Ponti di parole

Ci appartiene quello che scriviamo? Chi lo sa? Penso che ognuno risponda per sé, decide cosa farne delle sue parole, di quelle che dice in confidenza, di quelle che urla ai quattro venti, di quelle che scrive in lettera riservata, o libera nella rete (che ossimoro vertiginoso). Io sono nessuno, dunque le mie parole sono di nessuno, chi le vuole se le prenda pure, che le scrissi liberamente, dunque sono libere, non anelano a proprietà. Vado un tantinello di musica, così, come atto liberatorio.

Scrivo per desiderio di rendere libere le parole, consentire loro di volare. Talora ne trovo già scritte, che volano da altri quaderni, e che somma soddisfazione quando paiono esattamente quelle che avrei voluto scrivere io. Capita che le trovi esatte e giuste nel momento stesso in cui concepii quello stesso pensiero, e chi se ne frega se non ne ebbi l’imprimatur, che a me “l’ho scritto io” non importa. Proprio ora m’attrezzavo a buttar giù una cosarella e la trovai d’altro. Che meraviglia le convergenze tra gente lontana nel tempo, nello spazio.

“Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l’ evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell’ omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poichè con le isole il punto è questo: sono di per sè parchi naturali e riserve dove lo “specifico” indigeno resiste più a lungo: sicchè rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale… Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benchè non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l’ Alitalia e l’ Autostrada del Sole. Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. Proprio su la Repubblica (31 agosto) Arbasino ci attribuiva una smania di staccarci dalla nazione e ce ne concedeva licenza. Obietto che, dai tempi di Salvatore Giuliano, fra le maschere sanguinose della mafia il fantasma del separatismo non è più ricomparso: e che oggi un eventuale referendum secessionista non raccoglierebbe in Sicilia più di mille o duemila suffragi… La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d’ Italia, dall’ Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d’ Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina… Con tutto ciò, come negare l’ esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’ esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l’ aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.” (Gesualdo Bufalino)

Isole insulari

E visto che si fa festa grande, che ponte farà a cessazione di cosa d’isola, vi riciclo cosa antica, per memoria di perduto amor di terra matria che s’appresta a diventar cosa altra, praticamente ferma a gancio, incementata che non ebbe abbastanza disgrazia, pare, che non gliene si doveva affibiare altra.

Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio”. (Manlio Sgalambro)

Mi capita tutte le volte che me ne vado da lì, a valigie non ancora pronte che strugge d’essere isola forse pure io.

Aveva voglia Nisticò a classificare i siciliani in siciliani di scoglio e di mare, gli uni abbarbicati al substrato come una cozza, un dattero, un riccio spinoso, incuranti della natura claustrofobica dell’appartenenza. Gli altri, con la valigia in mano, fermi non ci stanno, e appena la prima brezza lo consente, prendono il largo a vele gonfie. Ma tutti si portano dentro la stessa insularità, che è condanna del viaggio e nostalgia struggente per il porto di partenza. Solo che ai primi arriva subito, ci soffrono di più, basta che si mettano poco fuori l’uscio di casa, si vadano a sbrigare un documento nel capoluogo. I secondi, al più, con la lacerazione del distacco ci si sono abituati a convivere. Ma tanto tornano, prima o poi vedi se tornano e non passa minuto che con la testa non si organizzano per farlo. Mi pare che questo desiderio di ritorno sia proprio il risultato della paura atavica che l’isola non la ritrovi più, che qualcuno, mentre ti allontani giusto un attimo, se la possa portare via. Forse lo tsunami o li turchi, anche se – ed è evento inconfutabile -, qualunque cosa arriva, dopo un primo attimo di sgomento, gli si apre la porta di casa e, passati al più cinque minuti, ti scordi che è arrivata allora allora, e ti pare che sia lì da sempre, ci fai l’abitudine. Tuttavia, poiché non si sa mai ed a scanso di equivoci, metti in giro strane voci, che lì ci sono i Lestrigoni, i Lotofagi, forse Circe, che giù per lì Scilla e Cariddi hanno un brutto carattere, che quei sassi, isole essi stessi, ce li lanciano Ciclopi a basso tasso di socievolezza, e che le figlie di Kokalos avvelenano gli ospiti. Di più, se per ragioni di modernità te ne devi andare per qualche giorno, che ne so, a Poggibonsi, San Giovanni in Persiceto o a Cormano, saluti parenti e amici, fazzoletto in mano, come se stessi andando a sfidare i cannibali del Borneo.

Ad ogni buon conto, mettetela come vi pare, uno che nasce su un’isola sta già viaggiando. Perché il mare, tutto intorno, fermo non ci sta, e si muove di correnti e flutti, in definitiva, viaggia conto terzi. Non merita citare chissà chi per comprendere che il viaggio è una precisa connotazione antropologica, e pure se ha talune accezioni di ingegneria nautica, non è solo uno spostamento da e per. Alla fine “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)

Nell’insularità è connaturata la pigrizia più atavica, quella persino trascendente, che si fa connotazione definitiva ed archetipo illustrativo di genti. E del resto che ti agiti a fare se sei proprio dentro il gorgo più gorgo, il tutto che si muove permanentemente? Fatica sprecata. Per altri quella è ignavia, accidia, in realtà è saggia contemplazione del mondo che non sta fermo, dunque perché inseguirlo nell’apoteosi dell’operatività? Il mare vortica così tanto che ti fa dono ora del primato di paradiso terrestre, ora d’inferno in terra, né fu creato per compiacere chi vi si trova circondato senza scampo; inutile cercare di opporvisi. Se serve qualcosa, servissero tre secoli e più, prima o poi un’onda bislacca te la schiaffa davanti, spiaggiata a pancia rivolta al sole. Né si tratta d’un fiume che scorre in un unico verso, cosicché sai già cosa t’arriva a valle se conosci il monte. Il turbinio è pluridirezionale, dipende dalle stagioni, talora dall’umore nero della burrasca o talaltra accondiscendente d’un venticello virato a bonaccia. Sfidare quel tutto che si muove per provare a spostarsi in altra direzione è atto temerario. Ed in tutto quel bailamme agitato meglio star fermi giacché, prima o poi, da qualche parte arrivi, e se non arrivi – quella data parte, intendo – presto o tardi, t’arriva lei. Ma l’isola, quella, da dentro non te la togli nemmeno se ti metti a pizzo di montagna. Non c’è niente da fare, t’entra in valigia, col sale e tutto il resto.

Oltraggiosa partenza

Ondeggia, Oceano nella tua cupa
e azzurra immensità
A migliaia le navi ti percorrono invano;
L’uomo traccia sulla terra i confini,
apportatori di sventure,
Ma il suo potere ha termine sulle coste,
Sulla distesa marina
I naufragi sono tutti opera tua,
è l’uomo da te vinto,
Simile ad una goccia di pioggia,
S’inabissa con un gorgoglio lamentoso,
Senza tomba, senza bara,
senza rintocco funebre, ignoto.
Sui tuoi lidi sorsero imperi,
contesi da tutti a te solo indifferenti
Che cosa resta di Assiria, Grecia, Roma,
Cartagine?
Bagnavi le loro terre quando erano libere
e potenti.
Poi vennero parecchi tiranni stranieri,
La loro rovina ridusse i regni in deserti;
Non così avvenne, per te, immortale e
mutevole solo nel gioco selvaggio delle onde;
Il tempo non lascia traccia
sulla tua fronte azzurra.
Come ti ha visto l’alba della Creazione,
così continui a essere mosso dal vento.
E io ti ho amato, Oceano,
e la gioia dei miei svaghi giovanili,
era di farmi trasportare dalle onde
come la tua schiuma;
fin da ragazzo mi sbizzarrivo con i tuoi flutti,
una vera delizia per me.
E se il mare freddo faceva paura agli altri,
a me dava gioia,
Perché ero come un figlio suo,
E mi fidavo delle sue onde, lontane e vicine,
E giuravo sul suo nome, come ora.

(George Byron)

Quando partii fu strazio autentico, che a non farlo sarei rimasto sepolto. Eppure non partii nemmeno con bomba sulla schiena, finsi di farlo ché mi piaceva. E il distacco fu dolore lancinante, che non passò giorno che non pensai al mio scoglio, che non ebbi intenzione di chiacchiera con amico antico, che non ne passò nemmeno altro che non ebbi mancanza di posti miei e di altro che m’appartenne. Se taluno m’avesse detto non far viaggio d’assenza lunga lustro dopo lustro mi sarei nutrito di speranza a costa.

Ma dopo di me altra miriade partì che ritorno a casa per festa comandata pare a rimpatriata di scappati via. Dunque, penso che mondo ha cinquanta guerre e più, donna che non scioglie capelli, bambino ch’ebbe sorte a destino segnato di morto di fame, tra sofferenza vera ed autentica, mica scappa da umiliazione per sussidio di disoccupato e basta. E paese su paese vive a sofferenza per sfrutto di fare a funzionamento preciso per materia prima giusta PC e cellulare, pure parte d’economia green, a volerla dire tutta, e macchina che viaggia a batteria per miniera a mani nude, ed oro che luccica a collo di madama per sasso pigiato a mano nuda e cratere aperto a posto di piantagione di pomodoro e cipolla. In tal paese truppa d’ascaro spara ad aumento di PIL nostro con corollario di guadagno per primi a digrignar dente a sfregio d’umanità. Che tal paese è fatto a saccheggio per adipi nostrali, e chi parte, parte che non ce la fa più, che piacere non ebbe a lasciar affetto antico. E allora, che insieme di tal paese ha PIL che pare borgo di montagna nostro a mezzo disabito, facciamo che diciamo non ti piglio più terra, non te l’asciugo che devo far lavatrice a metano, che non ti faccio bomba a prezzo d’usura, e faccio solo che decisione di questo si prende a Nazione Unita, non a simposio di grande e potente G qualcosa con numero che segue a seconda di circostanza per importanza. E che associazione di Nazione Unita sia che non pare associazione di circolo della bocciofila che diritto umano è al massimo non pesto piede e rispetto fila per piatto di baccello e pecorino a prossima sagra. Facciamo che ad etichetta di quello che mangio metto ingrediente preciso, pure certificazione che non fu fatto a sfrutto di braccia quale schiavo di paese disgraziato, manco di armata di caporale. Facciamo che dico a dittatore “ora m’hai divertito”, ma non lo dico io, glielo faccio dire a tale associazione se è non a veto incrociato di miserabile potente ed ha finalmente egida di diritto umano per rispetto assoluto con casco blu che partecipano tutti a voce grossa ed interposizione. Mica mando truppa cammellata di mercenario a pagamento a cottimo pure ad arruolo involontario se no t’ammazzo nonna, nonno, mamma e pure zia e nipote se di fame non morirono prima? Certo, mi vien pensiero che forse psicocellulare per social poi costa quanto viaggio interplanetario, e messaggino di potente che so tutto io finisce a parcheggio di discarica. E io vi dico chissenefrega.

Non ne sapevo nulla

Che questo è il paese nostro, posto magico che vive a pari di paese di lotofago, immemore e manco accorto di ciò che è a sottonaso. Neppure migliorissimi e meritevolissimi paiono ad essere capaci di fuga a tale malasorte, che a rivendicarla si fanno piuttosto fieri, per rappresentanza esatta di proprio popolo. A digrigno serrato e cattivo di mascella contro virus, pure contro malcapitato che va a morte d’annego, pare, per incoscienza ereditata, a tutti si grida No pasarán! E poi, a morto fatto, a cosa precisa di sfilza di bare, allora come ora, pare che nessuno disse nulla ed avvisò. Organizzazione d’avviso è cosa che non appartiene a nessuno, che ascolto non è cosa che è a riguardo d’alto bordo, che ad altre faccende pare capo in testa affaccendato. Ed io, invece, a memoria tengo fatto luttuoso che di fior di loto mi feci d’antidoto precisissimo e a tal uopo non dimenticai, che talora, invece, vorrei.

Salirono da tre passerelle, salirono come una fiumana sospinta dalla fede e dalla speranza del paradiso, salirono con uno scalpiccio soffice e continuo di piedi scalzi, senza una parola, senza un sospiro, senza nemmeno voltarsi indietro; e quando non furono più trattenuti e incanalati dai corrimano di legno, sciamarono in tutte le direzioni sul ponte, fluirono a poppa e a prora, si ingolfarono nelle gole buie dei boccaporti, riempirono gli interni recessi della nave, come l’acqua quando scende nelle cisterne, come l’acqua che filtra nei crepacci e nei canali di scolo, come l’acqua che giunge silenzioso fino all’orlo di un abisso.

Erano ottocento tra uomini e donne, e si erano radunati lì, con il loro carico di fede e di speranza, di affetti e di ricordi, venendo dal Nord e dal Sud e dai più lontani recessi dell’Est, dopo aver camminato per settimane e mesi lungo i sentieri della giungla, dopo aver disceso fiumi, costeggiato in praus i bassifondi del mare d’Oriente, dopo essere passati a bordo di piccole canoe da un’isola all’altra, attraverso mille sofferenze, lungo paesi stranieri, in preda ad oscuri timori, sospinti da un desiderio unico.

Venivano da solitarie capanne sperdute in zone selvagge, da popolosi kampong, da villaggi sulle rive del mare. Cedendo alla suggestione di un’idea, avevano abbandonato le loro foreste, le loro campagne, la protezione dei loro governanti, la loro ricchezza, la loro povertà, i luoghi della loro giovinezza, le tombe dei loro padri.

Arrivavano coperti di polvere, di sudore, di sudiciume, di stracci, gli uomini forti e vigorosi alla testa di ciascun gruppo familiare, i vecchi cadenti che si trascinavano senza alcuna speranza di ritorno.

E vi erano ragazzetti dagli occhi sfrontati e dallo sguardo curioso, timide fanciulle dagli ispidi capelli lunghi, donne spaurite imbacuccate dalla testa ai piedi che si stringevano al seno bimbi addormentati, avvolti in un lembo cadente del velo, inconsci pellegrini di una fede inesorabile”. (Joseph Conrad)

Un viaggio come un altro (per tutti quelli che partono, pure per Wayne)

Un giorno pure io sono partito, e fu strazio autentico pure se non dovetti affrontare fortunale e tempesta, ma quelli me li lasciai alle spalle, forse me li portai dentro. Andai con la vecchia Citroen che aveva persino mangiacassette per jazz. E m’adattai per settimane a casa di vecchi compagni, a distanza di qualche decina di chilometri prima d’una casa d’affittare. Ma era tutto più caro di quello che potevo permettermi ed ogni casa ad affitto di cui scorgevo il cartello pareva regia preziosa per prezzo, con caparra da caveau di banca svizzera. Finché non m’accorsi che quella era tariffa speciale, riservata a chi arrivava come me da quell’altrove nemmeno così distante. Mi feci a memoria di racconti d’altri ch’ebbero esperienza peggiore che lasciarono il quartiere diruto in altro tempo che il mio precedeva. E ne scrissi in un tempo andato.

“… dietro la stazione c’erano le pecore, e si sentiva lontano il motore del treno che s’era acceso. Il treno pareva che si mangiava i cristiani, poi li cacava lontano. Pareva un budello di pecora. Ma almeno la pecora mangia da una parte e caca dall’altra, il treno mangiava e cacava dalla stessa bocca. Una volta il padre di Primo il budello di pecora l’aveva portato da mangiare, l’aveva procurato forse al mattatoio. Si mise a lavarlo per bene alla fontana e ci volle un’ora buona. Ma quello ancora puzzava che Primo quell’odore se lo sentiva fisso. Sua madre lo mise a bollire con una carota e una cipolla e ci vollero altre due ore almeno. Suo padre lo mangiò di gusto, sua madre lo mangiò e basta, Primo nemmeno lo toccò che il puzzo lo faceva vomitare…. ci fu rumore lontano di sferragliamento, uno sbuffo stanco ed ansimante che diceva che binario non era morto, pure che bene non stava. Si sedettero sui blocchi delle mura robuste, aspettarono che l’evento ci fosse. Rumore di motore e lamiera a sobbalzo si faceva sempre più forte fino a che il treno non apparve. Era lungo, lunghissimo, nero, procedeva lento da far venire i nervi. I finestrini erano tutti aperti, dentro si vedeva che manco passava l’aria, che non c’era scomparto che non fosse a tutto pieno, bagagli su persone, persone su bagagli. Uomini e donne, solo i bimbi affacciati a finestrini da dove veniva veniva, che gli altri fuori non guardavano, a sguardo perso dentro, come se non volessero vedere luogo di distacco, così che distacco non doveva sembrare se non vedo da dove vado via.

Primo: “Questo arriva fino alla Germania, che lo prende una volta l’anno anche mio zio.”

Secondo (a Primo): “E quando ci arriva alla Germania questo?”

Primo (a Secondo): “Vero, assai ci sta.”

Figlia s’era spostato lo sguardo da parte opposta, s’era attaccata agli occhi d’un ramarro che prendeva caldo al sangue, era verde di smeraldo. Pure lei non volle guardare, forse che era terrore puro solo idea appena affiorata di salire un giorno lì, a far boccheggio come pesce fuori d’acqua, a bollore tremendo, ad ansia di partenza per sempre. Nemmeno guardava gli altri suoi compagni, che invece non staccavano gli occhi dal serpente di ferro che s’era mangiato tutta quella gente, che taluni pure conoscevano. Sollevò gli occhi e vide i cubi, grigi, pure quelli non consentivano respiro d’aria buona. Pareva scelta tra soffocamento e soffocamento, ch’ebbe a farne esorcismo che disse: “E con quel coso dobbiamo farcelo il viaggio?”

Terzo (risponde a Figlia): “Questo c’è.”

Figlia (ancora con sguardo a ramarro, risponde a Terzo ma parla a tutti): “Lì non ci salgo, meglio la barca, che almeno là sopra respiri se ti metti sul ponte.”

Non ebbe risposta che solo aspettarono che il binario si facesse di nuovo morto, finisse quel rumore ch’era ora a fastidio, tornasse solo quello del vento e dell’onda a frangersi sullo scoglio di sotto. E ce ne volle che passasse tutto. Ma quello, il treno, passò, che parve suo cammino sotto i loro occhi eterno. Passò che lasciò odore acre di bruciato, ch’essi non sapevano se fosse a sfrego di sassi lanciati a suo passaggio, o forse era bruciato d’anime che v’erano stipate. Sperarono in cuor loro che ci fosse un momento d’accelerazione brutale, che quel tormento fosse a finire, pure se anche loro di velocità non erano a conoscenza esatta. Che viaggiasse veloce il treno, facevano invece a speranza, che dai finestrini aperti ululasse vento di frescura, che mitigasse sofferenza di cottura che si leggeva a volto di passeggero. Speravano che questo s’avverasse a timore ch’essi stessi avrebbero dovuto patire tormento d’uguale brutalità, un giorno forse, forse più in là. Ravvidero in quello discreta certezza, che quello dov’erano nati era posto che non voleva più nessuno, forse nemmeno loro che parevano bravi ad ossequiarlo per sua bellezza sepolta. Era posto che girava sguardo altrove, che non voleva ch’esso incontrasse quello di suoi figli, che diedero ad egli sofferenza di trasformazione brutale, che non ne ebbero cura ad assicurargli altro che abbandono definitivo. O forse non voleva vedere sorte negletta di suoi stessi figli, a sbranarsi come lupi l’uno con l’altro, o non voleva vedere lo sguardo loro per senso di colpa ad inadeguatezza che non diede, oltre a natali, altro che miserabile prospettiva d’esistenza. Ma passò il treno, con quel suo puzzo di gasolio e terra bruciata, con quel rumore ottuso di catena e ferraglia, sbuffò ridicolo di non ritorno. E tornò silenzio, silenzio come quello che fecero loro. Figlia vide, infine, coda di ramarro farsi a sparizione dietro a sasso, dietro sterpi spinose, che la bestiolina parve non più a riparo di fragore di mostro d’acciaio e amianto, che pensava che con chiasso simile nessuno si fosse accorto di sua verde livrea, lasciandola al sole a quiete di predatore vorace. Essa stessa non si sentì più a riparo, a minaccia incombente di certo futuro incerto, e guardò i suoi compagni, in ordine d’apparizione, Primo, Secondo, Terzo. Che si riempì suo cuore di pietas anche per loro, che d’apparenza parevano, dentro quei quattro cenci addosso su pelle e ossa, disarmati quanto lei d’avvenimento certo. Poi guardò davanti, oltre il binario tornato morto, verso quella linea scura d’orizzonte che pareva tingersi ancora più scura per Libecciata imminente, sabbia sottile e rossa di deserto d’altro pianeta, che però s’accomunò al loro, in un tutt’uno di sottile disperazione.”

Pure io annegai un giorno

“Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri.” (Lorenzo Milani)

Tanto decina più, decina meno, pare di sentire la eco di chi disse ch’è finita la pacchia. Ora si muore pacifici e spiaggiati, come foglie di posidonia stese al sole, a speranza vana che la risacca non ne renda abbastanza, che occhio non vede, cuore non duole.

Arrabbattati tutti a dir no a una guerra – solo una, che le altre non è cosa che riguardi – ma questa pare cessa solo se faccio sparo più grosso e ne ammazzo di più d’altro dirimpetto, non ci avvedemmo mai abbastanza di guerra sotto costa che si combatte ogni giorno. È guerra alla vita, come ogni guerra, e vince chi volta lo sguardo altrove, chi spezza il timone d’una salvezza giocata d’azzardo. E poi viviamo dimentichi che quelli lì che sono morti ieri d’appunto, siamo noi pure, che tutti fummo migranti per frammento di DNA e ci fosse stato un muro o un blocco non saremmo qui a farne menzione. Ed io sono migrante da sempre, dunque a crepare furono sorelle e fratelli miei.

“Migranti si è per forza, solo che si nasca in cima a un monte, oppure sullo scoglio più basso che d’alghe e sonno si riempie con la marea. Solo che ti affacci da una finestra e gli occhi se ne vanno fin dove possono – loro – per istinto, e non dove gli viene detto che possono andare. Migranti si nasce, dunque, non ci diventi solo se ti devi mettere a camminare. Se hai mare davanti, per forza sei migrante, anche se non ti piace, perché qualcuno o un’onda, che s’è contrariata di vento o bufera, lì ti ci ha portato, pure prima che tu nascessi. Hai voglia di metterti a costruire frangiflutti, tanto l’onda arriva comunque, come sorge il sole e cala la notte. Perché l’onda è ignorante, mica le puoi dire “questa è casa mia”. Non capisce, s’arrabbata un poco lì per d’intorno, prima senza dare nell’occhio, poi – se le prendono i cinque minuti – si schianta col tonfo e la schiuma sullo scoglio. Forse ti dà il tempo di scansarti, ma certe volte pure t’acchiappa di risacca. E lì è deriva, e dove ti porta lo sa il Cielo. Questa è la storia dell’uomo. Si gioca su un’onda che scavalchi, come argonauta, sfiorando la cresta di Scilla, ballando un tanghettino stonato con Cariddi, tanto, più che un tanghero non sei, così diranno, se te ne stai su uno scoglio ad aspettare l’onda giusta. Che poi ci sta che quella non arriva mai. E pari Penelope che ricama la tela, la cuce e la riscuce, sotto sotto, è mia opinione, poi compiacendosi del reiterarsi del gesto. Magari pensa ad Ulisse che torna, e le viene da pensare “ma che gli dico a questo, dopo tutto questo tempo, se mi s’appresenta d’improvviso?”. Il fatto è che l’attesa, tanto più su uno scoglio, non è più attesa, diventa condizione dell’esistere, t’allunga pure la vita. Vedi Argo, che quando smette d’aspettare si fa il volo del Grande Tacchino nel giorno del ringraziamento e pure dopo ch’è campato quanto mai altri, praticamente tutta un’Iliade ed un’Odissea. Quindi, l’onda, quella giusta intendo, forse arriva, forse no. Ma se non arriva che ci fa? Basta che lo scoglio su cui ti sei seduto ad aspettare sia bello comodo, non di quelli unghiosi che non trovi mai la posizione. Ma che non ci sarà uno scoglio comodo davanti a tutta quell’acqua? Che poi anche tutta quell’acqua, pure salata, che ci pensi e ci ripensi, a che ti serve tutta quell’acqua salata? Di bere non si beve e ti tocca portarti un fiasco di vino rosso che è fatto con l’uva là dietro, che s’è innaffiata di salmastro, così sa di terra e pure di mare. E te ne puoi stare là tutta una vita a spiare l’orizzonte, per capire se laggiù qualcosa si muove, visto che non ti puoi muovere tu che l’onda giusta ancora non l’hai vista. Però sempre migrante resti, che t’è partita già l’anima oltre l’orizzonte, s’è fatta più d’un giro e poi è tornata. Che soddisfazione starsene fermi sullo scoglio, t’allunga la vita, mi pare l’ho detto questo”.

Il suono, la melodia

Ripubblico, ed ancora lo farò, che vale poco la pena riscrivere che detto che dissi pare uguale a se stesso. “Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro, dove il mare è mare.” (Stefano D’Arrigo, Horcynus orca)

Ero ragazzo, molto giovane, e sentivo storie da vecchi, quelli che avevano pelli bruciate di sole, rughe che parevano cave d’altopiano, dentro cui c’erano fiumi di sale a venir giù copiosi. Che tutti avevano barbe bianche che a me pareva che erano tali ché quei fiumi si buttavano in un lago d’intrecci. Erano storie di suoni e canti, di creature che non ci sono più, ma che allora pareva aspettassero barchette scalcagnate, spinte da motori a sbuffo e singhiozzo, o a semplice remo, per farsi gioco a paura d’orrido di quei disgraziati.

Che quelli però mai se ne lagnavano di tali fugaci apparizioni tra onda e scoglio, di voci strane, talora lamenti di strazio, tali altre melodie di vertigine. C’è chi disse d’aver visto qualcosa che non doveva stare lì, tra scogli d’aurora e chiaro di luna, che disse d’aver visto fere brontolare d’abisso, figure emergere a canzone soave.

Che ora nessuno ha barchette così, se non a favore di turista, che il mare si svuota a palamitare lunghe chilometri, e nasse di lampare sono cose di folklore e basta, che pure fossero abisso pare vuoto d’ogni creatura per chi ha lenze corte. Nessuno ci camperebbe più, meglio stipendio fisso di peschereccio che pare portaerei che congelo banchi di tonno e sardina direttamente a stiva. Lì c’è frastuono, che se c’è creatura che vuole lasciare ricordo di suono e vocalizio di delizia, sparisce e non torna più, che pare ninfa di fiume a metamorfosi in alga, Cola Pesce preferisce sostegno di terra per fatica sovrumana a brontolio di diesel, puzza di nafta, strage d’ogni fratello suo. Ch’era ancora notte e mi capitò che quei suoni li sentii anch’io, che forse fu più per fatto che a spiaggia arrivai a sangue che si fece vino la sera prima. Pure quei vecchi si facevano fiaschi a cacciar pellagra, tra calo di nassa e rete a parallelismo di promontorio, che quello, poi, era vino di vigna a radice sulla sabbia, a cercar acqua salmastra per sopravvivenza comunque, e che talora pareva distillato di forza e corpo, mentre virava a spuntatura per sciabordio d’onda. E che importa se ascoltarono solo ululato di vento a zufolo di scoglio, o corrente ed onda a caverna e scoglio, s’erano storie immaginifiche e vertiginose da raccontare. Pure, allora, tra quelle quattro barcacce sgretolate dalle onde, qualcuna se ne tornavano a casa un pezzo per volta, senza nocchiero. Me ne ricordo di nomi di quei nocchieri, non tutti certo, ma qualcuno ancora, che il fortunale avevano d’affrontare comunque, perché scadenza di cambiale di banca per acquisto di gozzo di mastro d’ascia, non aveva gran cura di meteo per vento ed onda. Poi era lancio di fiori da scogli, a speranza esausta, per ornare tombe d’abisso. Follia d’altri tempi, che ora è a gioia collettiva di natante che affonda a carico completo di disperazione per orizzonte di vita differente, mancato porto salvo. Pure è a digrignar gengie sfatte di bava rabbiosa se taluno allunga mano a salvezza di disgraziato, ed urla a crucifige, in attesa dell’ora di sgranar rosario, della domenica per battersi petto a favore di santo o Madonna. Si sceglie di fare a rimpinguare quella pletora genuflessa, o lanciare un fiore tra le onde, che quello sa dove deve andare, la corrente l’accompagna giusto.

Disordine e indisciplina cosmici

“Che mai sarebbe il mare e il cielo,

e le isole e le stelle,

e quanto all’occhio umano si offre,

che mai sarebbe questo spento suono di cetra

se io non gli infondessi suono e anima e parola?”

(Friedrich Hölderlin, Empedocle)

Mai fu bastevole starsene a contemplare l’infinito, coi trabocchi d’altro che si frappongono tra esso e lo sguardo, se non si intrattenesse col tutto d’intorno amabile conversazione. Se non si cogliesse che in quello ci sono suoni e parole che scivolano lente, tali altre s’agitano di moti compulsivi che fremono di desiderio di racconto. Pure non valse la pena d’annoiarsi su una sedia volta all’indecifrato se non vi fu volontà d’ascolto per la nuova narrazione che si ricompone nei meandri antichi delle solitudini definitive. Dette solitudini, però, s’ebbe a concretezza d’osservazione, mai furono davvero tali, piuttosto si prefigurarono come brulichio permanente, quale onda di marea che s’alterna a risacca di rimbalzo, tempesta e bufera che si fanno a soverchianti forze a scontro finale con bonaccia e calma piatta. Davvero ci si fonde con l’infinito e con tutto ciò che fu strada verso d’esso quando sapori e suoni, colori e profumi non paiono più darsi confine preciso, s’impelagano a fusione perfetta, piuttosto, paiono ragazzini che scivolano verso la palla che rotola all’unisono, ad un tutto insieme che non prevede geometria di gioco, precisa programmazione. Ma che meraviglia farsi strada nel kaos della percezione, nel quel che viene viene. E se comincio a metter punto qua e là, non fu tale per definire l’accapo del ricomincio, ma solo momento di fermata a godimento, che me ne feci concessione con bicchiere pieno e musica che mai si fece così giusta nel rilasciare effluvio potente.

Vabbè, a scanso d’equivoco, “imitazione di Empedocle. Troveranno sull’Etna, a tre metri dal cratere, una scarpa Varese numero 42…” (Gesualdo Bufalino)

Le storie nella storia (Allonsanfàn parte ventunesima: “Era di giugno” di Mario Di Sorte)

Raro che parli di libri da queste pagine, non mi risulta d’averlo mai fatto se non in riferimenti di sgambescio, obliqui, qualche citazione rubata all’uopo. E ve n’è ragione precisa nel fatto che mi è raro di rimanerne preso a tal punto da non poterne fare a meno se escludo cose di lettura antica, volumi e volumetti che s’affollano – o prendono polvere – sui miei comodini, compagni d’un viaggio non invidiabile. C’è poi quell’altra cosa che mi crea indugio nel farlo, quell’altra cosa che riguarda me, anzi, ad essere onesti quell’altro me, da cui in queste pagine decisi di divorziare unilateralmente. Poiché egli di libri ne scrive, non parlando dei suoi mi pareva che potrebbe aversene a male ch’io parli di quelli d’altri.

Per una volta faccio finta di niente, stimando che forse non se ne accorge, seppure prima di procedere fui frenato anche da altro che m’accorsi essere invidia. E già, ché io mai ebbi capacità di farmi capire ad immediatezza di lettura, nemmanco forse ci provai. Ed invece il libro di cui voglio parlare è chiaro e limpido, scritto da un amico carissimo e fraterno (e pure questo mi frenò un attimo, ch’è facile essere additato qual preda di piaggeria) che sa dare peso alle parole, ne conosce il senso profondo, ne soppesa l’esatto valore. Ma finii per superare residui di pruderie, dunque procedo.

Era di Giugno (Effigi Edizioni) di Mario Di Sorte è un libro che esplora la storia, ce ne rende un’immagine composta di frammenti e vissuti drammatici, ma non convenzionali. Lo fa attraverso le vicende umane di tre ragazzi, Bobby, Alfred e Tonino, diversi, com’è necessario che siano gli sguardi che si volgono alla comprensione della complessità che regola i fatti degli uomini, l’irrazionalità della guerra, in questo caso, la costruzione di relazioni che pure fanno degli uomini ancora una volta uomini. Di Sorte usa uno strumento narrativo singolare, originalissimo, crea l’ordito d’una trama fitta con eleganza ma mai indugia in trovate ed orpelli estetizzanti.

Pare lo scienziato che osserva il vetrino ad occhio nudo prima di posizionarlo con perizia sotto le ottiche potentissime d’un microscopio. Aumenta progressivamente l’ingrandimento e crea un passaggio di testimone nel ruolo di protagonisti del libro di cui non ci si avvede subito. La storia, la gigantesca mobilitazione internazionale, i fermenti di liberazione e resistenza, la follia della barbarie della guerra sono fatti anche di luoghi, personaggi che attraversano il tempo, che paiono navi alla deriva. Nella prima parte del romanzo è tutt’altro che quinta scenografica per il racconto di precise vicende umane, è essa stessa protagonista e la coinvolgente narrativa di Di Sorte ce la rende in dettagli precisi, atmosfere convulse e rapidi cambi di scena. Interni di navi inseguono porti brulicanti, immense distese d’oceano, deserti e campi di guerra si alternano, e pare di sentire dentro le pagine del libro un vociare sconnesso, i boati terrificanti che disvelano orrore e speranze. Poi il microscopio della narrazione cambia oculare, coglie presenze umane sempre più precise, delineate, prima camei di grande potenza letteraria, apparizioni fugaci (il comandante d’una nave che trasporta prigionieri è figura sorprendente, come certe magnifiche presenze nei libri di Conrad). L’Italia prende posizione, lentamente, si lascia attraversare, ci mette se stessa, i suoi boschi, i suoi borghi, le campagne, ogni dettaglio è descritto con precisissima attenzione. Nulla pare lasciato al caso nelle descrizioni di Di Sorte, tutto concorre a costruire l’unicum narrativo della complessità degli eventi da cui emergono poderose presenze d’umanità varia, quelle che, senza rendercene quasi conto, ritroviamo adesso protagoniste, come avessero ricevuto un immaginario testimone dal tutto d’intorno. Le donne, gli uomini si esprimono con i loro rancori, le violenze, gli amori, la solidarietà, e fanno di questo libro un romanzo non catalogabile, che si muove oltre il genere. È libro storico, certo, insieme romanzo d’amore e di guerra, di sogni e nostalgie, di struggente desiderio di mondi altri, di speranze, di utopie che emergono dalle macerie e cui pare non importa molto di epiloghi sempre e comunque mai scontati.

Bussole perse

“Per arrivare all’infinito, e credo vi si possa arrivare, abbiamo bisogno di un porto, di uno soltanto, sicuro, e da lì partire verso l’Indefinito.” (Fernando Pessoa)

Così è il viaggio di scoperta, pure che tu lo faccia standotene fermo. Quello si consuma solo se non hai meta, il progetto è trasformazione, l’itinerario si sorprende di non essere tale, si spiazza da sé, si pasce d’indeterminazione. Ma il porto, quello è necessario, qual punto di partenza, certezza irrinunciabile, quello d’arrivo vattelapesca dov’è, che fu fortuna che non si conobbe. Il porto sicuro non è mai meta finale, si fa tappa intermedia per forza, il luogo del tirar fiato, ritemprarsi alla banchina che si camuffa da trampolino per l’infinito, per un nuovo salto incognito.

Porti salvi e sicuri solo si perdono nei vicoli diradati dell’attesa d’una nuova partenza, nel tempo che non esiste, che mai fu perso per la certezza dell’altro viaggio. Quello che arriverà sarà di vertigine pura se il porto che hai dietro comprendi ch’è solo ennesimo approdo, e te ne propone altro pari a sé stesso in un altrove che non sa di esistere se non al confine dell’immaginazione, in una mappa sbiadita e cangiante dove la rotta si è persa nel rivolo delle mille e mille derive, tra altrettanti sbarchi fortunati. Un porto c’è sempre, ché dove finisce il mare il mare ricomincia. C’è chi arriva, chi va via, tutti hanno una storia che raccontano, che ti dice che c’è anche altro. Quella, l’immaginazione, si veste d’abito scarlatto, come certe vele al tramonto, si fa porpora di murice, blu cobalto d’abisso, ed ogni altro colore si troverà financo in tutte le sfumature raffinatissime di grigi, dentro le linee d’ombra.
“A quel punto mi ero accorto che cercare era il mio destino, l’emblema di coloro che escono la notte senza alcuna precisa intenzione, lo scopo degli assassini di bussole.” (Julio Cortázar)