8 Marzo (dopo l’anteprima)

Che m’accingo a 8 Marzo che poi non m’è dato a sapere se ce la faccio. Pure ne faccio riferimento per fatto che fu lotta di donna, ma che a tramonto d’aspettativa si vide riflesso che tutto pare vano. Parto di musica, però.

E faccio a recupero d’omaggio per donna che lottò per suoi diritti, non si fece a sgomito per arrivo prima io ad imitazione esatta di maschio coatto e basta. Oggi tale donna è a farsi morto d’ammazzo e d’annego, scioglie suoi capelli come fosse atto eversivo e a chioma sciolta insegnò a tutti – soprattutto a noi maschietti – significato esatto di rivoluzione, che non fu comando io, fu non comanda nessuno.

Le donne dei “Fasci”

Fra il 1893 e il 1894 la Sicilia fece molto parlare di sé per dilagare in città e campagne di grandissima agitazione sociale senza precedenti e rapido diffondersi dei Fasci siciliani delle lavoratrici e dei lavoratori, organizzazione quale mai si era vista prima, capillarmente strutturata, dotata di efficiente coordinamento regionale, ispirata a socialismo, guidata da dirigenti per lo più giovani, intelligenti, colti e determinati. Adolfo Rossi, giornalista d’inchiesta, si reca in Sicilia per studiare il movimento. Ne intervista i protagonisti nelle campagne e coglie esterrefatto il ruolo di donne – un terzo del movimento, che per farne a metà di quelle, ora ci vuole doppia quota rosa ex legis – e della loro capacità di esprimere concetti politicamente elevati, con proprietà di linguaggio e consapevolezza di condizione e prospettive di loro lotta.

Noi non andiamo più in chiesa, ma al Fascio.

Là dobbiamo istruirci, là organizzarci per la conquista dei nostri diritti.

Vogliamo che, come lavoriamo noi, lavorino tutti, e non vi siano più né ricchi né poveri. Che tutti abbiano del pane per sé e per i figli. Dobbiamo essere eguali. Io ho cinque bambini e una sola cameretta, dove siamo costretti a mangiare, a dormire, tutto, mentre tanti signori hanno dieci o dodici camere, dei palazzi interi (…)

Vogliamo mettere in comune le terre e distribuire con giustizia quello che rendono.

Ci deve essere la fratellanza, e se qualcheduno mancasse ci sarebbe il castigo.

Gesù era un vero socialista e voleva appunto quello che chiedono i Fasci, ma i preti non lo rappresentano bene, specialmente quando fanno gli usurai. Alla fondazione del Fascio i nostri preti erano contrari e al confessionale ci dicevano che i socialisti sono scomunicati. Ma noi abbiamo risposto che sbagliavano, e in giugno, per protestare contro la guerra ch’essi facevano al Fascio, nessuno di noi andò alla processione del Corpus Dammi. Era la prima volta che avveniva un fatto simile.

I signori prima non erano religiosi e ora che c’è il Fascio hanno fatto lega coi preti e insultano noi donne socialiste come se fossimo disonorate. Il meno che dicono è che siamo tutte le sgualdrine del presidente.

Quando un reato è commesso da un ricco, nessuno se ne cura, mentre il povero che ruba un pugno di grano per sfamarsi va subito in prigione.

Vedete che per i poveri non c’è giustizia in Piana dei Greci! I signori dicono apertamente che ci vogliono ammazzare ad uno ad uno. (…) Per ora i nostri consiglieri non potranno far altro che impedire gli abusi e le prepotenze dei signori i quali finora comandavano anche nel Comune. Ma i Fasci nomineranno anche i consiglieri provinciali e i deputati, e quando alla Camera avremo maggioranza socialista….

Noi speriamo che sorgano presto anche nel continente. Voi vedete come si moltiplicano qui. Possibile che nel resto d’Italia i nostri fratelli che soffrono seguitino a dormire? Basterà che qualcheduno cominci a predicare anche là l’unione del proletariato. Anche noi fino alla primavera scorsa non sapevamo che cosa fossero i Fasci. Morivamo di fame e tacevamo. Eravamo ciechi. Non ci vedevamo.

Maria Occhipinti

Che ricordo di lei, a tempo di muscolo a palestra d’armi e doppi petti di migliori tronfi di boria maschile, è più letale d’atomica, pure se non fa morti. Che fece il Non si parte! di Ragusa, che lottò contro arruolamenti forzati a ricostituzione d’esercito di Badoglio e Bonomi. A Ragusa, il 4 gennaio del 1945, a far fuggire giovani rastrellati, si fece tappeto in strada per bloccare il mezzo delle reclute, che era al quinto mese di gravidanza. E per quel gesto fu insurrezione, per giorni quattro, con esercito patrio a sparar sulla folla, ad uccidere ragazzo e sagrestano. E Maria, cattiva maestra per odio a guerra, si fece anni da carcere in carcere. Pure prigioniera da suore rimase, per volontà imperitura di stato democratico. Il suo racconto a dramma l’ho trovato scritto da Maricla Boggio.

Ragusa Ibla ci mandò San Giorgio a incontrare il nostro San Giuanne…

San Giorgio a cavallo, terribile! armato di lancia e vittorioso contro il drago…

Lasciate i nostri figli! Per carità lasciateli! Siamo stanchi di guerre! Non vogliamo più servire i Savoia! Ridate i figli a queste madri! Per carità lasciateli andare! Mi ucciderete, ma voi non passate!

VOCI di donne – E’ incinta! Incinta di cinque mesi! Non le fate male! Per carità!

L’esercito sabaudo chiedeva di andare a combattere al nord, contro i tedeschi e i fascisti… Ma non erano già arrivati gli americani a liberarci? E quell’esercito, dei Savoia, non era ancora dei fascisti? Niente a che fare con i partigiani del nord. Ho deciso di impedire con tutte le mie forze che si parta per la guerra! E ci sono riuscita, ma a quale prezzo! Per me tanti ragazzi erano sfuggiti alla trappola e le madri e i padri mi abbracciavano… Ma nel pomeriggio si cominciò a sparare, i soldati erano armati e organizzati, Caddero molti ragazzi. Tanti i feriti, li curai come potevo, incoraggiando le madri ad aiutarmi. Il terrore durò una settimana. I nostri giovani vennero arrestati, e io con loro. Non ci fu giustizia per la povera gente. Mentre centinaia di famiglie soffrivano per i figli catturati o uccisi, i fascisti continuavano a passeggiare indisturbati per la città. Gli arrestati, quasi tutti, erano comunisti e socialisti. Fui condannata insieme al gruppo dei ribelli (…) mi mandarono al confino. Dentro di me la mia creatura si muoveva. Mi confortava il pensiero che non partivo da sola. (…)

Non ho nemmeno una camicia per questa creatura! Non c’era neanche un pannolino.

Magra, le mani trasparenti le dita fini come artigli… un piccolo rapace… In viso era bella… graziosa… ma il corpo… lo spettro della fame. Piangeva piangeva per tre giorni non fece altro che piangere… Alla fine piegò la testina da una parte e chiuse gli occhi come per morire. Venne un compagno, non so come altro definirlo… un compagno perché pativa insieme a noi, ma non l’avevo mai visto prima… Prese la bambina fra le mani, la scaldò con la forza delle braccia. A poco a poco la bambina prese vita, il colore le apparve sulle guance… aprì gli occhi, ci guardò e sorrise. Era salva.

Franca Viola

A 17 anni e basta, fu presa dal mafioso Melodia, che agì con aiuto di dodici amici, tutti di gran coraggio da maschio vero. Franca fu violentata, malmenata, lasciata a digiuno, tenuta segregata per otto giorni; poi, i parenti del fenomeno Melodia contattarono il padre di Franca per la “paciata” e matrimonio riparatore a tanto di rito per parroco dabbene. Padre e madre di Franca giocarono a finta di “che bello” e fecero arrestare la banda. Che legge di repubblica proponeva che il matrimonio era gomma a matita per stupro, altrimenti c’era il “donna svergognata”.

Il giudice Giovanni Albeggiani, per fermo immagine di Franca, fece mannaia sulla banditaglia, ma la leggiastra fu abrogata dopo sedici anni, e altri quindici ne passarono per 1996, che poi stupro è contro persona non contro morale. Eccola Franca, che pure porta per cognome fiore.

Per me quella vicenda rappresentò una vera e propria disgrazia, ho dovuto attraversare momenti tristi, di sofferenza, è stata un’esperienza decisamente negativa. Ritenni quel gesto non un atto di grande coraggio, ma una normale scelta dettata dal cuore. Feci quello che mi sentivo di fare, furono i media, in seguito, a rendere la vicenda un evento storico.

La gente parla sempre a sproposito, nel bene o nel male, dicevano che mi vendevo le interviste ai giornali per soldi, mi mortificavano con le loro false affermazioni. Ero contenta quando sentivo di altre ragazze che si erano salvate facendo la mia stessa scelta, mi faceva piacere sapere che, anche se indirettamente, ero stata io ad aiutarle. Quella legge era ingiusta e andava cambiata, c’è sempre una prima volta, e io fui quella che diede inizio al cambiamento. Mi sposai e decisi di condurre una vita dedita alla normalità, lontana dai riflettori. Abitai tre anni a Monreale, dove mio marito lavorava, per poi trasferirmi di nuovo ad Alcamo quando ottenne il trasferimento. Abbiamo due figli, uno studia Scienze naturali e l’altro lavora come commercialista. Con loro non abbiamo mai affrontato a pieno la questione, sanno già tutto dagli altri, che mi descrivono sempre come una donna molto coraggiosa.

Mi sono sempre sentita molto serena, come se non fosse mai accaduto niente. Guardo a quei giorni come se avessi seguito bene e da vicino la cronaca che ha visto coinvolta un’altra persona. Per me non è stato facile allora riprendere la vita di tutti i giorni, ma quella scelta fu decisiva. Semplicemente non volevo sposarmi con un uomo che non amavo e preferivo restare tutta la vita da sola piuttosto che farlo. Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi donna: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti; non è difficile.

E a tutte le donne che hanno orecchie, dico mi dispiace, che d’ogni uomo, almeno un poco, è colpa di patriarcato. E faccio omaggio di musica.

Altre storie di donne (Allonsanfàn parte sedicesima: Unica e Pamela Vindigni)

Unica e Pamela Vindigni, in mostra dal 24 settembre allo spazio L’Altelier di Modica Alta, paiono artiste diverse, hanno storie e linguaggi differenti, biografie ed origini lontane, eppure, attraverso le loro opere, concepiscono un dialogo di convergenze, sorprendentemente affine.

Usano la materia in modo personale, riconoscibilissimo, la plasmano per consentirsi una profonda esplorazione d’un universo di genere – quello femminile – ce lo rendono, entrambe, in una prospettiva liberata. Partono, dunque, da sponde antipodiche, approdano insieme, al di là delle costrizioni dell’apparire, del metodo, compiono lo stesso viaggio di ri-scoperta.

Leonie Adler (Unica) è artista contemporanea, nata a Pune, in India, con radici irlandesi, è cresciuta e vive in Svizzera. La sua anagrafica non è, come appare dalle sue realizzazioni, un dato neutro, un timbro su un passaporto, è elemento pregnante della sua formazione artistica. Infatti, le sue forme geometriche esatte, disegni ad ago e filo, esprimono un’attrazione fatale per l’ambiente, lo interpretano quale contenitore di culture, ella stessa è consapevolmente scrigno di diversità che si uniscono ad ogni passaggio d’ordito. Il contrasto cromatico tra le sue forme ne evidenzia il desiderio di riscoperta, induce alla ricerca d’un viaggio intimo nello spazio e nel tempo attraverso traiettorie spiazzanti, un susseguirsi di cambiamenti repentini di direzione, quasi a voler significare la ricerca precisa del dettaglio, il non volersi precludere nulla che le appartiene, che appartiene al tutto d’intorno.

Ma è anche desiderio di fuga da quotidiani standardizzati e labirintici, il rifiuto di direzioni preconfezionate, della banalità prêt-à-porter. Nonostante la scelta del filo, dell’ago, dunque, Unica non rassomiglia affatto alla più celebre delle tessitrici, non è Penelope, i suoi complessi intrecci non sono trame che si sfilacciano, si scuciono, ma memoria di una direzione precisa ancorché mai scontata, flusso di informazioni che non si esaurisce ma che fa d’ogni passaggio condizione essenziale per l’esistenza del successivo. Rassomiglia ad Arianna, invece, i suoi orditi indicano percorsi salvifici di liberazione, includono la possibilità del ritorno. In quel tornare a casa, alle sue radici, come nelle articolazioni più complesse dell’intimo, non v’è mai ricerca appagante di staticità, d’un passato che invecchiato si trasforma in presente, ma la prospettiva d’un nuovo viaggio, di nuove esperienze che, a paradosso di apparenza d’accumulo, lo rendano ogni volta più leggero, più agile. Pare che Unica si ricerchi, si ritrovi, infine, nelle sue origini, nelle sue infinite discendenze, e su quelle può contare – paesaggi della memoria d’un vissuto – come intensa scarica emozionale per una nuova ripartenza. In buona parte autodidatta, ha tuttavia assorbito perfettamente le prospettive artistiche di Louise Bourgeoise e dell’artista tessile svizzera Lissy Funk. È anche membro dell’associazione artistica GAAL.

Pamela Vindigni, siciliana di Modica (RG), è artista di tecnica raffinata, frutto di studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze e di una vasta attività esperienziale. Ha partecipato a diverse mostre collettive e personali, esplorando, oltre alla pittura ed alla scultura, altri linguaggi espressivi ed esibendosi quale attrice e performer. La sua visione dell’arte è sociale, solidaristica, non prescinde mai dal rapporto dialettico con altre forme del linguaggio e della comunicazione. Questi tratti fondanti la sua pratica l’hanno indotta a fondare, nel 2017, il gruppo “Artisti Associati – Matt’Officina”, impegnato nella riqualificazione dell’ex mattatoio comunale di Modica e divenuto un laboratorio artistico polivalente, un luogo di produzione collettiva e creativa oltre che di accoglienza d’esperienze.

Le sue sculture riscoprono la natura primigenia del corpo, lo denudano delle sovrastrutture, lo spogliano dell’effimero, lasciano che si esprima quale strumento di comunicazione essenziale. Alcuni suoi volti, scarni d’espressione, pare leggano negli accadimenti una sostanziale disumanizzazione. Pamela Vindigni, quando si concentra sulle forme delle donne, le libera da costrizioni, da stereotipi arcaici. Rappresenta la maternità con ironia, sottolineando al contempo una specificità di genere e smantellando la subcultura patriarcale che relega le donne al ruolo esclusivo e subalterno di madre e moglie. La leggerezza con cui ci rende la gravidanza non è, dunque, solo la rappresentazione prossima del parto quale passaggio funzionale alla procreazione, alla conservazione della specie, cui deve seguire la gabbia totalizzante della cura parentale, ma diviene, anche e soprattutto, metafora di concepimenti, elaborazioni, pratiche creative ed irrinunciabili, di idee, progetti, riscritture sociali e politiche. L’opera di Pamela è, in effetti, “politica”, non nel senso deteriore che oramai s’attribuisce al termine, ma in quello che ne recupera il significato etimologicamente più puro e profondo, dal concetto di Polis, il contenitore per eccellenza del desiderio di partecipazione. È pratica che aderisce ai processi sociali, alle vicende comuni, li legge, intende rideterminarli anche, con consapevolezza d’analisi, abilità d’usare strumenti espressivi plurimi e mai scontati, volontà di esserci con la propria identità di genere, di persona, d’artista.

In memoriam

Che è tempo che si compiange il morto, che da vivo era a colpo di obice. Ch’era bello se c’era lui, ma quando c’era lui era meglio a fa bersaglio per sparo ad alzo uomo, a sbuff di noia. E pure io faccio necrologio ma non d’anniversario, necrologio a come viene, ad omaggio del tempo che fu, di chi fu e non si accorse nessuno che fu. Che comincio che vado prima di musica che di secondo ci ho ricordo gustoso a contorno di nostalgie che il tempo fu.

E comincio da Cisco, ch’ebbe a batter ferro prima che la mezza ettolitrata di vino che consumò ad ogni pasto, ma pure tra l’uno e l’altro, non gli facesse soppiantare materialità enologiche con polvere diffuse a grotta di ladroni a piede di vulcano autentico – ch’egli fu maestro di forgia ad incandescenza – pure in fiume da risciacquo di lingua patria, come da volontà sua. Ch’egli scolpi a sublime gatti per teatro di Shakespeare ed ogni altra opera di maestria, ma mai adorò lavoro, pure ne rifuggì orripilato ad ogni suo ripresentarsi.

Il Cisco, che gliela feci io la foto giusta

Che casa sua era a porta aperta, pure finestra fu tale, che c’era da bere e da mangiare per conosciuto e sconosciuto a bisogna di trangugio per fame conclamata. Che mai chiese a che d’uopo si presentava taluno, ch’egli provvide a sfamarlo e pure a dissetarlo, giammai d’acqua, che a quattro carponi era d’abbisogna che si lasciasse casa.

Pure ho memoria di Tano, che si fece a sindacato di barricata, ch’egli, a fondo di pantaloni consunto per calcio in culo di celerino od ogni altra bestia nera, s’era immolato di campi in campi, a schiena ricurva, che ad incontrarlo ci scappava pezzo di cacio e bicchiere di vino a sopra muretto, che bastava a uno smunto come egli, ma a egli uno che mangiava solo non piaceva. Ch’egli disse, a riso di stolto che a scherno ne guardava passeggio sbilenco, che ad abolizione di scala mobile che volle mammasantissima primo fra ogni mammasantissima, per sostituzione ch’ebbe a nominare democrazia di concertazione, c’era ad orizzonte bobo nero a doppio petto blu (manco di coraggio di nero) a bottoname a d’oro, che contratto avrebbe messo a congelatore, solo incentivo per acquisto di corda per nodo scorsoio a luogo di cravatta buona di domenica a messa.

Che tutti ridono di povero Tano che parlava e straparlava, ch’ebbero paura di sua ragione che diceva che sfrutto d’uomo era d’uomo che a mercato nero aveva riciclato quota sua d’anima d’umanità. Che diceva s’io zappo terra questa è terra di tutti, non di padrone, nemmanco di chi la zappa, ma di chi abbisogna di suo frutto. E quando Tano si fece a torno a terra zappata a vita, per nazionale senza filtro con bollo di monopolio di stato, non fu verso di lacrima che di pochi, che paura mondo ebbe di volgere sguardo a sua imperitura ragione.

A ricordo commosso vado a Tano che sondò abisso a cerca di sarda, che manco trovò più tonno che prima faceva a tavola gonfia per sua famiglia, ma pure per vicinato intero che non aveva manco tovaglia su tavola, forse manco sedia che non fosse cassetta a legno di mercato esausta. Che ruga di sale fu via per lacrima di fatica che divenne goccia di mare e ancora vaga con suo codice genetico di viaggio infinito, d’orizzonte ad orizzonte.

Ch’egli si fece a tappeto per bastonata contro mammasantissima e potentissimo a peschereccio di surgelo a pesca a strascico e palamitara lunga mille mila miglia, che succhiò ogni bestia che dava a mangio a famiglia e vicinato, per pregiato menù di ristorante a collezione di stelle di tutto firmamento, che primo e secondo costa quanto tutta la barca ed attrezzo di Tano. Che a Tano, d’artrite quasi paralitico, fu bufera che lo portò via, bufera di disperazione sua, abbraccio di mare che volle suo figlio a canto suo, a privo di fatica, finalmente.

Infine memoria spendo per Maria, che di nulla tenere fece a nulla temere, che si lanciò sotto camionette di rastrellamento di proscrizione a far partire giovane a morire, ch’era scampato già a guerra. E quello gli fecero pagare a carcere pesante ed a chiusura a vigilanza di monaca, per stento infinito, a parto ed allevo figlia sua a quattro mura a freddo, ma mai smise a grido di non si parte che la guerra la fanno i potenti fra di loro, ma col sangue dei poveri cristi che già sangue n’hanno poco e pure sfatto di privazione.

A tutti questi dedico memoria che sono rappresentanti d’umanità perdute che non ebbero ad apparire a ricordo di giornalettume, che, almeno di questo, morte gli fece dono di risparmio. E forse un po’ anche a me, mi faccio dedica ad ancora vivo.

Radio Pirata 28 (buon lavoro)

Che Radio Pirata si fa Ventotto che di quello ce n’è uno, tutti gli altri son nessuno. Che domani è Festa di Lavoro, pure faccio auguri a chi lavora e a chi no, che cerca a disperazione che Costituzione ad Articolo 1 pare non c’è o se c’è manca specifica a “sfrutto”, e manco a ripudio di guerra d’articolo 11 si fa occhiolino distratto. Ma vado di musica che è compito statutario di trasmissione per pace, dunque pare con colbacco in testa.

Che morto ammazzato di lavoro, dice statistica – che la fa cervello asettico di matematica -, è a due al giorno da inizio d’anno. Che è solo storia di distratto a distrazione mosso, che muore a metto piede in fallo mentre passa betoniera o caterpillar, pure scivola d’ascensore, distratto ancor più, tale ragazzo, che è a dimentico d’avvertenza che è morto da ore tredici, che scoperta è per caso ch’egli non collaborò col dire son morto.

Che due al giorno pare guerra guerreggiata, ma è roba disfattista se domani a bandiera colorata si dice basta con tale guerra, pure con altra che tuona di bomba. E io vado di suono giusto, che faccio colonna sonora.

Che radio si ripete se dice che cotali creature di cervello raffinatissimo dice che è scandalo a chiedere soldo per lavoro a ore senza tetto, che a tali posti già è a pagamento onore di fatica, pure se è a sgobbo indefinito, che s’impara a far fame dove si serve porzione dabbene. Che pure questo è paese civile che istituzione non s’indigna, nemmanco popolo fa gesto di sorpresa e dice ad illuminatissimo, sai che c’è, che forse è meglio che conosci via d’esilio a paese civile dove lavoro è a schiavo, che qui non si dice, pure se è. Musica sia, per lavoro a cottimo un tanto al chilo e contratto di clausura con vita altra che non è a facchinaggio.

Che domani è giorno di rischio orrendo, che pare sia ad intenzione di manifestanti di lavoro, protesta pure contro guerra, dunque contro lavoro di persona dabbene che fabbrica, ad onesto progetto per futuro fulgido, bomba ad esplodo certo, per taglio armata industriale di riserva e creo occupazione a sterminio di pretendente. Ma anche faccio di profugo clandestino prodotto di braccia a costo basso, che lavo piatto, colgo pomodoro e, a senza diritto, calmiero prezzo di centro commerciale per salsina gourmet. Musichissima di lavoro concedo ad ascolto di meritato riposo di weekend.

A dire buon lavoro pare ossimoro, che, a cautela, faccio spiegare da collaboratore subordinato con contratto di apprendistato, prima che faccio di lui censura che nacque in posto strano: “Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendere dalla sua schiena.” (Lev Tolstoj)

Buonissimo 1° Maggio

8 Marzo (anteprima)

Che m’accingo a 8 Marzo, prima del tempo, che poi non m’è dato a sapere se ce la faccio. Pure ne faccio riferimento per fatto che fu lotta di donna, ma che a tramonto d’aspettativa si vide riflesso che tutto pare vano. Parto di musica, però.

Non mi stupisco che più non ho stupore, che non ve n’è notizia di presa di canali a rete unificata, che d’altro che sa di bomba c’è da discutere, che la bomba la sgancia uomo, non m’avvedo che tante ne sganciarono donne. Che poi a ministro e primo ministro non è dato d’occuparsi di cosa banale, con espressione a fuga e distanza da cosa avvenuta in sotto silenzio, che al più s’interviene su bimbi a manganello per protesta di morte di lor pari, che si grida all’infiltro ed è scandalo che non fu di ialuronico a gonfiare bocche a canotto. Che pare ci fu errore a forma di sequestro, e casa, a dedica a immensa mamma Felicia, torna a famiglia di boss, che tutto tace. E m’assommo di chieder scusa io, che essendo nessuno ho tempo e modo, non m’occupo di tutto pieno ad arsenale. Lo faccio come m’aggrada, che non metto mimosa ma ogni fiore, e ricordo d’altre donne pure sepolte d’oblio. Mamma Felicia sarebbe assai contenta che di suo sorriso ho memoria zeppa. Ma pure ad altre donne faccio omaggio, che mi critico a genere senza rimorsi.

Le donne dei “Fasci”

Fra il 1893 e il 1894 la Sicilia fece molto parlare di sé per dilagare in città e campagne di grandissima agitazione sociale senza precedenti e rapido diffondersi dei Fasci siciliani delle lavoratrici e dei lavoratori, organizzazione quale mai si era vista prima, capillarmente strutturata, dotata di efficiente coordinamento regionale, ispirata a socialismo, guidata da dirigenti per lo più giovani, intelligenti, colti e determinati. Adolfo Rossi, giornalista d’inchiesta, si reca in Sicilia per studiare il movimento. Ne intervista i protagonisti nelle campagne e coglie esterrefatto il ruolo di donne – un terzo del movimento, che per farne a metà di quelle, ora ci vuole doppia quota rosa ex legis – e della loro capacità di esprimere concetti politicamente elevati, con proprietà di linguaggio e consapevolezza di condizione e prospettive di loro lotta.

Noi non andiamo più in chiesa, ma al Fascio.

Là dobbiamo istruirci, là organizzarci per la conquista dei nostri diritti.

Vogliamo che, come lavoriamo noi, lavorino tutti, e non vi siano più né ricchi né poveri. Che tutti abbiano del pane per sé e per i figli. Dobbiamo essere eguali. Io ho cinque bambini e una sola cameretta, dove siamo costretti a mangiare, a dormire, tutto, mentre tanti signori hanno dieci o dodici camere, dei palazzi interi (…)

Vogliamo mettere in comune le terre e distribuire con giustizia quello che rendono.

Ci deve essere la fratellanza, e se qualcheduno mancasse ci sarebbe il castigo.

Gesù era un vero socialista e voleva appunto quello che chiedono i Fasci, ma i preti non lo rappresentano bene, specialmente quando fanno gli usurai. Alla fondazione del Fascio i nostri preti erano contrari e al confessionale ci dicevano che i socialisti sono scomunicati. Ma noi abbiamo risposto che sbagliavano, e in giugno, per protestare contro la guerra ch’essi facevano al Fascio, nessuno di noi andò alla processione del Corpus Dammi. Era la prima volta che avveniva un fatto simile.

I signori prima non erano religiosi e ora che c’è il Fascio hanno fatto lega coi preti e insultano noi donne socialiste come se fossimo disonorate. Il meno che dicono è che siamo tutte le sgualdrine del presidente.

Quando un reato è commesso da un ricco, nessuno se ne cura, mentre il povero che ruba un pugno di grano per sfamarsi va subito in prigione.

Vedete che per i poveri non c’è giustizia in Piana dei Greci! I signori dicono apertamente che ci vogliono ammazzare ad uno ad uno. (…) Per ora i nostri consiglieri non potranno far altro che impedire gli abusi e le prepotenze dei signori i quali finora comandavano anche nel Comune. Ma i Fasci nomineranno anche i consiglieri provinciali e i deputati, e quando alla Camera avremo maggioranza socialista….

Noi speriamo che sorgano presto anche nel continente. Voi vedete come si moltiplicano qui. Possibile che nel resto d’Italia i nostri fratelli che soffrono seguitino a dormire? Basterà che qualcheduno cominci a predicare anche là l’unione del proletariato. Anche noi fino alla primavera scorsa non sapevamo che cosa fossero i Fasci. Morivamo di fame e tacevamo. Eravamo ciechi. Non ci vedevamo.

Maria Occhipinti

Che ricordo di lei, a tempo di muscolo a palestra d’armi e doppi petti di migliori tronfi di boria maschile, è più letale d’atomica, pure se non fa morti. Che fece il Non si parte! di Ragusa, che lottò contro arruolamenti forzati a ricostituzione d’esercito di Badoglio e Bonomi. A Ragusa, il 4 gennaio del 1945, a far fuggire giovani rastrellati, si fece tappeto in strada per bloccare il mezzo delle reclute, che era al quinto mese di gravidanza. E per quel gesto fu insurrezione, per giorni quattro, con esercito patrio a sparar sulla folla, ad uccidere ragazzo e sagrestano. E Maria, cattiva maestra per odio a guerra, si fece anni da carcere in carcere. Pure prigioniera da suore rimase, per volontà imperitura di stato democratico. Il suo racconto a dramma l’ho trovato scritto da Maricla Boggio.

Ragusa Ibla ci mandò San Giorgio a incontrare il nostro San Giuanne…

San Giorgio a cavallo, terribile! armato di lancia e vittorioso contro il drago…

Lasciate i nostri figli! Per carità lasciateli! Siamo stanchi di guerre! Non vogliamo più servire i Savoia! Ridate i figli a queste madri! Per carità lasciateli andare! Mi ucciderete, ma voi non passate!

VOCI di donne – E’ incinta! Incinta di cinque mesi! Non le fate male! Per carità!

L’esercito sabaudo chiedeva di andare a combattere al nord, contro i tedeschi e i fascisti… Ma non erano già arrivati gli americani a liberarci? E quell’esercito, dei Savoia, non era ancora dei fascisti? Niente a che fare con i partigiani del nord. Ho deciso di impedire con tutte le mie forze che si parta per la guerra! E ci sono riuscita, ma a quale prezzo! Per me tanti ragazzi erano sfuggiti alla trappola e le madri e i padri mi abbracciavano… Ma nel pomeriggio si cominciò a sparare, i soldati erano armati e organizzati, Caddero molti ragazzi. Tanti i feriti, li curai come potevo, incoraggiando le madri ad aiutarmi. Il terrore durò una settimana. I nostri giovani vennero arrestati, e io con loro. Non ci fu giustizia per la povera gente. Mentre centinaia di famiglie soffrivano per i figli catturati o uccisi, i fascisti continuavano a passeggiare indisturbati per la città. Gli arrestati, quasi tutti, erano comunisti e socialisti. Fui condannata insieme al gruppo dei ribelli (…) mi mandarono al confino. Dentro di me la mia creatura si muoveva. Mi confortava il pensiero che non partivo da sola. (…)

Non ho nemmeno una camicia per questa creatura! Non c’era neanche un pannolino.

Magra, le mani trasparenti le dita fini come artigli… un piccolo rapace… In viso era bella… graziosa… ma il corpo… lo spettro della fame. Piangeva piangeva per tre giorni non fece altro che piangere… Alla fine piegò la testina da una parte e chiuse gli occhi come per morire. Venne un compagno, non so come altro definirlo… un compagno perché pativa insieme a noi, ma non l’avevo mai visto prima… Prese la bambina fra le mani, la scaldò con la forza delle braccia. A poco a poco la bambina prese vita, il colore le apparve sulle guance… aprì gli occhi, ci guardò e sorrise. Era salva.

Franca Viola

A 17 anni e basta, fu presa dal mafioso Melodia, che agì con aiuto di dodici amici, tutti di gran coraggio da maschio vero. Franca fu violentata, malmenata, lasciata a digiuno, tenuta segregata per otto giorni; poi, i parenti del fenomeno Melodia contattarono il padre di Franca per la “paciata” e matrimonio riparatore a tanto di rito per parroco dabbene. Padre e madre di Franca giocarono a finta di “che bello” e fecero arrestare la banda. Che legge di repubblica proponeva che il matrimonio era gomma a matita per stupro, altrimenti c’era il “donna svergognata”.

Il giudice Giovanni Albeggiani, per fermo immagine di Franca, fece mannaia sulla banditaglia, ma la leggiastra fu abrogata dopo sedici anni, e altri quindici ne passarono per 1996, che poi stupro è contro persona non contro morale. Eccola Franca, che pure porta per cognome fiore.

Per me quella vicenda rappresentò una vera e propria disgrazia, ho dovuto attraversare momenti tristi, di sofferenza, è stata un’esperienza decisamente negativa. Ritenni quel gesto non un atto di grande coraggio, ma una normale scelta dettata dal cuore. Feci quello che mi sentivo di fare, furono i media, in seguito, a rendere la vicenda un evento storico.

La gente parla sempre a sproposito, nel bene o nel male, dicevano che mi vendevo le interviste ai giornali per soldi, mi mortificavano con le loro false affermazioni. Ero contenta quando sentivo di altre ragazze che si erano salvate facendo la mia stessa scelta, mi faceva piacere sapere che, anche se indirettamente, ero stata io ad aiutarle. Quella legge era ingiusta e andava cambiata, c’è sempre una prima volta, e io fui quella che diede inizio al cambiamento. Mi sposai e decisi di condurre una vita dedita alla normalità, lontana dai riflettori. Abitai tre anni a Monreale, dove mio marito lavorava, per poi trasferirmi di nuovo ad Alcamo quando ottenne il trasferimento. Abbiamo due figli, uno studia Scienze naturali e l’altro lavora come commercialista. Con loro non abbiamo mai affrontato a pieno la questione, sanno già tutto dagli altri, che mi descrivono sempre come una donna molto coraggiosa.

Mi sono sempre sentita molto serena, come se non fosse mai accaduto niente. Guardo a quei giorni come se avessi seguito bene e da vicino la cronaca che ha visto coinvolta un’altra persona. Per me non è stato facile allora riprendere la vita di tutti i giorni, ma quella scelta fu decisiva. Semplicemente non volevo sposarmi con un uomo che non amavo e preferivo restare tutta la vita da sola piuttosto che farlo. Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi donna: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti; non è difficile.

E a tutte le donne che hanno orecchie, dico mi dispiace, che d’ogni uomo, almeno un poco, è colpa di patriarcato. E faccio omaggio di musica.

8 Marzo (Ante litteram)

Ammetto di averci pensato un po’ prima di scrivere questo post. In generale non mi piace aderire alle liturgie. So che l’8 Marzo è più che tale, pure se, ad onor del vero, del carattere liturgico s’è intriso e nemmeno da poco. Ci ho pensato poiché non m’andava di cadere – per di più qual maschietto con la M maiuscola delle attestazioni anagrafiche – nel gioco dell’”oggi se ne parla”, domani è un altro giorno, si vedrà. Poi mi sono deciso a pubblicare questa cosa, perché sia omaggio per le donne, ma anche per gli uomini che ci arrivano, per gli altri ce ne faremo una ragione, almeno per il momento. E mi decido con la coscienza relativamente a posto, giacché si tratta di un lavoro più complesso e non concepito per una “liturgia”. Un lavoro compensativo d’una memoria fallace, anche rispetto al ruolo delle donne nel nostro paese. Rievocativo di fatti che la storia ha relegato a trafiletti infimi nei libri di testo scolastici, forse per la loro ingombrante attualità – pure per sciatteria – e la cui analisi si trova solo in lavori di tutt’altro che facile reperibilità (ricordo quelli eccellenti di Anna Puglisi ed Umberto Santino del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”). Mi riferisco alla vicenda dei “Fasci siciliani”, ed al ruolo che le donne ebbero in quel movimento, un ruolo di partecipazione che mai s’era visto sino ad allora. Si trattò di un’agitazione sociale senza precedenti, iniziata tra il 1893 e il 1894, dilagando nelle città e campagne con un’organizzazione capillarmente strutturata ma dotata di un efficiente coordinamento regionale, ispirata dal socialismo e guidata da dirigenti per lo più giovani, intelligenti, colti e determinati (lo stesso Lenin, ne rimase colpito, e per adesione di massa fu seconda solo a quella che diede vita alla Comune di Parigi).

“Fino ad ora la parola di un italiano non poteva essere che modesta, anzi modestissima, nei rapporti del socialismo internazionale. Tutto al più avea valore di convincimento personale, o di promessa e di speranza da parte di pochi precursori liberamente o spontaneamente associati. Mancava il fermento della massa proletaria, che risultasse dal sentimento si una determinata situazione economica. Ora ciò e cambiato. Coi tristi casi di Sicilia il proletariato è venuto su la scena. Questa è la prima volta in Italia che il proletariato, con la sua coscienza di classe oppressa e la sua tendenza al socialismo, s’è trovato di fronte alla borghesia. Alla prima mossa è succeduta rapida la repressione. Ma ciò non rimarrà senza effetto. Gli stessi errori commessi serviranno di ammaestramento. La stessa borghesia, che per difendersi ha bisogno di reprimere, fa da maestra.

D’ora innanzi non ci sarà che progresso. Il socialismo, come forza impulsiva, investirà la massa proletaria. Cinquant’anni fa C. Marx ha detto (- ripeto il senso non le parole -) che non importa guardare a quello che il singolo proletario pensa o dice, né a quello che tutti i proletari pensano o dicono, ma a quello a cui sono necessariamente portati dalla loro stessa situazione. L’Italia di ora lo conferma”. (Antonio Labriola – Roma, 10 aprile 1894)

Adolfo Rossi, un giornalista d’inchiesta, si reca in Sicilia per studiare quel movimento. Ne intervista i protagonisti nelle campagne e rimane stupito di come siano politicamente preparati nonostante prevalentemente contadini analfabeti. Resta colpito in particolare dal ruolo delle donne – si stima che almeno un terzo degli aderenti al movimento sia costituito da loro – e dalla loro capacità di esprimere concetti politicamente elevati con proprietà di linguaggio e consapevolezza della propria condizione e delle prospettive della loro lotta. Per consentire un tale spazio alle donne nella nostra “consapevole” società evoluta, avremmo bisogno di “quote rosa” imposte ex legis. Inutile dire che il movimento fu represso nel sangue per volontà dell’ascaro Francesco Crispi (cui tante strade sono intitolate) che proclamò lo stato d’emergenza in barba alle leggi (lo Statuto Albertino ne prevedeva il ricorso, quindi l’intervento dell’esercito, solo in caso di presenza di invasore nemico sul territorio patrio). Tralascio di dettagliare quale concezione avesse delle donne il Crispi, rimandandovi semmai alla lettura del bellissimo libro, pubblicato da Sellerio, dell’amica Maria Attanasio, La ragazza di Marsiglia (storia dell’unica donna che partecipò allo sbarco dei Mille) dando piuttosto voce alle contadine dei Fasci come riportata fedelmente nel libro “L’agitazione in Sicilia”, di Adolfo Rossi, per un 8 Marzo ante litteram, concepito per essere tale ogni giorno.

Noi non andiamo più in chiesa, ma al Fascio.

Là dobbiamo istruirci, là organizzarci per la conquista dei nostri diritti.

Vogliamo che, come lavoriamo noi, lavorino tutti, e non vi siano più né ricchi né poveri. Che tutti abbiano del pane per sé e per i figli. Dobbiamo essere eguali. Io ho cinque bambini e una sola cameretta, dove siamo costretti a mangiare, a dormire, tutto, mentre tanti signori hanno dieci o dodici camere, dei palazzi interi (…)

Vogliamo mettere in comune le terre e distribuire con giustizia quello che rendono.

Ci deve essere la fratellanza, e se qualcheduno mancasse ci sarebbe il castigo.

Gesù era un vero socialista e voleva appunto quello che chiedono i Fasci, ma i preti non lo rappresentano bene, specialmente quando fanno gli usurai. Alla fondazione del Fascio i nostri preti erano contrari e al confessionale ci dicevano che i socialisti sono scomunicati. Ma noi abbiamo risposto che sbagliavano, e in giugno, per protestare contro la guerra ch’essi facevano al Fascio, nessuno di noi andò alla processione del Corpus Dammi. Era la prima volta che avveniva un fatto simile. I signori prima non erano religiosi e ora che c’è il Fascio hanno fatto lega coi preti e insultano noi donne socialiste come se fossimo disonorate. Il meno che dicono è che siamo tutte le sgualdrine del presidente. Quando un reato è commesso da un ricco, nessuno se ne cura, mentre il povero che ruba un pugno di grano per sfamarsi va subito in prigione.

Vedete che per i poveri non c’è giustizia in Piana dei Greci! I signori dicono apertamente che ci vogliono ammazzare ad uno ad uno. (…) Per ora i nostri consiglieri non potranno far altro che impedire gli abusi e le prepotenze dei signori i quali finora comandavano anche nel Comune. Ma i Fasci nomineranno anche i consiglieri provinciali e i deputati, e quando alla Camera avremo maggioranza socialista….

Noi speriamo che sorgano presto anche nel continente. Voi vedete come si moltiplicano qui. Possibile che nel resto d’Italia i nostri fratelli che soffrono seguitino a dormire? Basterà che qualcheduno cominci a predicare anche là l’unione del proletariato. Anche noi fino alla primavera scorsa non sapevamo che cosa fossero i Fasci. Morivamo di fame e tacevamo. Eravamo ciechi. Non ci vedevamo.”

Nota al margine: Rispondo qui ringraziando quel paio di gentili amiche/amici per la preoccupazione espressa circa una certa disinvoltura con cui uso le mie produzioni, che loro interpretano come artistiche, in riferimento a testi e foto, senza tutelarne, nemmeno pro forma, la proprietà. Lo faccio ribadendo un concetto già espresso (e credo sia quello che ha fatto scattare l’allarme) e cioè che quello che pubblico su questo blog è, salvo espressamente specificato, prodotto da me, e poiché io qui ho deciso di essere nessuno, ossia solo un sasso cui eventualmente chiedere un nome, appartiene a nessuno, dunque a tutti. Per cui ne è possibile la riproduzione parziale, totale, a frammenti o come vi pare, il rimaneggiamento, la mutazione genetica o quant’altro si voglia, senza necessità di citarne la fonte, che del resto non è citabile, poiché nessuno non esiste…