Radio Pirata 51 (largo ai giovani)

Radio Pirata ad ultimo sondaggio pare prima radio d’ascolto a casa mia, che il resto invece pare relativo quando si fa giro di boa. E a vista di successo epocale, che io ho fiducia in giovani, a loro concedo spazio, pure mi raccomando che stavolta gli do tema, che il fuori di quello non viene concesso nemmeno per mai. Anzi, mi faccio duplice e, per selezione a meritocrazia, di temi gliene rifilo a doppia quota, che primo è che musica è a cover, e testo sia, per solluchero mio che detengo imperio di trasmissione, dunque ne ho facoltà, mare. E do via a giro di musica che non è giro di do.

Quando si spiaggiano o qualcuno le tira a secco perché pensa che d’acqua non ce n’è più bisogno, quelle guardano ancora verso l’orizzonte, finisce pure che ti ci portano, se gli concedi un po’ di credito ancora, se ti fidi di loro, perché “una nave in darsena, circondata dalle banchine e dai muri, ha l’apparenza di una prigioniera che medita sulla libertà, con la tristezza di uno spirito libero, messo a freno”. (Joseph Conrad)

Che a mare mai finisce viaggio, si arriva solo per ripartire. Si fa d’oltre la meta definitiva, che l’oltre non scopri mai dov’è, pure se sai che lì ci dev’essere sicuro un approdo, un’Itaca felice che t’aspetta, ma che non è Itaca per sempre. Decide d’esserlo appena il tempo che tu ti conceda il riposo giusto a carico d’energia per la ripartenza.

Sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto ‘più in là’”. (Eugenio Montale)

Il desiderio del mare è cosa che attiene a certe qualità dell’anima, a tali altre appartiene quella visione d’immenso quale frontiera, muro a separazione, confine, colonna d’Ercole da altro che pare che non siamo sempre noi. Ma se hai solo il sogno, che quello è quanto ti resta, “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il Mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)

Per mare impari tutto quello che ti serve, che poi fai ripasso ad osterie, quando racconti la storia che vivesti su quell’infinito, che è storia il cui finale è sempre da riscrivere, che muta quanto muti tu, che cambia per come ti senti, ma sempre ha epilogo a conforto. “Ho sempre avuto l’idea che navigando ci siano soltanto due veri maestri, uno è il mare, e l’altro è la barca, E il cielo, state dimenticando il cielo, Si, chiaro, il cielo, I venti, Le nuvole, Il cielo, Si, il cielo”. (José Saramago)

C’è che certe volte il mare si rabbuia, pare che avverta l’esigenza di farlo, non si sottrae dal mostrarsi adirato, non ne ha remora, ma è come se ti trasmettesse il suo disappunto per qualcosa che hai fatto, che se stai a guardarlo senza volontà di rimprovero si rifà a calmo. Finisce sempre che l’arrabbiatura gli passa. “Pensava sempre al mare come a la mar, come lo chiamano in spagnolo quando lo amano. A volte coloro che l’amano ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna”. (Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare)

Ciao David, tanto da qualche parte ci ribecchiamo. A proposito, ci hai una sigaretta?

La divisione dei beni

M’attrezzai a sdoppiamento in illo tempore, allorché altro non fu di sconfitta persuaso. Egli s’arrovella che non se ne fece pace, ma è agitarsi di pesce in rete, che ormai non v’è più aria di disponibilità per respiro. Altro me è a ostinazione di convincimento che cimento è per destino ineluttabile, che è a produrre testimonianza, a rivendico di io c’ero, che non è medaglia al valore per me che ho identità di nessuno. Egli, però, ed è ad atto di protocollo, capì che parte di lui era a ragionare di convenienza esatta altra se chiedeva d’essere ceduto a libertà. Indi, pure di cuore a ristrettezze, mi fece che sciolse catena. Musica è d’abbisogna.

Pure decidemmo che ciascuno prendeva d’intero parte precisa, non è a sovrapposizione possesso di frammento. Non fu facile trattativa di ciò che spetta all’uno, cosa a tal altro, ma ci fu accordo definitivo con raro sconfinamento. Ch’egli si prese carico di lavorio a saldo per bolletta, baruffa a cottimo un tanto ogni tanto, velocità per esecuzione, carato di perfezione, prodotto finale a prova d’esame. Io feci per me incetta di lentezza, del tempo feci stralcio, d’inesattezza non mi feci cruccio, obiettivo piuttosto, di divenire la retta via che fu storta sin da concepimento.

Egli s’appresentò a seriosità conclamata, a dico cosa meditata e mai d’istinto, di mediazione appacificata vezzo irrisolto, di cronometria di tempo pratica di quotidiano, patì d’urbanità represse. Io m’attrezzai di lentezze, a noia qual virtù suprema ed obiettivo di strategia esistenziale, ozio quale pratica di totem, di tempo a trascorso non m’avvidi, d’inesattezze cercai ad ogni intendimento, feci per me desiderio solitario di scoglio e basta. Pure, egli, mantenne identità a nome preciso, titolo d’accademia, appellativo di professione, epiteto d’impegno sociale, si fece portavoce d’altrui disgrazia, scrisse d’esattezza a punteggiatura, d’orpello si fece carico, di presenza non fu domo e cercò atto rivoluzionario. Dal mio, che son nessuno, mi tolsi nome, pure cognome, feci falò di tessere e passaporti, di pergamene feci fascio a cacciamosche, mi vestì di vagabondo, mi tramutai in cialtrone, godetti dell’essere evitato, evitai affratellamento se non per pari mio di nessuna identità, di scrittura feci a come mi pare, mai a come pare ad altro, fui eversivo che cambiai direzione ad evito ingorgo. Ma di tutto che ci si spartì non s’addivenne a ragionamento di questo a te e questo a me per pane e pomodoro, vino e musica giusta, che ci toccò di dividere a metà, che ce ne manca sempre abbastanza.

Nostalgico italiano

Che quell’altro me oggi s’è fatto funesto, che dopo assemblea ennesima, a sommo di scoop, taluna illuminata lo appellò di nostalgico per frase sua di schifo a guerra, pure nemico di libertà disse che era. Ch’egli pagò pegno, vacillò a colpo tirato a freddo, manco se l’aspettava, neppure si fece a ricongiungimento tra detto colpo e frase proferita, forse, a leggerezza. Ch’egli, com’è d’uopo, si appropinqua a casa condivisa, e di riserva fa fuori anche fondo di botte a corredo di pecorino d’avanzo. Io di nostalgia, invece, faccio nota, che ho piglio diverso, che non mi faccio sangue ad acqua, nemmeno m’attrezzo a travaso di bile, che mi feci impermeabile a contrasto di lui.

Che, insomma, sarebbe pervaso a nostalgie, che egli non ne avrebbe a pensiero mio, se non di suoni e pensieri, che d’altro pure fece a meno. Pure di mazzate a levapelo ne prese abbastanza che la metà bastavano per claudicare quanto basta e fa. Che si legge a giornalettume che pacifista è filozar, s’accoppia a notte fonda con terrapiattismo, ch’esce fuori a lumaca quando piove bomba sotto casa, altrimenti è radical a rolex. E non gli torna il pensiero, che s’arrampicò ovunque, a manganello fu sottoposto ad imperituro ordine costituito d’ogni tempo, sino all’ieri che fu appena poco fa. Che sentì – ad orecchia sua – graziosa fanciulla di suo paese dire che aeroporto nutrito a bomba atomica si fece a nuovo per volo internazionale civile a merito di commissario Montalbano, che di lotta a decennio nulla sapeva, a bivacco per idrante non ne era edotta, dunque non esistevano, neppure lui che c’era esisteva. Manco esisteva quando ad altra guerra a notte tirava protesta, che ora è retore e strumento di potere di tiranno, che prima era zitto pure se c’era.

Ch’egli c’era, infatti, che c’era pure ad ogni tempo che c’era di buscarne a bruciatura, a cicatrice fatta a storia, che pure s’è tanto accucciato a non prenderne in testa troppe che già scemo era, che dorme a feto per paura che ritorna il nero a mazzachiodata. Che c’era fino all’altroieri, ma non c’era a pagina di giornalettume, manco a faccialibro, dunque c’era ma non c’era, che se ci sei ma non sei dove devi essere, non esisti. Ch’io lo dissi a più riprese che meglio era essere nessuno per decisione di autoesclusione dal mondo, a gioco d’anticipo, che essere annessunato per obbligo di legge. E ci si incontra, me e lui, come nessuno parla a nessuno, l’uno per scelta, l’altro a suo malgrado. A grattar fondo ad Oro Pilla che ormai è a bottiglia esausta e ci ho messo limoncello di fabbrica casalinga mia.

Che poi, nostalgia di che? Di cassa di pesce scaricata ad alba a mercato per acquisto di libro d’istologia a prezzo di paga d’operaio? Per lavapiatti a nottefonda per tassa a strozzo per figlio di nessuno, di provenienza ignota, che non era previsto a presenza di studio per signora contessa? Nostalgia per notte insonne a girar manovella di Gestetner a puzzo di piombo tetraetile e polpastrelli ad inquinamento di michetta a formaggino scaduto? Nostalgia a salto pranzo che ho dispensa d’acquisto per esame d’obbligo? Nostalgia pure per carica a lancia in resta che dico sono stanco? Che ora sta bene, invece, che non è dato ch’abbia nostalgia, che ha stipendio a posto fisso, che pure è da fame, che traspira d’auto, mutuo, affitto di casa per lavoro fuorisede, bolletta a codice rosso. Di cosa volete che sia a nostalgia, che ha spalle coperte da stato buono e caritatevole, che lo pose a lavoro a mille mila miglia da scoglio suo, tra neve e neve ch’egli è aduso a scirocco? Di cosa volete che sia a nostalgia rivolto il pensiero suo, alla fame che patì? No, mi disse, che patì colpo perché era vero ch’egli era nostalgico a pensiero di passato, che allora, tra patimento e sfinimento, c’era pure che si sentiva bene, ch’era in accompagno di libertà, che pensò che a pena valesse tutto per speranza di mondo altro, che oggi mondo altro non c’è, ma manco speranza c’è più.

Radio Pirata 15 (dimenticanze)

M’è dato di fare altra puntata di Radio Pirata, che si fece 15, che se è radio è pure musica, e se è musica io scrivo poco, che appago due desideri non contrastanti in un contempo preciso. Che il primo è che tanta voglia di scrivere nemmeno mi viene, che di più mi passano per la testa frasi da orripilo. Che l’altra cosa è che poi, mi domando e dico, che scrivo, se non m’attrezzo a partecipazione a tenzone di guerra, dicendo che di guerra non m’avviene troppa voglia? Oggi mi faccio aiutare a parola scritta da ragazzo che mi pare ci azzecca. E subito sia musica d’accompagno a lettura.

Che, in proposito d’orripilo, mi viene che m’affaccio a terrazza e guardo il grande fiume che mi scorre a tiro di sasso, che mi stava per venire scritto tiro di schioppo, a rischio che qualcuno s’approfitta a fraintendo di peggio, e mi fa arruolo immediato. Che fiume, invero, fu grande, che ora è sputacchio appena, che ciottolo uno ad uno conto, e mi pare che questa è guerra non guerreggiata, dichiarata a fare morto e più morto, quale bomba sganciata a grappolo a dove cojo cojo. E in deserto che s’avanza riconosco che parola è vana se è saggia a pace, ad applauso si compete se gronda d’ematocriti bassi, per contratto scritto a bava alla bocca. Che di musica mi sostituisco.

Che pure a governo mondiale di pace c’è click di superpotenza d’etere, o forse rete a strascico, a maglie strette, che cattura pesce avannotto, lo fa a soffoco e soffritto, che lui manco se ne accorge. E ricopre a frangetta lunga sguardo da millemila e più morto d’ammazzo in altrove che non ha patria, in fondo a mare d’annego a contrario di pesce a rete.

Le comunità virtuali non costruiscono nulla. Non ti resta niente in mano. Gli uomini sono animali fatti per danzare. Quant’è bello alzarsi, uscire di casa e fare qualcosa. Siamo qui sulla Terra per andare in giro a cazzeggiare. Non date retta a chi dice altrimenti.” (Kurt Vonnegut)

Che fuori c’è bella gente a residuo, pure qui a voi che passate, che mi parete a conoscenza antica, che pure v’offrirei vino a litrozzo pieno, come a barettino, a bettola a scalcagno che non so più dov’è. “Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni.” (Kurt Vonnegut)

Due sere fa hanno sparato a Robert Kennedy, la cui residenza estiva si trova a dodici chilometri dalla casa dove io vivo tutto l’anno. È morto ieri notte. Così va la vita. Un mese fa hanno sparato a Martin Luther King. È morto anche lui. Così va la vita. E ogni giorno il governo del mio paese mi comunica il numero dei cadaveri prodotti dalla scienza militare nel Vietnam. Così va la vita. Mio padre è morto già da molti anni, di morte naturale. Così va la vita. Era un uomo dolce. Era anche un fanatico di armi. Mi ha lasciato le sue armi. Si stanno arrugginendo.” (Kurt Vonnegut)

Vi lascio a saluto di buona domenica, con zuppa di lenticchie a crostino selvaggio a quintale di peperoncino rosso e bruschetta che fuma e fa venir sete da litro e più.

Radio Pirata 14 (largo ai giovani)

Radio Pirata ad ultimo sondaggio pare prima radio d’ascolto a casa mia, che il resto invece pare relativo. E a vista di successo epocale, che io ho fiducia in giovani, a loro concedo spazio, pure mi raccomando che stavolta gli do tema, che il fuori di quello non viene concesso nemmeno per mai. Anzi, mi faccio duplice e, per selezione a meritocrazia, di temi gliene rifilo a doppia quota, che primo è che musica è a cover, e testo sia, per solluchero mio che detengo imperio di trasmissione, dunque ne ho facoltà, mare. E do via a giro di musica che non è giro di do.

Quando si spiaggiano o qualcuno le tira a secco perché pensa che d’acqua non ce n’è più bisogno, quelle guardano ancora verso l’orizzonte, finisce pure che ti ci portano, se gli concedi un po’ di credito ancora, se ti fidi di loro, perché “una nave in darsena, circondata dalle banchine e dai muri, ha l’apparenza di una prigioniera che medita sulla libertà, con la tristezza di uno spirito libero, messo a freno”. (Joseph Conrad)

Che a mare mai finisce viaggio, si arriva solo per ripartire. Si fa d’oltre la meta definitiva, che l’oltre non scopri mai dov’è, pure se sai che lì ci dev’essere sicuro un approdo, un’Itaca felice che t’aspetta, ma che non è Itaca per sempre. Decide d’esserlo appena il tempo che tu ti conceda il riposo giusto a carico d’energia per la ripartenza.

Sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto ‘più in là’”. (Eugenio Montale)

Il desiderio del mare è cosa che attiene a certe qualità dell’anima, a tali altre appartiene quella visione d’immenso quale frontiera, muro a separazione, confine, colonna d’Ercole da altro che pare che non siamo sempre noi. Ma se hai solo il sogno, che quello è quanto ti resta, “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il Mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)

Per mare impari tutto quello che ti serve, che poi fai ripasso ad osterie, quando racconti la storia che vivesti su quell’infinito, che è storia il cui finale è sempre da riscrivere, che muta quanto muti tu, che cambia per come ti senti, ma sempre ha epilogo a conforto. “Ho sempre avuto l’idea che navigando ci siano soltanto due veri maestri, uno è il mare, e l’altro è la barca, E il cielo, state dimenticando il cielo, Si, chiaro, il cielo, I venti, Le nuvole, Il cielo, Si, il cielo”. (José Saramago)

C’è che certe volte il mare si rabbuia, pare che avverta l’esigenza di farlo, non si sottrae dal mostrarsi adirato, non ne ha remora, ma è come se ti trasmettesse il suo disappunto per qualcosa che hai fatto, che se stai a guardarlo senza volontà di rimprovero si rifà a calmo. Finisce sempre che l’arrabbiatura gli passa. “Pensava sempre al mare come a la mar, come lo chiamano in spagnolo quando lo amano. A volte coloro che l’amano ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna”. (Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare)

Radio Pirata 8 (Re nudo)

Torno a radio, pure pirata, che se non è tale non mi torna. Tutto rimbomba che pare ho messo l’eco e tolto sordina, ma è tuono di tiranno che è inviso a mondo, che se è tale, l’altro se la ride che non ce l’hanno con lui. Che il Re, più è nudo più s’attrezza come meglio pensa, che se pensa meglio non è re.

Che si prova qui che fa quel che gli pare

Che mi feci scuole e scuole, alla fine sono uguale a me, dunque rimasi nessuno, ma con pergamena che certifica che m’addiviene meglio fare due più due, che dal capire che fa quattro più in là non vado. Mi pare che se urlo pace non mi vien di passare bazooka a sotto banco per cambiale in bianco, che poi passo a incasso a tempo debito, che forse era meglio che gli sparavi prima. Ma su con la vita, che dalla vita in su ci ho mimetica e scolapasta in testa, accattati dopo cessione lauta a compro oro a strozzo. Mi faccio a musica, che mi viene meglio di ragionare.

Che poveri a loro che stanno a bomba senza quello – scolapasta in testa, intendo – ma meglio che se ne stanno lì che qui stiamo stretti, che tanto la pasta dal buttar dentro non ce l’hanno.

Che pure vengono e ci rubano di lavoro quel poco che c’è, pure ci rapinano pensione di vecchietta a posta, ad euro s’attaccano per carrello di spesa che era meglio ci hai na sigaretta, dammi cento lire. Mi faccio a muro, con cordoglio però, che qua siamo occidente civile, mica masnada selvaggia a dittatore. Che ancora ci ho musica, che non vi lascio a disperazione senza.

Che noi, che ci abbiamo partiti armati a democrazia fulgida, leader che s’illuminano d’immenso come neon a iper, pure di più, al tiranno ed accoliti suoi, con milione di milione stipato a cassetta di sicurezza, che quello non si tocca che sarebbe vil attacco a proprietà privata, gli fanno embargo da sanzione multipla a paese intero, che chissà come soffriranno a far bolle a Jacuzzi, poveri loro. Che mica i nostri volevano lasciare a fame nera pure quegli altri a milioni di milioni? Che il popolo non c’entra, e se soffre di pugno duro ad economia è colpa sua che è bue, che non si scansa. Che non venga a lamentarsi qui, come al solito da noi, che non è Bengodi questo.

Che prima che m’accorgo di riflesso emetico che sale come marea, che manco lo stempero a biochetasi come bimbo a malessere d’acetone, tanto ingurgitai secchiate di cazzarole a cottimo. posso dire che mi viene di linguaggio aulico pure questa? Mi sono scassato la Minkjia, che d’ultimo mi capita spesso. E vi lascio a musica buona.

P.S. vi lascio con nota a margine di roba che mi piace, sottratta a bottega d’amico mio, che le botteghe sono posti che frequento con affabile genìo, soprattutto se fanno pure mescita, che in questa non si beve a tracanno, ma si disseta cervello che per ora m’accontento.

Radio Pirata 4 (on the road)

A grande richiesta, che ci ho la fila sotto casa per gli autografi, riappronto una puntatella di Radio, che ormai ci divenni avvezzo come non più. Ci dò subito di musica che la radio a questo serve.

Pure mi dilungo poco a chiacchiera che è fine settimana e ci ho scorte sufficienti a beveraggio da conforto per morale della truppa, che quella sempre necessita di beni di sussistenza ch’io faccio esercito mononucleare e ad arsenale vuoto m’attrezzo a contrapposto di cambuse dignitose. Che se poi la guerra scoppia io sono pronto ad arrocco, meglio a diserzione. Che, sempre per delizia di truppa, vi mando cosa che Zio ce l’abbia in gloria.

Che non viaggiai abbastanza per conoscere il mondo, nemmeno per sfiorarne approccio ampio, ma mi mossi ad occhi aperti, che m’avvidi che comunque esiste e di curiosità mi feci virtù, pure se m’attaccai quale cozza a scoglio tutte le volte che potei.

… “In una notte, o in un giorno,

In una visione, o in nessuna,

È quindi il meno andato?

Tutto ciò che vediamo o sembriamo

Non è che un sogno dentro un sogno. ” (Edgar Allan Poe)

In viaggio o stanziale, sessile quale anemone di mare, o a vela di sfilaccia a favor di vento, m’accorsi però che serve musica, a svago e ristoro d’anima, quale parentesi tra silenzio e silenzio.

Che mi venne spesso desiderio di spazi aperti e sconfinati, che l’orizzonte è dato a chi ha sguardo aperto ad oltre, che oltre quell’oltre capita che ci troviamo pure noi, non è detto che è fine del mondo che ci si riscopra altrove ed altri da noi medesimi. Che poi “si dice che ogni uomo deve scoprire qualcosa che giustifica la sua vita.” (Luis Sepulveda) E se ci abbiamo voglia, ma anche bottiglia e musica buona, la scoperta è a passo da lì, solo che taluni non rubino orizzonti per desiderio d’appropriazione indebita, che facciano muro, che d’altro non capiscono.

M’addivengo a fine di trasmissione, che di saluto non sarò mai parco, nemmeno d’invito a libagione e musica, che è cosa quella che m’appartiene di liturgia, pure, che ormai godo di fama universale, mi faccio trampolino di lancio per tali che si faranno, che mi pare abbiano talento, che taluni li citai sopra per dare loro opportunità di conoscenza ai più dalle mie pagine. D’ultimo me ne riserbo altro, che pure lui mi pare abbia stoffa, che si farà, se si impegna con le parole. Ve lo lascio dopo la musica, che ve lo leggete con calma.

Si è così profondi, ormai, che non si vede più niente. A forza di andare in profondità, si è sprofondati. Soltanto l’intelligenza, l’intelligenza che è anche leggerezza, che sa essere leggera, può sperare di risalire alla superficialità, alla banalità.” (Leonardo Sciascia)

Radio pirata

Mi decido che faccio radio, magari a periodica scadenza, come fossi giovane, pure mi faccio share da favola da solo, che mi riascolto musica ad libitum, senza tema che finisca se non a cassa per pagare cassa nuova di rosso, che fa bilancio d’IVA pure quello e contribuisco a oro alla patria. Parto subito che poi vi do notizie e chiacchiero, che si compete a DJ provetto, oggi come ieri.

Che parto subito a ricordo di lacrimuccia, per saluto a Ian McDonald che suonò ogni strumento conosciuto pure qualcuno che non conosceva nemmeno lui, e che erano corde profonde a vibrato intenso di dentro. Mi pare che mi ripeto se dico che quando taluno come lui se ne va, ci si rende conto ad amarezza di quel che resta. Ma non bisogna farsene cruccio che parlo al vento.

Che di poeti ce ne sono tanti, che mi fu detto che poeta che non soffre abbastanza, per se e altro, poi scrive schifezze.

Che lo seppe Euridice che se ne stette a passo d’aria fresca che quello si voltò, che disse che non resisteva a vederla, pure, secondo me, che son nessuno e che ha parere che non vale, apposta lo fece, che così di sofferenza sua e d’altra poté scrivere versi immortali, che ebbe discreto successo editoriale.

Che mi si dice che pare rischio vi sia imminente di guerra a cuore d’Europa, che navi trafiggono l’onde, razzi sciano a cielo, che è cosa buona e giusta pensare alla guerra, rilancia l’economia sparacchiare bombe, che poi bisogna ricolmare a tutto pieno arsenale, che se quello si svuota pare paese poco serio.

Pure, a scanso d’equivoco, che sempre una guerrettina da qualche parte, pure conto terzi e per truppe d’Ascari, c’è la possibilità di farsela, è meglio tenere in galera Turi Vaccaro, che d’esaltati che non la vogliono, poco virilpatri ce n’è già troppi a piede troppo libero a far passare male governo di migliori. Che gliela faccio cantare da quattro amici (e quanto gli voglio bene a questi qua) a cotanti pochi che protestano.

E poi che non c’è ressa per chiedere dedica, alla cara mamma, allo zio che ha fatto compleanno, alla cognata ch’ha partorito di fresco, dedica me la faccio io, che mi scovo canzone a me dedicata, pure se nessuno me l’ha scritta, ma tanto, che sono nessuno, posso millantare credito che nessuno s’offende.

E infine, che chiudo trasmissione, notiziona speciale che tutti ci rinfranca, che la pandemia sta per finire, ex legis, che la legge è legge, e non si discute. Che dico a chi non ci crede che la smetta di remare contro, che la ripartenza non ammette titubanze nemmanco arretramenti. E questa me la suono così, che bisogna esagerare a fiducia a credere.

Alla prossima puntata. Ma la prossima volta lasciate una cinquemila lire, almeno, o fiaschetto di vino a conforto.

E fortunato chi non ha capito!

Quel giovane autunno caldo di un certo numero d’anni fa (per pudore non confesserò quanti), insieme ad un gruppo d’altri che condivideva con me la passione per le posture statiche, me ne stavo incollato ad una panchina sul lungomare di ponente, quello dove il sole se ne va a dormire.

Su quello di levante si vede sorgere, ma era assai improbabile che me ne stessi lì nel momento in cui la cosa avveniva, e posso testimoniare sotto giuramento che anche quegli altri avrebbero optato per un più comodo tramonto. Eravamo lì, in attesa che il mare facesse col sole il suo spuntino serale, quando, proprio mentre sembrava di sentirlo deglutire, da un angolo della panchina, forse illuminato dalla suggestiva visione su cui anche Goethe ebbe a scrivere qualcosa, si sentì: “il mio sogno è un Duetto Alfa Romeo, color terra bruciata, usato”. Ora, quella dichiarazione improvvisa, per nulla sollecitata, scosse tutti dal torpore cui ci eravamo dedicati sin lì con impegno, ed aprì una discussione feroce, e quasi si veniva alle mani. Sottolineo il quasi poiché, a raccontarla bene, il consesso non era particolarmente avvezzo a dedicarsi a certe fatiche fisiche, per di più a quell’ora tarda, proprio prima di cena e con lo scirocco che ti succhiava ogni ipotesi d’energia. Non vi fu difatti uniformità di giudizio su quella improvvida esternazione, poiché ognuno ebbe a che ridire su un suo aspetto particolare. Io, ad esempio, mi indignai perché ritenevo che il possesso di una macchina sportiva celasse sotto sotto una insana passione per la velocità, per l’attivismo, e ritenni la cosa inaccettabile. Una ragazza di cui non ricordo ormai nemmeno il nome (tanto meno il cognome e la fisionomia) e che spesso indugiava in quelle serate tranquille nella lettura di brani scelti da un Libretto Rosso che allora godeva ancora di una discreta fortuna editoriale, stigmatizzò con fervore autentico quello scivolamento mistico (tale doveva essere, viste le scarse fortune economiche) e borghese. Ci fu chi invece sindacò sulla scelta del modello, altri ebbero un travaso di bile per la scelta del colore. Ci fu qualcuno che espresse il proprio disagio circa l’idea che l’auto dovesse essere usata: “se proprio te la sogni, perché non te la sogni nuova, tanto, in quanto sogno, non costa di più”! Credo che in quest’ultima critica si nascondesse un malizioso riferimento al braccino sottodimensionato di chi aveva dato l’incipit a quella serrata disfida dialettica. Insomma, la discussione si protrasse a lungo, poiché ciascuno volle dare il massimo risalto al proprio punto di vista. Poi, d’improvviso, cadde il silenzio. Come se fossimo stati illuminati sulla via di Damasco, ci accorgemmo all’unisono della stessa cosa, neppure osammo confessarcela. Avevamo visto l’inizio della fine. Il consesso si sciolse mestamente e negli anni successivi e sino ad oggi (non vi dirò nemmeno stavolta quanti anni sono passati), sono convinto che nessuno di noi non abbia pensato almeno una volta a quel giorno in cui siamo stati testimoni dell’ultimo vaticinio di Cassandra.