Radio Pirata 59 (per destini fulgidi e progressivi)

Radio Pirata torna, dopo lunga e sofferta assenza, per puntatissima di grande musica e notizia Cinquantanovesima che nessuno sperava ci si arrivava così, a puro slancio di lancia in resta. Che c’è cosa di cui conversare con sereno distacco di felice fine estate al calor bianco per ripresa di stagione di lavoro che comincia benissimo. Che si va subito di musica con pezzo riempipista a far muovere chiappe stanche.

E se stagione di lavoro ventre a terra comincia è bene che sia a gran carriera, anzi a locomotiva che sfila via come cosa viva, che lascia a casa cinque in disgrazia affratellati di giovane età ancora, a ben lontano da pensione che su cedolino INPS c’è scritto fine pena mai. Che salario pare cosa poca a pagar rito funebre per chi resta e fruga a tasche spente per cercar obolo di esperto a tumulazione rapida ed efficace di caro congiunto, ma pure se è disgiunto tocca pagare.

Ed è tempo di grande sollucchero per branco un po’ qui un po’ là, che rammarico pare che sia branco di colore inesatto che s’era di colore giusto c’era grande indignazione a maggior condivisione. Ma c’è gran parlare a chi dice che è cosa disdicevole assai per fanciulla che si fa beverone che s’incorre in pericolo. Io, che non m’adeguo, dico che è giusto, non per pericolo crescente di lupo famelico – ma sarà lupo famelico? – ma perché se tot di popolazione rinuncia a beverone mercato soffre e prezzo cala, e io acquisto a prezzo più composto pe certe esigenze mie di dissetamento.

Grande artista fa cagnara che esegue lectio magistralis di portata epocale e pubblico non capisce, non smentisce sua natura equivoca, che se non capisce, com’è giusto che sottolinea generalissimo in grande best seller, non è normale e se non è normale come minimo è di deviazione assai manifesta. Che siamo figli dei tempi, «pronipoti di sua maestà il denaro», tanto per citare qualcuno che fu tirato in ballo per botteghino facile di smercio di roba di pregio non ancora conclamato.

Che Radio ricorda sbarco a mille mila di migliaia di disperato a cerca di ventura, quota parte del quale si fa a mangime ad ingrasso di pesce, e tira in ballo tale che cerca notorietà ad antenne di prestigiosissima emittente quale questa è senza tema d’esser seconda ad eventuale concorrenza.

“Il mare non ha il colore del vino, ha ragione il professore. Forse nella prima aurora, o nel tramonto: ma non in quest’ora. Eppure, il bambino ha colto qualcosa di vero: forse l’effetto, come di vino, che un mare come questo produce. Non ubriaca: s’impadronisce dei pensieri, suscita antica saggezza”.

Radio Pirata ringrazia ogni ascoltatrice, pure ogni ascoltatore – ma con riserva – e vi dà degno appuntamento a grande celebrazione per puntatona che si fece a Sessanta dove magari si potrebbe parlare di futilità materiali come cambio di clima che non c’è ma fa casa scoperchiata ed alluvioncino di qua e di là, guerra che non si finisce e s’allarga ad ogni dove, ma fa mercato a guadagno facile d’arma o raddoppia.

La terra brucia (pure i non luoghi)

“Non è necessario immaginare che saranno il fuoco o il ghiaccio a porre fine al mondo. Ci sono altre due possibilità: una è la burocrazia, l’altra la nostalgia” (Frank Zappa)

Certi giorni sono per me quelli d’anadromo – gli altri, pure, ma marco il territorio meglio in certe circostanze -. Me ne sto in paesone, che si svuota di turistumi e locali in festa a certe ore. S’apprestano tutti ai campi profughi, con portabagagli strabordanti di beni di sussistenza, dall’anguria alle cotolette del giorno prima, sedute e tendoni da circo, più ampi possibile, che contendono spazi vitali alla concorrenza, mettono su conflitti geopolitici sul litorale, che qui c’ero prima io. Vado controcorrente perché raggiungo la spiaggia ad orario improbabile, che manco s’è fatto giorno. Ho appuntamento con Pilu Rais. “Non lo so che trovo, ma passa che due cose sempre ci sono”, mi dice il giorno prima al telefono. I notturnamboli abbandonano a quell’ora la scena, li riconosci barcollanti, pure per il movimento anomalo e ondulatorio delle automobili. L’invasione della carreggiata è una possibilità, per cui scelgo strade traverse, allungo un po’, ma aumento le probabilità di sopravvivenza sino alla barca.

Becco la lampuga, fa caldo e il pesce, che già è scarso cerca refrigerio pure lui negli abissi. Aveva una ricciola, ma non la mangio, è pesce vorace, non lo sai con cosa ha cenato la sera prima, e sono tempi che, laggiù, in fondo al Mar d’Africa, il campo profughi – quello vero – s’è fatto fitto, diventa dispensa. Preferisco i pesci di passo, la lampuga, appunto, se qualcuna è rimasta, poi ci ha gli Omega 3. Il ritorno è già a luce fatta, e mi pare d’attraversare l’inferno, la terra ancora brucia, l’ulivo saraceno che s’era fatto monumento ancora frigola. Non sapete quanto possa continuare a bruciare un ulivo, pare un cero alla Madonna, non finisce mai. Pure il carrubo dello zio Vincenzo, che d’estate dava ombra alla tavolata in campagna a dieci e più persone, ora pare un tizzoncino di brace.

La Terra brucia, perché qualcuno ha dato fuoco alle polveri. E di piromani ce n’è assai. Che non sono solo quelli che, cerino alla mano, appicciano la fiamma. Tanti ce n’è ancora che manco lo sanno che sono piromani. Che si sventagliano in spiaggia e si lamentano dei 50 gradi, ma ci hanno il carrarmato da cinquemila di cilindrata, con un milione di cavalli che sgasa putrefazione mesozoica, che ci hanno cinquantasei telefonini di silici e quarzi, che per farne uno radono al suolo il Congo e prosciugano un paio di cataratte equatoriali, che ci hanno le batterie dell’ibrido – che non inquina, che è verde, perché lo fanno Biancaneve e i sette nani con la tessera del WWF, mica in una fabbrica che brucia tempesta – che per trovare il litio devono fare una spianata dove ci sono le Ande. E io me ne sto al paesone svuotato, ma prima mi faccio il caffettino da Piero: “niente mare oggi?”. Da lì torno, ci sono stato che era alba quasi fresca. E il fiume, quest’anno – che non c’è più, asciugato di mala maniera – pare corridoio di sassi, e ci vado a far quattro chiacchiere con quelli, avvezzi ad ascolto, non obiettano pure se sanno tutto. Faccio finta che la terra non brucia oggi, che il ghiaccio dei poli s’è solo preso una vacanza, per galleggiare nei mojiti, mi butto nei vicoli che dai colori mi faccio distrarre, domani semmai mi corruccio d’infinito.

“Paradosso del nonluogo: lo straniero smarrito in un paese che non conosce, lo straniero «di passaggio», si ritrova soltanto nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio, dei grandi magazzini o delle catene alberghiere. L’insegna di una marca di benzina costituisce per lui un punto di riferimento rassicurante ed è con sollievo che ritrova gli scaffali del supermercato i prodotti sanitari e alimentari o i casalinghi consacrati dalle marche multinazionali.” (Marc Augè, e un altro l’abbiamo perso, chi resta è problema)

Radio Pirata 56 (a sommo di spensieratezza)

Radio Pirata torna dopo lunga e trepidante attesa a numero Cinquantasei per puntatona ricca di solita spensieratezza che vale la pena d’attenta lettura per allegra notiziona e musica di tutti in pista. Che è finita lunga kermesse di vacanza di cosa che fu Pasqua e ancora abbiamo impanata con cotica a digestione lenta.

E a finire di vacanza narro di rientro periglioso ché lunga e diritta correva la strada, e in siffatto modo cito testualmente. Impiegai a percorrere grande serpente di stivale a via rapida d’autentico ingegno nazionale, con cantiere e blocco di traffico ad ogni respiro per incolonnamento che pare fuga di processionaria per un totale di ore diciassette e minuti anche trenta a compagnia festosa di migrante che tornò a lavoro dopo rapido abbraccio a famiglia. Che feci fermata solo a esigenze metaboliche di volta una che mi trattenni con rigore estremo. Ad evitar altra sosta, per certa idiosincrasia antimoderna a fede autogrillina, a medesima fermata mi produssi in rabbocco di carburante con prezzo di cambiale a strozzo ed accisa che cresce e rimpingua, qual oro alla patria, casse miserande.

A tutti compassionevoli e giusti di solidarietà risposi che è sacrificio che m’attende ancor per poco che conto in rapida e solerte realizzazione di capolavoro ingegneristico, di grande, glorioso e giusto ponte d’orgoglio patrio per risparmi di venti minuti su tempi di percorrenza che anche Google Map fa inchino di meraviglia. Sempre che non c’è ingorgo pure lì.

A tanti che dissero vai in treno, spiegai che ci avrei cambi a numero pari di dente a gengia buona, per durata di viaggio a sovrapposizione esatta di giorno di vacanza, e a prendere aereo bancomat oppose lo gran rifiuto a non regge tenzone per prezzo a levitazione di logaritmo a giorno di festa, per far di isola ancor più isola che parve d’Ulisse Itaca ancor più fuggente.

Leggo notiziola che presto sparì da giornalettume, che sbarco di miserandi continua a fasci di mille mila e, a primo trimestre d’anno in corso, furono 441 a morire conclamati. Chissà quanti altri non ebbero ospitalità tremenda a necrologio di massa per inabissamento a notte d’umanità. Pure altri due si fecero morto d’ammazzo per lavoro e dissero vado a far cosa a campo di golf per divertimento e poi fecero a non torno che cosa a reggere non resse e si fece crollo. E quest’anno siamo a più di cento, ma esso, intendo l’anno, è lungo ancora e c’è speranza di batto record. Il problema è solo l’orso, mi pare di capire da titolone a prima pagina.

Leggo pure con sommo gaudio e sospirando il “finalmente” d’uopo, che c’è volontà di pugno di ferro per ambientalista che imbratta monumento che a me detto ambientalista mi pare cinico e baro a cospetto di beltà di paese. Pure, mi pare, che -, detto sempre di ambientalista – non fu dotato di intelligenza superiore, piuttosto di cretinismo ad avanzato stato di decomposizone di neurone unico a sommo di capo, che se vuole imbrattare lo mondo intero, prosciugare fiume, cambiare clima, abbattere foresta, far di centro storico fabbrica di cemento, amiantare vie respiratorie, ammazzo che ti riammazzo ogni creatura che vive, non s’incorre che in vago rimbrotto – a taluni invece va plauso per adesione a modernità – se è a dichiarazione precisa di non sono ambientalista.

E con ciò vi lascio con piccola massima di mio giovane collaboratore che mette anch’essa allegria come momento felice che tutti passiamo, che la vita è bella e per qualcuno pure assai breve.

“Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva, e arriverò.” (Cesare Pavese)

Radio Pirata 54 (per puntata esplosiva)

Radio Pirata è ad appuntamento di numero Cinquantaquattro che a tutti dichiara magnifico weekend di serena tempesta, pure saluta manifestanti di cui faccio parte anch’io che vuole pace, dunque trasmissione di detta puntata è a differita che per ora non ci sono in casa, avendo seguito altro me a borbottio confuso di pacifismo ottuso che s’arruola a zar senza ritegno, che non ebbe nessuna a danneggiare sacralità di mercato di bomba che rilancia PIL e supremazia morale di grande occidente.

M’è facile supporre che proposta di pace non è ad accettazione, né se viene da piazza manco se viene da concorrenza d’oriente di mercato liberissimo.

Quella poi contiene clausole vessatorie, sopra tutte quella di nessuna bomba atomica, che è già prescrittivo l’uso di tale ordigno a grosso spavento di molti e sommo godimento di taluni che non aspetta altro che sgancio fortuito che poi è stata colpa di quell’altro o di quell’altro ancora, a seconda di chi fa sgancio più lesto.

E mentre ministrissimo meritevolissimo dice che non c’è paura di sopravvenire di dittatura a vaga spuntatura di nero, e strale lancia d’indigno a dirigente ch’ella fu d’assai poca solerzia per richiamo a vigilanza d’obsoleta democrazia, pure a valori d’attenzione a fatto sancito da vecchia carta straccia a nome e d’uopo detta Costituzione, io feci caso che detta cosa mi parve di pratica modernissima di democrazia che a dettato preciso fece taci tu che non è compito tuo che parli.

Ma d’indigno che fu a risposta corale, mi preme per sottolineo esatto ch’ebbi imbarazzo a far da supporto a ragazzo sotto manganello, a dirigente ecc., poiché mi ci ritrovai con cotali e cotante figure che non capii bene che ci fecero accanto a me, che se sono a sbraito per censura di meritevolissimo, perché, poi, si fanno a sbraccio insieme a quello che dipingono di nero ed ostile a valore di democrazia per far di guerra pesante partecipazione globale, pure, a stretto giro di stanza segreta, fanno ad accordo su differenziazione d’autonomia? E tale differenziazione, ad unanimità pretesa, mi pare colpo finale di primo contro ultimo, che tal mi sembra filosofia da altro ventennio mutuata. Manca solo battaglia di grano per quadrare la cerchia.

E mi son persuaso che tanto di digrigno feroce di gengia, contratto per bava alla bocca di giornalettume, è, a mio parere di miserabile ed ignoto, fatto che mai si misero cotali poveracci a botteguccia a farsi bicchier di vino di contadino con bruschettina e pomodoro, a far canto di vecchia canzone tra amici, che ancora faccio a riproposizione di detto scritto di mio giovane collega: “È indispensabile che tutti gli esseri e tutti i popoli saggi della terra capiscano che pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale dell’alimentazione umana. Piatto peccaminoso per eccellenza perché comprende e semplifica il peccato rendendolo accessibile a chiunque. Piatto peccaminoso in quanto può significare un’alternativa a tutto ciò che è trascendente, a tutto ciò che è pericolosamente trascendente, se diventa cultura della negazione. Non fate la guerra ma pane e pomodoro. Non votate per la destra ma mangiate pane e pomodoro. No alla NATO e sì al pane e pomodoro. Ovunque e sempre. Pane. Pomodoro. Olio. Sale. E dopo l’amore, pane e pomodoro e un po’ di salame”. (Manuel Vasquez Montalban)

Radio Pirata 47 (per meritoria attesa)

Radio Pirata fa Quarantasette di puntata, che è tempo di concedersi tempo e dunque selezione musicale sarà svolta per snervo a lunghezza indefinita che vi tiene impegnati per ore notevoli, che se non avete nerbo per ascoltare detta scelta, all’uopo Radio non è emittente che fa per voi, e vi tocca di cercare ritornello babadì babadà, che dura poco, ma pure di solluchero concede un tantino meno.

Che è tempo che suono di campanella sancisce passaggio di consegne tra migliorissimi e meritevolissimi, con tanto di tinta unica gli uni e gli altri, che praticamente siamo in una botte di ferro come ebbe a dire tale che mi pare si chiamò Attilio Regolo. Che ci attende destino prospero di bombarda che ormai mi pare che c’è intesa globale a far scoppiare quella che vale mille, che se scoppia quella si risponde con milleuno che precede a successione esatta milledue e milletre, quindi ad libitum sino a cessate il fuoco ma pure cessate e basta d’ogni altra cosa.

E pare che non ci sia troppo tempo a dedico per scrittura che pure scrittura è cosa che pare di poco merito, pure musica buona mi pare di poco merito che adesso abbiamo grande rilancio di economia attraverso zumpazù di cultura elevatissima a spiaggia di superaffollo e bagno a prezzo che tolgo finalmente di mezzo disgraziato in mutande per sostituzione, con grande fervore di applauso di popolume, con appropriata gestione a costume in pelle di leopardo, meglio di pitone. E per rilancio di economia serve preciso e grande cambio di clima che estate dura tutto l’anno, a caldo becco financo a capodanno che pinguino si fa ad ospito a congelatore e si danza a spiaggia in allegria come faccio a Caraibi pure a lidi nostri patrii e famiglii

Pure mi pare che realizzazione di programma sia a punto di grande risultato prossimo venturo per merito congiunto a cambio di staffetta che non ce n’è ad avvedersene a completo intendimento, che cambio di clima pare, infatti, ormai a realizzazione come da promessa elettorale che non è a richiesta nemmeno di intervento specifico. E guardo fiume da terrazza mia, fiume che fu a dipinto dantesco financo a navigazione, che taluno toponimo, e financo memoria, narra di porto e fluitazione per grande costruzione di Rinascimento, ed ora pare sputacchio che trota fa a boccheggio. Nemmeno lancio di messaggio in bottiglia in acqua è a concessione, che a mare non ci arriva, si fa vuoto a rendere e riciclo per immensa discarica di grande paese che guarda ad orgoglio nazionale crescita d’immondizia che è indicazione precisa di balzo in alto di PIL.

Ed è per questo che con sommo giubilo salutiamo precisa continuità di intendimento tra migliorissimi e meritevolissimi, che carcere di terra d’Africa, a pagamento di nostre tasche, è a rinnovo certo di contratto, ad impedimento di torma di falso migrante subdolo, che è a sbarco per tocco esatto di donna bianca, che pure infido si camuffa di bimbo e bimba per trarre ad inganno con annego squallidume pacifista, financo gran capo a sottana bianca. Che se taluno annega è colpa di buonismo un tanto a chilo di gente pretestuosa che vuol fare salvificio di sua nave che ora sarà finalmente a blocco repentino di porto salvo. Porto salvo si farà a trasformo di porto franco e sovrano per rilancio di economia a esporto grande bombarda patria a zona di guerra, pure santa.

E in attesa di capire di che merito si tratta per tal merito paventato, vi lascio con cosarella di un mio giovane collaboratore: “Il mare stava al di là delle alte dune, in attesa.

Quando padre e figlio, dopo un lungo cammino, raggiunsero finalmente quei culmini di sabbia, il mare esplose davanti ai loro occhi. E fu tanta l’immensità del mare, e tanto il suo fulgore, che il bimbo restò muto di bellezza. E quando alla fine riuscì a parlare, tremando, balbettando, chiese a suo padre: «Aiutami a guardare!».” (Edoardo Galeano)

Radio Pirata 15 (dimenticanze)

M’è dato di fare altra puntata di Radio Pirata, che si fece 15, che se è radio è pure musica, e se è musica io scrivo poco, che appago due desideri non contrastanti in un contempo preciso. Che il primo è che tanta voglia di scrivere nemmeno mi viene, che di più mi passano per la testa frasi da orripilo. Che l’altra cosa è che poi, mi domando e dico, che scrivo, se non m’attrezzo a partecipazione a tenzone di guerra, dicendo che di guerra non m’avviene troppa voglia? Oggi mi faccio aiutare a parola scritta da ragazzo che mi pare ci azzecca. E subito sia musica d’accompagno a lettura.

Che, in proposito d’orripilo, mi viene che m’affaccio a terrazza e guardo il grande fiume che mi scorre a tiro di sasso, che mi stava per venire scritto tiro di schioppo, a rischio che qualcuno s’approfitta a fraintendo di peggio, e mi fa arruolo immediato. Che fiume, invero, fu grande, che ora è sputacchio appena, che ciottolo uno ad uno conto, e mi pare che questa è guerra non guerreggiata, dichiarata a fare morto e più morto, quale bomba sganciata a grappolo a dove cojo cojo. E in deserto che s’avanza riconosco che parola è vana se è saggia a pace, ad applauso si compete se gronda d’ematocriti bassi, per contratto scritto a bava alla bocca. Che di musica mi sostituisco.

Che pure a governo mondiale di pace c’è click di superpotenza d’etere, o forse rete a strascico, a maglie strette, che cattura pesce avannotto, lo fa a soffoco e soffritto, che lui manco se ne accorge. E ricopre a frangetta lunga sguardo da millemila e più morto d’ammazzo in altrove che non ha patria, in fondo a mare d’annego a contrario di pesce a rete.

Le comunità virtuali non costruiscono nulla. Non ti resta niente in mano. Gli uomini sono animali fatti per danzare. Quant’è bello alzarsi, uscire di casa e fare qualcosa. Siamo qui sulla Terra per andare in giro a cazzeggiare. Non date retta a chi dice altrimenti.” (Kurt Vonnegut)

Che fuori c’è bella gente a residuo, pure qui a voi che passate, che mi parete a conoscenza antica, che pure v’offrirei vino a litrozzo pieno, come a barettino, a bettola a scalcagno che non so più dov’è. “Vi amo, figli di puttana. Voi siete i soli che leggo, ormai. Voi siete i soli che parlano dei cambiamenti veramente terribili che sono in corso, voi siete i soli abbastanza pazzi per capire che la vita è un viaggio spaziale, e neppure breve: un viaggio spaziale che durerà miliardi di anni.” (Kurt Vonnegut)

Due sere fa hanno sparato a Robert Kennedy, la cui residenza estiva si trova a dodici chilometri dalla casa dove io vivo tutto l’anno. È morto ieri notte. Così va la vita. Un mese fa hanno sparato a Martin Luther King. È morto anche lui. Così va la vita. E ogni giorno il governo del mio paese mi comunica il numero dei cadaveri prodotti dalla scienza militare nel Vietnam. Così va la vita. Mio padre è morto già da molti anni, di morte naturale. Così va la vita. Era un uomo dolce. Era anche un fanatico di armi. Mi ha lasciato le sue armi. Si stanno arrugginendo.” (Kurt Vonnegut)

Vi lascio a saluto di buona domenica, con zuppa di lenticchie a crostino selvaggio a quintale di peperoncino rosso e bruschetta che fuma e fa venir sete da litro e più.

Radio Pirata 9 (Canta che ti passa)

E visto che di bombe se ne parla assai, che tutti vogliono giocarci, mi dedico a Radio, sempre Pirata, che di corsara non son capace a soldo d’altro. Vado a musica che di quello mi sento abile a vetta irraggiungibile, che a fare soldatino di latta, invece, non mi torna bene.

Fila d’anni a paura, che prima c’è crisi e bolla di speculatore, poi pandemia, ancora si fa guerra che di sonni tranquilli non è caso si dorma. Domani, chissà, se passa guerra che non diventa permanente, che è meglio che si spera in paura di terremoto e tsunami che c’è stato bonus a facciata, che mi pare curioso che pochi dormon male che clima s’asciuga come acciuga, e ghiaccio si scioglie che danno lo fa a lime dei Caraibi, e Mojito viene male pure per cubetto a mancare. Mi insisto a canta che ti passa.

Che fortuna fu solo nostra che godiamo di governo di migliori, rinchiusi a botte di ferro quali Attilio Regolo, che però è cattivo altro, che non ha fiducia e rema contro. Pure a sostegno di reddito mi addivenni a conclusione di fortuna che non ha a mondo eguale, ch’ebbi aumento stipendiale di pari a litrozzo rosso a tretrapack in più di dose a trenta giorni. Praticamente paio oligarca a tiro di panfilo per un soffio, pure, se mi risparmio lo Schifello mensile, ci arrivò ad estate a farmi remo di canotto, e risalgo fiume impetuoso a sputacchio, con chiappe a striscio di ciottolo. Vado di musica che ancora mi pare meglio.

Arriva profugo ed è disgraziato vero che si fa tale sotto bomba. Che quegli altri a fame, mani mozze, fucilata a tempia di bimbo, a stupro tanto al chilo ci hanno colore troppo scuro che lacrima non si vede, e pare solo sale di mare a villeggiatura. Che c’è profugo e profugo, che tale vale, talaltro no. Che il primo è tale che bolletta sale, l’altro è meglio che sta dov’è, che poi diamante, papaya e caffè buono a mano di schiavo chi ce lo porta? Che mi piace che li aspetto io che non conto niente, su promontorio, che ci ho musica ad orecchie, pure ne socializzo.

Mi scuso a mondo se di lingua buona non parlo, che sabato di villaggio si tinge a festa e locale s’impiena a mascherina di paillettes, che ci fu carnevale fulminescente, di trucco e parrucco a riso, e io non vi partecipai. Che se non m’accodo nessuno se ne avvede, che nacqui solo su scoglio a favor di grecale e scirocco, non m’intendo d’abito buono, a rigor di festa mi sottrassi qual selvaggio d’aspetto, modo e parlare, pure per musica mi parve così.

Che mi viene a pensare, soverchiato di pensiero, alla mia terra, che vi faccio dire da altro quale è, se vi piace di scorgerla: “Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale; una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio.” (Gesualdo Bufalino)

Mentre aspetto di potermi riconcedere abbraccio a orizzonte di vertigine, in vista di fuoco d’alba, di mondo dimenticato, mi faccio fuoco a viscere, che da lì arrivò l’ultimo rifornimento a carico di sale. Ma vi lascio sicuro di musica, che mai ve ne priverei.

Buon weekend a tutti 🍷🍷

Brucia

“Non è necessario immaginare che saranno il fuoco o il ghiaccio a porre fine al mondo. Ci sono altre due possibilità: una è la burocrazia, l’altra la nostalgia” (Frank Zappa)

Ferragosto è per me il giorno dell’anadromo – gli altri, pure, ma marco il territorio meglio in certe circostanze -. Me ne sto in paesone, che si svuota di turistumi e locali in festa. S’apprestano ai campi profughi, con portabagagli strabordanti di beni di sussistenza, dall’anguria alle cotolette del giorno prima, sedute e tendoni da circo, più ampi possibile, che contendono spazi vitali alla concorrenza, mettono su conflitti geopolitici sul litorale, che qui c’ero prima io. Vado controcorrente perché raggiungo la spiaggia ad orario improbabile, che manco s’è fatto giorno. Ho appuntamento con Pilu Rais. “Non lo so che trovo, ma passa che due cose sempre ci sono”, mi dice il giorno prima al telefono. I notturnamboli abbandonano a quell’ora la scena, li riconosci barcollanti, pure per il movimento anomalo e ondulatorio delle automobili. L’invasione della carreggiata è una possibilità, per cui scelgo strade traverse, allungo un po’, ma aumento le probabilità di sopravvivenza sino alla barca.

Becco la lampuga, fa caldo e il pesce, che già è scarso – ma di questo ho già parlato – cerca refrigerio pure lui negli abissi. Aveva una ricciola, ma non la mangio, è pesce vorace, non lo sai con cosa ha cenato la sera prima, e sono tempi che, laggiù, in fondo al Mar d’Africa, il campo profughi – quello vero – s’è fatto fitto, diventa dispensa. Preferisco i pesci di passo, la lampuga, appunto, se qualcuna è rimasta, poi ci ha gli Omega 3. Il ritorno è già a luce fatta, e mi pare d’attraversare l’inferno, la terra ancora brucia, l’ulivo saraceno che s’era fatto monumento ancora frigola. Non sapete quanto possa continuare a bruciare un ulivo, pare un cero alla Madonna, non finisce mai. Pure il carrubo dello zio Vincenzo, che d’estate dava ombra per la tavolata in campagna a dieci e più persone, ora pare un tizzoncino di brace. La Terra brucia, perché qualcuno ha dato fuoco alle polveri. E di piromani ce n’è assai. Che non sono solo quelli che, cerino alla mano, appicciano la fiamma. Tanti ce n’è ancora che manco lo sanno che sono piromani. Che si sventagliano in spiaggia e si lamentano dei 50 gradi, ma ci hanno il carrarmato da cinquemila di cilindrata, con un milione di cavalli che sgasa putrefazione mesozoica, che ci hanno cinquantasei telefonini di silici e quarzi, che per farne uno radono al suolo il Congo e prosciugano un paio di cataratte equatoriali, che ci hanno le batterie dell’ibrido – che non inquina, che è verde, perché lo fanno Biancaneve e i sette nani con la tessera del WWF, mica in una fabbrica che brucia tempesta – che per trovare il litio devono fare una spianata dove ci sono le Ande. E io me ne sto al paesone svuotato, ma prima mi faccio il caffettino da Piero: “niente mare oggi?”. Manco domani, e manco al fiume, che quello non c’è più quest’anno. Faccio finta che la terra non brucia oggi, che il ghiaccio dei poli s’è solo preso una vacanza, per galleggiare nei mojiti, mi butto nei vicoli che dai colori mi faccio distrarre, domani semmai mi corruccio d’infinito.