Radio Pirata 66 (concertone da lavoro per separazione chimica di classe)

Riecco Radio Piratissima che torna a sfarzo di concertone per festeggiamento di ricorrenza di articolo guida di Costituzione che fu cassato per improbabilità di esplicita applicazione. E si fa puntata di grande e solida kermesse musical-argomentativa come si compete a trasmissione che gode di favori indiscussi di pubblico innumerevolissimo e benevola accondiscendenza di critica. Ma a non far da meno con altra roba seria, redazione fa subito presente che molti ospiti previsti brillarono per assenza a detta puntata, che è numero Sessantasei, per sopraggiunta censura. Per cui non ve ne sarà traccia. Ma si va subito di musica di grande spessore.

Che lavoro è a dignitosissima rappresentazione a membro permanente di consesso di nazioni civili a suon di bombarda, che si fece lavoro nero a campo di nuovo cotone per conserva a prezzo convenientissimo di super mega impianto di smercio di prodotto a consenso di massa claudicante per arrivo a fine mese. Che morto ammazzato di lavoro, dice statistica – che la fa cervello asettico di matematica -, è a due al giorno da inizio d’anno.

Che è solo storia di distratto a distrazione mosso, che muore a metto piede in fallo mentre passa betoniera o caterpillar, pure scivola d’ascensore, inciampa da impalcatura, precipita da palazzo e ciminiera, non collaborò col dire son morto per destino cinico e baro. Che di tanti morti d’ammazzo pare guerra guerreggiata, ma è roba disfattista se oggi a bandiera colorata si dice basta con tale guerra, pure con altra che tuona di bomba. E io vado di suono giusto, che faccio colonna sonora

Che c’è polemica superlativa su esternazione per classe separata, ma io spezzo lancia, che pure io voglio classe separata, che a ricco con super monolito a sgaso per cambio climatico per costo di palazzina popolare a tre piani, tocchi – ora e per sempre in esclusiva – ristorantino a selezione di chef a stella plurima di firmamento. Ma ci fu improvvida segnalazione di tale illuminatissimo che disse che povero paradossalmente mangia meglio – che paradossalmente è dire esplicito che pure mangia – per cui ci fu assalto a bettola negletta che bettolaio ed oste per moribondi si fecero furbi e levarono prezzi al cielo per nuova avventura di business. Che da Franco il bollito ch’era a sette eurini ora si fece a centoventi che tale padrone del vapore per meno di duecento non si muove. E c’è povero chef di cui sopra che fu costretto a rinnovare arredo con acquisto ad Emmaus di piatto e mobilia ed importazione di muffa autentica per star a passo col tempo. Aridatece la separazione di classe.

E quanto tremai d’adorazione per Annette Peacock, che fu mio furibondo amore giovanile a dispetto di generazione. Ma tale ero, catturato a fascino di dette signore senza tempo che miei coetanei d’allora, molto «le freak, c’est chic» attribuivano certe mie pulsioni ad uso disinvolto di combustione di materiali di scarto orientale di produzioni vegetali. Ma detti fuochi aprirono finestre, e pur se smisi in tempi rapidi di godermene benefici, certo le finestre rimasero aperte su orizzonti d’utopia. Ora v’è invece ricorso a chimica pura ed allopatica per farsi fenomeno a sculettamento a destra e a manca, da mane a mane, e iniezione di coraggio per proferire a iosa minkiata a cottimo manco richiesta.

E chiudo col dire che buon lavoro pare ossimoro e, a cautela, faccio spiegare detta cosa da collaboratore subordinato con contratto di apprendistato, prima che faccio pure di lui censura che nacque in posto strano: “Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendere dalla sua schiena.” (Lev Tolstoj) Buon 1° Maggio a tutti, i belli e i brutti, di più a questi ultimi se in piazze deserte furono pure sporchi e cattivi.

Radio Pirata 61 (per scoppiettante consuetudine)

Torna in forma scoppiettante Radio Pirata, per evento di essa ascrivibile a numero Sessantuno che è traguardo raggiunto con orgogliosa determinazione ed oltre ogni più rosea aspettativa. Traguardo che scoppietta ad appena tagliato perché così fan tutti, che se non scoppietti non t’avvedi che sei nessuno e se sei nessuno ci sta che ti appresti ad ignobile comportamento che non fai guerra ad altro, non ti crogioli di disdetta altrui, non ti compiaci abbastanza che non patisce taluno per ingrassamento tuo ad obesità di consumo. E via si passa a musica che c’è da rispettar contratto che radio deve far musica per puro divertimento a spensieratezza che chissenefrega d’altro.

C’è sgomento a tale parte di mondo che s’ammanta a piagnisteo d’ipocrita fattura che ospedale è a bombardamento a tappeto che è covo di sovversivi e quindi va a farsi rottame di crollo per bomba di precisione millimetrica. E questa è cosa che si poteva evitare a senza dubbio adombrato se avesse in effetti svolto funzione preziosissima di cambio connotato a perizia di chirurgo plastico per più bella del reame e per più vigoroso di maschia virilità conclamata.

Che mai ci fu crudeltà di bombardarne taluno in siffatto adempimento, e quindi che colpa abbiamo noi che in data zona si fa privilegio a bimbo di ricever cura per avanzata poderosa di malattia ad organo vario o per bomba a mal caduta di mira esatta? Bimbo e familiare ad amputazione certa non paga conto per detta degenza, insomma fa portoghese e si va a cosa giusta con stanamento.

Ed è pure cosa miserabile che taluni che fanno a forzar frontiere a fatto di sbarco financo a mese d’inverno, allorché Mar d’Africa si veste di bufera e tempesta, si levano per suscitar compassione a rango di disperso. E tali altri diseducativi, non compresero che sport è cosa buona e giusta e non ebbero ad imparare a figli loro a nuotar d’adeguata bracciata per raggiungere scoglio di porto salvo senza fare a scomodo di soccorso che ha altro da fare che perder tempo a pattuglia di mare a moto ondoso di spavento.

E si vuol dire, con intemerata reiterazione, che patriarcato è ad esistenza, e con questo si suol negare esistenza di brutto e cattivo che è solo fatto d’occasione e non abitudine. Infatti patriarcato non esiste, ed a dimostrazione di ciò dico a scuola di far educazione precisa a smantello di natura ideologica di donna a quintessenza di demoniaca figura, degna a cogliere eredità di chi invece colse la mela dinnanzi ad ammenda precisa.

C’è che pare borbottio d’autentica ed indefessa inferiorità numerica, per resa a codicillo di DNA, atteggiamento di segretariume e liderscippe illuminata con lume a gas di grande glorioso e giusto grande partito – e mai tornato – di sinistra extra small. Che invece digrigno a gengia serrata d’altri pare ruggito di leone che si vide ad autostrada spianata senza limite di velocità. E se piazza si riempie dico piazza bella piazza, ma faccio pure un po’ finta di niente non si sa mai devo fare lotta che mette a discussione per perditempo abbinamento corretto ed armocromico di veste con sottoveste.

Ed infine, che Radio è sempre a ricerca incessante di talento giovane per conduzione esagerata di informazione un tanto al chilo, si dà parola a chi si vuol far ossa in detto mestiere durissimo e di fatica compenetrato: «Per me la più piccola parola è circondata da acri ed acri di silenzio, e perfino quando riesco a fissare quella parola sulla pagina mi sembra della stessa natura di un miraggio, un granello di dubbio che scintilla nella sabbia.» (Paul Auster)

Bye!

Nostalgia canaglia

Ripubblico scrittino che tanto la storia pare si ripete a giusto stamattina per solito conflitto interiore tra me ed altro me. Al limite aggiusticchio pure se bisogno non ce n’è assai. Ma vi lascio musica sacra ad omaggio di lettura.

Che quell’altro me oggi s’è fatto funesto, che dopo assemblea ennesima, a sommo di scoop, taluna illuminata lo appellò di nostalgico per frase sua di schifo a guerra, pure nemico di libertà disse che era. Ch’egli pagò pegno, vacillò a colpo tirato a freddo, manco se l’aspettava, neppure si fece a ricongiungimento tra detto colpo e frase proferita, forse, a leggerezza. Ch’egli, com’è d’uopo, si appropinqua a casa condivisa, e di riserva fa fuori anche fondo di botte a corredo di pecorino d’avanzo. Io di nostalgia, invece, faccio nota, che ho piglio diverso, che non mi faccio sangue ad acqua, nemmeno m’attrezzo a travaso di bile, che mi feci impermeabile a contrasto di lui.

Che, insomma, sarebbe pervaso di nostalgie, che egli non ne avrebbe a pensiero mio, se non di suoni e pensieri, che d’altro pure fece a meno. Pure di mazzate a levapelo ne prese abbastanza che la metà bastavano per claudicare quanto basta e fa. Che si legge a giornalettume che pacifista è filozar (ora pure a filo terrorista), s’accoppia a notte fonda con truppa di terrapiatta, ch’esce fuori a lumaca quando piove bomba sotto casa, altrimenti è radical a rolex. E non gli torna il pensiero, che s’arrampicò ovunque, a manganello fu sottoposto ad imperituro ordine costituito d’ogni tempo, sino all’ieri che fu appena poco fa. Che sentì – ad orecchia sua – graziosa fanciulla di suo paese dire che aeroporto nutrito a bomba atomica si fece a nuovo per volo internazionale civile a merito di commissario Montalbano, che di lotta a decennio nulla sapeva, a bivacco per idrante non ne era edotta, dunque non esistevano, neppure lui che c’era esisteva. Manco esisteva quando ad altra guerra a notte tirava protesta, che ora è retore e strumento di potere di tiranno, che prima era zitto pure se c’era.

Ch’egli c’era, infatti, che c’era pure ad ogni tempo che c’era di buscarne a bruciatura, a cicatrice fatta a storia, che pure s’è tanto accucciato a non prenderne in testa troppe che già scemo era, che dorme a feto per paura che ritorna il nero a mazzachiodata. Che c’era fino all’altroieri, ma non c’era a pagina di giornalettume, manco a faccialibro, dunque c’era ma non c’era, che se ci sei ma non sei dove devi essere, non esisti. Ch’io lo dissi a più riprese che meglio era essere nessuno per decisione di autoesclusione dal mondo, a gioco d’anticipo, che essere annessunato per obbligo di legge. E ci si incontra, me e lui, come nessuno parla a nessuno, l’uno per scelta, l’altro a suo malgrado. A grattar fondo a bottiglia esausta.

Che poi, nostalgia di che? Di cassa di pesce scaricata ad alba a mercato per acquisto di libro d’istologia a prezzo di paga d’operaio? Per lavapiatti a nottefonda per tassa a strozzo per figlio di nessuno, di provenienza ignota, che non era previsto a presenza di studio per signora contessa? Nostalgia per notte insonne a girar manovella di Gestetner a puzzo di piombo tetraetile e polpastrelli ad inquinamento di michetta con formaggino scaduto? Nostalgia a salto pranzo che ho dispensa d’acquisto per esame d’obbligo? Nostalgia pure per carica a lancia in resta che dico sono stanco? Che ora sta bene, invece, che non è dato ch’abbia nostalgia, che ha stipendio a posto fisso, che pure è da fame, che traspira d’auto, mutuo, affitto di casa per lavoro fuorisede, bolletta a codice rosso. Di cosa volete che sia a nostalgia, che ha spalle coperte da stato buono e caritatevole, che lo pose a lavoro a mille mila miglia da scoglio suo, tra bomba d’acqua che si fece trasversale a latitudine, ma non per cambio di clima, colpa sua che di quello disse era causa? Di cosa volete che sia a nostalgia rivolto il pensiero suo, alla fame che patì? No, mi disse, che patì colpo perché era vero ch’egli era nostalgico a pensiero di passato, che allora, tra patimento e sfinimento, c’era pure che si sentiva bene, ch’era in accompagno di libertà, che pensò che a pena valesse tutto per speranza di mondo altro, che oggi mondo altro non c’è, ma manco speranza c’è più.

Morale della favola

Faccio molta fatica a parlare di guerre, pure se talora mi sforzo di farlo. Le immagini sono quelle che inorridiscono. Poi passano, passa lo sdegno… quello dura il tempo d’uno sbadiglio e gli orrori si perdono nel quotidiano affastellato di sventure che ci paiono tali pure se, a farne concezione relativa, paiono poca cosa rispetto alla bomba che squarcia sonni, sogni e vite. Della guerra si parla delle vittime, non d’altro, pure, tante volte che paiono quasi sempre, di talune vittime. D’altre si sottace, per pudore o disinteresse, che quelle altre vittime ci sono lontane. E già, perché le vittime sono tali se ci riconosciamo in quelle un po’ di più, ed un bimbo è un bimbo vittima in certe circostanze, in altre è immagine lontana che non ci appartiene. La Pietas è merce che si spende con cautela, non si elargisce in qui ed il là.

E per questo faccio fatica a parlare di guerra. Anche perché poi non ne posso più. Le guerre fanno vittime sotto le bombe, nemmeno ci si avvede che anche altri sono vittime di quelle bombe, pure se non ciq si trovarono sotto, non ne conobbero la terribile deflagrazione. Ma a carrello della spesa che si svuota, ad ospedale che ti respinge, a carburante d’auto che è cosa d’oreficeria fanno seguire digrigno di denti, e maledicono, su indicazione social, chi fece la guerra, questo o quello, poco importa, che diede gas ad ogni prezzo di sussistenza. E questi pure, di cui faccio parte, sono vittime di guerra, come son vittime a milionate i disgraziati che scappano da dette guerre, in fuga di disperazione e vita appesa ad un filo per bomba prossima o fame d’effetto collaterale.

Ma sarebbe comodo parlare di disgraziati ad effetto domino di disgrazia e maleficio. Ora dico invece cosa altra, che guerra – sia terribile di superpotenza, sia scontro tribale – non la volle disgraziato a zappar la terra, nemmeno operaio a paga da schiavo, non m’immagino torme di bimbi a siglar accordi internazionali per lancio di bombe a cottimo. Quelli che decretarono che ci fosse battaglia a sangue in luogo dei fiumi – quelli li asciugò qualche cambio di clima – se ne stettero comodi a palazzo dorato, e mercante d’armi con complici suoi si fece grasso e felice per sorte d’umanità perduta, che rimpinguò le sue casse a caviale e champagne mentre altri – se a fortuna sopravvissero – non ebbero nemmanco pane e cipolla. E mi sovviene malsana l’idea che certe guerre sono tali a violenza inaudita proprio per dimensione di avidità di pochi, a bordo piscina con servitù di colore ed accappatoio di zibello; ad altri miliardi, al più, interessa metter assieme pranzo e cena. Ed a quelli mi rivolgo, che sono assai di più, con una cosarella precisa che riciclo d’altra parte di conversazione coi sassi e le pietre e mai mi stanco a farne tesoro condiviso.

“E come tutti i santi giorni che Nostro Signore ha voluto regalarci di vita grama su questa terra, il Signor Padrone, ormai sazio, scelse tra le ossa lasciate nel piatto quello più nudo e ripulito, ché dove c’era ancora carne valevano oro per il brodino della sera. Con quello in mano aprì l’uscio e lo lanciò tra i cani affamati nel cortile. Subito le bestie, sbranandosi l’un con l’altra, cercarono di avventarsi sul magro bottino.
Molte rimasero sanguinanti sul selciato, e più d’una non si sarebbe più rialzata. Il Signor Padrone, al cospetto della ferocia del branco, valutò con soddisfazione di come quello avrebbe difeso la sua casa e la sua ricca dispensa. Il vincitore della contesa, si trascinò a fatica verso di lui con il suo misero trofeo tra i denti, i brandelli di carne che si staccavano lasciando scoperte ferite purulente, e sollevò la zampa per ringraziare il suo benefattore. E questo per ogni santo giorno che Nostro Signore ha voluto regalarci di vita grama su questa terra, per la gioia del Signor Padrone, sempre più raggiante pel colore rosso sangue del selciato del suo cortile. Le povere bestie, esauste per digiuno e dolore, con gli occhi al Cielo cercavano di incrociare lo sguardo di Nostro Signore – non era forse Lui il Signore di tutte le creature? – nell’attesa disperata di aggiudicarsi il prossimo ossicino e placare così la propria fame con la generosità del Signor Padrone.
Poi venne il giorno in cui quei fantasmi rinsecchiti e laceri non ebbero più forza nemmeno per sollevare gli occhi al Cielo, ed al cospetto del Signor Padrone sull’uscio, si trovarono d’improvviso a sbirciare in casa avvedendosi di quanto ricca fosse la sua dispensa, ma di più di quanto pingui fossero le sue chiappe. E quello fu l’ultimo giorno in cui affondarono le loro fauci su una creatura vivente, il giorno prima rimase per sempre l’ultimo in cui lo fecero con i propri simili.
E voi anime elette, esseri superiori, che dominate dall’altezza vertiginosa di una piramide il resto del mondo ma che vi scannate nell’arena per la gioia del Vostro Signor Padrone, quando smetterete di guardare alla sua generosità e vi avvedrete delle sue chiappe succulente?”

Nostalgico impenitente

Che quell’altro me oggi s’è fatto funesto, che dopo assemblea ennesima, a sommo di scoop, taluna illuminata lo appellò di nostalgico per frase sua di schifo a guerra, pure nemico di libertà disse che era. Ch’egli pagò pegno, vacillò a colpo tirato a freddo, manco se l’aspettava, neppure si fece a ricongiungimento tra detto colpo e frase proferita, forse, a leggerezza. Ch’egli, com’è d’uopo, si appropinqua a casa condivisa, e di riserva fa fuori anche fondo di botte a corredo di pecorino d’avanzo. Io di nostalgia, invece, faccio nota, che ho piglio diverso, che non mi faccio sangue ad acqua, nemmeno m’attrezzo a travaso di bile, che mi feci impermeabile a contrasto di lui.

Che, insomma, sarebbe pervaso di nostalgie, che egli non ne avrebbe a pensiero mio, se non di suoni e pensieri, che d’altro pure fece a meno. Pure di mazzate a levapelo ne prese abbastanza che la metà bastavano per claudicare quanto basta e fa. Che si legge a giornalettume che pacifista è filozar, s’accoppia a notte fonda con truppa di terrapiatta, ch’esce fuori a lumaca quando piove bomba sotto casa, altrimenti è radical a rolex. E non gli torna il pensiero, che s’arrampicò ovunque, a manganello fu sottoposto ad imperituro ordine costituito d’ogni tempo, sino all’ieri che fu appena poco fa. Che sentì – ad orecchia sua – graziosa fanciulla di suo paese dire che aeroporto nutrito a bomba atomica si fece a nuovo per volo internazionale civile a merito di commissario Montalbano, che di lotta a decennio nulla sapeva, a bivacco per idrante non ne era edotta, dunque non esistevano, neppure lui che c’era esisteva. Manco esisteva quando ad altra guerra a notte tirava protesta, che ora è retore e strumento di potere di tiranno, che prima era zitto pure se c’era.

Ch’egli c’era, infatti, che c’era pure ad ogni tempo che c’era di buscarne a bruciatura, a cicatrice fatta a storia, che pure s’è tanto accucciato a non prenderne in testa troppe che già scemo era, che dorme a feto per paura che ritorna il nero a mazzachiodata. Che c’era fino all’altroieri, ma non c’era a pagina di giornalettume, manco a faccialibro, dunque c’era ma non c’era, che se ci sei ma non sei dove devi essere, non esisti. Ch’io lo dissi a più riprese che meglio era essere nessuno per decisione di autoesclusione dal mondo, a gioco d’anticipo, che essere annessunato per obbligo di legge. E ci si incontra, me e lui, come nessuno parla a nessuno, l’uno per scelta, l’altro a suo malgrado. A grattar fondo a bottiglia esausta.

Che poi, nostalgia di che? Di cassa di pesce scaricata ad alba a mercato per acquisto di libro d’istologia a prezzo di paga d’operaio? Per lavapiatti a nottefonda per tassa a strozzo per figlio di nessuno, di provenienza ignota, che non era previsto a presenza di studio per signora contessa? Nostalgia per notte insonne a girar manovella di Gestetner a puzzo di piombo tetraetile e polpastrelli ad inquinamento di michetta con formaggino scaduto? Nostalgia a salto pranzo che ho dispensa d’acquisto per esame d’obbligo? Nostalgia pure per carica a lancia in resta che dico sono stanco? Che ora sta bene, invece, che non è dato ch’abbia nostalgia, che ha stipendio a posto fisso, che pure è da fame, che traspira d’auto, mutuo, affitto di casa per lavoro fuorisede, bolletta a codice rosso. Di cosa volete che sia a nostalgia, che ha spalle coperte da stato buono e caritatevole, che lo pose a lavoro a mille mila miglia da scoglio suo, tra bomba d’acqua che si fece trasversale a latitudine, ma non per cambio di clima, colpa sua che di quello disse era causa? Di cosa volete che sia a nostalgia rivolto il pensiero suo, alla fame che patì? No, mi disse, che patì colpo perché era vero ch’egli era nostalgico a pensiero di passato, che allora, tra patimento e sfinimento, c’era pure che si sentiva bene, ch’era in accompagno di libertà, che pensò che a pena valesse tutto per speranza di mondo altro, che oggi mondo altro non c’è, ma manco speranza c’è più.

Un tanto a testa

“Segui le navi. Segui le rotte che solcano le logore e tristi imbarcazioni. Non ti fermare. Evita persino il più umile ancoraggio. Risali i fiumi. Discendi i fiumi. Confonditi nelle piogge che inondano le pianure. Rifiuta ogni sponda.” (Alvaro Mutis)

M’attrezzai a sdoppiamento in illo tempore, allorché altro non fu di sconfitta persuaso. Egli s’arrovella che non se ne fece pace, ma è agitarsi di pesce in rete, che ormai non v’è più aria di disponibilità per respiro. Altro me è a ostinazione di convincimento che cimento è per destino ineluttabile, che è a produrre testimonianza, a rivendico di io c’ero, che non è medaglia al valore per me che ho identità di nessuno. Egli, però – ed è ad atto di protocollo – capì che parte di lui era a ragionare di convenienza esatta, altro se chiedeva d’essere ceduto a libertà. Indi, pure di cuore a ristrettezze, mi fece che sciolse catena. Musica è d’abbisogna.

Pure decidemmo che ciascuno prendeva d’intero parte precisa, non è a sovrapposizione possesso di frammento. Non fu facile trattativa di ciò che spetta all’uno, cosa a tal altro, ma ci fu accordo definitivo con raro sconfinamento. Ch’egli si prese carico di lavorio a saldo per bolletta, baruffa a cottimo un tanto ogni tanto, velocità per esecuzione, carato di perfezione, prodotto finale a prova d’esame. Io feci per me incetta di lentezza, del tempo feci stralcio, d’inesattezza non mi feci cruccio, obiettivo piuttosto, di divenire la retta via che fu storta sin da concepimento.

Egli s’appresentò a seriosità conclamata, a dico cosa meditata e mai d’istinto, di mediazione appacificata vezzo irrisolto, di cronometria di tempo pratica di quotidiano, patì d’urbanità represse. Io m’attrezzai di lentezze, a noia qual virtù suprema ed obiettivo di strategia esistenziale, ozio quale pratica di totem, di tempo a trascorso non m’avvidi, d’inesattezze cercai ad ogni intendimento, feci per me desiderio solitario di scoglio e basta. Pure, egli, mantenne identità a nome preciso, titolo d’accademia, appellativo di professione, epiteto d’impegno sociale, si fece portavoce d’altrui disgrazia, scrisse d’esattezza a punteggiatura, d’orpello si fece carico, di presenza non fu domo e cercò atto rivoluzionario. Dal mio, che son nessuno, mi tolsi nome, pure cognome, feci falò di tessere e passaporti, di pergamene feci fascio a cacciamosche, mi vestì di vagabondo, mi tramutai in cialtrone, godetti dell’essere evitato, evitai affratellamento se non per pari mio di nessuna identità, di scrittura feci a come mi pare, mai a come pare ad altro, fui eversivo che cambiai direzione ad evito ingorgo. Ma di tutto che ci si spartì non s’addivenne a ragionamento di questo a te e questo a me per pane e pomodoro, vino e musica giusta, che ci toccò di dividere a metà, che ce ne manca sempre abbastanza.

Radio Pirata 51 (largo ai giovani)

Radio Pirata ad ultimo sondaggio pare prima radio d’ascolto a casa mia, che il resto invece pare relativo quando si fa giro di boa. E a vista di successo epocale, che io ho fiducia in giovani, a loro concedo spazio, pure mi raccomando che stavolta gli do tema, che il fuori di quello non viene concesso nemmeno per mai. Anzi, mi faccio duplice e, per selezione a meritocrazia, di temi gliene rifilo a doppia quota, che primo è che musica è a cover, e testo sia, per solluchero mio che detengo imperio di trasmissione, dunque ne ho facoltà, mare. E do via a giro di musica che non è giro di do.

Quando si spiaggiano o qualcuno le tira a secco perché pensa che d’acqua non ce n’è più bisogno, quelle guardano ancora verso l’orizzonte, finisce pure che ti ci portano, se gli concedi un po’ di credito ancora, se ti fidi di loro, perché “una nave in darsena, circondata dalle banchine e dai muri, ha l’apparenza di una prigioniera che medita sulla libertà, con la tristezza di uno spirito libero, messo a freno”. (Joseph Conrad)

Che a mare mai finisce viaggio, si arriva solo per ripartire. Si fa d’oltre la meta definitiva, che l’oltre non scopri mai dov’è, pure se sai che lì ci dev’essere sicuro un approdo, un’Itaca felice che t’aspetta, ma che non è Itaca per sempre. Decide d’esserlo appena il tempo che tu ti conceda il riposo giusto a carico d’energia per la ripartenza.

Sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto ‘più in là’”. (Eugenio Montale)

Il desiderio del mare è cosa che attiene a certe qualità dell’anima, a tali altre appartiene quella visione d’immenso quale frontiera, muro a separazione, confine, colonna d’Ercole da altro che pare che non siamo sempre noi. Ma se hai solo il sogno, che quello è quanto ti resta, “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il Mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)

Per mare impari tutto quello che ti serve, che poi fai ripasso ad osterie, quando racconti la storia che vivesti su quell’infinito, che è storia il cui finale è sempre da riscrivere, che muta quanto muti tu, che cambia per come ti senti, ma sempre ha epilogo a conforto. “Ho sempre avuto l’idea che navigando ci siano soltanto due veri maestri, uno è il mare, e l’altro è la barca, E il cielo, state dimenticando il cielo, Si, chiaro, il cielo, I venti, Le nuvole, Il cielo, Si, il cielo”. (José Saramago)

C’è che certe volte il mare si rabbuia, pare che avverta l’esigenza di farlo, non si sottrae dal mostrarsi adirato, non ne ha remora, ma è come se ti trasmettesse il suo disappunto per qualcosa che hai fatto, che se stai a guardarlo senza volontà di rimprovero si rifà a calmo. Finisce sempre che l’arrabbiatura gli passa. “Pensava sempre al mare come a la mar, come lo chiamano in spagnolo quando lo amano. A volte coloro che l’amano ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna”. (Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare)

Ciao David, tanto da qualche parte ci ribecchiamo. A proposito, ci hai una sigaretta?

La divisione dei beni

M’attrezzai a sdoppiamento in illo tempore, allorché altro non fu di sconfitta persuaso. Egli s’arrovella che non se ne fece pace, ma è agitarsi di pesce in rete, che ormai non v’è più aria di disponibilità per respiro. Altro me è a ostinazione di convincimento che cimento è per destino ineluttabile, che è a produrre testimonianza, a rivendico di io c’ero, che non è medaglia al valore per me che ho identità di nessuno. Egli, però – ed è ad atto di protocollo – capì che parte di lui era a ragionare di convenienza esatta, altro se chiedeva d’essere ceduto a libertà. Indi, pure di cuore a ristrettezze, mi fece che sciolse catena. Musica è d’abbisogna.

Pure decidemmo che ciascuno prendeva d’intero parte precisa, non è a sovrapposizione possesso di frammento. Non fu facile trattativa di ciò che spetta all’uno, cosa a tal altro, ma ci fu accordo definitivo con raro sconfinamento. Ch’egli si prese carico di lavorio a saldo per bolletta, baruffa a cottimo un tanto ogni tanto, velocità per esecuzione, carato di perfezione, prodotto finale a prova d’esame. Io feci per me incetta di lentezza, del tempo feci stralcio, d’inesattezza non mi feci cruccio, obiettivo piuttosto, di divenire la retta via che fu storta sin da concepimento.

Egli s’appresentò a seriosità conclamata, a dico cosa meditata e mai d’istinto, di mediazione appacificata vezzo irrisolto, di cronometria di tempo pratica di quotidiano, patì d’urbanità represse. Io m’attrezzai di lentezze, a noia qual virtù suprema ed obiettivo di strategia esistenziale, ozio quale pratica di totem, di tempo a trascorso non m’avvidi, d’inesattezze cercai ad ogni intendimento, feci per me desiderio solitario di scoglio e basta. Pure, egli, mantenne identità a nome preciso, titolo d’accademia, appellativo di professione, epiteto d’impegno sociale, si fece portavoce d’altrui disgrazia, scrisse d’esattezza a punteggiatura, d’orpello si fece carico, di presenza non fu domo e cercò atto rivoluzionario. Dal mio, che son nessuno, mi tolsi nome, pure cognome, feci falò di tessere e passaporti, di pergamene feci fascio a cacciamosche, mi vestì di vagabondo, mi tramutai in cialtrone, godetti dell’essere evitato, evitai affratellamento se non per pari mio di nessuna identità, di scrittura feci a come mi pare, mai a come pare ad altro, fui eversivo che cambiai direzione ad evito ingorgo. Ma di tutto che ci si spartì non s’addivenne a ragionamento di questo a te e questo a me per pane e pomodoro, vino e musica giusta, che ci toccò di dividere a metà, che ce ne manca sempre abbastanza.

Nostalgico italiano

Che quell’altro me oggi s’è fatto funesto, che dopo assemblea ennesima, a sommo di scoop, taluna illuminata lo appellò di nostalgico per frase sua di schifo a guerra, pure nemico di libertà disse che era. Ch’egli pagò pegno, vacillò a colpo tirato a freddo, manco se l’aspettava, neppure si fece a ricongiungimento tra detto colpo e frase proferita, forse, a leggerezza. Ch’egli, com’è d’uopo, si appropinqua a casa condivisa, e di riserva fa fuori anche fondo di botte a corredo di pecorino d’avanzo. Io di nostalgia, invece, faccio nota, che ho piglio diverso, che non mi faccio sangue ad acqua, nemmeno m’attrezzo a travaso di bile, che mi feci impermeabile a contrasto di lui.

Che, insomma, sarebbe pervaso a nostalgie, che egli non ne avrebbe a pensiero mio, se non di suoni e pensieri, che d’altro pure fece a meno. Pure di mazzate a levapelo ne prese abbastanza che la metà bastavano per claudicare quanto basta e fa. Che si legge a giornalettume che pacifista è filozar, s’accoppia a notte fonda con terrapiattismo, ch’esce fuori a lumaca quando piove bomba sotto casa, altrimenti è radical a rolex. E non gli torna il pensiero, che s’arrampicò ovunque, a manganello fu sottoposto ad imperituro ordine costituito d’ogni tempo, sino all’ieri che fu appena poco fa. Che sentì – ad orecchia sua – graziosa fanciulla di suo paese dire che aeroporto nutrito a bomba atomica si fece a nuovo per volo internazionale civile a merito di commissario Montalbano, che di lotta a decennio nulla sapeva, a bivacco per idrante non ne era edotta, dunque non esistevano, neppure lui che c’era esisteva. Manco esisteva quando ad altra guerra a notte tirava protesta, che ora è retore e strumento di potere di tiranno, che prima era zitto pure se c’era.

Ch’egli c’era, infatti, che c’era pure ad ogni tempo che c’era di buscarne a bruciatura, a cicatrice fatta a storia, che pure s’è tanto accucciato a non prenderne in testa troppe che già scemo era, che dorme a feto per paura che ritorna il nero a mazzachiodata. Che c’era fino all’altroieri, ma non c’era a pagina di giornalettume, manco a faccialibro, dunque c’era ma non c’era, che se ci sei ma non sei dove devi essere, non esisti. Ch’io lo dissi a più riprese che meglio era essere nessuno per decisione di autoesclusione dal mondo, a gioco d’anticipo, che essere annessunato per obbligo di legge. E ci si incontra, me e lui, come nessuno parla a nessuno, l’uno per scelta, l’altro a suo malgrado. A grattar fondo ad Oro Pilla che ormai è a bottiglia esausta e ci ho messo limoncello di fabbrica casalinga mia.

Che poi, nostalgia di che? Di cassa di pesce scaricata ad alba a mercato per acquisto di libro d’istologia a prezzo di paga d’operaio? Per lavapiatti a nottefonda per tassa a strozzo per figlio di nessuno, di provenienza ignota, che non era previsto a presenza di studio per signora contessa? Nostalgia per notte insonne a girar manovella di Gestetner a puzzo di piombo tetraetile e polpastrelli ad inquinamento di michetta a formaggino scaduto? Nostalgia a salto pranzo che ho dispensa d’acquisto per esame d’obbligo? Nostalgia pure per carica a lancia in resta che dico sono stanco? Che ora sta bene, invece, che non è dato ch’abbia nostalgia, che ha stipendio a posto fisso, che pure è da fame, che traspira d’auto, mutuo, affitto di casa per lavoro fuorisede, bolletta a codice rosso. Di cosa volete che sia a nostalgia, che ha spalle coperte da stato buono e caritatevole, che lo pose a lavoro a mille mila miglia da scoglio suo, tra neve e neve ch’egli è aduso a scirocco? Di cosa volete che sia a nostalgia rivolto il pensiero suo, alla fame che patì? No, mi disse, che patì colpo perché era vero ch’egli era nostalgico a pensiero di passato, che allora, tra patimento e sfinimento, c’era pure che si sentiva bene, ch’era in accompagno di libertà, che pensò che a pena valesse tutto per speranza di mondo altro, che oggi mondo altro non c’è, ma manco speranza c’è più.

Radio Pirata 15 (dimenticanze)

M’è dato di fare altra puntata di Radio Pirata, che si fece 15, che se è radio è pure musica, e se è musica io scrivo poco, che appago due desideri non contrastanti in un contempo preciso. Che il primo è che tanta voglia di scrivere nemmeno mi viene, che di più mi passano per la testa frasi da orripilo. Che l’altra cosa è che poi, mi domando e dico, che scrivo, se non m’attrezzo a partecipazione a tenzone di guerra, dicendo che di guerra non m’avviene troppa voglia? Oggi mi faccio aiutare a parola scritta da ragazzo che mi pare ci azzecca. E subito sia musica d’accompagno a lettura.

Che, in proposito d’orripilo, mi viene che m’affaccio a terrazza e guardo il grande fiume che mi scorre a tiro di sasso, che mi stava per venire scritto tiro di schioppo, a rischio che qualcuno s’approfitta a fraintendo di peggio, e mi fa arruolo immediato. Che fiume, invero, fu grande, che ora è sputacchio appena, che ciottolo uno ad uno conto, e mi pare che questa è guerra non guerreggiata, dichiarata a fare morto e più morto, quale bomba sganciata a grappolo a dove cojo cojo. E in deserto che s’avanza riconosco che parola è vana se è saggia a pace, ad applauso si compete se gronda d’ematocriti bassi, per contratto scritto a bava alla bocca. Che di musica mi sostituisco.

Che pure a governo mondiale di pace c’è click di superpotenza d’etere, o forse rete a strascico, a maglie strette, che cattura pesce avannotto, lo fa a soffoco e soffritto, che lui manco se ne accorge. E ricopre a frangetta lunga sguardo da millemila e più morto d’ammazzo in altrove che non ha patria, in fondo a mare d’annego a contrario di pesce a rete.

Le comunità virtuali non costruiscono nulla. Non ti resta niente in mano. Gli uomini sono animali fatti per danzare. Quant’è bello alzarsi, uscire di casa e fare qualcosa. Siamo qui sulla Terra per andare in giro a cazzeggiare. Non date retta a chi dice altrimenti.” (Kurt Vonnegut)

Che fuori c’è bella gente a residuo, pure qui a voi che passate, che mi parete a conoscenza antica, che pure v’offrirei vino a litrozzo pieno, come a barettino, a bettola a scalcagno che non so più dov’è. “Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni.” (Kurt Vonnegut)

Due sere fa hanno sparato a Robert Kennedy, la cui residenza estiva si trova a dodici chilometri dalla casa dove io vivo tutto l’anno. È morto ieri notte. Così va la vita. Un mese fa hanno sparato a Martin Luther King. È morto anche lui. Così va la vita. E ogni giorno il governo del mio paese mi comunica il numero dei cadaveri prodotti dalla scienza militare nel Vietnam. Così va la vita. Mio padre è morto già da molti anni, di morte naturale. Così va la vita. Era un uomo dolce. Era anche un fanatico di armi. Mi ha lasciato le sue armi. Si stanno arrugginendo.” (Kurt Vonnegut)

Vi lascio a saluto di buona domenica, con zuppa di lenticchie a crostino selvaggio a quintale di peperoncino rosso e bruschetta che fuma e fa venir sete da litro e più.