Dipartenza a tempo parziale e poco (si spera)

E di cosa dovrei scrivere oggi, di quegli altri morti d’annego che ormai ad assuefazione collettiva non paiono più qualche decina ma solo trafiletto a cronaca locale, di bomba che diventa superbomba per partecipazione corale a guerra di corsa ad arma, di acqua che s’asciuga per termosifone acceso, o ad imbarazzo per sovvenzione a banca di speculo forte? Scrivo solo che fra poco smetto di scrivere per qualche giorno che c’è spiegazione precisa a questo. Pure, però, a voi vi leggo e se posso lascio commento. Ma io, adesso non posso più di tanto che altro me m’ha catturato a castigo di suo imperituro impegno tutto a fronte di tutto.

Insomma, egli – altro me dico – s’è messo su calendario cose da tremore di vene ai polsi che s’affatica a sindacato, a comizionzo e conferenzuccia a dove lo chiamano, si presenta libro suo (che almeno si paga qualche spesa per il resto che sempre fu gratis et amore dei), scribacchia per questa e quella rivista di cosa serissima, si affanna per lavoro di scuola che pare si versa tale lavoro da cornucopia degli abissi, pure se pare tela di Penelope che non v’è né fine nemmeno costrutto per scuola a similitudine d’ufficio disbrigo pratiche. Ed io, che m’ero ricavato spazio di nessunitudine definitiva per libertà conclamata a bloghettino di sassi che parlano, vengo trascinato in siffatto modo ad affanno imperituro. Ma egli pure, a girar come trottola, a mangiar panino al volo a fronte di consumo di fegato e riverso di bile, a non farsi fermo se non a semaforo per trasbordo da parte ad altra, a ricavar spazio a muraglione di tempo per caffè e sigaretta al massimo, pure non sposta virgola, al più mette punti ad esclamazione di disfatta autentica. E io, a notte che fu inoltrata, gli dissi che va bene, che mi limito a scrittura a quando passò la buriana e lo seguo, ma feci appuntino preciso preciso, che riporto qui tale a come lo concepii. A vedere bene – che mi rivolsi ad egli con tu perentorio di confidenza, crescemmo e convivemmo insieme, financo in corpo medesimo sì da che venne vagito a nascita in illo tempore – ti sbatti e ti risbatti a consapevolezza che il mondo mai cambiasti, nemmanco mi pare ce la farai di pelo appena, di più t’accollasti tale mole d’incombenza a costo esattamente zero, pure con carico di debito conto terzi che finisti quasi a far fame. Ma non t’avvedesti di fatto che c’è capitalismo brutale e cinico? E se tale energia a spreco si volge, pure a tempo determinato, ad accumulo di doblone, si può poi mollare tutto e farsi bilocale frontemare a località deserta, magari isolonza a scarsa o nulla di popolazione. E ci si va ad armo di canna, e zampirone, che a lanciar lenza con boccone amaro per sfratto di sfrattante Bernardo l’eremita c’è speranza che ci si consola con cena di cerniotto e sarago.

Che a contorno ci si pensa con armo d’orto a produzione di pomodoro che per sale di vento si fece a meno di condimento. E unico contatto con mondo fu con corriere per consegna di librino ogni tanto e per arrivo di grande nave cisterna per consegna di vino rosso. Che musica ce n’è e pure abbastanza da recar con noi e il resto fu pace, scoglio, sale e vento, infinito di sguardo, silenzio di tempesta.

Manco a dirlo, mi ignorò. E comunque, se ce la faccio torno tra qualche giorno. Fate cose buone voi che passate di qui, che io mi dimenticai come si fa.

La guerra è finita

Ora che pure la Svizzera è a tremore, frontiera extracomunitaria s’apre pure a nord che è fatto necessario pure a fronte alpino alzare muro elevatissimo, quasi quasi pure blocco navale a bosco fitto. Comunque m’è a memoria altra cosa che scrissi, a testimonianza che di banca che scoppia, che pare sotto a bombarda di guerra, ne so cosa poca e ad altri m’affido.

Lo spettacolo è il brutto sogno della società moderna incatenata, che infine non esprime che il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il custode di questo sonno (…) Lo spettatore più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio.” (Guy Debord)

Che vado ancora di musica, ch’è meglio.

Io, con le cose di finanza, ho poca dimestichezza, praticamente so che esiste la vil moneta, ma lei mi evita, e pure io non la cerco che non saprei dove. Poi, da che mi sono fatto prof, questo rapporto è divenuto assai più evanescente, ancorché la cosa sia a concreta spiegazione in mutui più spese varie.

Che l’ultima volta ch’ebbi a che fare con banca, mi ci trovai a sportello con direttrice una zia, donna devota, cortese e garbata che, come altre congiunte, causa mia scelleratezza riguardo alle cose del mondo, ma anche alle vicende mie di spirito, mi diseredò ad libitum. Tra le tante nefande cose da me compiute, di cui mi rendo conto e mi dolgo con desiderio di contrizione prolungata, vi fu quella che feci allora allorché la pia donna mi invitò ad accomodo nel lussuoso ufficio di cui era comandante suprema. Premetto che, a quel tempo, operando in qualità di pennivendolo, godevo di miglior fortune economiche, tanto da potermi garantire, qualora avessi insistito, ruolo su questa terra qual ricco e spietato, pari a Conte di Montecristo. Optai, com’è noto, per depilazione da pelo allo stomaco, finendo per professoreggiare in attesa di rinnovo contrattuale come deserto attende pioggia. Ma in banca c’ero per versare assegno di lauto compenso professionale per scrittura a cottimo, che Ella, la pia zia, mi richiamò all’ordine, che parevo – mi rimproverò – che avessi soldi a libretto postale, come becero pensionato a procaccio di favori di cassa mutua. Mi paventò destini aulici di arricchimenti sorprendenti con colpi d’obbligazioni, titoli e derivati. Io, irrispettoso, egoisticamente legato al tirare a campo più che a destini fulgidi, optai per chiusura di conto immediata con esito finale del risparmio a libretto postale. Poco importa se la banca, da lì a poco, si sorprese gambe all’aria, che questo è prezzo che si paga a progresso, che la pia zia, piè veloce, si sottrasse a disfatta con pensione d’anticipo. Riconosco, però, virtù di competenza d’alta finanza a taluni che non siedono ad alto scranno. Tra questi, il mite Giorgio, storico centralinista di Camera del Lavoro, lo è a spanna sopra gli altri. Che con lui, bicchier di vino e fiasco poco distante, cercai di capire se guerra fosse. Ch’egli mi disse di no, che non sarebbe stato necessario che l’obiettivo era raggiunto, la guerra già vinta ed il nemico domo. E io, già ad elmetto, mi schernii per notizia di spiazzo. Che mi spiegò che in realtà virtuale, la guerra annunciata a reti unificate, significava schizzo di prezzi, dunque casse di stato piene ad IVA ed accise d’ogni bene, a ripianar debiti da pandemia, a risalita di PIL per bonus a bandito maggiore, per sgonfio di bolla. Che mi sfuggiva chi fosse il nemico domo, ch’egli, saggiamente rispose: “non t’avvedi di colpo d’obice ad alzo uomo ricevuto a buca della lettera e a cassa di spesa?”.

La scoperta dell’acqua calda, ovvero l’alternativa a fave e vino.

E al fine venne incredibile scoperta d’acqua calda che tale mi pare fu esternazione lucidissima che dice che migrante parte causa mercenario. Eccerto che così fu, che se c’è mercenario c’è guerra, ma anche è vero che mercenario è tale che fece guerra a doblone di concessione di potentato, sia stato grande e grosso che multi iper sodalizio di caveau pienissimo per ulteriore riempimento a sfrutto popolo e terra fino ad esaurimento scorte. Pure, se pago mercenario, non paio troppo ad interesse se c’è vittima collaterale, e vittima collaterale non c’è solo se questa scappa.

Pure è vero che potentato non è uno solo, taluno altro si conosce bene ma non si dice che stimola PIL per acquisto di bomba a fabbricazione civile per milizia non proprio autorizzata e dittatore vampiresco. E poi se c’è guerra pare che gente scappa che non ha ombrello adatto a protezione di bomba che è cosa che fa stupore e pare complotto di Spectre. Dunque, se voglio che non parte prendo ad orecchio preciso potentato e gli dico ora basta che se no faccio che ti metto a far pulizia forzata a discarica di suburbia e ti sequestro bene per pagamento di mercenario.

Mercenario non si paga per ammortizzatore sociale che creo posto di lavoro.Io, se voglio che s’aggiusta rubinetto d’acqua calda non chiamo mercenario ma idraulico, anche se l’ultimo che chiamai si prese soldo che parve mercenario che va a far guerra. La prossima volta mi faccio tutorial di riparazione e sistemo da solo tubatura ad avanzato disfacimento.

Stavo facendo divagazione che, mentre banca soffre, – che non ci sia legge d’eutanasia per limitare sofferenza mi pare cosa poco civile a caso specifico – mi capitò a ricordo recente che taluni mi strinsero e mi fecero a persuasione che era ora di andare a provare ristorante di cosa tipica che fa collezione di stella di firmamento. Che ci andai a ripetuto sollecito e ad accusa di asocialità, che la prossima volta me la prendo a capo cosparso di cenere tale accusa. E mangiai per pagamento con tasso di mutuo a strozzo, cifra da capogiro da far nutrimento a profugo a centinaia. E mi venne servito piatto grande quanto portaerei che recava a colorazione di fondo ipotesi d’essenza di purea di fave quale tradizione volle chiamarsi macco. Io se la tradizione volle così non lo so, ma fu tradizione negletta ch’io non conobbi. Poi, a beveraggio, sempre per cifra di PIL di paese a disperazione, mi fu concesso disseto assai parziale con tal ipotesi di vino che colorava appena fondo di calice che a dimensione pareva betoniera. Io, asociale contro modernità e spesa social, decisi per fare concorrenza precisa a siffatta prosopopea di esaltazione del gusto e misi a mollo a giorno prima trecento grammi di fave secche. A giorno dopo, a pazienza di certosino, le sbucciai una ad una, poi, dopo soffritto di cipolla, le versai con acqua precisa a pentola per cottura lunga sino a sfaldamento che accompagnai con altrettanta acqua che non s’asciuga tutto, sale quanto basta. Poi versai a piatto ancor caldo la purea ottenuta a sfamar tribù, detta – questa si – macco di fave, con trito finissimo di prezzemolo, due foglioline esatte di menta e filo d’olio.

Aggiustai pure di peperoncino arrabbiato a guisa arma di distruzione di germe. Accanto fetta di pane su fetta di pane con olio di mistero assoluto per profumo a ritenzione. Pure mi ci bevvi sopra vino rosso che sa di sale e terra che non fu capace a farsi imbottigliare, ma che tinse budella in modo irreversibile e non solo fondo di calice. Tanto più che io non ebbi calice mai e mi feci a svuotar damigiana con secchiate di bicchierozzo preciso di cantina.

E mi venne da pensare che tali che fanno guerra e profugo a milione di milione, morto ammazzato e d’annego ad ogni dove, che pensarono a sfrutto schiavo e ad arricchir banca che esplode, mai si fermarono a farsi macco di fave con vino giusto. Che se a quello avessero teso, e non a farsi carnefici d’umanità, se taluno rischia annego lo vanno a prendere per desiderio profondo loro che è quello di condividere fave e vino.

Radio Pirata 55 (anteprima d’8 Marzo)

Radio Pirata torna per occasione di buon 8 Marzo, e non a liturgia, per attivo sostegno a giorno di riflessione e lotta, che donna non sgancia bomba (almeno pareva così). E ad amor di vita e pianeta, anche a sostegno di donna, prometto, a solennità imperitura, che non salto fuori da torta in costume da gattopardo in locale di lustrino esagerato, che anche occhio vuole la sua parte. E do spazio a giovani collaboratrici a conduzione di puntata Cinquantacinque, a parziale ripresa di fatto già fatto. Ma prima d’immantinente vado a musica, faccio ricordo strenue per donna che perse figlia o figlio per morto d’annego (che a taluno parve di scarsa responsabilità ed intemerato egoismo), ma pure a donna d’Iran e d’Afghanistan che a memoria corta si fecero a ce ne scordammo rapidi che persero vita ed altro, rischiano di farlo ancora per solo capello sciolto.

“Da una parte, la guerra è soltanto il prolungamento di quell’altra guerra che si chiama concorrenza e che fa della produzione stessa una semplice forma di lotta per la supremazia; dall’altra, tutta la vita economica contemporanea è orientata verso una guerra futura.” (Simone Weil)

Da Simone a Simone, che il nome è lo stesso, qualche volta pure il cognome.
“Uno dei vantaggi che l’oppressione offre agli oppressori è che i più umili di loro si sentono superiori: un povero uomo bianco nel sud degli Stati Uniti ha la consolazione di dire che non è un uomo di colore sporco. I bianchi più fortunati sfruttano abilmente questo orgoglio. Allo stesso modo, il più mediocre degli uomini è considerato un semidio di fronte alle donne.” (Simone de Beauvoir)

“Qualche volta ho la sensazione di non essere un vero e proprio essere umano, ma appunto qualche uccello o un altro animale in forma di uomo; nel mio intimo mi sento molto più a casa mia in un pezzetto di giardino come qui, oppure in un campo tra i calabroni e l’erba, che non… a un congresso di partito.

A lei posso dire tutto ciò: non fiuterà subito il tradimento del socialismo. Lei lo sa, nonostante tutto io spero di morire sulla breccia: in una battaglia di strada o in carcere. Ma nella parte più intima, appartengo più alle mie cinciallegre che ai “compagni”. E non perché nella natura io trovi, come tanti politici intimamente falliti, un rifugio, un riposo. Al contrario, anche nella natura trovo ad ogni passo tanta crudeltà, che ne soffro molto.” (Rosa Luxemburg)

“Sono nata con una rivoluzione. Diciamolo. È in quel fuoco che sono nata, pronta all’impeto della rivolta fino al momento di vedere il giorno. Il giorno era cocente. Mi ha infiammato per il resto della mia vita.” (Frida Kahlo)

“La guerra si materializzava nelle cose, negli itinerari, nei divieti, nelle mancanze, era una sorta di disgrazia naturale più che un’impresa umana sulla quale si sarebbe potuto interferire. Potuto e magari dovuto? Quando mai. Quella sorta di cinismo o pigrizia che passa per italica bonomia, secoli di «tutto cambia dunque niente cambia», stringeva dovunque.” (Rossana Rossanda)

Buon 8 Marzo! Che ve lo rifaccio pure domani con riedizione di vecchia cosa.

Radio Pirata 54 (per puntata esplosiva)

Radio Pirata è ad appuntamento di numero Cinquantaquattro che a tutti dichiara magnifico weekend di serena tempesta, pure saluta manifestanti di cui faccio parte anch’io che vuole pace, dunque trasmissione di detta puntata è a differita che per ora non ci sono in casa, avendo seguito altro me a borbottio confuso di pacifismo ottuso che s’arruola a zar senza ritegno, che non ebbe nessuna a danneggiare sacralità di mercato di bomba che rilancia PIL e supremazia morale di grande occidente.

M’è facile supporre che proposta di pace non è ad accettazione, né se viene da piazza manco se viene da concorrenza d’oriente di mercato liberissimo.

Quella poi contiene clausole vessatorie, sopra tutte quella di nessuna bomba atomica, che è già prescrittivo l’uso di tale ordigno a grosso spavento di molti e sommo godimento di taluni che non aspetta altro che sgancio fortuito che poi è stata colpa di quell’altro o di quell’altro ancora, a seconda di chi fa sgancio più lesto.

E mentre ministrissimo meritevolissimo dice che non c’è paura di sopravvenire di dittatura a vaga spuntatura di nero, e strale lancia d’indigno a dirigente ch’ella fu d’assai poca solerzia per richiamo a vigilanza d’obsoleta democrazia, pure a valori d’attenzione a fatto sancito da vecchia carta straccia a nome e d’uopo detta Costituzione, io feci caso che detta cosa mi parve di pratica modernissima di democrazia che a dettato preciso fece taci tu che non è compito tuo che parli.

Ma d’indigno che fu a risposta corale, mi preme per sottolineo esatto ch’ebbi imbarazzo a far da supporto a ragazzo sotto manganello, a dirigente ecc., poiché mi ci ritrovai con cotali e cotante figure che non capii bene che ci fecero accanto a me, che se sono a sbraito per censura di meritevolissimo, perché, poi, si fanno a sbraccio insieme a quello che dipingono di nero ed ostile a valore di democrazia per far di guerra pesante partecipazione globale, pure, a stretto giro di stanza segreta, fanno ad accordo su differenziazione d’autonomia? E tale differenziazione, ad unanimità pretesa, mi pare colpo finale di primo contro ultimo, che tal mi sembra filosofia da altro ventennio mutuata. Manca solo battaglia di grano per quadrare la cerchia.

E mi son persuaso che tanto di digrigno feroce di gengia, contratto per bava alla bocca di giornalettume, è, a mio parere di miserabile ed ignoto, fatto che mai si misero cotali poveracci a botteguccia a farsi bicchier di vino di contadino con bruschettina e pomodoro, a far canto di vecchia canzone tra amici, che ancora faccio a riproposizione di detto scritto di mio giovane collega: “È indispensabile che tutti gli esseri e tutti i popoli saggi della terra capiscano che pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale dell’alimentazione umana. Piatto peccaminoso per eccellenza perché comprende e semplifica il peccato rendendolo accessibile a chiunque. Piatto peccaminoso in quanto può significare un’alternativa a tutto ciò che è trascendente, a tutto ciò che è pericolosamente trascendente, se diventa cultura della negazione. Non fate la guerra ma pane e pomodoro. Non votate per la destra ma mangiate pane e pomodoro. No alla NATO e sì al pane e pomodoro. Ovunque e sempre. Pane. Pomodoro. Olio. Sale. E dopo l’amore, pane e pomodoro e un po’ di salame”. (Manuel Vasquez Montalban)

Le formiche

S’appresta grande armata d’Occidente a partecipare a gusto di bomba, e popolujme è ignaro circa suoi destini trascritti in segrete stanze, a leccarsi ferite per strabolletta a non arrivo nemmeno a metà mese.

Ma che siamo noi, che siamo?… Formicole che s’ammazzano di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo. In fila avant’arriere senza sosta sopra quest’aia tonda che si chiama mondo, carichi di grani, paglie, pùliche, a pro’ di uno, due più fortunati. E poi? Il tempo passa, ammassa fango, terra sopra un gran frantumo d’ossa. E resta, come segno della vita scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra, qualche scena o figura.” (Vincenzo Consolo)

Che a festa finita, questo ci resta, che è condizione di formica, ad accumulare cose conto terzi, manco per regina però, che, ricca e spietata, almeno pare ha istinto materno, financo progetto di conservazione della specie. Peggio di formiche, a finire sotto al tallone, non per fine d’occasione di passeggiata distratta d’altro grande e grosso, ma tallone sempre è in testa che manco lo senti più a consapevolezza, però fa male uguale, e padrone di tallone fece suo il progetto di estinzione di massa di sua stessa specie per puro godimento di conto in banca di taluni sempre meno. Che per quello pare che lavoro di moltitudine sia a sfrutto e basta, con contrattualizzazione per bava alla bocca ed insofferenza in permanenza. Che mai fu colpa d’alto rango, sempre d’ultimo peggio che noi che è a maggior patimento. Che c’è tanti che sperano per rientri a routine che di vite spente fanno a riempimento di fatica che svuota idee. E non s’avvede moltitudine di propria fatica per riempir granai che alta sfera gaudente usa sfrutto di braccia e di mente, pure magazzino stracolmo, per far guerra a cottimo, per far distruzione di natura a manca e destra, per decidere di destino di massa deforme e claudicante di pensiero a che viene peggio, che se c’è peggio quella più si piega a schiaccio di tallone per assuefazione definitiva. Ch’ebbe sensazione di consapevolezza solo a fatto di pubblico memoria di vacanza d’io con sfondo di meraviglia d’uno sopra l’altro su pagina di faccia libro e affini, quale surrogato di libero pensiero.

Rivolta sarebbe dire, so cosa sto facendo, so cosa mi fate fare, dire che pure per lavoro divento merce un tanto al chilo, ma ora lo so. Che se so, vertice di piramide è alto assai, ma si scordò di fare forte fondamenta di base per crollo tra un istante. Rivolta è dire che ultimo è con ultimo e più ultimo assieme qual fratello, e far da piedistallo ci venne un po’ a noia, che c’è a scostamento improvviso di tutti a medesimo tempo per crollo di piramide, di busto impomatato.

Per strategia elevatissima

Ormai è fatto chiaro e conclamato che guerra di tutti contro tutti è a porta spalancata. Ce ne fu premessa ad esercizio di sparo, con infallibile mira a precisione millimetrica, per abbattimento di palloncino colorato, che fa a simulazione di botto esatto per nemico giurato, A render edotto popolo di mondo a suo malgrado, s’aprì processione – che pare pellegrinaggio a Madonna per chiesta di grazia suprema di fedelissimi – a cospetto di grande ed eroico difensore di frontiere benedette di valore d’occidente. Pure grandissimo sacerdote partì, ad oscurar presenza di sacerdotessa, – che sgarbo – a giurar fedeltà a nuovo Leonida a capo di truppa di valorisissimi con a cuore democrazia.

E qui ci siamo, che tempistica – anche quella – pare di precisione qual bomba intelligente, che se massacra povero disgraziato civile è colpa di lui che si espose troppo.

Tutto movimento d’accelerazione ad armiamoci e partite parve a domani esatto di presa di posizione di impero di hard discount che disse faccio proposta di pace che nemmeno zar può opporre lo gran rifiuto. Che detto impero assai poco s’espone a dire tale cosa se poi non ha carta giusta. Insomma, era a porre scongiuro d’evenienza di tale terribile portata che tutti si fece a corsa. Che poi, a guerra evasa, c’era rischio che un po’ di svuotamento d’arsenale andava a colpo a salve, si doveva pure tornare a far chiacchiera di cosa futile come Po che non c’è più e cambia destinazione d’uso suo a uadi, ma senza bonus, che migrante muore a fasci d’annego, che morto sul lavoro non s’accenna a diminuire, che c’è rischio che si fa logaritmo di gente miserabile. Pure Ciccio Bombaman d’oriente fa a lancio di missile che gioia armata trabocca d’ogni poro, meglio ogni foro con un colpo di cannone. Ma c’è maestria autentica di giornalettume a fatto locale nostro, santa stampa patria, che eviscera contenuto di messaggino di mammasantissima, con dovizia di particolare scabroso, pure si spulcia stanza di covo a dire che ha biblioteca e dvd a cavallo tra bimbominkia e professoressa progressista ed inquieta, dose massiccia di pillolone blu a far di suo armamento grande efficacia. Sfugge a trovar con chi fece affari ma, a sincronia perfettissima con eventi bellici galoppanti, si fa a scappo d’intercetto ch’egli si schiera a fianco di zar e pare pacifista. Detto ciò, per strategia sul campo di guerra di giornalistume nostrale d’elevatissimo pensiero, – Machiavelli, a tal cospetto, si fece studente fuori corso di facoltà di scienze confuse – se faccio a canto “mettete dei fiori nei vostri cannoni”, per equazione esatta mai a smentirsi che matematica non è opinione, vuol dire che o mi diedi a bunga bunga o m’apprestai ad affiliazione a mammasantissima per ampliamento di corte di zar.

Ma visto che mi sa che finirò comunque ad arruolo d’ufficio di tal masnada, per ritrovamento di libro a covo che è probabile ch’io pure lessi, con frase d’uno che lo scrisse chiudo.

Guerra, guerra, guerra il mostro giallo, la divoratrice di anime e corpi. Guerra l’indescrivibile, il piacere del folle, l’ultimo argomento a disposizione degli uomini non cresciuti. Deve esistere per forza? E noi? E intanto ci avviciniamo all’ultimo lampo, all’ultima chance che ci resta. Resta soltanto un fiore, un solo istante per respirare così.” (Charles Bukowski)

Le storie nella storia (Allonsanfàn parte ventunesima: “Era di giugno” di Mario Di Sorte)

Raro che parli di libri da queste pagine, non mi risulta d’averlo mai fatto se non in riferimenti di sgambescio, obliqui, qualche citazione rubata all’uopo. E ve n’è ragione precisa nel fatto che mi è raro di rimanerne preso a tal punto da non poterne fare a meno se escludo cose di lettura antica, volumi e volumetti che s’affollano – o prendono polvere – sui miei comodini, compagni d’un viaggio non invidiabile. C’è poi quell’altra cosa che mi crea indugio nel farlo, quell’altra cosa che riguarda me, anzi, ad essere onesti quell’altro me, da cui in queste pagine decisi di divorziare unilateralmente. Poiché egli di libri ne scrive, non parlando dei suoi mi pareva che potrebbe aversene a male ch’io parli di quelli d’altri.

Per una volta faccio finta di niente, stimando che forse non se ne accorge, seppure prima di procedere fui frenato anche da altro che m’accorsi essere invidia. E già, ché io mai ebbi capacità di farmi capire ad immediatezza di lettura, nemmanco forse ci provai. Ed invece il libro di cui voglio parlare è chiaro e limpido, scritto da un amico carissimo e fraterno (e pure questo mi frenò un attimo, ch’è facile essere additato qual preda di piaggeria) che sa dare peso alle parole, ne conosce il senso profondo, ne soppesa l’esatto valore. Ma finii per superare residui di pruderie, dunque procedo.

Era di Giugno (Effigi Edizioni) di Mario Di Sorte è un libro che esplora la storia, ce ne rende un’immagine composta di frammenti e vissuti drammatici, ma non convenzionali. Lo fa attraverso le vicende umane di tre ragazzi, Bobby, Alfred e Tonino, diversi, com’è necessario che siano gli sguardi che si volgono alla comprensione della complessità che regola i fatti degli uomini, l’irrazionalità della guerra, in questo caso, la costruzione di relazioni che pure fanno degli uomini ancora una volta uomini. Di Sorte usa uno strumento narrativo singolare, originalissimo, crea l’ordito d’una trama fitta con eleganza ma mai indugia in trovate ed orpelli estetizzanti.

Pare lo scienziato che osserva il vetrino ad occhio nudo prima di posizionarlo con perizia sotto le ottiche potentissime d’un microscopio. Aumenta progressivamente l’ingrandimento e crea un passaggio di testimone nel ruolo di protagonisti del libro di cui non ci si avvede subito. La storia, la gigantesca mobilitazione internazionale, i fermenti di liberazione e resistenza, la follia della barbarie della guerra sono fatti anche di luoghi, personaggi che attraversano il tempo, che paiono navi alla deriva. Nella prima parte del romanzo è tutt’altro che quinta scenografica per il racconto di precise vicende umane, è essa stessa protagonista e la coinvolgente narrativa di Di Sorte ce la rende in dettagli precisi, atmosfere convulse e rapidi cambi di scena. Interni di navi inseguono porti brulicanti, immense distese d’oceano, deserti e campi di guerra si alternano, e pare di sentire dentro le pagine del libro un vociare sconnesso, i boati terrificanti che disvelano orrore e speranze. Poi il microscopio della narrazione cambia oculare, coglie presenze umane sempre più precise, delineate, prima camei di grande potenza letteraria, apparizioni fugaci (il comandante d’una nave che trasporta prigionieri è figura sorprendente, come certe magnifiche presenze nei libri di Conrad). L’Italia prende posizione, lentamente, si lascia attraversare, ci mette se stessa, i suoi boschi, i suoi borghi, le campagne, ogni dettaglio è descritto con precisissima attenzione. Nulla pare lasciato al caso nelle descrizioni di Di Sorte, tutto concorre a costruire l’unicum narrativo della complessità degli eventi da cui emergono poderose presenze d’umanità varia, quelle che, senza rendercene quasi conto, ritroviamo adesso protagoniste, come avessero ricevuto un immaginario testimone dal tutto d’intorno. Le donne, gli uomini si esprimono con i loro rancori, le violenze, gli amori, la solidarietà, e fanno di questo libro un romanzo non catalogabile, che si muove oltre il genere. È libro storico, certo, insieme romanzo d’amore e di guerra, di sogni e nostalgie, di struggente desiderio di mondi altri, di speranze, di utopie che emergono dalle macerie e cui pare non importa molto di epiloghi sempre e comunque mai scontati.

Palla al centro

Sul far della sera tornarono in paese, aprirono il circolo e si misero a giocare a carte. Dìaz rimase tutta la sera senza parlare, gettando all’indietro i capelli bianchi e duri finché dopo mangiato s’infilò lo stuzzicadenti in bocca e disse:

– Constante li tira a destra.

– Sempre, – disse il presidente della squadra.

– Ma lui sa che io so.

– Allora siamo fottuti.

– Sì, ma io so che lui sa, – disse el Gato.

– Allora buttati subito a sinistra, – disse uno di quelli che erano seduti a tavola.

– No. Lui sa che io so che lui sa, – disse el Gato Dìaz e si alzò per andare a dormire”. (Osvaldo Soriano)

Che io con le cose di Soriano mi ci ritrovo, ché c’è autentica passione d’accalorarsi a tavolo d’osteria, sino a sfinimento di parziale ubriacatura senza desiderio di menar le mani. Io, lì, a osteria e bettola consunta, in genere a retroporto, crebbi ed imparai tanto. A slamare pesce grosso, per esempio, a dov’è spiaggia di delizia anche, ad attenzione e guardia alta per evito rosso allungato causa spuntatura a devianza verso aceto. Detta gente che tali luoghi affolla e di cui feci parte, poco capisce che taluno a piani molto alti ha chiaramente a disprezzo che esista umanità varia che non s’appassiona a volere guerra, che già piange per disgrazia sua e magari si fa briscola pazza a gioco d’azzardo per in palio bicchierino. Anela, al più, di farsi il secondo e poi due o tre passi a vedere se Pilu Rais tirò a secco una rete con pesce giusto per la matalotta della sera. Ma mondo civile non funzionava a volere di popolo, che così si disse? E chi chiese, a sondaggio preciso, che detto popolo abbia tal desiderio di partecipazione di grande tenzone universale a bombarda definitiva che grandi e civilissimi governi fanno a rincorsa a dire io ci sto? Non sono sicuro, che forse a fatto di detto sondaggio passò qualcuno meritevolissimo a chiedere, e a me sfuggì di dar risposta ch’ero già a fronte mare dopo terzo o quarto bicchiere. E si sa che chi non partecipa fa suo il torto. Ma mi venne pensiero che quella che si fa a gioco pare partita di pallone a porta serrata da ottomiliarducci di portieri scadenti, che cannoniere a tirar rigore non sgancia grande pallonata a destra o a manca, ma fa far botto a tutti insieme con petardo robusto. E l’arbitro, di grande illuminazione, tirò fuori cartellino rosso ad espulsione di squadra numerosa ad intero, che quella ebbe a scarso senso di sport di sporcar terreno di gioco. E poi palla al centro che campionato ebbe fine.

Radio Pirata 48 (Nostalgico italiano)

Radio Pirata torna a puntatona che si fece a numero Quarantotto a senza batter ciglio. Che vostra radio preferita si fa anche oggi, per ritorno a sorpresa dopo lunga latitanza, botte piena di grande musica a nostalgia conclamata di chitarra Eco standard acustica, con corda scordata – ma si spera di no – per accompagno esatto di notiziona che altra emittente non si fece a coraggio di dire fino in fondo.

Che fa notiziona che grande figura, a presentarsi quale rivoluzione di paradigma costituito e convenzionale, pare svela lato oscuro che non parve innocente come disse, che questo non è a stabilirlo nostra bella radiolina piratissima. A Radio, che fu di nessuno con tanto di n amputata di maiuscolo e minimizzata, ognuno che fa a catalizzare attenzione “a quanto son bello io”, per divenire di altezza vertiginosa, sempre è risaputo che poi casca, che gravità non fa sconti a nessuno. Unico che non casca è grande movimento di massa che quello nasce senza faccia ma con espressione di collettivo, che singolo non sparisce proprio, ma non si fa punta di niente, a sorreggere si depone ogni altro che ti sta accanto e nulla chiese in cambio se non essere parte di tutto.

Che dopo grande esibizione muscolare a fronte di opposizione di cambio di clima, grandissimi ricchi di merito, a simposio d’internazionale levatura, fanno meraviglioso miracolo di trovo accordo che va bene a tutti: se c’è danno casomai si fa risarcimento, che non si dica, poi, che non si lascia obolo giusto a causa di miserabile fine d’ultimo a secco preciso che non cadde goccia d’acqua. Pure gola di quello, ultimo intendo, si seccò che bella ragazzetta svedese disse forse non vado, ma altri a disidratazione d’ugola e colore sbagliato non ebbero scranno di successione, che è giusto per buon rispetto di brava gente non far vedere a TG d’ora di cena scena d’inquietudine di miserabile conclamato.

Ciao Claudio che ci manchi assai!

Che c’è grande fortuna che a mantenere sonno tranquillo a grande e potente vertice di piramide c’è ancora scoppio di bombarda con morto ammazzato a un tanto al chilo. Ma questa cosa, che pure dovrebbe fare a gioia collettiva, a taluno toglie sonno ogni notte. Capitò, infatti, che, quasi a dispetto fatto, chi ebbe destino di parata finale verso limbo di dimenticatoio per presunta inutilità conclamata, non poté partecipare. Eppure egli aveva espresso esplicito desiderio per colpetto di bombarda, ma non gli toccò manco un tiro di sghembo, una miccetta accesa, un premo grilletto a fucilino. Glielo fecero a sgarbo che missile di sconfino non fu quello giusto, che già aveva preso bell’e buona mira a colpisco pure io con sommo gaudio, a ricompensa d’impegno a comprar arma su arma che tolgo a cosa di futilità di società antica come scuola ed ospedale.

E finisco con sommo sollazzo, che finalmente grande flottiglia di nave sovversiva fu a blocco e senza possibilità di trovo porto salvo manco con richiesta a carta da bollo. Che ella, navaccia blasfema e bolscevica, si voleva fare a sostituzione di dio per decisione a contrasto di destino ineluttabile che a fuga via mare s’annega. Chi ce la fa, fedifrago, meglio è se di nascosto che non se ne vede per disgusto espressione di sfatto, e se arriva, meglio arriva ad invisibilità che così lavora a sotterro di serra e ci fa fare sconto su derrata a luminescente centro di commercio. Almeno si rende utile che la brava gente s’appresta a lustrino per festa che siamo tutti più buoni.