E visto che si fa festa grande, che ponte farà a cessazione di cosa d’isola, vi riciclo cosa antica, per memoria di perduto amor di terra matria che s’appresta a diventar cosa altra, praticamente ferma a gancio, incementata che non ebbe abbastanza disgrazia, pare, che non gliene si doveva affibiare altra.
“Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio”. (Manlio Sgalambro)
Mi capita tutte le volte che me ne vado da lì, a valigie non ancora pronte che strugge d’essere isola forse pure io.
Aveva voglia Nisticò a classificare i siciliani in siciliani di scoglio e di mare, gli uni abbarbicati al substrato come una cozza, un dattero, un riccio spinoso, incuranti della natura claustrofobica dell’appartenenza. Gli altri, con la valigia in mano, fermi non ci stanno, e appena la prima brezza lo consente, prendono il largo a vele gonfie. Ma tutti si portano dentro la stessa insularità, che è condanna del viaggio e nostalgia struggente per il porto di partenza. Solo che ai primi arriva subito, ci soffrono di più, basta che si mettano poco fuori l’uscio di casa, si vadano a sbrigare un documento nel capoluogo. I secondi, al più, con la lacerazione del distacco ci si sono abituati a convivere. Ma tanto tornano, prima o poi vedi se tornano e non passa minuto che con la testa non si organizzano per farlo. Mi pare che questo desiderio di ritorno sia proprio il risultato della paura atavica che l’isola non la ritrovi più, che qualcuno, mentre ti allontani giusto un attimo, se la possa portare via. Forse lo tsunami o li turchi, anche se – ed è evento inconfutabile -, qualunque cosa arriva, dopo un primo attimo di sgomento, gli si apre la porta di casa e, passati al più cinque minuti, ti scordi che è arrivata allora allora, e ti pare che sia lì da sempre, ci fai l’abitudine. Tuttavia, poiché non si sa mai ed a scanso di equivoci, metti in giro strane voci, che lì ci sono i Lestrigoni, i Lotofagi, forse Circe, che giù per lì Scilla e Cariddi hanno un brutto carattere, che quei sassi, isole essi stessi, ce li lanciano Ciclopi a basso tasso di socievolezza, e che le figlie di Kokalos avvelenano gli ospiti. Di più, se per ragioni di modernità te ne devi andare per qualche giorno, che ne so, a Poggibonsi, San Giovanni in Persiceto o a Cormano, saluti parenti e amici, fazzoletto in mano, come se stessi andando a sfidare i cannibali del Borneo.
Ad ogni buon conto, mettetela come vi pare, uno che nasce su un’isola sta già viaggiando. Perché il mare, tutto intorno, fermo non ci sta, e si muove di correnti e flutti, in definitiva, viaggia conto terzi. Non merita citare chissà chi per comprendere che il viaggio è una precisa connotazione antropologica, e pure se ha talune accezioni di ingegneria nautica, non è solo uno spostamento da e per. Alla fine “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)
Nell’insularità è connaturata la pigrizia più atavica, quella persino trascendente, che si fa connotazione definitiva ed archetipo illustrativo di genti. E del resto che ti agiti a fare se sei proprio dentro il gorgo più gorgo, il tutto che si muove permanentemente? Fatica sprecata. Per altri quella è ignavia, accidia, in realtà è saggia contemplazione del mondo che non sta fermo, dunque perché inseguirlo nell’apoteosi dell’operatività? Il mare vortica così tanto che ti fa dono ora del primato di paradiso terrestre, ora d’inferno in terra, né fu creato per compiacere chi vi si trova circondato senza scampo; inutile cercare di opporvisi. Se serve qualcosa, servissero tre secoli e più, prima o poi un’onda bislacca te la schiaffa davanti, spiaggiata a pancia rivolta al sole. Né si tratta d’un fiume che scorre in un unico verso, cosicché sai già cosa t’arriva a valle se conosci il monte. Il turbinio è pluridirezionale, dipende dalle stagioni, talora dall’umore nero della burrasca o talaltra accondiscendente d’un venticello virato a bonaccia. Sfidare quel tutto che si muove per provare a spostarsi in altra direzione è atto temerario. Ed in tutto quel bailamme agitato meglio star fermi giacché, prima o poi, da qualche parte arrivi, e se non arrivi – quella data parte, intendo – presto o tardi, t’arriva lei. Ma l’isola, quella, da dentro non te la togli nemmeno se ti metti a pizzo di montagna. Non c’è niente da fare, t’entra in valigia, col sale e tutto il resto.
“Quando i miei pensieri sono ansiosi, inquieti e cattivi, vado in riva al mare, e il mare li annega e li manda via con i suoi grandi suoni larghi, li purifica con il suo rumore, e impone un ritmo su tutto ciò che in me è disorientato e confuso.” (Rainer Maria Rilke) Ma c’è che mare, ora, m’appare lontano, e fatti che morto è ad annego, guerra a porta di casa e a sfascio porta d’altro disgraziato che non se la chiamò in ogni dove, tolgo a povero che ricco piange per non reperimento di schiavo, mozzico a dente affilato cosa più cosa che s’asciuga per clima di secchezza, mi strapiombano e fanno carambola imprecisa da tempia a tempia, rumoreggiano da orecchio ad orecchio senza conclusione. Ed a fragore insopportabile che fu né d’onda nemmanco di corrente di risacca s’aggiunse bailamme di so tutto io.
E mi venne a mente e ricordo cosarella che vi ridò, pure, se non ve la diedi prima, ve la do adesso, che prima me ne feci immemore e mi sfuggì. Ma fatevela con la musica sopra che è a migliore digestione.
«E giunse il tempo che desiderio di vertigine m’appare solo a sistemar chiappe a scoglio comodo, a favor di tenue brezza di ponente. Lì c’è posizione di sguardo ad altro tempo che andò via a rapidi scivolamenti. Feci collezione di pergamene e titoli a ceralacca, di timbri e pacche sulle spalle, inchiostri di stilografica raccolsi. Mi ravvidi di saggezze elevatissime di fini accademici, sagaci elucubratori di teorie d’avanzo e professori mi professarono vie salvifiche di conoscenza. Capitani coraggiosi m’imbellettarono narrazioni d’autentico infinito di profondità e preti e frati e paternostri m’illuminarono d’incenso, mi deliziarono d’omelie un tanto al chilo, pure in odore di santità mi parvero audaci pescatori di ghiozzi a tendenza d’eversione. Le madame dorè, le miti volontarie di misericordia e signori dabbene di circolo esclusivo, di fatta impeccabile doppiopettata e profumo millefiori, mi fecero di sé modello esclusivo e beato. Arguzia finanziaria mi trasmisero autentici scienziati di doblone ed a cure immaginifiche mi sottoposero per trattamento di deviazione. Che però nacqui storto e storto rimasi, pur se mi sdoppiai a far finta d’assecondo. Che ora, a fase due, non m’è dato di adeguarmi all’immane trogolo di carni e sangue di sacrificio a conforto per Marte e Atena. Che però appresi di non apprendere, pur se assorbii finale convincimento che nemmanco le dame di San Vincenzo riusciranno a far del bene, ch’esse mai seppero cos’è la vita, che imbracciano sotto coscia, ad occulto, mitra e bomba. Ch’io tutto imparai da puttane senza protettore, a quartiere miserabile dove misi dente da latte, e che, accademia autentica di bellezza, fu soffocato a rango di supermarket per saccheggio conclamato, con reparto d’onnisciente mammasantissima. Pure imparai da lambretta smarmittata di venditore di granchio per cattura a pietra celeste, da pazzo con canottiera su cappotto e camicia avvoltolata in testa, per posto a cappello in mano, a buco tappato per dammi cento lire, ci hai ‘na sigaretta. Che mi venne ad aula di lezione autentica osteria perduta, di abitanti a perenne nostalgia di bicchiere pieno, e vecchio compagno che s’accompagna a miserabile scarpa rotta, pantalone logoro e mano di calli e calce viva, curvo di schiena ma mai domo a dir di padrone peste e corna. Pure non fu capace di sopravvivenza a quello, nemmanco per saggezza di mutua a scarso d’assistenza e forse per cicatrice di manganello per protesta di contro legge. Imparai dinamiche sofisticatissime d’universo da lavandaia a tempo perso, balia asciutta e odor di varechina. Altro seppi da pescatore silenzioso a barca a puzzo di cherosene e sangue di pesce raffermo, con ruga che solca il volto quale fiume di sale e fatica di sole. Che nessuno dei secondi ebbe allora a far mai guerra a talaltro, mai tirò indietro la mano a soccorso per chi vien dopo. Pure, a gengie sfatte, non smisero a riso per bimbo che passa, ch’io mi ricordo, che a denti non m’ero provvisto ancora, di tali sdentature di pace, ora che vedo biancheggiare nobili fauci di squali.»
Riposto pari pari ciò che già feci a post, ché nausea non si spense nemmeno a magnesia ad ingurgito con imbuto. Nemmeno mi venne scrittura fluida a descrizione di disturbo che fece a me guerra a tutto tondo ad ogni umano che fu ultimo. Morto d’annego ebbe colpa d’esser tale e morto di bombarda si trovò a far scudo con cranio suo per gloria suprema di vendo sparo a grappolo. Pure sul resto che mi fece nausea devo far a silenzio autoimposto che altrimenti mi vien da scrivere elenco che par di telefono a parlar con linguaggio poco dabbene.
“Tutto era pieno, tutto era in atto, non c’era intervallo, tutto, perfino il più impercettibile sussulto, era fatto con un po’ d’esistenza. E tutti questi esistenti che si affaccendavano attorno all’albero non venivano da nessun posto e non andavano in nessun posto. Di colpo esistevano, e poi, di colpo non esistevano più: l’esistenza è senza memoria; di ciò che scompare non conserva nulla — nemmeno un ricordo”. (Jean Paul Sartre, La nausea)
Non mi veniva di scrivere d’altro, manco ora che sta arrivando la bufera e non ho che ombrelli a telai dismessi. Che quell’altro me invece ne aveva voglia, lui che, quand’era giovane, pareva ch’era già vecchio, che i suoi amori glieli sceneggiava Resnais e li cantava Jaques Brel. Che gli dicevano ch’era sbarcato da nave d’Argonauta, da secolo ignoto, che s’apprestava su uno scoglio ogni mattina, vestito come veniva, sino alle ciabatte, che pareva che lì c’era nato, cosa che poi era. Pure – gli dicevano – che il mondo d’intorno se ne andava da un’altra parte, che l’avevano lasciato lì, sempre su quello scoglio, come istantanea cotta al sole, ultimo Mohicano, su quella Rive Gauche ch’apparteneva a lui ed a quattro signore che s’ammestieravano d’antico.
Che pure s’ammetteva social ante litteram, di dita unte al tetraetile di Gestetner, di cui – per caso puro – non c’è morto per impronte digitali su uova sode, manco per il tracannare di zibibbi all’arsenico e gazzosa. Che con fogli e colla in mano aveva conosciuto stampella a mesi, formato economy – che quello passava la mutua –, per ginocchia a grattugia, nell’incontro con ferri di cappucci neri arditi d’ignoto, persi nel tempo, irrispettosi di titolazioni quotidiane che ne danno natali recenti e morti antiche. Che non vollero affratellarsi con mammoni e mannari nelle novelle della nonna. Di destino crudele patì le spire, in giovane età già vecchia, ma pure le pene del disarmo nucleare d’un Settimo, in fila poi per sussidio di disoccupazione. Che avrei dovuto scrivere per sussiego alla sua ineluttabile pulsione primordiale all’angoscia sotto pelle? Per assecondare l’arrovello, l’intorciniarsi di budella? Che pare non s’avveda, né da mo’, nemmeno da poi, che la prospettiva sghemba la rende ancor più tale? E mai si fece lucido per lo scivolo del tutto che è viscido e d’intorno. Impara, ancora, pur da vecchio immemore, che tale fu prima del primo dente da latte, per perseverare nella sua senescenza definitiva. Al di più, che non l’assecondo che rare volte, nell’ipotesi redentiva del cosmo, lo invito al desco, al chiaro dello scuro del rosso, alla saxata di Coltrane, urlo di vertigine, a parlare dell’ultimo Ray Sugar, alle geometrie di Cifalà, a sogni sotto zampe d’elefante, di Nico e la Redgrave, mica di cose serie, a contorno della frittatina con cipolle, che stasera, tanto, non è cosa di mettersi a relazionare, e tra noi l’alito pesante s’ammette.
Radio Pirata si fa Cinquantadue tondi tondi, pure a contromanifestazione che diventa tale di grandezza e forma che altra pare ella contromanifestazione. Qui e ora facciamo a meno di comici, che tutti scelsero altra platea, pure quelli a distacco ad altra mansione che se non fosse che fanno piangere farebbero ridere a bomba. Qui a Radio si fa cosa seria che si scelgono migliori promesse musicali e si esaltano grandi virtù di giovani musicisti che si faranno ossa proprio a questa prestigiosissima kermesse che ancora una volta risulta prima negli ascolti a casa mia. Per non far delusione a nessuno cominciamo subito con ascolto sensato e breve dichiarazione di detto autore.
“La morte non è la più grande perdita nella vita. La perdita più grande è quello che muore dentro di noi, mentre viviamo, quando rifiutiamo di affrontare i nostri demoni. Quando costruiamo muri invece che ponti, ci alieniamo, diventiamo estranei” (Chet …)
Che ponte pare quello che toglie isola dall’essere isola, ma mai ci fu pensiero di più grande distanza da ponte che unisce, ponte è a concezione di cosa che distrugge e basta, pure se non crolla non affratella, si fece a maggiore segregazione che ciò non fu possibile nemmeno ad immaginazione contorta e deviata.
E dopo assaggio di nuovissima ed intensa cosa di giovane talento a batter tasti in bianco e nero, discernendo il suono dell’uno da quello dell’altro per farne fusione perfetta, mi piglia schiribizzo di darvi notiziona in anteprima assoluta: a me non mi viene da ridere, pure se c’è cose che farebbero scompisciar dal ridere fossero film dei Monty Python, ma ebbi idea che talune sono vere.
Fu fortuna che, con atto di scaltrezza, m’assicurai nuova ed intonsa bottiglia d’Oro Pilla ad accompagno di note di Radio Pirata Controfestival che comincia, a parer mio, ad essere cosa di spessore importante. Forse non rido, ma almeno non piango e vado di cose preferite.
“La creatività consiste nel rendere meravigliosamente semplice ciò che è complicato.” (Charlie…) Qui in Radio Pirata facciamo solo cose semplici, ché quelle complicate non sappiamo bene come sono fatte, sono cose che appartengono a gente illuminatissima, gente meritevole e migliorissima, gente che sa come sparacchiare bombe e che fa festival di grandissima audience. È roba per persone che muovono PIL, che affogano nel rendiconto bancario, che sanno bene chi fare affogare a lontananza prescrittiva da porto salvo.
“Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra.” (John…) Che, anche se sono giovani e non si conoscono così bene, a noi ci piace che certi musicisti dicono queste cose, che ci facciamo per benino a curatori loro, certo confusi, ma quando mai a Radio Pirata abbiamo aspirato ad ordine e cose così?
Il 6 gennaio del 1993 ci lasciava John Birks “Dizzy” Gillespie. Qualche anno prima – non ricordo quanti – l’avevo visto in concerto all’Anfiteatro Romano di Siracusa. Che delizia autentica. Era spettacolo anche quando non suonava, con quel faccione, le braccia lunghe, quel balletto accennato quando, nella dialettica della musica, lasciava spazio agli assoli degli altri musicisti. A vederlo con la sua band era chiaro cosa intendesse Winton Marsalis quando diceva che “Il jazz è un’arte collettiva e un modo di vivere che allena alla democrazia, è l’arte del timing: ti insegna il quando. Quando cominciare, quando attendere, quando farti avanti, quando prendere il proprio tempo”. Ma anche c’era il pensiero di Coltrane: “Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra”. La sua tromba piegata all’insù puntava il cielo, le gote gli si gonfiavano così tanto che pareva si sarebbe librato in volo, leggero, come una mongolfiera. Fu quasi ovvio, conseguenziale, che la signora alla mia sinistra sussurrasse, ridacchiando, “Polvere di stelle” quando, l’ennesima volta che scuoté il pistone per svuotarlo, mi beccò di rimbalzo con le sue polluzioni. Me l’ero cercata giacché, impudicamente, m’ero messo a sgomitare per raggiungere il posto più prossimo al palco proprio in quell’istante, e fu fortuna che un’altra signora, assai più compassionevole e meno sarcastica della prima, m’offrisse un kleenex. Superato rapidamente lo sgomento, l’episodio non riuscì a scalfire la mia estasi. Fu cosa memorabile, ahimé, irripetibile.
Nato a Cheraw, il 21 ottobre 1917, in una famiglia poverissima, cominciò a suonare la tromba quasi per gioco che aveva 12 anni, da autodidatta. Il padre si dilettava a picchiare lui e i suoi fratelli piuttosto spesso, ma era morto già da un paio d’anni. Lasciò casa per andare a studiare all’istituto di Laurinburg grazie ad una borsa di studio, troppo povero per potersi permettere scuole a proprie spese. Nel 1935 fece a meno pure della scuola per trasferirsi a Filadelfia. Vi trovò lavoro come musicista, suonando con Frankie Fairfax e con la band di Teddy Hill, con la quale produsse la sua prima registrazione subentrando a un mostro sacro quale Roy Eldridge. Le sue collaborazioni, in quegli anni, furono rilevantissime per costruirne l’identità musicale, suonava a fianco di gente come Cab Calloway, Lionel Hampton, Mario Bauza, Milt Hinton, Coleman Hawkins.
Appena cominciati gli anni ’40 era già a New York dove mise su un trio con Oscar Pettiford al contrabbasso e Kenny Clarke alla batteria, la formazione che possiamo considerare la prima autenticamente bop. Suonano soprattutto al Minton’s dove le jam session con Thelonious Monk, Bud Powell, Max Roach, tanti altri, sono continue. Fondamentale, in quegli anni, è il suo ingresso nell’orchestra di Earl Hines, di cui fa parte anche Charlie Parker e, l’anno dopo, in quella di Billy Eckstine. Con questa gira gli States emancipando il bebop dalla sua nicchia originaria di espressione musicale tipica dei locali notturni newyorkesi. Ma è in quelli, non nei grandi teatri con le grandi orchestre, che il bebop aveva preso forma. Il suono al Minton’s Playhouse, la casa natale del bebop, è ruvido, profondamente identitario, ha arrangiamenti semplici e diretti, senza fronzoli, poche, scarsissime concessioni allo swing, alle cose delle orchestre che facevano musica molto attenta a sofisticati arrangiamenti, quella che piaceva ai bianchi. “Io cerco di suonare la pura essenza, lasciando che tutto sia giusto come dovrebbe essere.” (Dizzy Gillespie) Il Bebop era la musica degli afro-americani che si riappropriavano dei propri spazi, della propria unicità, anche a costo di perdere ingaggi, di rimanere marginali. Fu proprio Dizzy tra i primi ad usare le due note, be, bop, a chiusura del brano. Ma quello non fu solo movimento musicale, parve più stile di vita, modalità di ribellione al consueto di quegli anni. Era roba che piaceva anche ai ragazzi della beat generation: “A quei tempi, nel 1947, il bop impazzava in tutta l’America. I ragazzi del Loop suonavano, ma con stanchezza, perché il bop era a metà strada fra il periodo del Charlie Parker di Ornithology e quello di Miles Davis.” (Jack Kerouac, On the Road, 1957)
“Bird è stato lo spirito del movimento bebop, ma Dizzy ne era la testa e le mani, era lui che teneva insieme tutto”, dirà Miles Davis nella sua autobiografia. Proprio Davis lo sostituirà con la sua tromba a fianco di Charlie Parker, quando, nel 1947, Gillespie fonda la sua nuova band con il pianista John Lewis, il vibrafonista Milt “Bags”Jackson, Kenny “Klook” Clarke alla batteria e Ray Brown al contrabbasso, praticamente una prima visione del Modern Jazz Quartet.
Pure se aveva concepito le sue sperimentazioni più ardite dentro piccoli gruppi, Dizzy Gillespie amava di gran lunga esibirsi con le grandi orchestre, lì poteva esprimere tutto il suo talento istrionico, tutta la sua naturale propensione ad essere punto di riferimento sul palco, leader naturale. Dentro quelle forzava il suo bop, non riusciva a rinunciarci: “Mi ci è voluta tutta la vita per imparare cosa non suonare” diceva. Con le sue Dizzy Gillespie Big Bands, spesso effimere per durata a causa dei costi eccessivi, portò la sua musica in giro per il mondo, in particolare in Europa. Furono gli anni in cui la sua tromba rivolse la campana verso l’alto, cosa che non si era mai vista prima, frutto della natura di spettacolo pirotecnico dei suoi concerti. Una sera, prima di lui, si era esibito sul palco il duo comico Stump and Stumpy. Nella bagarre divertita i due gli fecero cadere la tromba deformandola, ma a Dizzy quella forma così particolare piacque, pure il suono che ne veniva fuori gli parve migliorato. Aveva raccontato questo episodio nella sua biografia, chiarendo un altro aspetto caratteristico del suo modo di suonare, il rigonfiamento anomalo delle gote quando soffiava nello strumento le sue sfuriate, cosa assolutamente vietata dai puristi della teoria, della tecnica. Secondo Dizzy fu un medico a spiegargli che quel fatto era, con ogni probabilità, frutto di una qualche reazione fisiologica incontrollabile, forse dovuta ad una sindrome misteriosa.
Nel 1953 partecipa al grande concerto del Massey Hall di Toronto insieme ai più grandi di quegli anni, Max Roach, Charlie Mingus, Charlie Parker, Bud Powell. Ne venne fuori uno dei più importanti dischi jazz di tutti i tempi, ma anche parve di trovarsi davanti ad una sorta di de profundis per il bebop, forse troppo ostico per i mercati discografici più convenzionali. Cominciava del resto ad affermarsi in giro l’hard bop dell’astro nascente Clifford Brown, c’erano nell’aria i prodromi del free jazz. Molti musicisti neri cominciavano a studiare seriamente, non si limitavano a invenzioni autodidatte. Sul giro classico del blues inserivano tecnicismi solistici sempre più sofisticati, pur non rinunciando mai all’improvvisazione. Horace Silver, Charles Mingus, Art Blakey, Cannonball Adderley, Thelonious Monk e Tadd Dameron scelsero di percorrere quella strada, sino agli approdi modali del jazz dei primi anni ’60.
Dizzy, invece, continuava a suonare la sua musica, rimase fedele ai suoi “ribelli” minimalismi fondativi, anche quando decideva di contaminarsi con espressioni apparentemente lontane. Brani essenziali come Manteca e Tin Tin Deo, sono il risultato perfettamente riuscito di una fusione del jazz con altre esperienze, in questo caso con la musica caraibica. La passione di Gillespie per i ritmi latini continuò per anni, la sua curiosità per quel mondo lo portò pure ad intraprendere percorsi comuni con il musicista cubano naturalizzato americano Arturo Sandoval. Sandoval era, dal canto suo, affascinato dai suoni del bebop, e fece il suo ingresso nella band di Gillespie, The United Nations Orchestra, a partire dal 1977. Molte altre furono le collaborazioni che Dizzy ebbe con artisti non propriamente jazz, Chaka Khan, Ray Charles, Aretha Franklin, solo per citarne alcuni.
Protagonista delle scene musicali di mezzo secolo, pure fuori, in un modo o nell’altro, è emersa la figura d’un uomo poliedrico, capace di stupire, divertire, indurre pensieri profondi. Aiutò Chet Baker durante l’ennesimo disastro della sua vita, quando fu pestato a sangue dai suoi creditori sì da non poter più continuare a suonare. Gillespie, segretamente, pagò gli interventi chirurgici ricostruttivi che consentirono a Baker di tornare a soffiare nella sua tromba. Alla fine, indagando, Chet Baker scoprì chi fosse il suo anonimo benefattore e sostò al freddo per tre giorni fuori del pianerottolo di Gillespie, senza dir nulla, in quel modo intendendo ringraziarlo.
Nel 1963, l’agenzia che si occupava di promuovere le cose di Dizzy, la sua immagine, sfruttando il clima di propaganda per le presidenziali dell’anno successivo, quello della candidatura Kennedy, per intenderci, aveva fatto produrre delle spillette con la scritta “Dizzy for President”. Erano anni in cui la condizione dei neri d’America era drammatica. Quella era la sua gente, anche lui aveva vissuto in povertà estrema, provato sulla sua pelle cosa significasse la discriminazione razziale e ora che godeva di grande successo non poteva far finta di niente. I discorsi con cui Kennedy promosse la sua candidatura, per quanto apparissero dirompenti in questo senso, furono interpretati dai neri d’America come poco più che retorici. Per rivendicare altro che non fossero parole, decine di migliaia di manifestanti parteciparono alla marcia organizzata a Washington da Martin Luther King, tra quelli qualcuno tirò fuori la spilletta pubblicitaria “Dizzy for President”. Come dire, il dado era tratto.
Il 21 settembre del 1963, dopo l’ennesima strage di afroamericani ad opera di razzisti del Ku Klux Klan, Dizzy, salendo sul palco del Monterey Jazz Festival, urlò al pubblico “Voglio diventare Presidente degli Stati Uniti perché ce ne serve uno!” Il cantante Jon Hendricks compose pure l’inno della campagna elettorale: “Vote Dizzy! Vote Dizzy! You want a good president who’s willing to run / You wanna make government a barrel of fun (…) Your political leaders spout a lot of hot air / But Dizzy blows trumpet so you really don’t care.”
Come al solito, Dizzy stupì il mondo. Mise insieme pure la lista dei suoi collaboratori e ministri: per Duke Ellington l’incarico doveva essere adeguato alla sua grandezza, dunque, Ministro dello Stato. Max Roach, che era uno che coi botti ci sapeva fare, sarebbe divenuto Ministro della Difesa. A Louis Armstrong doveva andare il Ministro dell’Agricoltura, e chi meglio di Charles Mingus poteva essere Ministro della Pace? Manco a dirlo c’era Malcolm X, ovviamente Procuratore Generale. Per le politiche sociali, Dizzy pensò a chi aveva lo sguardo giusto, pure la voce adatta, Ella Fitzgerald. Per Ray Charles c’era il posto di Direttore della Biblioteca del Congresso ed a Mary Lou Williams toccava di andare a fare l’Ambasciatrice in Vaticano. Incarico delicatissimo per Thelonious Monk, Ambasciatore “in viaggio”. Mancava solo un tassello per chiudere la formazione della squadra di Dizzy for President, ma anche per quello non c’erano dubbi, Miles Davis Capo della CIA!
Radio Pirata fa grande traguardo di puntata numero Cinquanta che s’appresta a festeggiamento per giusta causa d’esistenza lunga e prolungata, musicante e scrosciante d’applauso a scena aperta e augurio collettivo di altre mille e anta pure di più puntatona di scoppiettanza. A festeggiamento c’è invitato lussuoso a numero elevatissimo – ma con turno preciso a gruppo di meno d’un certo per evito adunata sediziosa a precisione di decreto per rave – con red carpet che ognuno se lo porta da casa che Radio è di profilo basso per modestia ma al contempo elevatissimo d’oggettivo, che pare tutto e suo contrario con sommo gaudio di spargimento di confusione. Che subito si parte a musica giusta che mai fu di tal portata più giusta.
Ma Radio non rinuncia a far anche cosa di cronaca come si compete ad organo d’informazione di superba qualità. Che notizia pare ormai acclarata che Grande Glorioso e Giusto Partito di Sinistra è ormai a cosa acclarata che ha candidato di segreteria in numero esatto di suoi iscritti che se accordo non si trova si va a ballottaggio fra tutti per risultato di uno a uno a uno a uno a uno a uno (ad libitum ma non troppo). Ora c’è pressing che almeno qualcuno si astiene, tal altro non si concede voto a sé che vota un altro che almeno si fa due a uno e palla al centro, anzi, a destra.
Continua lunga e diritta correva la rotta che non si fa a sbarco per fugaiolo da morte e miserabile esistenza a porto salvo più di prossimità per rifocillo e riposo, ma si sceglie porto a lontananza estrema che tanto prima o poi s’arriva a mal di mare fitto fitto che la pacchia è finita e corsa di taxi marino costa di più.
Meglio pure se porto è ad accoglienza con pugno chiuso e Bella Ciao e concerto di Inti Illimani che, però, a far scandaglio di tale porto, pare che quello non c’è, che a far tale accoglienza non se ne fece cosa di massa che c’è impegno altro di tutti a tale opzione politica a far candidato a Grande Glorioso e Giusto Partito di Sinistra.
E c’è pure guerra che si fa sempre più a bombarda che c’è ressa a partecipo anch’io a mando bombarda di produzione sovrana che è grande pubblicità a fabbrica d’orgoglio di nazione ad altissimo grado di civiltà. Che tale ressa pare a chi ha bombarda e bomba più grossa che a furor di merito è tutto a espressione per dotazione migliore che grande consesso d’alleanza militare pare studentato d’adolescente per misura di orpello intragambale a maggiore gittata.
Radio riporta notizia che paese di Samba, per sgambata fine settimanale e palla a rotolo con virtuosismo per rete gonfia, pare ora roba d’assedio per grande timore di democrazia verde Oro fatto da brave persone di ieri ed ora non c’è accordo su loro esistenza. A fatto che s’ode ad altro emisfero squillo di tromba si risponde con tafferuglio di tifosume a blocco d’autostrada per ore ed ore per taglio in due di paese intero e coda di disperazione di bimbo che piange e vecchietto a mancanza di conforto di toilette per prostata in disarmo ed incontinenza a mancanza di rispetto per liturgia domenicale di Sisal. Però palla rotola ancora che The Show Must Go On.
E per fare grande augurio a se medesima Radio dedica a se stessa come mazzolin di fiori bella palazzescata giusta ed ancora fa augurio che anno nuovo sia anno con grande felicità a malgrado di accise ipertrofica.
MAR GRIGIO
“Io guardo estasiato quel mare, immobile mare uguale. Non onda, non soffio che l’acqua ne increspi, non aura vi spira. Di sopra lo cuopre un ciel grigio bassissimo, intenso, perenne. Io guardo estasiato tal mare. Non nave, non vela, non ala, soltanto egli sembra un’immensa lamiera d’argento brunastro. Su desso si mostra coperto ogni astro. Il sole si mette una benda di lutto, la luna un vel grigio, le innumeri stelle lo guardano tenendo un pochino socchiuso il lor occhio vivace. Io guardo estasiato tal mare! Ma quale fu l’acqua ad empirlo? Dai monti sgorgò? Dalla terra? Dal cielo essa cadde? O cadde piuttosto dagli occhi del mondo? Mar grigio siccome una lastra d’argento brunastro, immobile e solo, uguale, ti guardo estasiato! Ma c’è questo mare ma c’è? Sicuro che c’è! Io solo lo vedo, io solo mi posso indugiare a guardarlo, tessuta ò la vela io stesso: la prima a solcarlo.”
Non c’è passaggio umano, cambiamento d’una qualche fatta che non abbia preteso martiri, vittime sacrificali. Il santo è sempre – o quasi – martire, il miracolo è la prospettiva che scaturisce da quel martirio. Ed il martirio è una sorta d’espiazione per una condizione che è già di per sé sacrificale, appartiene agli ultimi. La devozione più profonda, pure nella religiosità archetipica, nella sua simbologia, è la rievocazione del sacrificio, il martirologio è punto di riferimento della fede, in realtà nasconde prospettive di trasformazione.
I Santini, tweet ante litteram, che raccontano vicende di sopraffazione, di martirio, appunto, hanno rappresentato per tantissimi una sorta di protezione dalla stessa tragedia. Ogni categoria sociale ha il proprio riferimento nel santo che ha fatto da parafulmine, ha pagato per i posteri, in qualche modo li ha liberati dal patirne le stesse pene. Ed è protezione semplice, a portata di tasca, borsetta, portafoglio, promemoria di un cambiamento avvenuto con il sacrificio, con l’esempio. Hanno iconografie apparentemente semplici i santini, al tempo ricercate, ché ogni dettaglio non appare superfluo, è narrazione atipica, semplifìcata ma al contempo esaustiva. Il punto è che la categoria degli ultimi, in definitiva dei martiri non pare esaurirsi nella iconografia classica. Raffaello De Vito coglie l’enorme portata simbolica della trasmissione del messaggio sacrificale che era nel “santino”, ne amplia la rappresentazione all’infinita platea degli ultimi. La sua è ricerca anche fisica, negli ambienti più consueti di quella presenza, chiese, monasteri e negozi di ecclesiastica. A quei soggetti ridisegna i contorni e non v’è in questo alcuna volontà blasfema, al contrario coglie la formidabile dirompenza di immagini iconiche di farsi mappe concettuali per veicolare i nuovi martirologi. Cambia i volti dei santi, le loro effigi classiche, i protettori degli ultimi lasciano solo impronte delle proprie gesta, cedono il posto alle nuove vittime della società involuta, fanno spazio a nuovi santini che, come i vecchi, presumono d’avere capacità esorcizzanti il declino d’umanità private della propria stessa essenza.
La tecnica che Raffaello usa è raffinata, egli è conoscitore abilissimo di grafiche, fotografie ed immagini. Subordina le sue competenze ad un processo di riscrittura autenticamente “umano”, trasforma il mito religioso in quotidianità, compie il passaggio inverso rispetto al canonico: il santo, nella iconografia classica, ha un nome, è la parte per il tutto, s’identifica nell’ultimo che si sacrifica per il resto d’intorno, per dare una possibilità ancora col proprio sacrificio, con la propria testimonianza ed opera, a chi soffre condizioni di privazione, di vessazione, di prevaricazione, sfruttamento, violenza; in epoche in cui l’esempio virtuoso pare ombra fuggente, quasi violazione di norme comportamentali non scritte ma esattamente codificate, nei santi di Raffaello è la pletora degli ultimi che parla in prima persona, si fa soggetto collettivo che produce voce corale. Il martire non è più uno, si fa moltitudine, schematizzata nell’immagine mutuata dalla tradizione. Questa di Raffaello è operazione coraggiosa, straniante come poche, in divenire giacché i nuovi martiri sono elenco che non pare abbia fine, donne vittime di femminicidio, di regimi feroci, vittime dei cambiamenti climatici, migranti sfruttati, bambini sotto le bombe, preda di pedofili, ma anche schiavi delle nuove tecnologie, e poi lavoratori che muoiono sul posto di lavoro, medici ed infermieri che hanno contrastato il Covid e da eroi divennero nessuno. Ognuno può aggiungerne altri, quelli che gli pare, ché ogni ladrone ha la propria devozione.
Radio Pirata assurge a quota Quarantanove che mica è pizza e fichi, nemmeno si frigge con l’acqua da queste parti che pare ormai quasi telenovela brasiliana di mille e più mila puntata. Ed anche questa s’appresta a puntatona che c’è cosa che bolle in pentola di livello elevatissimo e redazione di radio pare impazzita a poter dare dettaglio improrogabile a fedele schiera di lettorascoltatore. Per il momento si fa lettore a parte che si parte di musica a razzo spedito che pare armato di testata nucleare prima di quella ad autentico botto per effetto speciale prossima ventura.
Che cominciamo speditamente a cronaca esatta di sacco di soldo che viaggia in terra di confine per esaltazione di grande evento di campionissimi a mutanda ad inseguire sfera rotolante. E ad apologia di sport tra gli sport s’aggiunge proclama d’alto profilo istituzionale di grandezza imprenditoriale per illuminato sovrano d’oriente che produce arena per reziario moderno con contenuto spargimento di sangue a poca roba che manco arriva a diecimila morto ammazzato per lavoro a sfrutto. Che c’è terra di rinascimento vero e mai presunto a fronte di deserto a colapasta per fuoriuscita d”oro nero, che vi fu in illo luogo rispetto autentico di diritto a stimolare rovescio per diversa tendenza sessuale, donna e lavoro di migrante coatto per miseria. Che mi dissi, così, per celia, che se sacco di soldi lo davo proprio a quelli impiegati a schiena rotta, forse che non c’era morto, ma poco importa a diritto televisivo che invece preferisce palla a rotolo.
Che paese nostro è altro che non quello, ma a quello c’è tendenza. Per ora si presume che carico di pullman di donna a mestiere antico sia di comprovata fede nostrale che così non turba sonno di calciatore a cui promessa di tale omaggio sublime venne fatto a carico di vittoria per calcio meglio ad incrocio di pali. Altra donna, bambino vecchio e quant’altro, con pedigree ben definito noi non si sfrutta, al massimo si concede annego libero a mare di tempesta. E se si sfrutta di fa a pudore autentico che non si vede, dentro serra a far leccornia per pranzo di festa a prezzo calmierato.
E c’è pure grande e dolorosa contrizione per donna e ragazzo, a rischio di vita per protesta a speranza di cambio di cose a terra che fu di Scià e che ora ad altro dice sciò. E a detta compagnia disgraziata di ribellione audace, ricordo che grande plauso generalizzato di perfettissimo per rispetto di democrazia coacervo di paese occidentale, dura a spazio di memoria di tal divenuto famoso a Collegno in tempo andato, e che scanna e ammazza fa specie fino a prossima puntata di indecenza. A testimonio rimembro come parve rito di commozione generale donna afgana tornata a medioevo, che indignazione durò tempo esatto di sbadiglio e poi mi volto d’altra parte che non è fatto mio.
Mi dò a carrellata di foto che è a spiaggia mia deserta e desolata, senza manco un barettino, un lidotello nemmanco un bagnomaria, che è cosa assai opinabile per fautori meritevoli di grande merito. In detta spiaggia, che è cosa da brivido e fastidiosa sabbia nelle mutande, non c’è olivetta annegata a shortino, non c’è spa, nemmeno sdraio ad ombrellone a prezzo di superattico, non c’è ombra di ristorantino di tropicalprodotto sovrano, ed incomprensibilmente pure accesso è gratis, che non c’è che vista ad infinito e basta.
Mi venne però dubbio – anche per sciogliere quesito di mia identità, ch’io sostenni erroneamente d’essere nessuno, smentito da elevatissimo intelletto – se risultai ascrivibile, in quanto frequentatore assiduo di detta spiaggia a godimento gratuito di libera solitudine, a categoria di tossicodipendente, rifiuto, o ad entrambe.
E a proposito di tossici e rifiuti, ne ho trovato uno una volta, proprio su una spiaggia libera, straparlava, poveretto. Lo registrai, così vi dico che disse. “
Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa – non importa ch’io vi dica quanti – avendo poco o punto denaro in tasca e niente che particolarmente m’interessasse a terra, pensai di mettermi a navigare per un po’, e di vedere così la parte acquea del mondo. Faccio in questo modo, io, per cacciar la malinconia e regolare la circolazione.
Ogniqualvolta mi accorgo di mettere il muso; ogniqualvolta giunge sull’anima mia un umido e piovoso novembre; ogniqualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, dinanzi alle agenzie di pompe funebri o pronto a far da coda a ogni funerale che incontro; e specialmente ogniqualvolta l’umor nero mi invade a tal punto che soltanto un saldo principio morale può trattenermi dall’andare per le vie col deliberato e metodico proposito di togliere il cappello di testa alla gente – allora reputo sia giunto per me il momento di prendere al più presto il mare. Questo è il sostituto che io trovo a pistola e pallottola.
Con un ghirigoro filosofico Catone si getta sulla spada; io, quietamente, mi imbarco. Non c’è niente di straordinario in questo. Basterebbe che lo conoscessero appena un poco, e quasi tutti gli uomini, una volta o l’altra, ciascuno a suo modo, si accorgerebbero di nutrire per l’oceano su per giù gli stessi sentimenti miei.” (Herman Melville)
Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.
“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.
A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.
Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)
Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.
Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.
“Tutto era pieno, tutto era in atto, non c’era intervallo, tutto, perfino il più impercettibile sussulto, era fatto con un po’ d’esistenza. E tutti questi esistenti che si affaccendavano attorno all’albero non venivano da nessun posto e non andavano in nessun posto. Di colpo esistevano, e poi, di colpo non esistevano più: l’esistenza è senza memoria; di ciò che scompare non conserva nulla — nemmeno un ricordo”. (Jean Paul Sartre, La nausea)
Non mi veniva di scrivere d’altro, manco ora che sta arrivando la bufera e non ho che ombrelli a telai dismessi. Che quell’altro me invece ne aveva voglia, lui che, quand’era giovane, pareva ch’era già vecchio, che i suoi amori glieli sceneggiava Resnais e li cantava Jaques Brel. Che gli dicevano ch’era sbarcato da nave d’Argonauta, da secolo ignoto, che s’apprestava su uno scoglio ogni mattina, vestito come veniva, sino alle ciabatte, che pareva che lì c’era nato, cosa che poi era. Pure – gli dicevano – che il mondo d’intorno se ne andava da un’altra parte, che l’avevano lasciato lì, sempre su quello scoglio, come istantanea cotta al sole, ultimo Mohicano, su quella Rive Gauche ch’apparteneva a lui ed a quattro signore che s’ammestieravano d’antico.
Che pure s’ammetteva social ante litteram, di dita unte al tetraetile di Gestetner, di cui – per caso puro – non c’è morto per impronte digitali su uova sode, manco per il tracannare di zibibbi all’arsenico e gazzosa. Che con fogli e colla in mano aveva conosciuto stampella a mesi, formato economy – che quello passava la mutua –, per ginocchia a grattugia, nell’incontro con ferri di cappucci neri arditi d’ignoto, persi nel tempo, irrispettosi di titolazioni quotidiane che ne danno natali recenti e morti antiche. Che non vollero affratellarsi con mammoni e mannari nelle novelle della nonna. Di destino crudele patì le spire, in giovane età già vecchia, ma pure le pene del disarmo nucleare d’un Settimo, in fila poi per sussidio di disoccupazione. Che avrei dovuto scrivere per sussiego alla sua ineluttabile pulsione primordiale all’angoscia sotto pelle? Per assecondare l’arrovello, l’intorciniarsi di budella? Che pare non s’avveda, né da mo’, nemmeno da poi, che la prospettiva sghemba la rende ancor più tale? E mai si fece lucido per lo scivolo del tutto che è viscido e d’intorno. Impara, ancora, pur da vecchio immemore, che tale fu prima del primo dente da latte, per perseverare nella sua senescenza definitiva. Al di più, che non l’assecondo che rare volte, nell’ipotesi redentiva del cosmo, lo invito al desco, al chiaro dello scuro del rosso, alla saxata di Coltrane, urlo di vertigine, a parlare dell’ultimo Ray Sugar, alle geometrie di Cifalà, a sogni sotto zampe d’elefante, di Nico e la Redgrave, mica di cose serie, a contorno della frittatina con cipolle, che stasera, tanto, non è cosa di mettersi a relazionare, e tra noi l’alito pesante s’ammette.
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