Ponti di parole

Ci appartiene quello che scriviamo? Chi lo sa? Penso che ognuno risponda per sé, decide cosa farne delle sue parole, di quelle che dice in confidenza, di quelle che urla ai quattro venti, di quelle che scrive in lettera riservata, o libera nella rete (che ossimoro vertiginoso). Io sono nessuno, dunque le mie parole sono di nessuno, chi le vuole se le prenda pure, che le scrissi liberamente, dunque sono libere, non anelano a proprietà. Vado un tantinello di musica, così, come atto liberatorio.

Scrivo per desiderio di rendere libere le parole, consentire loro di volare. Talora ne trovo già scritte, che volano da altri quaderni, e che somma soddisfazione quando paiono esattamente quelle che avrei voluto scrivere io. Capita che le trovi esatte e giuste nel momento stesso in cui concepii quello stesso pensiero, e chi se ne frega se non ne ebbi l’imprimatur, che a me “l’ho scritto io” non importa. Proprio ora m’attrezzavo a buttar giù una cosarella e la trovai d’altro. Che meraviglia le convergenze tra gente lontana nel tempo, nello spazio.

“Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l’ evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell’ omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poichè con le isole il punto è questo: sono di per sè parchi naturali e riserve dove lo “specifico” indigeno resiste più a lungo: sicchè rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale… Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benchè non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l’ Alitalia e l’ Autostrada del Sole. Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. Proprio su la Repubblica (31 agosto) Arbasino ci attribuiva una smania di staccarci dalla nazione e ce ne concedeva licenza. Obietto che, dai tempi di Salvatore Giuliano, fra le maschere sanguinose della mafia il fantasma del separatismo non è più ricomparso: e che oggi un eventuale referendum secessionista non raccoglierebbe in Sicilia più di mille o duemila suffragi… La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d’ Italia, dall’ Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d’ Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina… Con tutto ciò, come negare l’ esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’ esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l’ aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.” (Gesualdo Bufalino)

La catena

L’isola è già un ponte, ché s’è messa in mezzo tra blu e blu, si fece porto salvo per chi cerca altra sponda ed essa fa trampolino d’accoglienza, a limitar morto d’annego per viaggio di disperazione. Da una parte s’approda dall’altra si riparte, questo è destino d’isola. S’io tolgo blu da una parte, quella a quella parte dove blu venne meno appartiene e manufatto di cemento fu come catena a definire proprietà e prevalenza. Così ponte non unì, piuttosto disse è roba mia, dunque da qui non si passa. Ma di ponti già dissi, ma di quelli che reputai giusti, che tali altri mi parvero pretesto ancora di separazione.

Nazarene bianche, Nazarene nere.
Del fiume a le rive
si guardan da tanto i conventi,
si guardan con occhio di vecchia amicizia
le piccole torri, una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Due volte s’incontran, le bianche e le nere,
sul ponte, sul ponte che unisce i conventi,
li unisce da tanto per vecchia amicizia,
le piccole torri si guardan ridenti
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Le piccole chiese al crepuscolo s’aprono,
ne sortono leste le suore ed infilano il ponte;
nel mezzo s’incontran, s’inchinano
le bianche e le nere,
si recan l’un l’altre a la piccola chiesa al saluto;
vi fanno una breve preghiera
e leste rinfilano il ponte.
Di nuovo s’incontran, s’inchinan le file,
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
” (Aldo Palazzeschi)

I ponti li fecero generosi operai, pietra su pietra, bilichi delicati, arcate sorprendenti, manovalanze esperte di volontà a congiungimento di sponde di fiumi impetuosi, ed isole che divennero promontori. I ponti furono di progetto fatti ad unire da geniali architetti, su valichi di frontiera, sentieri di capre, terreni d’acquitrinio, paludi di creature fameliche che non fecero più paura.

Furono fatti di povere corde, di barche impilate, legni e pietre raccattati in un qualsiasi dove. Pure ce ne furono d’ingegnosi, che resistettero a millenni di barbarie, taluni si fecero immagini da cartolina, simboli, sperimentarono ardite soluzioni d’equilibrio. Tali altri furono fragili, si fecero a crollo drammatico, ma divennero metafora sorprendente di necessità di consolidamento di punti di contatto, allarme che non se ne mettesse a discussione l’esistenza, non se ne facesse per distrazione occasione d’abbattimento e rovinosa caduta. Solo nelle guerre, – allorché scorre il sangue di vinti e vincitori – come nella barbarie, s’abbattono i ponti.
Talora vi sono ponti che di progetto fecero a meno. Oceani a navigazione libera non sono forse ponti? Vette elevate non ebbero esse stesse, che d’animo impervio si tinsero, capacità di congiungere più che di far di divisione, a consentire all’occhio la curiosità dello sguardo che vaga sino all’oltre? Non furono financo i deserti nati quali ponti per essere attraversati in lungo e largo, per giungere d’oasi ad oasi, coste su coste? Non ebbero isole lontane sembianza di ponte, che fecero da ristoro per navigazioni senza precisa meta che non fosse di esclusiva scoperta?
Questa è dei ponti la natura più intima, l’unica necessaria, siano i ponti che abili manovalanze eressero dal nulla, solo armate di mani e sogno d’andare, desiderio di viaggio e sorpresa, siano anche fatti d’oro di nemico che fugge, e i ponti che non paiono ponti, come le vaste pianure, i grandi monti, le sterminate praterie, i mari infiniti. La storia degli uomini è la storia dei loro ponti, di quelli che costruirono, di quelli che elessero a tali, quelli che non ci furono. E se oggi quei ponti, come canali e fazzoletti di mare, qualcuno vuole chiudere, abbattere, doganare e seppellire, allora quel qualcuno nega volontà d’umanità di mille mila anni, di superamento di costrizione, della mente di trovare legittimo congiungimento con l’altrove. Dunque, nega se stesso quale ad appartenenza all’umana genia, se ne espulse, si mise a gattabuia e manco se ne rese conto, mentre provava ad assembrarci pure gli altri che si fecero gregge mansueto.

Senza titolo (per vaga insofferenza)

Quando sono stanco delle solite facce,

quando non c’è il vento giusto per partire,

quando non ho voglia di ascoltare inutili parole,

cammino e me ne vado lontano,

mi siedo fra le rocce che guardano il mare…” (William Butler Yeats)

Fu fortuna che non ebbi la TV da tempo immemore che ciò mi impedisce di guardarne d’altre facce, quelle torve della brava gente, che si commuove e s’illumina d’incenso, poi digrigna gengie di rancore al tale che chiede obolo a carrello di spesa. Mi viene di pensare che non ho tregua a dove mi giro giro che non appare imbecille di saccenza rigenerato, colui o colei che tutto sa e parla senza sapere di ciò che è giusto per tal de tali che patisce ad oltranza. Trova cura medica per pandemia, si fa mediatore a far di guerra più guerra ancora e, ad indice teso che pare escrescenza fallica ad ingravidare mondo intero di seme di sublime verità, categorizza nemici ad ogni dove, che tali sono se patiscono fame e a miseria imperitura s’affratellarono. Detesto tal brave persone che s’acchitano a dolore che si fecero a perdita di glorioso conto bancario e pure svizzero, che tremolio di ginocchia s’era fatto a rilevamento di scala Richter.

Detesto schifezze che non trovano schiavo a giusto prezzo che è prezzo a tozzo di pane e detesto chi, a sommo gaudio, si fece orgoglio d’aver trovato prezzo più basso a cassa di supermercato che tale fu solo a stillar ultima goccia di sangue a disgraziato che non morì d’annego. Detesto corone di fiori e scintillii d’urgente intervento contro trafficanti e di converso si fa strada aperta a superiore necessità che sia ad assoluzione collettiva rubo a quattro ganasce e frodo stato e a disgraziato che tira fiato coi denti. Detesto chi s’affila lama d’ordine e sicurezza e abbandona città e strade a vandalica esecuzione di saccheggio a mano di decerebellato per palla che gira. Detesto faccia aulica che benedice svolta green e simposio fa da parte all’altra di globo (terracqueo?) ad aereo a reazione che consuma fossile a prezzo di sfamo dieci villaggi di sud più sud per anno intero. Detesto singolar banchetto a mille mila persone a calca disordinata e vestito a festa che parlano per non parlare e ascoltano solo se stesse che hanno orecchia a boomerang. Detesto grandi democratici che dissero a povero disgraziato ci penso io che non fecero un giorno a saltar cena e mai si preoccuparono di sentir voce di grande massa di sciagurato e consentirgli pubblica parola a dire “io vorrei questo”. Detesto che il mio scoglio sia troppo lontano che pare che feci tradimento a mia lontananza da onda di risacca. D’ultimo sono stanco pure della mia faccia che specchio non fece fine di TV, ancora giace intonso, non so fino a quando che feci precisa minaccia a non far da pappagallo ad immagine scomposta.

Oltraggiosa partenza

Ondeggia, Oceano nella tua cupa
e azzurra immensità
A migliaia le navi ti percorrono invano;
L’uomo traccia sulla terra i confini,
apportatori di sventure,
Ma il suo potere ha termine sulle coste,
Sulla distesa marina
I naufragi sono tutti opera tua,
è l’uomo da te vinto,
Simile ad una goccia di pioggia,
S’inabissa con un gorgoglio lamentoso,
Senza tomba, senza bara,
senza rintocco funebre, ignoto.
Sui tuoi lidi sorsero imperi,
contesi da tutti a te solo indifferenti
Che cosa resta di Assiria, Grecia, Roma,
Cartagine?
Bagnavi le loro terre quando erano libere
e potenti.
Poi vennero parecchi tiranni stranieri,
La loro rovina ridusse i regni in deserti;
Non così avvenne, per te, immortale e
mutevole solo nel gioco selvaggio delle onde;
Il tempo non lascia traccia
sulla tua fronte azzurra.
Come ti ha visto l’alba della Creazione,
così continui a essere mosso dal vento.
E io ti ho amato, Oceano,
e la gioia dei miei svaghi giovanili,
era di farmi trasportare dalle onde
come la tua schiuma;
fin da ragazzo mi sbizzarrivo con i tuoi flutti,
una vera delizia per me.
E se il mare freddo faceva paura agli altri,
a me dava gioia,
Perché ero come un figlio suo,
E mi fidavo delle sue onde, lontane e vicine,
E giuravo sul suo nome, come ora.

(George Byron)

Quando partii fu strazio autentico, che a non farlo sarei rimasto sepolto. Eppure non partii nemmeno con bomba sulla schiena, finsi di farlo ché mi piaceva. E il distacco fu dolore lancinante, che non passò giorno che non pensai al mio scoglio, che non ebbi intenzione di chiacchiera con amico antico, che non ne passò nemmeno altro che non ebbi mancanza di posti miei e di altro che m’appartenne. Se taluno m’avesse detto non far viaggio d’assenza lunga lustro dopo lustro mi sarei nutrito di speranza a costa.

Ma dopo di me altra miriade partì che ritorno a casa per festa comandata pare a rimpatriata di scappati via. Dunque, penso che mondo ha cinquanta guerre e più, donna che non scioglie capelli, bambino ch’ebbe sorte a destino segnato di morto di fame, tra sofferenza vera ed autentica, mica scappa da umiliazione per sussidio di disoccupato e basta. E paese su paese vive a sofferenza per sfrutto di fare a funzionamento preciso per materia prima giusta PC e cellulare, pure parte d’economia green, a volerla dire tutta, e macchina che viaggia a batteria per miniera a mani nude, ed oro che luccica a collo di madama per sasso pigiato a mano nuda e cratere aperto a posto di piantagione di pomodoro e cipolla. In tal paese truppa d’ascaro spara ad aumento di PIL nostro con corollario di guadagno per primi a digrignar dente a sfregio d’umanità. Che tal paese è fatto a saccheggio per adipi nostrali, e chi parte, parte che non ce la fa più, che piacere non ebbe a lasciar affetto antico. E allora, che insieme di tal paese ha PIL che pare borgo di montagna nostro a mezzo disabito, facciamo che diciamo non ti piglio più terra, non te l’asciugo che devo far lavatrice a metano, che non ti faccio bomba a prezzo d’usura, e faccio solo che decisione di questo si prende a Nazione Unita, non a simposio di grande e potente G qualcosa con numero che segue a seconda di circostanza per importanza. E che associazione di Nazione Unita sia che non pare associazione di circolo della bocciofila che diritto umano è al massimo non pesto piede e rispetto fila per piatto di baccello e pecorino a prossima sagra. Facciamo che ad etichetta di quello che mangio metto ingrediente preciso, pure certificazione che non fu fatto a sfrutto di braccia quale schiavo di paese disgraziato, manco di armata di caporale. Facciamo che dico a dittatore “ora m’hai divertito”, ma non lo dico io, glielo faccio dire a tale associazione se è non a veto incrociato di miserabile potente ed ha finalmente egida di diritto umano per rispetto assoluto con casco blu che partecipano tutti a voce grossa ed interposizione. Mica mando truppa cammellata di mercenario a pagamento a cottimo pure ad arruolo involontario se no t’ammazzo nonna, nonno, mamma e pure zia e nipote se di fame non morirono prima? Certo, mi vien pensiero che forse psicocellulare per social poi costa quanto viaggio interplanetario, e messaggino di potente che so tutto io finisce a parcheggio di discarica. E io vi dico chissenefrega.

Ca’ pummarola ‘ncoppa

C’è cosa che vi propongo in versi che ancora – ancora – non fu ad indice! Non prima di musichetta assai lunga, però.

Sì. Detta così l’ispirazione:

la mia libera fantasia s’appiglia

sempre a quei luoghi dov’è umiliazione,

dov’è sporcizia e tenebra e indigenza.

Laggiù, laggiù, con più umiltà, più in basso, –

di là si scorge meglio un altro mondo…

Hai mai visto i bambini a Parigi

o sul ponte i poveri d’inverno?

Dischiudi gli occhi, schiudili al più presto

sul fittissimo orrore della vita,

prima che un grande nubifragio spazzi

tutto quello che c’è nella tua patria, –

lascia maturare il giusto sdegno,

prepara al lavoro le braccia…

E se non puoi, fa sì che in te si accumuli

e divampi il fastidio e la mestizia…

Ma di questo vivere mendace

cancella l’untuoso rossetto

e, come talpa timida, nasconditi

sotto terra alla luce ed impietrisci,

tutta la vita odiando con ferocia

e tenendo in dispregio questo mondo,

e, anche se tu non veda l’avvenire,

dicendo no alle cose del presente!” (Aleksandr Aleksandrovic Blok)

Mercoledì c’è questa cosa strana che si chiama Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, che s’afferma quale agenzia dell’ONU, che dice che al largo della Libia c’è terribile naufragio e che undici sono cadaveri a preciso ritrovamento, pure sessantadue dispersi, che vuol dire che son cadaveri ma non a ritrovamento. Stesso giorno son diciotto che viaggiano a nasconderello dentro camion di legna in verso la Bulgaria che muoiono tutti. E questa pare tutta gente che si diverte a far morto ammazzato ora di freddo ora d’annego, pure di fame e sete. Che scappa per farsi cadavere a ritrovo non sempre facile. E a me a dire salviamoli non mi viene più, che tanto c’è ascolto uguale a meno di zero, che la colpa è di questo e pure di quello, e la verità è che fu solo colpa loro che partono, che se non partono farebbero buonissima cosa, così si fanno a morto d’ammazzo da parte altra e a casa che non ebbero, che occhio non vede cuore non duole. Ma taluno arriva e si fa nascostissimo e financo clandestino, e mi viene da pensare che fa questo che arriva, così mi faccio conto della serva a precisissimo bancone di supermercato a prezzo di hard per prodotto mirabilmente 100% di cosa nostra. Fatto salvo che non dico quale è detto punto vendita, che a dirne uno si fa torto ad altri altrettanti, mi faccio acquisto di magnifica bottigliozza di profumatissima pommarola nostrale a prezzo di 0,80 Euro per circa 700 gr. Faccio salva buona fede e dico che è nostrale, pure se ad apertura fa stesso profumo di passata d’acqua. Ma continuo che faccio di conto giusto. Mi ritrovo a prezzo di sola bottiglia a privazione di etichettatura ad andar bene tra venti e trenta centesimi, poi c’è passaggio da produttore a grossista e distributore con relativa spesa di trasporto più IVA varia di qua e di là, tassettina ad oltre qualcosa in più ecc., guadagnetto di passaggio per filiera lunghissima, e mi sono perso sicuro talune cose di certa rilevanza. Ma a fine di conto mi pare che a far passata di quella portata ci vuole almeno – e vado ad esperienza diretta – due chili di pomodoro a far onesto il produttore. Ma mettiamo che non è precisissimo di onestà integerrima ed allunga d’acqua, così facciamo un chilo e mezzo. A conto fatto finale c’è cosa che mi salta strano, quanto si paga schiavo – e chi sarà mai tale schiavo? – per raccolta di pomodoro che mi pare avanzò nulla o qualcosa meno di tale? Dunque, a bolletta di 400 Euro che mi arriva di gas per mia stanzetta, a constatazione che per grande e glorioso banchierissimo sostituto di migliorissimo non è salutare aumento di stipendio a fronte di caro prezzo, a considerazione che a pezzo di popolo a consistenza elevata di numero non venne sdegno l’annego facile, mi sovviene che chi non si fa morto d’ammazzo per fuga da scappo da triste vicenda di paese suo, fa da ammortizzatore sociale meglio che previdenza di stato mio, che almeno mi mette a tavola piatto di spaghetti co’ pummaroru di sovranità d’alimento.

Disordine e indisciplina cosmici

“Che mai sarebbe il mare e il cielo,

e le isole e le stelle,

e quanto all’occhio umano si offre,

che mai sarebbe questo spento suono di cetra

se io non gli infondessi suono e anima e parola?”

(Friedrich Hölderlin, Empedocle)

Mai fu bastevole starsene a contemplare l’infinito, coi trabocchi d’altro che si frappongono tra esso e lo sguardo, se non si intrattenesse col tutto d’intorno amabile conversazione. Se non si cogliesse che in quello ci sono suoni e parole che scivolano lente, tali altre s’agitano di moti compulsivi che fremono di desiderio di racconto. Pure non valse la pena d’annoiarsi su una sedia volta all’indecifrato se non vi fu volontà d’ascolto per la nuova narrazione che si ricompone nei meandri antichi delle solitudini definitive. Dette solitudini, però, s’ebbe a concretezza d’osservazione, mai furono davvero tali, piuttosto si prefigurarono come brulichio permanente, quale onda di marea che s’alterna a risacca di rimbalzo, tempesta e bufera che si fanno a soverchianti forze a scontro finale con bonaccia e calma piatta. Davvero ci si fonde con l’infinito e con tutto ciò che fu strada verso d’esso quando sapori e suoni, colori e profumi non paiono più darsi confine preciso, s’impelagano a fusione perfetta, piuttosto, paiono ragazzini che scivolano verso la palla che rotola all’unisono, ad un tutto insieme che non prevede geometria di gioco, precisa programmazione. Ma che meraviglia farsi strada nel kaos della percezione, nel quel che viene viene. E se comincio a metter punto qua e là, non fu tale per definire l’accapo del ricomincio, ma solo momento di fermata a godimento, che me ne feci concessione con bicchiere pieno e musica che mai si fece così giusta nel rilasciare effluvio potente.

Vabbè, a scanso d’equivoco, “imitazione di Empedocle. Troveranno sull’Etna, a tre metri dal cratere, una scarpa Varese numero 42…” (Gesualdo Bufalino)

Per difetto di comprendonio

In detti tempi grami che a morto d’ammazzo si risponde con ne ammazzo abbastanza di più io, con bomba e con quel che ci pare, che fummo sotto assedio da torme di barbari di ferocia inaudita ch’è meglio si faccia annego di tutti loro in un sol boccone di Scilla e apoteosi di vendicative fauci di Cariddi. Pure c’è morto ad ogni dove ed io non capii bene se oggetto del contendere è vero quello, oppure ve ne fu altro assai più sottile.

Che data sottigliezza mi sfugge, che a dibattito elevatissimo io non potei prender parte nemmeno a ruolo di sgambescio per dir la mia sottovento che nessuno m’ascolta. Per quello occorre vocazione d’ingegno autentico ch’io non ebbi a nessun fatto, che fui d’intelletto munito a far concorso a ribasso per numero di neuroni con cozza attaccata a scoglio ad aspirar salsedine e basta a marea più bassa. D’altro che non fosse sale non mi feci abitudine d’aspirare, che lì, proprio a confine di terra malferma d’isolata insularità con continente blu, mi feci natale a mio malgrado, che se avessi scelto mi sarei pasciuto di salotti buoni ed intellighentie superiori.

Ciò non mi fu dato d’anagrafica precisa e scarsa propensione a brigo d’azzardo e sgomito per esser altro a diversità di tal nessuno che non fu altro che tale. E, dunque, non mi fu facile comprendere livello sottilissimo d’analisi e scontro, ad arma bianca e ventaglio di nero munizionamento, tra strateghi di destino del mondo, che mi parve altro oggetto del contendere. Che se morto è d’ammazzo preciso a sparo autentico, o d’annego, a finir sotto ruspa selvaggia, o d’esposizione a freddo o caldo, fame e sete, io che sono semplice di pensiero, mi vien da pensare che a causa di tutto c’è che faccio scelta a quanto conviene a doblone di pagar salvezza di vita piuttosto che mezzo di sfruttamento, fabbrica d’inquino a soccombere di pianeta, bomba a faccio pulita la piazza. Insomma, fu che m’accorsi che non ci arrivo a ragionamento preciso, che mio intendere è di profilo basso e chiacchiera ispiratissima mi parve, ad obnubilazione mia per ignoranza capitale, – e di capitali – rapimento di vil secchia. E se riscontraste in parole lette riferimenti a cosa e persona varia di reale esistenza, si sappia che fu solo ché mi scappò così, giammai ci arriverei da solo.

Vorrei cantar quel memorando sdegno
Ch’infiammò già ne’ fieri petti umani
Un’infelice e vil secchia di legno,
Che tolsero ai Petroni i Gemignani.
Febo che mi raggiri entro lo ’ngegno
L’orribil guerra e gli accidenti strani,
Tu che sai poetar, servimi d’aio,
E tiemmi per le maniche del saio.

E tu, nipote del rettor del mondo,
Del generoso Carlo ultimo figlio,
Ch’in giovinetta guancia e ’n capel biondo
Copri canuto senno, alto consiglio;
Se dagli studi tuoi di maggior pondo
Volgi talor per ricrearti il ciglio,
Vedrai, s’al cantar mio porgi l’orecchia,
Elena trasformarsi in una secchia.

(Alessandro Tassoni)

Conosco delle barche

La traversata era cominciata e la nave, come un frammento staccato dalla terra, correva solitaria e rapida come un piccolo pianeta. Intorno ad essa gli abissi del cielo e del mare si univano in una irraggiungibile barriera. Una grande solitudine sembrava avanzare tutt’intorno con la nave, sempre mutevole e sempre eguale ed eternamente monotona ed imponente. Di tanto in tanto un’altra vela bianca errante carica di vite umane appariva lontano e spariva diretta verso il suo destino.
(Joseph Conrad)

Ora sono solo numeri, numeri sparsi, oltre i necrologi, mentre è discussione accesa sul nulla che avvolge l’ultimo naufragio, solo ieri. Quello, il naufragio, non c’è più, forse non c’è mai stato, non se ne sente il bisogno, non v’è necessità se non a dimensione di trafiletto scordato.

Pure, il porto salvo, era lì, che ci sono tali che a forza di braccia fanno tratti più lunghi, roba da applausi, record e medaglie. Il corpo sfinito dalla fuga infinita non regge. Sei uomini, tre donne, una è incinta, un’altra è giovane, ha perso i sensi per fame, sete, freddo, teneva tra le braccia il suo bambino, scivolato via, finito inghiottito dalle onde. Questi sono quelli che non ce l’hanno fatta per ultimi, ed il racconto dei sopravvissuti si fa cosa che non si descrive con semplice strazio. Altre anime vedranno quanto è profondo il mare, Altre bare le attendono, ci sarà legno per farne ancora, useremo i relitti spiaggiati poi passeremo alla plastica, ricicleremo, che ci piacciono le economie circolari, il vuoto a rendere. Chissà chi vince il festival.

Conosco delle barche
che restano nel porto per paura
che le correnti le trascinino via con troppa violenza.
Conosco delle barche che arrugginiscono in porto
per non aver mai rischiato una vela fuori.
Conosco delle barche che si dimenticano di partire
hanno paura del mare a furia di invecchiare
e le onde non le hanno mai portate altrove,
il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.

(Jacques Brel)

Sguardo fisso

Pace non cerco, guerra non sopporto

Tranquillo e solo vo pel mondo in sogno

Pieno di canti soffocati. Agogno

La nebbia ed il silenzio in un gran porto.”

(Dino Campana)

M’ero dato, ch’ero poco più che un bambino, un rigore di vita preciso, a scoglio tra i più solitari sin dall’alba, al più, per scavalco abusivo, ed ancora a scarse frequentazioni, mi concedevo resa d’omaggio alla tomba del poeta tedesco e negletto di cui mai lessi un solo verso. Non ci fu giorno che non facessi del mio tempo occasione di sguardo sotteso sull’onda, a sgamo di barca che fa capolino ad oltre orizzonte, nemmeno pensai un attimo a far di me cosa che tanti dissero, che parevo strano a buttar pezzo di mia gioventù ad apparenza di gianfanniente. Mai considerai perso quel tempo di scarsa presenza umana. Che quel poco era gioco di cime, pure io mi trovai a reggerne taluna, per dar mano d’aiuto a barcarella che s’apprestava a moletto con onda che si faceva ostacolo a preciso riparo. Altre e tante volte tirai – a far cosa d’istinto – a secco di rena o scoglio puntuto nuotatore non provetto. Altri vidi fecero uguale, che a star fronte mare s’apprende cosa semplicissima, che è a tendere braccia a chi nuota a fatto di difficoltà. Pure l’onda pare t’aiuta a presa di quella decisione. Che non mi feci mai abbastanza edotto di come si può dire non tendere braccia a braccia che affonda. Forse che la cosa più semplice è proprio così tale da risultare di difficoltà manifesta a chi rinunciò ad avere pensiero suo che non fosse d’automa a radiocomando.

Che uomini sono quelli che preferiscono la monotonia del mare? Mi sembra che siano di quelli che hanno scrutato troppo a lungo, troppo profondamente nel groviglio delle cose interiori, per non cercare in quelle esteriori una cosa sola, la semplicità…” (Thomas Mann)

Radio Pirata 50 (per eccesso d’eccesso di misura a strabordo)

Radio Pirata fa grande traguardo di puntata numero Cinquanta che s’appresta a festeggiamento per giusta causa d’esistenza lunga e prolungata, musicante e scrosciante d’applauso a scena aperta e augurio collettivo di altre mille e anta pure di più puntatona di scoppiettanza. A festeggiamento c’è invitato lussuoso a numero elevatissimo – ma con turno preciso a gruppo di meno d’un certo per evito adunata sediziosa a precisione di decreto per rave – con red carpet che ognuno se lo porta da casa che Radio è di profilo basso per modestia ma al contempo elevatissimo d’oggettivo, che pare tutto e suo contrario con sommo gaudio di spargimento di confusione. Che subito si parte a musica giusta che mai fu di tal portata più giusta.

Ma Radio non rinuncia a far anche cosa di cronaca come si compete ad organo d’informazione di superba qualità. Che notizia pare ormai acclarata che Grande Glorioso e Giusto Partito di Sinistra è ormai a cosa acclarata che ha candidato di segreteria in numero esatto di suoi iscritti che se accordo non si trova si va a ballottaggio fra tutti per risultato di uno a uno a uno a uno a uno a uno (ad libitum ma non troppo). Ora c’è pressing che almeno qualcuno si astiene, tal altro non si concede voto a sé che vota un altro che almeno si fa due a uno e palla al centro, anzi, a destra.

Continua lunga e diritta correva la rotta che non si fa a sbarco per fugaiolo da morte e miserabile esistenza a porto salvo più di prossimità per rifocillo e riposo, ma si sceglie porto a lontananza estrema che tanto prima o poi s’arriva a mal di mare fitto fitto che la pacchia è finita e corsa di taxi marino costa di più.

Meglio pure se porto è ad accoglienza con pugno chiuso e Bella Ciao e concerto di Inti Illimani che, però, a far scandaglio di tale porto, pare che quello non c’è, che a far tale accoglienza non se ne fece cosa di massa che c’è impegno altro di tutti a tale opzione politica a far candidato a Grande Glorioso e Giusto Partito di Sinistra.

E c’è pure guerra che si fa sempre più a bombarda che c’è ressa a partecipo anch’io a mando bombarda di produzione sovrana che è grande pubblicità a fabbrica d’orgoglio di nazione ad altissimo grado di civiltà. Che tale ressa pare a chi ha bombarda e bomba più grossa che a furor di merito è tutto a espressione per dotazione migliore che grande consesso d’alleanza militare pare studentato d’adolescente per misura di orpello intragambale a maggiore gittata.

Radio riporta notizia che paese di Samba, per sgambata fine settimanale e palla a rotolo con virtuosismo per rete gonfia, pare ora roba d’assedio per grande timore di democrazia verde Oro fatto da brave persone di ieri ed ora non c’è accordo su loro esistenza. A fatto che s’ode ad altro emisfero squillo di tromba si risponde con tafferuglio di tifosume a blocco d’autostrada per ore ed ore per taglio in due di paese intero e coda di disperazione di bimbo che piange e vecchietto a mancanza di conforto di toilette per prostata in disarmo ed incontinenza a mancanza di rispetto per liturgia domenicale di Sisal. Però palla rotola ancora che The Show Must Go On.

E per fare grande augurio a se medesima Radio dedica a se stessa come mazzolin di fiori bella palazzescata giusta ed ancora fa augurio che anno nuovo sia anno con grande felicità a malgrado di accise ipertrofica.

MAR GRIGIO

Io guardo estasiato quel mare,
immobile mare uguale.
Non onda, non soffio che l’acqua
ne increspi, non aura vi spira.
Di sopra lo cuopre un ciel grigio
bassissimo, intenso, perenne.
Io guardo estasiato tal mare.
Non nave, non vela, non ala,
soltanto egli sembra un’immensa
lamiera d’argento brunastro.
Su desso si mostra coperto ogni astro.
Il sole si mette una benda di lutto,
la luna un vel grigio,
le innumeri stelle lo guardano
tenendo un pochino
socchiuso il lor occhio vivace.
Io guardo estasiato tal mare!
Ma quale fu l’acqua ad empirlo?
Dai monti sgorgò? Dalla terra?
Dal cielo essa cadde?
O cadde piuttosto
dagli occhi del mondo?
Mar grigio siccome una lastra
d’argento brunastro,
immobile e solo, uguale,
ti guardo estasiato!
Ma c’è questo mare ma c’è?
Sicuro che c’è!
Io solo lo vedo, io solo
mi posso indugiare a guardarlo,
tessuta ò la vela io stesso:
la prima a solcarlo.

(Aldo Palazzeschi)