L’asfissia specializzata

Ne frequento tanti d’artisti, scrivo di loro in giro, pure qui mi sono fatto una rubrichetta per parlarne. Dunque, quello che dico adesso non vale per molti di questi in questo spazio virtuale, ma è assioma per un pezzo consistente di quello che chiamiamo mondo dell’arte. Se viviamo in un mondo di confini, tracciati a lapis da aspiranti Stranamore, almeno dagli artisti si auspicherebbe che lavorassero per cancellarli, con ghirigori di pennellate, montaggi cinematografici, arzigogoli linguistici che si oppongono alle rette vie delle frontiere, ai passaggi obbligati delle dogane. Gli artisti non lo fanno, cadono nella trappola del confine o, masochisti, anelano a caderci in cambio d’oboli e prebende un tanto al chilo. Si specializzano, nel narcisismo più patologico ritengono la propria forma d’arte come unica e la propria produzione al di sopra d’ogni altra. Interpretano le altre forme espressive come didascalie, note a margine della loro opera immaginifica. Alimentano Ego smisurati, si negano al confronto, lo rifiutano perché sono soltanto macchina di propaganda per l’ingegneria della costruzione del confine mentale, preludio ancestrale a quello fisico, al muro, alla separatezza, all’allontanamento del diverso. Ne ho conferma quotidiana. La specializzazione dell’artista è il confine della provincia, nel senso più becero del termine.

È il sacrificio definitivo dell’uomo senziente richiesto dalla società dello spettacolo. L’artista diventa grottesca parvenza di creatore del nulla in forma di confine inviolabile. Io sono perché sono, oltre il muro non c’è niente. La propria narrazione dogmatica è terrapiattismo per definizione, invoca la finitezza del mondo, erge muri, ed i mercanti – potenti secondini adorati nella più orrenda delle Sindromi di Stoccolma – assecondano quel desiderio di separatezza con le “fiere dedicate”, gigantesche gabbie in cui vale il prezzo, non l’opera. L’arte deve essere specializzata, non deve aprirsi alle narrazioni eterogenee. I critici si occupano di una cosa sola, sono la quinta colonna del niente virtuale, dell’arte che non c’è, della violenza del capitale che deglutisce ed espelle feci d’atti creativi.
Vi propongo una cosarella di qualche tempo fa, a mò di principio di riflessione.

“Charles Baudelaire si scagliò con tale veemenza sulla fotografia, da far venire mossa ogni foto nel raggio di chilometri dal suo Salon. Non era ammissibile, per il poeta vergine che la fulminea attrazione dell’attimo spostasse lo sguardo dalla contemplazione elevatissima dell’arte pura, nella sua rappresentazione più autentica, come nel teatro o nella pittura. Inaccettabile il processo di massificazione e tecnologizzazione dell’arte. L’industria si sostituiva al genio creativo, lo filtrava attraverso uno strumento, poneva anche gli inetti nella condizione di potersi definire artisti. Poi si fece fotografare in poltrona dall’amico Nadar, e questi ne colse nella sua posa disincantata tutta la poetica, sublimandola nell’attimo, appunto.

Nadar aveva compiuto il miracolo, anzi no, la magia, di elevare la sua arte a livelli vertiginosi, usando l’immagine del suo più feroce – e certamente credibile – avversario, per emanciparla dal mero tecnicismo cui rischiava di essere relegata per sempre. Di più, l’invasione di campo della fotografia, capace di raccontare il reale con efficacia assai maggiore del più attento iperrealismo manierista, sospinse tutte le altre arti figurative verso orizzonti nuovi, alla ricerca di realtà parallele cui l’occhio non poteva giungere. Stessa preoccupazione di preservare la purezza dell’arte espressa da Baudelaire si ripalesò con il de profundis dei dagherrotipi e linotipie nell’eredità concessa alle prime 35 mm. Eppure, non v’è dubbio che i movimenti colti dal click di Cartier Bresson, ma anche le immagini sfocate di Robert Capa facciano parte a pieno titolo di ambienti di massima espressione artistica. Con il digitale, come per un misterioso fenomeno carsico, riemerge l’urlo dei puristi, poi la fotografia per tutti col cellulare, credo abbia fatto venire l’orticaria persino alle ortiche. E se c’è chi invita alla riflessione prima del click, stigmatizza l’improvvisazione ottica, c’è invece chi accoglie come una vera rivoluzione democratica la possibilità che miliardi di occhi moltiplichino i propri sguardi con ogni mezzo possibile, raggiungendo l’apoteosi del numero infinito di scatti. Quanti appuntamenti all’alba dietro conventi di frati minoriti si sono consumati nella disfida finale per definire la verità che distingue lo scatto fine a se stesso – ma sarà sempre tale? – dalla foto concettuale? Ammetto che non parteciperò alla dialettica serrata tra i fautori del deposito di megapixel, non prendo parte, non sono interessato alla questione, ho deciso di far repubblica e di dichiararmi neutrale. Sguscio via, piuttosto, evito di frequentare i circoli fotografici come ho smesso di occhieggiare ai cenacoli pittorici, bazzicare simposi letterali.

Mi sono fatto una mia opinione sulla fotografia, che non appartiene alla fotografia, né alla scrittura, tanto meno alla musica o alla pittura o a cos’altro vi pare. Persuaso, infatti, che la narrazione che ci portiamo dentro – nessuno escluso – trovi modo di esprimersi in un momento qualsiasi quando incontriamo la realtà che la rappresenta, e come ad uno specchio costruiamo la magia dell’incontro tra il nostro dentro e il resto d’intorno. Basta avere occhi, certe qualità dell’anima, per guardare il nostro dentro e la sua rappresentazione lì fuori. Quando accade siamo pervasi dalla meraviglia e immortaliamo l’attimo con un’immagine, una poesia, due o tre note in fila, se ci aggrada e ne siamo capaci. Ciascuno come gli aggrada esprime la propria sorpresa nel sentirsi una parte del tutto e vuole conservare quell’istante, renderlo infinito, come il tempo che oltrepassa il frammento di se stesso dello scatto. Nella fotografia, il tempo dell’incontro dura un attimo, bisogna coglierlo prima che fugga, più lungo nella poesia e nella musica, ancora più ampio nella prosa, per il respiro profondo di tempi dilatati. Ed allora basta eliminare la variabile temporale per riprendersi l’originario progetto narrativo che è la parte razionale di quell’intimo e segreto miracolo dell’atto creativo. Del resto “il tempo della produzione, il tempo-merce, è una accumula­zione infinita di intervalli equivalenti. È l’astrazione del tempo irreversibile, di cui tutti i segmenti devono provare sul cronometro la loro sola uguaglianza quantitativa. In definitiva il “tempo è, in tutta la sua realtà effettiva, ciò che esso è nel suo carattere scambiabile. È in questo dominio sociale del tempo-merce che «il tempo è tutto, l’uomo non è niente; egli è tutt’al più l’incarnazione del tempo». È il tempo svalorizzato, la completa inversione del tempo come «campo di sviluppo umano»” (Guy Debord, Miseria della filosofia). Posso dunque ascoltare un’immagine, guardare un suono, sentire l’odore intenso della poesia e della scrittura, se cancello il tempo. Ed il tempo derubricato ad un parametro “non vitale” consente di rifuggire l’orrore della specializzazione e dialogare con le forme espressive, comunque si manifestino. Se si scattano foto perché sono il nostro naturale ricongiungimento con il reale, dunque, poi è bene intrattenere rapporti con altri fotografi, ma senza codificarli nella liturgia dell’appartenenza, piuttosto val la pena leggere un libro e parlare con chi ne scrive, ascoltarsi un disco in compagnia di chi fa musica. Perché nella specializzazione si nasconde il rischio mortale dell’annullamento della dialettica concreta e progressiva delle narrazioni individuali, la cui somma è la narrazione collettiva che trascende il tempo e destruttura e annulla l’immagine-merce al cospetto dell’immaginario. In fondo Nadar non ha letto attentamente le poesie di Baudelaire prima di catturarne l’espressione “maledetta” nel volto d’un uomo in poltrona?”

Un tanto a testa

“Segui le navi. Segui le rotte che solcano le logore e tristi imbarcazioni. Non ti fermare. Evita persino il più umile ancoraggio. Risali i fiumi. Discendi i fiumi. Confonditi nelle piogge che inondano le pianure. Rifiuta ogni sponda.” (Alvaro Mutis)

M’attrezzai a sdoppiamento in illo tempore, allorché altro non fu di sconfitta persuaso. Egli s’arrovella che non se ne fece pace, ma è agitarsi di pesce in rete, che ormai non v’è più aria di disponibilità per respiro. Altro me è a ostinazione di convincimento che cimento è per destino ineluttabile, che è a produrre testimonianza, a rivendico di io c’ero, che non è medaglia al valore per me che ho identità di nessuno. Egli, però – ed è ad atto di protocollo – capì che parte di lui era a ragionare di convenienza esatta, altro se chiedeva d’essere ceduto a libertà. Indi, pure di cuore a ristrettezze, mi fece che sciolse catena. Musica è d’abbisogna.

Pure decidemmo che ciascuno prendeva d’intero parte precisa, non è a sovrapposizione possesso di frammento. Non fu facile trattativa di ciò che spetta all’uno, cosa a tal altro, ma ci fu accordo definitivo con raro sconfinamento. Ch’egli si prese carico di lavorio a saldo per bolletta, baruffa a cottimo un tanto ogni tanto, velocità per esecuzione, carato di perfezione, prodotto finale a prova d’esame. Io feci per me incetta di lentezza, del tempo feci stralcio, d’inesattezza non mi feci cruccio, obiettivo piuttosto, di divenire la retta via che fu storta sin da concepimento.

Egli s’appresentò a seriosità conclamata, a dico cosa meditata e mai d’istinto, di mediazione appacificata vezzo irrisolto, di cronometria di tempo pratica di quotidiano, patì d’urbanità represse. Io m’attrezzai di lentezze, a noia qual virtù suprema ed obiettivo di strategia esistenziale, ozio quale pratica di totem, di tempo a trascorso non m’avvidi, d’inesattezze cercai ad ogni intendimento, feci per me desiderio solitario di scoglio e basta. Pure, egli, mantenne identità a nome preciso, titolo d’accademia, appellativo di professione, epiteto d’impegno sociale, si fece portavoce d’altrui disgrazia, scrisse d’esattezza a punteggiatura, d’orpello si fece carico, di presenza non fu domo e cercò atto rivoluzionario. Dal mio, che son nessuno, mi tolsi nome, pure cognome, feci falò di tessere e passaporti, di pergamene feci fascio a cacciamosche, mi vestì di vagabondo, mi tramutai in cialtrone, godetti dell’essere evitato, evitai affratellamento se non per pari mio di nessuna identità, di scrittura feci a come mi pare, mai a come pare ad altro, fui eversivo che cambiai direzione ad evito ingorgo. Ma di tutto che ci si spartì non s’addivenne a ragionamento di questo a te e questo a me per pane e pomodoro, vino e musica giusta, che ci toccò di dividere a metà, che ce ne manca sempre abbastanza.

La divisione dei beni

M’attrezzai a sdoppiamento in illo tempore, allorché altro non fu di sconfitta persuaso. Egli s’arrovella che non se ne fece pace, ma è agitarsi di pesce in rete, che ormai non v’è più aria di disponibilità per respiro. Altro me è a ostinazione di convincimento che cimento è per destino ineluttabile, che è a produrre testimonianza, a rivendico di io c’ero, che non è medaglia al valore per me che ho identità di nessuno. Egli, però – ed è ad atto di protocollo – capì che parte di lui era a ragionare di convenienza esatta, altro se chiedeva d’essere ceduto a libertà. Indi, pure di cuore a ristrettezze, mi fece che sciolse catena. Musica è d’abbisogna.

Pure decidemmo che ciascuno prendeva d’intero parte precisa, non è a sovrapposizione possesso di frammento. Non fu facile trattativa di ciò che spetta all’uno, cosa a tal altro, ma ci fu accordo definitivo con raro sconfinamento. Ch’egli si prese carico di lavorio a saldo per bolletta, baruffa a cottimo un tanto ogni tanto, velocità per esecuzione, carato di perfezione, prodotto finale a prova d’esame. Io feci per me incetta di lentezza, del tempo feci stralcio, d’inesattezza non mi feci cruccio, obiettivo piuttosto, di divenire la retta via che fu storta sin da concepimento.

Egli s’appresentò a seriosità conclamata, a dico cosa meditata e mai d’istinto, di mediazione appacificata vezzo irrisolto, di cronometria di tempo pratica di quotidiano, patì d’urbanità represse. Io m’attrezzai di lentezze, a noia qual virtù suprema ed obiettivo di strategia esistenziale, ozio quale pratica di totem, di tempo a trascorso non m’avvidi, d’inesattezze cercai ad ogni intendimento, feci per me desiderio solitario di scoglio e basta. Pure, egli, mantenne identità a nome preciso, titolo d’accademia, appellativo di professione, epiteto d’impegno sociale, si fece portavoce d’altrui disgrazia, scrisse d’esattezza a punteggiatura, d’orpello si fece carico, di presenza non fu domo e cercò atto rivoluzionario. Dal mio, che son nessuno, mi tolsi nome, pure cognome, feci falò di tessere e passaporti, di pergamene feci fascio a cacciamosche, mi vestì di vagabondo, mi tramutai in cialtrone, godetti dell’essere evitato, evitai affratellamento se non per pari mio di nessuna identità, di scrittura feci a come mi pare, mai a come pare ad altro, fui eversivo che cambiai direzione ad evito ingorgo. Ma di tutto che ci si spartì non s’addivenne a ragionamento di questo a te e questo a me per pane e pomodoro, vino e musica giusta, che ci toccò di dividere a metà, che ce ne manca sempre abbastanza.

Un’altra vertigine

Che a sfuggita mi leggo una notizia, me la girano dei tali strani laggiù, che scrutano onde, s’arrovellano di tale incombenza. Cinquanta se ne inghiottì il mare, sorpresi dal nulla a disperazione d’arrivare a vita nuova, sorpresi senza un nome. Sono quelli che non contano, non è a pietà che ci si muove per loro, invisibili pure a morte. M’andrebbe di scrivere, ma forse no. Vi do musica, vi do cosa già scritta, che tanto funziona uguale.

“Mi scappa come mi scappa, di scrivere, intendo. Pure di parlare, talvolta. Che la trama me la cucio addosso, che non è tela di Penelope, è altra roba che non so. Scrivo che chiaro non sono manco a me, forse al me di dentro, che sempre vedo di definizione mai esatta e virtù sfuggita. Che lascio all’altro me – di fuori – la complicazione d’obbligo di parlar chiaro, che il fluire di parole a scopo è il pane suo, il mio m’è di nutrimento diverso. E quando scrivo mi scappano sghiribizzi, che s’affamano delle mancanze. Che penso a cose, mi scappa che penso al mare, che nel mare c’è tutto. C’è il viaggio, che il mare viaggia conto terzi, fermo non ci sta. Seppure ve ne state soli sullo scoglio, quello lo stesso si muove, vi concede la vista del mondo intero. Se lo porta dentro, e nell’onda che s’arrovella, pure di bonaccia, c’è universo che sobbolle.

Vi riconoscete in quel viaggio definitivo, perché l’avete già fatto dentro, avete occhi per incontrarlo che già lo conoscete. Chi è di mare aperto, nato con la valigia in mano, migrante per forza, pure se va via sa che, quando se ne torna a casa, la casa fa questo lavoro qui, si sposta da un’altra parte, gioca con le attese, le speranze. Si culla dell’onda. Che non è una la casa che si riconosce al mare, ma è porta aperta sulla vertigine, si trasforma tutti i giorni che domineddio mandò sulla terra, giacché ogni porto che l’onda tocca è già casa. D’inverno, pare che si concede solo a chi ha occhi aperti sull’infinito, e lo ritrova sulla striscia dell’orizzonte. Taluni non sanno ch’esiste, oltre il tempo dedicato a voltargli le spalle, che occhi aprono di distrazione e a tempo, non sanno come aprirli. Con questi gioca, li caccia via, come mercanti dal tempio, si mette a far paura quando ha i cinque minuti. Mi sono persuaso che non voglia intrusi, quelli che occhi alla vertigine non ne vogliono avere. Il mare odia il tiranno, ch’è ponte definitivo e cerniera tra mondi, se li stringe tutti al petto, te li mostra ad ogni onda. L’orizzonte che s’apre all’infinito apre lo sguardo di dentro, gli dà sfogo. Che struggente apprensione mi creava, da bambino, la vista oscurata di cipresso a morto del Teatro Greco, concepito, da chi inventò filosofie, come trampolino di cuore per il balzo dell’occhio verso l’oltre. Ostruito alla vista, a volontà vigliacca del luttuoso nero ch’aggrovigliò il paese, né mai andò via davvero, l’oscena cortina a questo serve, a togliere fantasie, che se guardi oltre, c’è il rischio che pure il pensiero ti corre in quella direzione. C’è il rischio che t’avvedi delle porte aperte, della mano tesa, dello sgusciare del mondo, t’avvedi che non appartieni che al nulla, dunque sei del tutto che vortica d’intorno, sei tu il tutto che vortica d’intorno. Pilu Rais, con la barca lontana di scoglio quando azzurro s’arriccia di bianco, se occorre, conosce la strada per conquistare l’aperto assoluto, e scandaglia di sensi l’abisso, che creature d’argento offre al desco di chi sa attendere. Tempo e mare confliggono di scontro definitivo, l’uno che dell’altro non si cura, l’altro s’acciglia dell’attesa. Il mare questo fa di mestiere, che ti porta genti che hanno storie da raccontare, e se hai una certa qualità dell’anima, ti metti lì e le ascolti, tendi la mano, diventi gente che ha storia da raccontare. Se vivesti nella paura, che mai hai rivolto sguardo all’infinito, il racconto t’angoscia, sostituisci all’orizzonte il rassicurante filare del cipresso, la banchina a cemento, il fortilizio inespugnabile, a difesa del nulla di cui ti sei vestito, schiavo per sempre, con bende a occhi, cuore mutilato.”

Fotografia, tempo e specializzazioni (reloaded)

Che mi scappano dieci minuti, sottratti abilmente, con furto a destrezza, al lavoro. Troppo pochi per dedicarmi a scrivere altro, da ciò desumo che mi tocca di riciclare, pratica in cui eccello, che non m’è mai di fatica, sfruttare il già fatto. Poi m’attende full immersion in altre faccende d’affaccendamento. Stavolta vi faccio pure la colonna sonora al testo, che quella, come ebbi a dire, almeno, vi rimane.

“Charles Baudelaire si scagliò con tale veemenza sulla fotografia, da far venire mossa ogni foto nel raggio di chilometri dal suo Salon. Non era ammissibile, per il poeta vergine che la fulminea attrazione dell’attimo spostasse lo sguardo dalla contemplazione elevatissima dell’arte pura, nella sua rappresentazione più autentica, come nel teatro o nella pittura. Inaccettabile il processo di massificazione e tecnologizzazione dell’arte. L’industria si sostituiva al genio creativo, lo filtrava attraverso uno strumento, poneva anche gli inetti nella condizione di potersi definire artisti. Poi si fece fotografare in poltrona dall’amico Nadar, e questi ne colse nella sua posa disincantata tutta la poetica, sublimandola nell’attimo, appunto.

Nadar aveva compiuto il miracolo, anzi no, la magia, di elevare la sua arte a livelli vertiginosi, usando l’immagine del suo più feroce – e certamente credibile – avversario, per emanciparla dal mero tecnicismo cui rischiava di essere relegata per sempre. Di più, l’invasione di campo della fotografia, capace di raccontare il reale con efficacia assai maggiore del più attento iperrealismo manierista, sospinse tutte le altre arti figurative verso orizzonti nuovi, alla ricerca di realtà parallele cui l’occhio non poteva giungere. Stessa preoccupazione di preservare la purezza dell’arte espressa da Baudelaire si ripalesò con il de profundis dei dagherrotipi e linotipie nell’eredità concessa alle prime 35 mm. Eppure, non v’è dubbio che i movimenti colti dal click di Cartier Bresson, ma anche le immagini sfocate di Robert Capa, facciano parte a pieno titolo di ambienti di massima espressione artistica. Con il digitale, come per un misterioso fenomeno carsico, riemerge l’urlo dei puristi, poi la fotografia per tutti col cellulare, credo abbia fatto venire l’orticaria persino alle ortiche. E se c’è chi invita alla riflessione prima del click, stigmatizza l’improvvisazione ottica, c’è invece chi accoglie come una vera rivoluzione democratica la possibilità che miliardi di occhi moltiplichino i propri sguardi con ogni mezzo possibile, raggiungendo l’apoteosi del numero infinito di scatti. Quanti appuntamenti all’alba dietro conventi di frati minoriti si sono consumati nella disfida finale per definire la verità che distingue lo scatto fine a se stesso – ma sarà sempre tale? – dalla foto concettuale? Ammetto che non parteciperò alla dialettica serrata tra i fautori del deposito di megapixel, non prendo parte, non sono interessato alla questione, ho deciso di far repubblica e di dichiararmi neutrale. Sguscio via, piuttosto, evito di frequentare i circoli fotografici come ho smesso di occhieggiare ai cenacoli pittorici, bazzicare simposi letterali.

Mi sono fatto una mia opinione sulla fotografia, che non appartiene alla fotografia, né alla scrittura, tanto meno alla musica o alla pittura o a cos’altro vi pare. Persuaso, infatti, che la narrazione che ci portiamo dentro – nessuno escluso – trovi modo di esprimersi in un momento qualsiasi quando incontriamo la realtà che la rappresenta, e come ad uno specchio costruiamo la magia dell’incontro tra il nostro dentro e il resto d’intorno. Basta avere occhi, certe qualità dell’anima, per guardare il nostro dentro e la sua rappresentazione lì fuori. Quando accade siamo pervasi dalla meraviglia e immortaliamo l’attimo con un’immagine, una poesia, due o tre note in fila, se ci aggrada e ne siamo capaci. Ciascuno come gli aggrada esprime la propria sorpresa nel sentirsi una parte del tutto e vuole conservare quell’istante, renderlo infinito, come il tempo che oltrepassa il frammento di se stesso dello scatto. Nella fotografia, il tempo dell’incontro dura un attimo, bisogna coglierlo prima che fugga, più lungo nella poesia e nella musica, ancora più ampio nella prosa, per il respiro profondo di tempi dilatati. Ed allora basta eliminare la variabile temporale per riprendersi l’originario progetto narrativo che è la parte razionale di quell’intimo e segreto miracolo dell’atto creativo. Del resto “il tempo della produzione, il tempo-merce, è una accumula­zione infinita di intervalli equivalenti. È l’astrazione del tempo irreversibile, di cui tutti i segmenti devono provare sul cronometro la loro sola uguaglianza quantitativa. In definitiva il “tempo è, in tutta la sua realtà effettiva, ciò che esso è nel suo carattere scambiabile. È in questo dominio sociale del tempo-merce che «il tempo è tutto, l’uomo non è niente; egli è tutt’al più l’incarnazione del tempo». È il tempo svalorizzato, la completa inversione del tempo come «campo di sviluppo umano»” (Guy Debord, Miseria della filosofia). Posso dunque ascoltare un’immagine, guardare un suono, sentire l’odore intenso della poesia e della scrittura, se cancello il tempo. Ed il tempo derubricato ad un parametro “non vitale” consente di rifuggire l’orrore della specializzazione e dialogare con le forme espressive, comunque si manifestino. Se si scattano foto perché sono il nostro naturale ricongiungimento con il reale, dunque, poi è bene intrattenere rapporti con altri fotografi, ma senza codificarli nella liturgia dell’appartenenza, piuttosto val la pena leggere un libro e parlare con chi ne scrive, ascoltarsi un disco in compagnia di chi fa musica. Perché nella specializzazione si nasconde il rischio mortale dell’annullamento della dialettica concreta e progressiva delle narrazioni individuali, la cui somma è la narrazione collettiva che trascende il tempo e destruttura e annulla l’immagine-merce al cospetto dell’immaginario. In fondo Nadar non ha letto attentamente le poesie di Baudelaire prima di catturarne l’espressione “maledetta” nel volto d’un uomo in poltrona?”

Il posto giusto (Allonsanfàn parte sesta: Casa Museo “Antonio Ligabue”)

L’arte, io non lo so se sia eterna o provvisoria, se la forma d’arte nella quale viviamo per molti secoli ci si sia connaturata come sangue, ma so che questa carica, che noi abbiamo oggi, è una carica di comprensione della vita”. (Cesare Zavattini)

Che tutto fuori furibonda, pure il ciclone non pare meno cauto del solito, e s’addesertano le verdi foreste, s’allaga il deserto e si fa lago, s’imbronciano i banchieri, scavallati a destra – che a manca s’è persa la retta via -, sepolti d’angustia e a rischio dePILazione, colpa torme sbavanti di ferocia inaudita, ch’è a rischio l’olivetta in ammollo nella melassa di color catarifrangente e le faccelibro traboccano d’astinenze umane. Così m’appare il mondo, che ogni angolino di suadente lentezza, mista di bellezza, si fa specie in via d’estinzione programmata. Eppure, taluni anfratti ancora ne scorgo, che uno me lo sono visitato di recente, come toccasana per gengie stanche d’arrotamenti, dove, quando posso, scappo e vado. In mezzo alla Bassa, a due passi dal fiume che, salvo improvvido scroscio marziano – che quelli ormai se li beccano le vie vulcaniche meno avvezze, nel mondo che s’arrivede al contrario -, pare placido assai più dell’altro corso del 24 Maggio.

Defilato, solo vagamente, in quel di Gualtieri, in terra di Zavattini, c’è la Casa Museo di Antonio Ligabue (e qui c’è tutto quello che dovete sapere: http://www.museoligabue.it/), posto dove approdi con l’intenzione della scoperta lenta. Lì, Giuseppe e Gilda, magnifici amici, di quelli che li devi mettere in agenda al primo posto, t’accompagnano in viaggio senza tempo, dentro pennellate ed unghiate del pittore più sano tra i pazzi, che lì dormì appollaiato in quel che fu fienile ed ora è luogo di ristoro d’anime contemplative.

E c’incontri storie, ogni volta un’altra diversa, sempre che t’affascina, sia di un vecchio sindaco che decretò ospitalità strutturata all’artista, sia del figlio dell’autista del maestro, sorprendente Roberto, che ne conobbe i dettagli al desco, e te li racconta con dovizia di particolare, con un sorriso talmente rasserenante che non te ne vai più. Ci sta che te ne staresti lì un paio di migliaia di anni che, com’è destino delle magie di certi posti, prima o poi qualcuno passa che ti delizia del racconto, che t’aggiunge una curiosità o te ne risolve una che manco t’era venuta in testa. E pare un film quel gazebo, con le biciclette ferme che non attendono pedalata, ma che invogliano al bicchier di vino – che io, terrone di mare, gradirei più fermo delle fucilate a bolle del Lambrusco, ma me ne faccio ragione. È ospitalità antica, di quelle che non chiedono altro che il racconto, che invogliano alla domanda, alla risposta rendono pronti e mai esausti.

Giuseppe Caleffi, Virgilio e al contempo Cicerone dello spazio, non ti fa mancare che la storia continui, che di dettagli dentro un quadro ce n’è quanti ne vuoi, se è lavoro sofferto. Pure solo se è una punta secca d’un maestro di follie e trovate, t’apre d’affabulazioni un mondo ch’è fatto di bellezza soffusa, di colori sgargianti, e nebbie d’ovatta. Ogni oggetto, che in casa deporresti nel bugigattolo, lì pare che ti racconti di vicende d’umanità profonda, si fa catalizzatore d’attenzione emozionata, t’attira nel vortice del tempo, ti lascia fuori gli orpelli dell’inutilità del resto d’intorno e ti riaffratella con la vita.

Poi, che ti resta, se t’avanza tempo, se non d’andarti a mangiare tortelli di zucca (un po’ più alla mantovana, da quelle parti, mi par di capire, che all’emiliana), dopo l’estasi della passeggiata fricchettonante in riva al Po, speranzoso – e lo dico per me – che il vino non faccia troppe bollicine, che la gastrite, quel giorno d’estasi, l’ho lasciata a casa per sommo sollucchero.

Normalmente anormali

Mi capita, spesso, anche perché mi consente di soddisfare pigrizie ataviche, di ripubblicare cose scritte già tempo fa, prima che il tempo mi conceda il desiderio di ripudiarle. Lo rifaccio ancora, questa volta con una certa malcelata inquietudine, poiché a me pare pure di respirarne a vagonate nell’aria. E’ cosa che ho buttato giù circa un anno fa e, com’è d’uopo, mi virgoletto, così mi cito. Fate voi se s’adatta ai tempi nuovi, e magari, prima di cominciare a leggere, avviate la musica giù in fondo, che v’aiuta la digestione.

“Ed ora che piano piano si cerca di ritornare all’auspicata “normalità”, mi rendo conto che forse non è quello che volevo, almeno non in queste forme. In realtà di tempo per riacquistare la facoltà di rimettere il naso fuori di casa non me ne rimane a bizzeffe, prigioniero, da insegnante, della didattica a distanza che ha moltiplicato il mio impegno sottraendomi la parte più essenziale e bella del mio lavoro, il rapporto con i ragazzi. E sarà pure che questa auspicata “normalità” si scontra con quella che molti hanno definito la “sindrome della capanna”, quella sorta di appagamento definitivo dello starsene in casa che ci becca giusto giusto quando l’evasione è alle porte. E poi la mascherina mi appanna gli occhiali, i guanti mi fanno perdere la sensibilità nel maneggiare le cose, mi indispettiscono. Sarà anche che del ritorno al “normale” mi fa paura l’orrenda atmosfera di intolleranza che, sopita per qualche scampolo di tempo nelle segrete stanze dei nostri domicili coatti, ora si ripresenta per la solita insostenibile insipienza dell’essere.

Ma tant’è, si ricomincia. Ricomincia la “normalità”, lo sfruttamento, il massacro ambientale, lo sbraitare contro qualche minoranza per nascondere le nostre più inconfessabili frustrazioni. Tornano in scena i protagonisti dell’odio a cottimo, sguaiati, bugiardi. Il loro obiettivo però non è cancellare le minoranze, lasciando che divengano capro espiatorio per i nostri disagi, le nostre fragilità, piuttosto soggiogare le masse, dunque ciascuno di noi. Le minoranze vengono usate in modo cinico e spietato per obnubilare le moltitudini che tornano a reclamarne il sangue come nell’antica Roma si esigeva quello dei gladiatori. Occuparsi degli ultimi, liberare Spartaco e far sentire la sua voce, non è dunque soltanto l’agire di chi non rinuncia alla propria umanità, ma anche un necessario atto di legittima difesa.

Eppure mi viene da pensare che, mentre fremevamo nei nostri isolamenti, come un inintelligibile disturbo sotto la pelle, magari a molti s’è palesata quella voglia di riscrivere un’altra “normalità”, di riprendersi da protagonisti quel pezzo d’umanità che fugge, diventarne gli untori in una nuova pandemia per cui non vorremmo si trovasse cura. Voglio lasciarvi con una cosa che certe volte mi torna alla mente, una di quelle che per quanti anni possano avere non se ne vanno mai, come un monito perenne e vertiginoso.”

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“Le atrocità sollevano un’indignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono “more”, “sudice”, dago. Questo fatto illumina le atrocità non meno che le reazioni degli spettatori. (…) L’affermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom. Della cui possibilità si decide nell’istante in cui l’occhio di un animale ferito a morte colpisce l’uomo. L’ostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – “non è che un animale” – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il “non è che un animale”, a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dell’animale. Nella società repressiva il concetto stesso dell’uomo è la parodia dell’uguaglianza di tutto ciò che è fatto ad immagine di Dio. Fa parte del meccanismo della “proiezione morbosa” che i detentori del potere avvertano come uomo solo la propria immagine, anziché riflettere l’umano proprio come il diverso”. (Theodor Adorno)

Alla tua, Abate Faria

Ci sono personaggi della letteratura che se ne stanno nell’immaginario senza fare rumore, non vogliono dare fastidio. A volte ritornano, come un fiume carsico che riemerge più in là. A me ne è rimasto uno che mi si affastella ultimamente, insieme ad altre memorie, si fa il fotofinish con il Capitano Achab: l’Abate Faria, rincalzo di punta nel Conte di Montecristo di Alexandre Dumas e Auguste Maquet. Lessi il romanzo ch’ero alle medie e ancora c’era in giro il maestro Manzi.

Ogni mese o due – non ricordo bene – un professore che aveva la sigaretta accesa incorporata, rovesciava sulla cattedra un po’ di libri sbiaditi e logori, e noi dovevamo pescarne uno dal mucchio. Già allora avevo una certa repulsa per lo sgomito, m’è rimasta per le resse al banco delle cene a buffet – di norma digiuno -. A scanso d’equivoci, non è che spintonarsi alla cattedra fosse da ascrivere ad avidità culturale di quella ciurma scalcagnata della nave Suburbia; è che il professore pretendeva la relazioncina sul libro che avremmo dovuto leggere. Dunque, sic et simpliciter, l’azzanno collettivo era funzionale all’accaparro del libro con tante figure e poca roba scritta. Il Conte di Montecristo non rientra in quella categoria e, da buon ultimo, mi toccò a primo acchito. Facendo di necessità virtù, lo lessi d’un fiato, folgorato sulla via di Damasco. Divenni, senza porre tempo in mezzo, io stesso il conte, spietato come lui, ricco assai meno. Tuttavia, sfidavo a singolar tenzone i coetanei più grossi, perché tanto più il nemico è armato più ne verrà in gloria l’averlo affrontato. Accampando pretesti per presunti torti subiti, davo appuntamenti all’alba dietro conventi dei frati minori, brandendo l’indice a mo’ di spada. Ne buscai tante, ma ne uscivo soddisfatto. Per un periodo almeno. Poi, coi lividi, mi crebbe il dubbio, una cosa sotto la pelle che incomprensibilmente mi procurava pruriti nervosi. Decisi di rimettere mano al testo per cercare di capire cosa mi fosse sfuggito e che mi cortocircuitava in testa. Alla ressa successiva, poiché era ormai nota la mia spietatezza, non dovetti sgomitare. Le folle s’allargarono davanti a me come s’aprirono le acque del Mar Rosso al passaggio del popolo eletto, e m’assicurai si il libro di poche righe e tante figure, ma sotto vi feci scivolare con destrezza il fitto “Il Conte di Montecristo”, compiendo il mio primo esproprio proletario. Lo lessi e lo rilessi, quasi non pensavo ad altro. Fu lì che il conte divenne comprimario dell’abate. Ma come, pensai, quello s’affanna per uno spicchio di cielo, per un sorso d’aria, ti fa pure cristiano (nel senso d’umano, senza troppe accezioni religiose, come dicevano i vecchi) spiegandoti le cose del mondo, l’uso proprio del verbo, ti spiana strada per libertà definitive scavando il tunnel della Manica con le unghie e un cucchiaino da tè, t’attrezza un’autostrada verso la ricchezza, e tu che fai? Adesso che sei stramiliardario, che al cospetto Trump pare il ragazzo che ti chiede l’Euro del carrello della spesa, ti potevi comprare un’isola della Grecia o della Martinica, farti un Resort con tutti i confort; oppure, se proprio ti piaceva la bella vita d’occidente, un castello nella Loira, in riva al bosco, con giardino, sauna e doppi servizi. Se pure t’era rimasta in cuore la nobile fanciulla di cui i traditori t’avevano privato con cinica arguzia, vattela a rapire notte tempo, che lei ci viene con te, che t’ha serbato ricordo caldo nella memoria. Con lei te ne potevi stare tranquillo e beato a goderti la fortuna che t’è accorsa, a brindare con Bordeaux e Cognac alla memoria dell’abate, portandoti dietro pure l’unico vantaggio della reclusione: l’essere regredito alla condizione umana primigenia, capace d’afferrare il senso di ciò che si intende per bisogno essenziale, consapevole, finalmente, di cosa significa appagarlo. E invece… Ti procuri un servo sciocco, ti vesti come un manichino d’una Standa d’epoca, e t’appresti a vendicarti, arrovellandoti e costruendoti prigioni di fegato e bile. E la libertà? Non ti serviva quella?

Ecco, questo ne ricavai, che il conte quasi non me lo ricordo, l’abate, invece, me lo porto dietro.

Ultimamente, come dicevo, mi si è ripresentato, l’abate intendo. Saranno le lunghe reclusioni forzate, le quarantene, la prigione del lavoro che s’accosta alle quattro mura tra cui soffrire la clausura, ma, insomma, a me manca l’Abate Faria, tanto più che non ho vendette da consumare.

E come Edmond, tutti, soli con noi, riconquistiamo lentamente ma inesorabilmente l’essenza stessa della natura umana, con le barbe che sfogano la loro pulsione antigravitazionale, capelli che s’arruffano, forchette che spariscono, vestiti che si ungono di soffritti. Ma come un qualsiasi Dantes, la libertà ritrovata, anche solo per un istante, si trasforma in vendetta. Dal carcere alla ressa ai centri commerciali, davanti ai concessionari per comprare la vettura con cui ingravidare il garage, affollare i parcheggi, congestionare gli incroci, prenotare appuntamenti notturni con operatori estetici che recuperano dall’abbrutimento le forme ataviche della nicchia ecologica. A me viene voglia d’altro, di corse (lente, anzi, lentissime, facciamo passeggiate) ignudi sulle spiagge deserte del Mar d’Africa, sino al tramonto ed alle reti di Pilu Rais, nella speranza della ricciola all’acqua pazza, delle rughe dell’altopiano quando piove, che gli orti si gonfiano d’orgoglio e le mucche promettono formaggi, col contadino, prima scosso del tuo apparire selvatico, che poi si commuove e t’omaggia d’uova e verdure. E la sindrome della capanna che diviene ritiro assai poco spirituale in amplessi incondizionati tra comunardi e baratti d’essenze biologiche. È la libertà che mi penso. Ma voi, novelli Dantes, di chi volete vendicarvi, della vita stessa, della bellezza che non v’è stata prescritta dal medico o da un faccialibro qualsiasi e che non riconoscete più, pure vi infastidisce quando, solo guardando un estratto conto – spesso in rosso –, sceglierete cosa fare del sorso d’aria che v’è concesso?