronco, una zattera, una canoa, pure un canottino gonfiabile va bene, a favore di corrente sino al mare. Lì c’è bisogno d’altri mezzi, roba cui cazzare la randa e il fiocco per cogliere tutto il vento necessario a strappare nodi alle onde, schivare la fiera famelica, le cannoniere portoghesi, i brigantini di sua Maestà, appena una sosta per un bicchiere buttato giù d’un fiato con i pirati, e poi ancora verso Sud. Sino all’approdo su una Ferdinandea che non c’è sulle carte, naufrago su una spiaggia di vetro, con la mia scorta di prugne secche, cucunci e vino.

La speranza è che un’eruzione improvvisa non mi cancelli con lo scoglio, sprovveduto emulo d’Empedocle, per di più pigro poiché per nulla propenso ad accettare la sfida dell’ascesa vertiginosa al grande vulcano, solo oziosamente sdraiato ad un passo dalla risacca. Ma se proprio deve succedere, almeno fammi ritrovare prima la bottiglia, il messaggio che mi sono mandato per vedere se sono più veloce di me stesso. Eccola là, la bottiglia, mentre si sente il brontolio sottomarino della bestia che risorge. Tra la pomice del bagnasciuga strappo il tappo, e sul postit, che con le cartolerie chiuse di meglio non ho trovato, le tre parole in fila : Appena posso arrivo.”

Quasi mi dimenticavo “il lungo viaggio”

Per chi… ancora!

Mi viene a sollecito di memoria cosa che ebbi a buttar giù ad impeto di stordimento, che tale stordimento ora pare tale e quale a quello d’allora, che c’è anche certa coincidenza di stagione e tempo bislacco che di vento porta via. E tale vento porta aria di mare lontano che, mare intendo, a non averlo accanto o dirimpetto, pare faccia amplificatore d’infinita stanchezza. Pure le perturbazioni che oggi lasciano posto a presunta primavera mi fecero salire temperatura, che adesso paio in pieno cambio climatico anch’io.

“C’è un tempo in cui devi lasciare i vestiti, quelli che hanno già la forma abituale del tuo corpo, e dimenticare il solito cammino, che sempre ci porta negli stessi luoghi. È l’ora del passaggio: e se noi non osiamo farlo, resteremo sempre lontani da noi stessi.” (Fernando Pessoa)

Quel tempo arriva nelle forme che vuole, quando desidera di farlo, mai si presenta a richiesta, finge di non essere stato invitato, pure se ad evocarlo è stata ogni stilla di sangue e sudore che puoi buttar fuori. Ci hai pensato a quel tempo, in un lasso di tempo infinito, indeterminato, non te ne serve altro. È roba che si consuma a gambe ferme, non quando ti muovi, nemmeno quando ti si muovono le consapevolezze doverose del quotidiano, quando l’abito da lavoro che t’è toccato pare così logoro che non c’è più spazio per immaginare il colore della carne che prova a nascondere. Che è dato a stupirsi pure per la scoperta d’essere colorato in qualche modo, non d’amorfo grigio, che era cosa che desumevi da stanchezze definitive. Si realizza di forme concrete un tempo ancora d’orizzonte, ch’è perso nel chiaro d’una luna, forse nelle cappe del sole di scirocco, nel rosso della sabbia del deserto che s’avvicina a trasporto di libeccio. C’è ancora quel profumo strano, acre, di vita vissuta come viene, pure dovrebbe non esserci, che non c’è distesa di posidonia nelle aule vuote, nemmeno nelle stanze a vista di terminale. Lo specchio pare gioca ogni giorno ad implacabile riflesso d’autore, non fornisce manipolazioni sghembe d’immagine, che non si riconosce mai d’acchito, non fa come riverbero azzurro di mare, che di distorsione fece solo virtù sua.

In quotidiano di lavorio indefesso c’è urlo ovunque, sgraziato e d’artificiosa perfetta fattura, che a natura è altro che frastuono, quando è tuono a spavento pare invece rimbrotto benevolo, strappa sorriso, fa regalo di libertà che non è d’acquisto a svendita. Risorsa da lavoro, si dice, pare compenso per acquisto di libertà, ma quella non è cosa d’un tanto a chilo, non merita che la fatica d’essere vissuta a pieno, che vuol dire avere occhi per compiacersene, non polmoni per respirare la merce che ne è surrogato. Ed è vero, poi, ed alla fine, che il lavoro rende liberi, liberi dal desiderio d’esser liberi, quando te ne sei assuefatto e quel tempo, quando arriva, ci sta che si palesa e non te ne accorgi, che hai dimenticato in fondo ad un cassetto di inutili memorie l’orologio che suona al suo passaggio.

Un giorno che è tutto l’anno

Di memoria ne ho che va a zonzo, pure ad antico, che ancora serba cose d’interesse. Ciascuna di quelle dette cose, come se ebbe a dotazione filtro di precisissimo brevetto, mi dice che oggi non c’è discussione, che detto giorno – a nomina precisa di Liberazione – che fu primo è a merito che è tale solo se è inizio.

C’era che, poco più che bimbo, calavo volantino a mosca nel fosso di parte esterna d’i’un molo, e mi tirai su ope e scorfani in un certo numero, buoni per brodetto. Dentro il porto salvo, che il mare pareva stirato a raso, don Angelo, a cima legata di lampara, sbrogliava la rete sua. Che il silenzio era tale da sobbalzo al mondo intero per motoscafo feroce di cavalli. Ch’io mi rivolsi al vecchio, e, giovane creatura, m’espressi di stupore per tale roboante manifestazione di potenza, che con quello ci poteva andare pure lui, senza perdere notte intera, alla secca del miracolo. Il vecchio nemmeno sollevò il capo per il suo “cu minchia si ni futti?” Forse per affezione alla barca di sussistenza, che più di tale non era. Poi mi invitò a far giro per cambiare darsena a bordo, pure rapido, mi disse che l’altro approdo, a borbottio di motore vetusto, si disponeva a mezz’ora almeno, e l’orizzonte, che il mare era calmo a piatto, presagiva cambio repentino per libecciata. Saltai a bordo, e non si fece che un chilometro o poco più, che il furibondo fuoribordo che scosse il mare, se ne giaceva a panne, che lassù, padre notabile e figlio, coetaneo mio, si sbracciavano che non c’era domani, neppure, dissero, il walkie talkie gli funzionava, e razzo a segnale, pareva petardino a santa patrona. Il vecchio si contrasse in sforzo di lancio di cima e, sbuffando col motore a scarburo di lampara, trainò a riparo certo, e a rinuncia di viaggio proprio, la belva pluricavallata mentre l’increspo, a previsione esatta, si fece cattivo. Appena in tempo toccammo porto salvo, che il tale del fulmineo scafo, a gratitudine, tirò fuori la grossa banconota per conferirla al vecchio salvatore.

Ma quello rifiutò a sdegno, manco alzò occhio, che la gente a mare si aiuta e non per compenso. Il ragazzo come me s’era allagrimato di paura, e io pure, a momenti, mi appellavo a preghiera per improvviso stravolgimento d’onde. Che sono passati anni, che quello coetaneo mio pure diventò notabile come l’avo, ed è ragione che io mi feci asociale, che mi dicono invoca cannoneggiamenti quotidiani per chi arriva da lido lontano a disperazione, che se annega, a dispetto d’età, è sempre buon cibo di pescecane.

E questo è fatto preciso che storiellina ebbe morale, appunto, che di 25 Aprile si ebbe a necessità di farne giorno lungo quanto anno in totale, pure se c’è taluno o talaltro che anche per giorno uno come rimase, pare di far passeggiata a piede nudo su scoglio puntuto, sabbia nelle mutande e ortica sotto le ascelle.

Dis(s)ertando

Ritirarsi non è scappare, e restare non è un’azione saggia, quando c’è più ragione di temere che di sperare. Non c’è saggezza nell’attesa quando il pericolo è più grande della speranza ed è compito del saggio conservare le proprie forze per il domani e non rischiare tutto in un giorno.” (Miguel De Cervantes) Fuggire non è solo disertare dalle armi, è andare oltre lo scontro contro un potere che non comprende altra parola se non quella della guerra, del silenziare la voce degli ultimi, ad ogni costo.

Quando lo strapotere delle forze in campo è tale da non ammettere che esista altro vincitore se non chi detiene gli strumenti della sopraffazione, la diserzione è necessità di vita, la resa a quella s’accompagna. Innalzo sul pennone più alto d’albero maestro la mia bandiera bianca, a segnalare la presa di posizione definitiva ed inderogabile, e che sventoli, perbacco, che sventoli. Mi decido sì per resa, che d’apparenza è a scanso di condizione, ma nasconde ritirata strategica, attacco pure su tutti i fronti. Se non partecipi al gioco, il giocatore che resta è già sconfitto, si ritrova senza trastullo. Il mondo dei padroni del vapore ha necessità di nemici ed io mi sottraggo al ruolo di parte, mi faccio a lato che è decisione spontanea, dunque odora di trionfo. La ritirata, così, non fu mai solo tale e basta, piuttosto attrezzo a vita altra che non guarda per vedere, che vede senza guardare con occhi di dentro, e fu disegno di ri-scoperta, di dimensione e-versiva del vivere. Conquisto, avanzo, in ritirata, m’approprio di non appropriazione, esproprio l’inappropriato, riprendo posizione in orizzonte aperto, in dettaglio sfuggito, che di quelli v’è traccia a campo di battaglia a devastazione, che parevano conquistati ed invece, liberati d’assillo di conquista, appaiono fioriture d’uomo libero.

Mi riprendo scogli dorati, colori spumeggianti d’abbandono, le diacronie del tempo, le note andate ed il respiro profondo della memoria fervida ed ininterrotta dei ricordi. Questi tamponano il presente ad ingorgo, sfrecciano come saetta spuntata e non di guerra oltre il presente, si fanno futuro di prospettiva. Ed il nemico che avanza è già fuggito in disfatta, ch’è schiavo di sua stessa guerra quotidiana, di libertà negata a prigionia autoinflitta per fila alla cassa, di direzione mai a linea sghemba. Procede a linea dritta, il nemico, che solo quella conosce, non ambisce a percorso lungo e panoramico, alla lentezza che vede tutto. Corre illimitato a velocità di logaritmo, che non v’è dettaglio nell’accelerazione a parossismo che narra di storia, spera solo a stazione celata da muro, in benedizione d’assoluzione, di conforto in sacre stanze di corruzione. La resa non è prevista, nessuno s’arrende, dunque sono finalmente nessuno, ho isola per diserzione ch’è sorta dal mare e nessuno vede, che l’uno qualunque non ne conosce esistenza nemmanco a binocolo o telescopio portentoso che occhi non ha, nemmeno prospettiva di deriva e approdo.

E allora:

«In piena facoltà egregio presidente
le scrivo la presente che spero leggerà
la cartolina qui mi dice terra terra
di andare a far la guerra quest’altro Lunedì

Ma io non sono qui egregio presidente
per ammazzar la gente più o meno come me
io non ce l’ho con lei sia detto per inciso
ma sento che ho deciso e che diserterò

Ho avuto solo guai da quando sono nato
e i figli che ho allevato han pianto insieme a me
mia mamma e mio papà ormai son sotto terra
e a loro della guerra non gliene fregherà

Quand’ero in prigionia qualcuno mi ha rubato
mia moglie, il mio passato la mia migliore età
domani mi alzerò e chiuderò la porta
sulla stagione morta e mi incamminerò

Vivrò di carità sulle strade di Spagna,
di Francia e di Bretagna e a tutti griderò
di non partire più e di non obbedire
per andare a morire per non importa chi

Per cui se servirà del sangue ad ogni costo
andate a dare il vostro se vi divertirà
e dica pure ai suoi se vengono a cercarmi
che possono spararmi io armi non ne ho» (Il disertore, di Boris Vian, trad. G. Calabrese, nell’album di Ivano Fossati Lindberg)

Rilanciate, se potete e volete, il testo di questa canzone. È un messaggio universale di pace.

Per feste buone ad ognuno

Dimmi, enigmatico uomo, chi ami di più? tuo padre, tua madre, tua sorella o tuo fratello?
– Non ho né padre, né madre, né sorella, né fratello.
– I tuoi amici?
– Usate una parola il cui senso mi è rimasto fino ad oggi sconosciuto.
– La patria?
– Non so sotto quale latitudine si trovi.
– La bellezza?
– L’amerei volentieri, ma dea e immortale.
– L’oro?
– Lo odio come voi odiate Dio.
– Ma allora che cosa ami, meraviglioso straniero?
– Amo le nuvole… Le nuvole che passano… laggiù… Le meravigliose nuvole!

(Charles Baudelaire, L’étranger)

Due parole in fila, per farvi un buone feste come so fare, che di meglio non mi viene.

Se vi fosse in uomini amore per le nuvole, vi fosse passione per onde del mare, vi fosse desiderio d’acque gelide di fiume, come quello che a pochi mesi fa consentì poderose bracciate, ed ora vale appena per pediluvio in acqua di stagno; se vi fosse estasi a cospetto di quadro d’abilissimo pittore di strada, di bosco e di prateria, financo di deserto incontaminato e steppa gelida, piacere autentico di far l’amore, se uomini anelassero a corale sentimento per pane e pomodoro, bicchiere di vino a compagnia sana (che è umanità intera, se vi fosse) pure, se vi fosse autentica gioia in ascolto di musica di suono giusto, vi fosse piacere a lettura di poesia ispirata, vi fosse piacevolezza del godere d’orizzonte sgombro, occhio che guarda oltre, sgomento dinnanzi alla rena, allo scoglio, financo al vento ed alla bufera che scompiglia quei quattro capelli che mi rimasero in ordine sparso, a chi verrebbe a giovamento di far di piacere e ricerca per bombarda, strage, miseria?

Ma tutto ciò che è “se vi fosse” non è che a lontananza di vertigine da desiderio di uomini, e non v’è che in uomini assai pochi – poveri e pazzi – voglia d’altro che non fu compulsione nel non vedere, sofferenza nel guardare, distrazione a mondo intero, non fu responsabilità d’uno, due, o pochi – cui rivolgere maledizione per angoscia d’arrivo a fine mese e caro di bolletta – gettar bomba, accaparro d’armi, fu invece scelta collettiva, fu condiviso per silenzi sfruttamento feroce d’ogni frammento di terra, d’altro uomo cui non ci affratella abbastanza natale, fu ipocrisia piantar alberello ad abbellir villetta a schiera che pare salvai il mondo da disastro annunciato. Né è a salvezza che non decisi io, se a far cosa ch’io faccio decide progetto di vita cash & carry, pure di tutto e subito, e io non me ne faccio a sottrazione. Se vi fosse in uomini a loro complesso, anelito definitivo di bellezza e basta, voglia di un bicchier di vino od una tiratina di pipa o cicca con amici, a star mano nella mano con amata o amato,

a tirar bombe, uno, due, pochi, fanno da soli, e a digrignar gengie a rabbia per ignoro corale, si fecero condanna per inutilità conclamata, che resto di mondo, invece, con risata globale che si deve a cospetto di scemo del villaggio, finalmente, li seppellirà.

Porti salvi

«…l’umore di quella moltitudine d’emigranti seguiva con fedeltà mirabile le variazioni
del mare. Come parlando con un personaggio potente, al quale domandiamo un favore, e che ci può nuocere, il nostro viso riflette inavvertitamente tutte le espressioni del suo, così i pensieri e i discorsi di tutta quella gente si facevan neri, gialli, grigi, azzurri, lucenti secondo che era il colore delle acque. Esattissimo è il dire “la faccia del mare” poiché lo spianarsi e il corrugarsi della sua
superficie, e le ombre che vi guizzano, e le tinte pallide o tetre che la coprono all’improvviso, rassomigliano in modo maraviglioso ai moti di una faccia umana, la qua le rispecchi l’agitazione d’un animo mobilissimo e mal fido. Quanti mutamenti si succedevano in poche ore, sempre rimanendo buon tempo!
» (Sull’oceano, Edmondo De Amicis)

Le correnti sotto traccia portano ricordi, le onde paiono libri spalancati che raccontano di memorie. Quella distesa bisogna guardarla con attenzione, non si può far finta che sia solo bella, che sia piena di fascino. È un approccio sbagliato, da cartolina mordi & fuggi. Non sei al cospetto d’una vetrina, d’uno spettacolo, per quanto portentoso, da circo. Sei davanti alla più grande delle epopee, il racconto più ardito. Infinite pagine, infiniti sguardi i cui occhi sono dappertutto. Non c’è infinito più infinito, e quello ti entra dentro rendendo te stesso infinito. La vertigine dentro quel blu cangiante diventa definitiva, ci si abitua, finisce che non ci si accorge nemmeno di provarla, come ci si abitua ai propri acciacchi, ai propri malanni, alle proprie sorti, pure a quelle nefaste. Lì c’è tutto l’uomo, con i suoi fardelli, le sue noiose steppe, i suoi vulcani d’intemperanza, le sue tragedie. I porti sono le librerie che raccolgono quelle narrazioni, sono salvi per forza, non si chiudono mai, come non si chiudono le rene sconfinate, gli scogli puntuti, le isole e i promontori. In mare è tutto aperto, chi non ci crede nega le sorti dell’uomo. Mai quelle furono sorti semplici, sono vicende d’afflati, d’abbracci, non negano mai braccia tese, mani pronte a ghermire una sorella, un fratello che tra l’onde ha deciso di sfidare tutto e tutti per speranze nuove, per semplice desiderio di vita. Chi non trova l’approdo non può essere solo, anche quando i flutti lo rendono particella del tutto. C’è la storia dell’uomo con lui, chi si volta altrove, chi desidera il martirio d’altri, chi non concepisce il porto salvo non è parte di quella storia, la inquina negando se stesso.

«“Mori? Mori ‘Ndrja?” singultarono gli sbarbatelli. “‘Ndrja, ‘Ndrja, ‘Ndrja.” lo chiamavano e singhiozzavano. Ma quanto a Masino, fu un momento e poi fu tutto un pensiero, quello di allontanarsi di là, sulla stessa lancia dove si trovava, riportare ‘Ndrja a casa, vogare, vogare, fare quella vogata di una diecina di miglia, riportare ‘Ndrja a casa, sullo scill’e cariddi. Si rigirò agli sbarbatelli:
“Oooh.oh. Oooh.oh.” e la lancia, pesante prima e poi sempre più leggera, ripigliò la corsa in avanti.
Masino pensò, pensava solo a portare ‘Ndrja al duemari: solo quel pensiero sentiva, pungente, doloroso, dominante e commosso, nella sua mente. E con quel pensiero, gli pareva di speronare e scavare il mare davanti alla lancia, con quel pensiero barbaro, pietoso, lo riportava al loro mare.
“Oooh.oh.” gridava: e gridava al mare medesimo, lui in persona spronava, speronava.
Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare.
» (Horcynus Orca, Stefano D’Arrigo)

Vi riposto qui il mio lungo viaggio, magari ve lo siete perso, che comunque non è cosa gravissima.

Tempi moderni

Quante parole rimangono quando ci si è accorti d’averne usate tante? Per quante ce n’è in un vocabolario quelle non bastano, non sai dove cercarne altre che servono, tutte quelle che hai sono diventate nero su bianco. Non bastano nemmeno, sia che le usi tutte assieme in un sol frangente, sia che ne fai lunghe e spedite fila, una dietro l’altra, fila indiana, processione per fedeltà di cassa. Il vuoto più silenzioso e profondo di vertigine infinita non pare più sufficiente a contenerne ancora, ma non bastano, ancora non ce la fanno. Se dico sgomento neppure è sufficiente, non ho altro però.

Ci sono truppe che s’ammassano, l’une ai confini d’altre, muscoli tesi, bombe lucidate a nuovo. Si sente il coro delle gengive che digrignano, della fabbrica che sforna bomba ancora, nuova di zecca, micidiale d’intelligenza, che non fa sconti. «Io ci sono», urla l’apice piramidale, la base crolla ecchissenefrega, tiro dritto. Il nemico non è in trincea, il nemico è mondo intero, il nemico è globale, tutti contro tutti. Tecnologie furibonde, di modernismo che pare alieno, contemporaneità del genio che fa morto. Grande potenza su grande potenza, minaccia reiterata, gioco d’adolescente che fa a chi piscia più lontano ed ogni pisciata è morti a fasci. Terribile cometa di falce spiegata, a mietere vittima, che sia disgraziato innanzitutto. Ed a scuola si studia la crudele guerra di trincea che fece vittima per fuoco amico e nemico a fronte che pareva immoto. Quello non era piombo abbastanza intelligente, non aveva grande progresso ad animarlo, non spazzava via popoli interi, pare guerra da Neanderthal. Padroni del vapore, signori della strage dettano leggi che chi muore muore. Studente per pace è target di manganello, intelligenze artificiali elevatissime menti tutto possono per fatto di morte, c’è dignità d’applauso per grande statismo.

Trogloditi che non fanno fatica ad alzar dito per morto d’annego, a scappare da terra che gronda sangue per nostro signore tenore di vita, dio d’inferno che fece fila a cassa di grossmarket, grossi coglioni ebeti e disumani che starnazzano «portateli a casa tua se non li vuoi ad annego». Commozione su commozione vale un tanto al chilo solo a mercato comune, a PIL che s’ingrossa, vittima è vittima se consuma abbastanza, altrimenti se l’è cercata, si fece curioso di profondità d’abisso e tanto va la gatta al lardo… Lo fanno apposta a venir sotto costa, è boicottaggio di nemico a stanarlo a bomba è conveniente, poi c’è reintegro con appalto per subappalto, a torma di vassallo, valvassino, valvassore. C’è rischio per stagione estiva che s’è fatta a prolungamento causa fortunata inversione climatica che fa strabuzzare occhio di gioia a padrone d’ombrellone a serie continua, rena privata dove non è lecita morte e bagnino soccorre lì non oltre. Portaerei potentissima non fa cose scurrili e banali che non siano lancio di missile ed aereo supersonico. Soldato è robocop, drone a telecomando, vittima meno, pure se a narrazione pare solo pezzo di carne, accidentale proprietario di sangue e lacrima, a sbafo però. Bimbo sta a bomba come cacio a maccheroni, donna incinta sta ad annego come il nero sfila. Buona fortuna. Viva il supermarket, viva quello saccheggiato.

Dei colori perduti

«Il mare ha questa capacità: restituisce tutto dopo un po’ di tempo, specialmente i ricordi».(Carlos Ruiz Zafon) Un tempo fotografavo il mare con tutti i suoi colori, quelli dell’imbrunire, quelli dell’alba, il pieno giorno, il sale che si finge nebbia in istanti di bufera, il blu ed il verde, i mille altri di cui è capace di vestirsi. Poi le mie foto hanno cominciato ad ingrigirsi, appaiono bruciate, brandelli di memoria che si inseguono nella speranza di riportare tutto ad un originale iridescente che non emerge più dalle acque. Per questo, a meglio specificare, faccio riciclo di cosa vecchia, per una volta o due, e forse tre, ed è riciclo che si fa d’uopo, ancora per far bagaglio di memoria per chi, pare, non ha diritto a ricordo che non sia di rena d’abisso.

«Durante i miei viaggi, che non hanno ancora fine – solo l’Insondabile sa che cosa cerco e se un giorno mi sarà dato di trovarlo -, ho conosciuto tre specie di viaggiatori. Prima ci sono i devoti pellegrini. Che il Generoso vegli su di loro. Poi vengono i sereni commercianti, che seguono le tracce delle carovane. Che il Perfetto abbia cura dei loro beni e li moltiplichi. E infine ci sono coloro che sospirano contemplando il vago orizzonte del mare. Strani uomini senza alcun attaccamento ai beni che Allah dispensa loro. Preferiscono dipendere dalla sua volontà durante le terribili tempeste che godere dell’amorosa ospitalità del bazar. Le loro anime trovano maggiore pace nello spaventoso ruggito del vento, che nella pia voce dell’ iman quando dall’alto del minareto annuncia l’ora della preghiera. Che il Misericordioso allievi le loro pene, perché sento che questi sono i miei fratelli.» (Muḥammad ibn ʿAbd Allāh ibn Muḥammad al-Lawātī al-Ṭanǧī, noto come Ibn Battuta, dal romanzo «Un nome da torero», di Luis Sepulveda)

Cos’è diventato il mare? Quello di petto al quale stavo da ragazzino, su uno scoglio ad aspettare che all’amo ci fosse qualcosa di notevole, di gigantesco, pesante. La lampuga, che lo scirocco si porta via, ma qualche volta invece se la pensa così, vira dal largo e poi punta sotto costa, per capire se c’è roba da mangiare. Che finge d’essere altro, con quella pinnettina azzurro e argento, che strappa l’urlo a quei tre turisti tedeschi affacciati alla banchina del porto perché hanno sbirciato tra le pagine di Goethe, che c’è il pescecane, come in una canzone di Kurt Weill. Zitti, che magari ci casca e viene a fare colazione all’amo. O la ricciola che, meno pudica e più ingorda, s’appresta a lambire la
costa, come bestia famelica. Ma anche due sauri e quattro ope vanno bene. E quelli prendo.

Che fine ha fatto il mare del libeccio, che prima tartaglia giorni interi, poi s’arruffa il pelo e t’avverte col boato dell’onda, col ringhio della risacca, l’odore del sale, che con lui non si scherza. Poi si stanca, e se ne sta buono buono, quasi voglia farsi perdonare per l’ascesso d’ira, nascondendosi dietro forma di specchio, senza manco farti capire dove finisce lui e passa le consegne al cielo, laggiù in fondo, dove tutto curva e la vela fa capolino, mentre il resto della barca pare se lo siano inghiottito Scilla e Cariddi. E allora ti piglia quella specie di commozione per come s’appresta a farsi bello il tuttod’intorno. Non ti viene da fare nessun movimento, non tiri su la lenza e la lasci lì, sotto sotto sperando che nulla abbocchi. Che il tonfo della bestia che si divincola non spezzi l’incantesimo, che non ti costringa a far fatica per tirarla a secco distraendoti dal meravigliarti. Al limite ci pensa Pilu Rais a tirar su la cernia, con la sua barchetta e la faccia d’uomo senz’anni, cotta dal sole e scavata di rughe di sale, che somiglia ad una carta geografica di El Idrisi riemersa dalle intemperie delle biblioteche d’Alessandria. Che fine ha fatto il mare? Quello di Giovannina e Teresa che, tra un cliente e l’altro, s’affacciavano al bastione del sole che si leva e, i grandi seni sulle ringhiere rugginose, urlavano ai ragazzini di stare attenti che sugli scogli si scivola che c’è il lippo. Ma a noi non importava di scivolare, come fili di posidonia ci saremmo rialzati come niente fosse successo, con in mano il limone rubato all’albero del vescovo, e lo scollo da intingere nel riccio aperto a piatto di gran portata, ché piccolo com’è, pure, là dentro ci sta tutto il mare. Che fine ha fatto il mare? Che ora è tomba di disgraziati. Una volta quelli venivano a raccontarci le storie d’altre rive, d’altre facce come la nostra, e le ascoltavamo con lo stupore del fanciullo. Ora sembra che debbano starsene ad abisso, per farsi perdonare d’esistere. Che fine ha fatto il mare, che non è mai stato mio e basta, ma anche d’ogni cristo che ci si affaccia, ci nuota, e d’ogni creatura che ci respira dentro? Almeno lasciatecene un pezzo, quello dell’alba che la rena è umida e deserta, quello della luna che ci si tuffa dentro. A certi cosa importa di starsene lì, se poi si sono comprati un tanto all’etto il divertimento d’una notte? Non lo sentono il suono della risacca. Ci sono distese di capannoni che hanno tirato su, produttivi, mica come noi pigre creature del mare che abbassiamo il PIL. Dunque, se tanto vi piacciono le fabbriche dei soldi che vi servono per comprare felicità prêt-à-porter, perché non vi trovate uno spazietto lì per tracannare le vostre coppe di champagne? Il mare, anzi, quel che ne resta, lasciatelo semplicemente a chi si fa saltare il cuore in gola appena lo vede, anche fuori stagione e senza servizio in camera, a chi cerca solo un porto salvo sulla sua riva.

P.S. Ho visto che in molti avete scaricato il pdf del mio messaggio in bottiglia, allora ve lo rilancio qui, questa volta lo faccio con corredo di fotografie. Sono in un formato un po’ più definito di quello che può apparire sul web, persino si possono stampare se volete e ve ne piace qualcuna. Certo non sono grandissime, un po’ le potete allargare senza perdere troppa definizione. Di più non posso, la memoria non mi reggerebbe. Ed anzi fra qualche giorno mi toccherà togliere tutto poiché temo di poterla riempire troppo la memoria che mi tocca qui. Ce ne tocca sempre poca di memoria, e quanto ce ne tocca in un portale ne diventa metafora perfetta.