Dipartenza a tempo parziale e poco (si spera)

E di cosa dovrei scrivere oggi, di quegli altri morti d’annego che ormai ad assuefazione collettiva non paiono più qualche decina ma solo trafiletto a cronaca locale, di bomba che diventa superbomba per partecipazione corale a guerra di corsa ad arma, di acqua che s’asciuga per termosifone acceso, o ad imbarazzo per sovvenzione a banca di speculo forte? Scrivo solo che fra poco smetto di scrivere per qualche giorno che c’è spiegazione precisa a questo. Pure, però, a voi vi leggo e se posso lascio commento. Ma io, adesso non posso più di tanto che altro me m’ha catturato a castigo di suo imperituro impegno tutto a fronte di tutto.

Insomma, egli – altro me dico – s’è messo su calendario cose da tremore di vene ai polsi che s’affatica a sindacato, a comizionzo e conferenzuccia a dove lo chiamano, si presenta libro suo (che almeno si paga qualche spesa per il resto che sempre fu gratis et amore dei), scribacchia per questa e quella rivista di cosa serissima, si affanna per lavoro di scuola che pare si versa tale lavoro da cornucopia degli abissi, pure se pare tela di Penelope che non v’è né fine nemmeno costrutto per scuola a similitudine d’ufficio disbrigo pratiche. Ed io, che m’ero ricavato spazio di nessunitudine definitiva per libertà conclamata a bloghettino di sassi che parlano, vengo trascinato in siffatto modo ad affanno imperituro. Ma egli pure, a girar come trottola, a mangiar panino al volo a fronte di consumo di fegato e riverso di bile, a non farsi fermo se non a semaforo per trasbordo da parte ad altra, a ricavar spazio a muraglione di tempo per caffè e sigaretta al massimo, pure non sposta virgola, al più mette punti ad esclamazione di disfatta autentica. E io, a notte che fu inoltrata, gli dissi che va bene, che mi limito a scrittura a quando passò la buriana e lo seguo, ma feci appuntino preciso preciso, che riporto qui tale a come lo concepii. A vedere bene – che mi rivolsi ad egli con tu perentorio di confidenza, crescemmo e convivemmo insieme, financo in corpo medesimo sì da che venne vagito a nascita in illo tempore – ti sbatti e ti risbatti a consapevolezza che il mondo mai cambiasti, nemmanco mi pare ce la farai di pelo appena, di più t’accollasti tale mole d’incombenza a costo esattamente zero, pure con carico di debito conto terzi che finisti quasi a far fame. Ma non t’avvedesti di fatto che c’è capitalismo brutale e cinico? E se tale energia a spreco si volge, pure a tempo determinato, ad accumulo di doblone, si può poi mollare tutto e farsi bilocale frontemare a località deserta, magari isolonza a scarsa o nulla di popolazione. E ci si va ad armo di canna, e zampirone, che a lanciar lenza con boccone amaro per sfratto di sfrattante Bernardo l’eremita c’è speranza che ci si consola con cena di cerniotto e sarago.

Che a contorno ci si pensa con armo d’orto a produzione di pomodoro che per sale di vento si fece a meno di condimento. E unico contatto con mondo fu con corriere per consegna di librino ogni tanto e per arrivo di grande nave cisterna per consegna di vino rosso. Che musica ce n’è e pure abbastanza da recar con noi e il resto fu pace, scoglio, sale e vento, infinito di sguardo, silenzio di tempesta.

Manco a dirlo, mi ignorò. E comunque, se ce la faccio torno tra qualche giorno. Fate cose buone voi che passate di qui, che io mi dimenticai come si fa.

Un viaggio come un altro (per tutti quelli che partono, pure per Wayne)

Un giorno pure io sono partito, e fu strazio autentico pure se non dovetti affrontare fortunale e tempesta, ma quelli me li lasciai alle spalle, forse me li portai dentro. Andai con la vecchia Citroen che aveva persino mangiacassette per jazz. E m’adattai per settimane a casa di vecchi compagni, a distanza di qualche decina di chilometri prima d’una casa d’affittare. Ma era tutto più caro di quello che potevo permettermi ed ogni casa ad affitto di cui scorgevo il cartello pareva regia preziosa per prezzo, con caparra da caveau di banca svizzera. Finché non m’accorsi che quella era tariffa speciale, riservata a chi arrivava come me da quell’altrove nemmeno così distante. Mi feci a memoria di racconti d’altri ch’ebbero esperienza peggiore che lasciarono il quartiere diruto in altro tempo che il mio precedeva. E ne scrissi in un tempo andato.

“… dietro la stazione c’erano le pecore, e si sentiva lontano il motore del treno che s’era acceso. Il treno pareva che si mangiava i cristiani, poi li cacava lontano. Pareva un budello di pecora. Ma almeno la pecora mangia da una parte e caca dall’altra, il treno mangiava e cacava dalla stessa bocca. Una volta il padre di Primo il budello di pecora l’aveva portato da mangiare, l’aveva procurato forse al mattatoio. Si mise a lavarlo per bene alla fontana e ci volle un’ora buona. Ma quello ancora puzzava che Primo quell’odore se lo sentiva fisso. Sua madre lo mise a bollire con una carota e una cipolla e ci vollero altre due ore almeno. Suo padre lo mangiò di gusto, sua madre lo mangiò e basta, Primo nemmeno lo toccò che il puzzo lo faceva vomitare…. ci fu rumore lontano di sferragliamento, uno sbuffo stanco ed ansimante che diceva che binario non era morto, pure che bene non stava. Si sedettero sui blocchi delle mura robuste, aspettarono che l’evento ci fosse. Rumore di motore e lamiera a sobbalzo si faceva sempre più forte fino a che il treno non apparve. Era lungo, lunghissimo, nero, procedeva lento da far venire i nervi. I finestrini erano tutti aperti, dentro si vedeva che manco passava l’aria, che non c’era scomparto che non fosse a tutto pieno, bagagli su persone, persone su bagagli. Uomini e donne, solo i bimbi affacciati a finestrini da dove veniva veniva, che gli altri fuori non guardavano, a sguardo perso dentro, come se non volessero vedere luogo di distacco, così che distacco non doveva sembrare se non vedo da dove vado via.

Primo: “Questo arriva fino alla Germania, che lo prende una volta l’anno anche mio zio.”

Secondo (a Primo): “E quando ci arriva alla Germania questo?”

Primo (a Secondo): “Vero, assai ci sta.”

Figlia s’era spostato lo sguardo da parte opposta, s’era attaccata agli occhi d’un ramarro che prendeva caldo al sangue, era verde di smeraldo. Pure lei non volle guardare, forse che era terrore puro solo idea appena affiorata di salire un giorno lì, a far boccheggio come pesce fuori d’acqua, a bollore tremendo, ad ansia di partenza per sempre. Nemmeno guardava gli altri suoi compagni, che invece non staccavano gli occhi dal serpente di ferro che s’era mangiato tutta quella gente, che taluni pure conoscevano. Sollevò gli occhi e vide i cubi, grigi, pure quelli non consentivano respiro d’aria buona. Pareva scelta tra soffocamento e soffocamento, ch’ebbe a farne esorcismo che disse: “E con quel coso dobbiamo farcelo il viaggio?”

Terzo (risponde a Figlia): “Questo c’è.”

Figlia (ancora con sguardo a ramarro, risponde a Terzo ma parla a tutti): “Lì non ci salgo, meglio la barca, che almeno là sopra respiri se ti metti sul ponte.”

Non ebbe risposta che solo aspettarono che il binario si facesse di nuovo morto, finisse quel rumore ch’era ora a fastidio, tornasse solo quello del vento e dell’onda a frangersi sullo scoglio di sotto. E ce ne volle che passasse tutto. Ma quello, il treno, passò, che parve suo cammino sotto i loro occhi eterno. Passò che lasciò odore acre di bruciato, ch’essi non sapevano se fosse a sfrego di sassi lanciati a suo passaggio, o forse era bruciato d’anime che v’erano stipate. Sperarono in cuor loro che ci fosse un momento d’accelerazione brutale, che quel tormento fosse a finire, pure se anche loro di velocità non erano a conoscenza esatta. Che viaggiasse veloce il treno, facevano invece a speranza, che dai finestrini aperti ululasse vento di frescura, che mitigasse sofferenza di cottura che si leggeva a volto di passeggero. Speravano che questo s’avverasse a timore ch’essi stessi avrebbero dovuto patire tormento d’uguale brutalità, un giorno forse, forse più in là. Ravvidero in quello discreta certezza, che quello dov’erano nati era posto che non voleva più nessuno, forse nemmeno loro che parevano bravi ad ossequiarlo per sua bellezza sepolta. Era posto che girava sguardo altrove, che non voleva ch’esso incontrasse quello di suoi figli, che diedero ad egli sofferenza di trasformazione brutale, che non ne ebbero cura ad assicurargli altro che abbandono definitivo. O forse non voleva vedere sorte negletta di suoi stessi figli, a sbranarsi come lupi l’uno con l’altro, o non voleva vedere lo sguardo loro per senso di colpa ad inadeguatezza che non diede, oltre a natali, altro che miserabile prospettiva d’esistenza. Ma passò il treno, con quel suo puzzo di gasolio e terra bruciata, con quel rumore ottuso di catena e ferraglia, sbuffò ridicolo di non ritorno. E tornò silenzio, silenzio come quello che fecero loro. Figlia vide, infine, coda di ramarro farsi a sparizione dietro a sasso, dietro sterpi spinose, che la bestiolina parve non più a riparo di fragore di mostro d’acciaio e amianto, che pensava che con chiasso simile nessuno si fosse accorto di sua verde livrea, lasciandola al sole a quiete di predatore vorace. Essa stessa non si sentì più a riparo, a minaccia incombente di certo futuro incerto, e guardò i suoi compagni, in ordine d’apparizione, Primo, Secondo, Terzo. Che si riempì suo cuore di pietas anche per loro, che d’apparenza parevano, dentro quei quattro cenci addosso su pelle e ossa, disarmati quanto lei d’avvenimento certo. Poi guardò davanti, oltre il binario tornato morto, verso quella linea scura d’orizzonte che pareva tingersi ancora più scura per Libecciata imminente, sabbia sottile e rossa di deserto d’altro pianeta, che però s’accomunò al loro, in un tutt’uno di sottile disperazione.”

Il suono, la melodia

Ripubblico, ed ancora lo farò, che vale poco la pena riscrivere che detto che dissi pare uguale a se stesso. “Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro, dove il mare è mare.” (Stefano D’Arrigo, Horcynus orca)

Ero ragazzo, molto giovane, e sentivo storie da vecchi, quelli che avevano pelli bruciate di sole, rughe che parevano cave d’altopiano, dentro cui c’erano fiumi di sale a venir giù copiosi. Che tutti avevano barbe bianche che a me pareva che erano tali ché quei fiumi si buttavano in un lago d’intrecci. Erano storie di suoni e canti, di creature che non ci sono più, ma che allora pareva aspettassero barchette scalcagnate, spinte da motori a sbuffo e singhiozzo, o a semplice remo, per farsi gioco a paura d’orrido di quei disgraziati.

Che quelli però mai se ne lagnavano di tali fugaci apparizioni tra onda e scoglio, di voci strane, talora lamenti di strazio, tali altre melodie di vertigine. C’è chi disse d’aver visto qualcosa che non doveva stare lì, tra scogli d’aurora e chiaro di luna, che disse d’aver visto fere brontolare d’abisso, figure emergere a canzone soave.

Che ora nessuno ha barchette così, se non a favore di turista, che il mare si svuota a palamitare lunghe chilometri, e nasse di lampare sono cose di folklore e basta, che pure fossero abisso pare vuoto d’ogni creatura per chi ha lenze corte. Nessuno ci camperebbe più, meglio stipendio fisso di peschereccio che pare portaerei che congelo banchi di tonno e sardina direttamente a stiva. Lì c’è frastuono, che se c’è creatura che vuole lasciare ricordo di suono e vocalizio di delizia, sparisce e non torna più, che pare ninfa di fiume a metamorfosi in alga, Cola Pesce preferisce sostegno di terra per fatica sovrumana a brontolio di diesel, puzza di nafta, strage d’ogni fratello suo. Ch’era ancora notte e mi capitò che quei suoni li sentii anch’io, che forse fu più per fatto che a spiaggia arrivai a sangue che si fece vino la sera prima. Pure quei vecchi si facevano fiaschi a cacciar pellagra, tra calo di nassa e rete a parallelismo di promontorio, che quello, poi, era vino di vigna a radice sulla sabbia, a cercar acqua salmastra per sopravvivenza comunque, e che talora pareva distillato di forza e corpo, mentre virava a spuntatura per sciabordio d’onda. E che importa se ascoltarono solo ululato di vento a zufolo di scoglio, o corrente ed onda a caverna e scoglio, s’erano storie immaginifiche e vertiginose da raccontare. Pure, allora, tra quelle quattro barcacce sgretolate dalle onde, qualcuna se ne tornavano a casa un pezzo per volta, senza nocchiero. Me ne ricordo di nomi di quei nocchieri, non tutti certo, ma qualcuno ancora, che il fortunale avevano d’affrontare comunque, perché scadenza di cambiale di banca per acquisto di gozzo di mastro d’ascia, non aveva gran cura di meteo per vento ed onda. Poi era lancio di fiori da scogli, a speranza esausta, per ornare tombe d’abisso. Follia d’altri tempi, che ora è a gioia collettiva di natante che affonda a carico completo di disperazione per orizzonte di vita differente, mancato porto salvo. Pure è a digrignar gengie sfatte di bava rabbiosa se taluno allunga mano a salvezza di disgraziato, ed urla a crucifige, in attesa dell’ora di sgranar rosario, della domenica per battersi petto a favore di santo o Madonna. Si sceglie di fare a rimpinguare quella pletora genuflessa, o lanciare un fiore tra le onde, che quello sa dove deve andare, la corrente l’accompagna giusto.

Radio Pirata 50 (per eccesso d’eccesso di misura a strabordo)

Radio Pirata fa grande traguardo di puntata numero Cinquanta che s’appresta a festeggiamento per giusta causa d’esistenza lunga e prolungata, musicante e scrosciante d’applauso a scena aperta e augurio collettivo di altre mille e anta pure di più puntatona di scoppiettanza. A festeggiamento c’è invitato lussuoso a numero elevatissimo – ma con turno preciso a gruppo di meno d’un certo per evito adunata sediziosa a precisione di decreto per rave – con red carpet che ognuno se lo porta da casa che Radio è di profilo basso per modestia ma al contempo elevatissimo d’oggettivo, che pare tutto e suo contrario con sommo gaudio di spargimento di confusione. Che subito si parte a musica giusta che mai fu di tal portata più giusta.

Ma Radio non rinuncia a far anche cosa di cronaca come si compete ad organo d’informazione di superba qualità. Che notizia pare ormai acclarata che Grande Glorioso e Giusto Partito di Sinistra è ormai a cosa acclarata che ha candidato di segreteria in numero esatto di suoi iscritti che se accordo non si trova si va a ballottaggio fra tutti per risultato di uno a uno a uno a uno a uno a uno (ad libitum ma non troppo). Ora c’è pressing che almeno qualcuno si astiene, tal altro non si concede voto a sé che vota un altro che almeno si fa due a uno e palla al centro, anzi, a destra.

Continua lunga e diritta correva la rotta che non si fa a sbarco per fugaiolo da morte e miserabile esistenza a porto salvo più di prossimità per rifocillo e riposo, ma si sceglie porto a lontananza estrema che tanto prima o poi s’arriva a mal di mare fitto fitto che la pacchia è finita e corsa di taxi marino costa di più.

Meglio pure se porto è ad accoglienza con pugno chiuso e Bella Ciao e concerto di Inti Illimani che, però, a far scandaglio di tale porto, pare che quello non c’è, che a far tale accoglienza non se ne fece cosa di massa che c’è impegno altro di tutti a tale opzione politica a far candidato a Grande Glorioso e Giusto Partito di Sinistra.

E c’è pure guerra che si fa sempre più a bombarda che c’è ressa a partecipo anch’io a mando bombarda di produzione sovrana che è grande pubblicità a fabbrica d’orgoglio di nazione ad altissimo grado di civiltà. Che tale ressa pare a chi ha bombarda e bomba più grossa che a furor di merito è tutto a espressione per dotazione migliore che grande consesso d’alleanza militare pare studentato d’adolescente per misura di orpello intragambale a maggiore gittata.

Radio riporta notizia che paese di Samba, per sgambata fine settimanale e palla a rotolo con virtuosismo per rete gonfia, pare ora roba d’assedio per grande timore di democrazia verde Oro fatto da brave persone di ieri ed ora non c’è accordo su loro esistenza. A fatto che s’ode ad altro emisfero squillo di tromba si risponde con tafferuglio di tifosume a blocco d’autostrada per ore ed ore per taglio in due di paese intero e coda di disperazione di bimbo che piange e vecchietto a mancanza di conforto di toilette per prostata in disarmo ed incontinenza a mancanza di rispetto per liturgia domenicale di Sisal. Però palla rotola ancora che The Show Must Go On.

E per fare grande augurio a se medesima Radio dedica a se stessa come mazzolin di fiori bella palazzescata giusta ed ancora fa augurio che anno nuovo sia anno con grande felicità a malgrado di accise ipertrofica.

MAR GRIGIO

Io guardo estasiato quel mare,
immobile mare uguale.
Non onda, non soffio che l’acqua
ne increspi, non aura vi spira.
Di sopra lo cuopre un ciel grigio
bassissimo, intenso, perenne.
Io guardo estasiato tal mare.
Non nave, non vela, non ala,
soltanto egli sembra un’immensa
lamiera d’argento brunastro.
Su desso si mostra coperto ogni astro.
Il sole si mette una benda di lutto,
la luna un vel grigio,
le innumeri stelle lo guardano
tenendo un pochino
socchiuso il lor occhio vivace.
Io guardo estasiato tal mare!
Ma quale fu l’acqua ad empirlo?
Dai monti sgorgò? Dalla terra?
Dal cielo essa cadde?
O cadde piuttosto
dagli occhi del mondo?
Mar grigio siccome una lastra
d’argento brunastro,
immobile e solo, uguale,
ti guardo estasiato!
Ma c’è questo mare ma c’è?
Sicuro che c’è!
Io solo lo vedo, io solo
mi posso indugiare a guardarlo,
tessuta ò la vela io stesso:
la prima a solcarlo.

(Aldo Palazzeschi)

La vela del desiderio

Fu lungo e periglioso il cammino che mi riportò lontano da casa. Periglioso pure per tal evento di cui pure giornalettume parlò, che senza di quell’evento avrei terminato il viaggio a tempo assai più breve a miracolata concessione di sollievo per la mia dolorante schiena. Tal torma di tifosame si mise a far cagnara, ed io mi ritrovai a viscera di blocco, così, per non farmi mancar nulla, per ora ed ora. Che io proporrei che foglio di via lo danno ad altri – e pure a me, per isola deserta – che tanto pare che non ci sia scampo ad ammazzo fitto – pure ragione – per girar di palla.

Siamo i creatori della musica e siamo i sognatori dei sogni. Vagando da esploratori solitari del mare, e sedendo lungo flussi desolati. Perdenti al mondo e scommettitori sul mondo, da cui la pallida luna scintilla.
Ed anche siamo gli agitatori e i motori del mondo per sempre, così pare.
” (Arthur William Edgar O’ Shaghnessy)

Che è quello che ci resta sognare i sogni, il gesto estremo di autoconservazione. È quello che ci resta desiderio d’impossibile, che ci fece folli, sconfitti, ma al contempo capaci d’andare oltre il senso stesso di chi vince, chi perde, superare categorie di putrefazione, ignorare necessità che non ci appartengono solo per farci primi fra moltitudini di ultimi. Desiderare di non partecipare, abbandonare al deserto che s’apre ad ogni veglia gli sgomiti a mors tua vita mea, lasciare che siano soli a concorrere, per la disfida finale, renderli definitivamente inutili, quelli vocati a competizione, ritrovarli a tagliare traguardi fittizi che sono tali solo per chi non ha occhi per altro, e mai s’avvide d’infinito di vertigine che nasce dalla lentezza.

Chi ha mare, invece, può pure permettersi di non partecipare, ha orizzonte libero, come chi ha vette elevatissime da cui sporgere lo sguardo e vede curvature del pianeta, vele che si sbiadiscono allo scirocco, che scivolano di lentezza vertiginosa, ché non hanno fregola d’arrivo. Ha possibilità d’incontro con un’isola che è punto d’approdo per altri infiniti approdi. Chi ha orizzonti si premura di quelli. Chi non ne ebbe e mai ne ricercò ha piatto freddo e scondito, non conosce volontà di sorpresa e sogno di deriva per scoperta, rende l’io universo di solitudine, e nemmeno se ne avvede pur se s’atteggia a compagnia sacra, nel convincimento fallace della ragione a propria immagine e somiglianza. Chi è solo ma riconosce la sfida dello sguardo oltre l’orizzonte non è tale, riconosce l’infinito, ne è parte, partecipa a costruzioni di centro d’universo.
“… E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia,
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio.
È una barca che anela al mare eppure lo teme.

(E. L. Masters, George Gray)

Il suono, la melodia

Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro, dove il mare è mare.” (Stefano D’Arrigo, Horcynus orca)

Ero ragazzo, molto giovane, e sentivo storie da vecchi, quelli che avevano pelli bruciate di sole, rughe che parevano cave d’altopiano, dentro cui c’erano fiumi di sale a venir giù copiosi. Che tutti avevano barbe bianche che a me pareva che erano tali ché quei fiumi si buttavano in un lago d’intrecci. Erano storie di suoni e canti, di creature che non ci sono più, ma che allora pareva aspettassero barchette scalcagnate, spinte da motori a sbuffo e singhiozzo, o a semplice remo, per farsi gioco a paura d’orrido di quei disgraziati.

Che quelli però mai se ne lagnavano di tali fugaci apparizioni tra onda e scoglio, di voci strane, talora lamenti di strazio, tali altre melodie di vertigine. C’è chi disse d’aver visto qualcosa che non doveva stare lì, tra scogli d’aurora e chiaro di luna, che disse d’aver visto fere brontolare d’abisso, figure emergere a canzone soave.

Che ora nessuno ha barchette così, se non a favore di turista, che il mare si svuota a palamitare lunghe chilometri, e nasse di lampare sono cose di folklore e basta, che pure fossero abisso pare vuoto d’ogni creatura per chi ha lenze corte. Nessuno ci camperebbe più, meglio stipendio fisso di peschereccio che pare portaerei che congelo banchi di tonno e sardina direttamente a stiva. Lì c’è frastuono, che se c’è creatura che vuole lasciare ricordo di suono e vocalizio di delizia, sparisce e non torna più, che pare ninfa di fiume a metamorfosi in alga, Cola Pesce preferisce sostegno di terra per fatica sovrumana a brontolio di diesel, puzza di nafta, strage d’ogni fratello suo. Ch’era ancora notte e mi capitò che quei suoni li sentii anch’io, che forse fu più per fatto che a spiaggia arrivai a sangue che si fece vino la sera prima. Pure quei vecchi si facevano fiaschi a cacciar pellagra, tra calo di nassa e rete a parallelismo di promontorio, che quello, poi, era vino di vigna a radice sulla sabbia, a cercar acqua salmastra per sopravvivenza comunque, e che talora pareva distillato di forza e corpo, mentre virava a spuntatura per sciabordio d’onda. E che importa se ascoltarono solo ululato di vento a zufolo di scoglio, o corrente ed onda a caverna e scoglio, s’erano storie immaginifiche e vertiginose da raccontare. Pure, allora, tra quelle quattro barcacce sgretolate dalle onde, qualcuna se ne tornavano a casa un pezzo per volta, senza nocchiero. Me ne ricordo di nomi di quei nocchieri, non tutti certo, ma qualcuno ancora, che il fortunale avevano d’affrontare comunque, perché scadenza di cambiale di banca per acquisto di gozzo di mastro d’ascia, non aveva gran cura di meteo per vento ed onda. Poi era lancio di fiori da scogli, a speranza esausta, per ornare tombe d’abisso. Follia d’altri tempi, che ora è a gioia collettiva di natante che affonda a carico completo di disperazione per orizzonte di vita differente, mancato porto salvo. Pure è a digrignar gengie sfatte di bava rabbiosa se taluno allunga mano a salvezza di disgraziato, ed urla a crucifige, in attesa dell’ora di sgranar rosario, della domenica per battersi petto a favore di santo o Madonna. Si sceglie di fare a rimpinguare quella pletora genuflessa, o lanciare un fiore tra le onde, che quello sa dove deve andare, la corrente l’accompagna giusto.

La vela del desiderio

Siamo i creatori della musica e siamo i sognatori dei sogni. Vagando da esploratori solitari del mare, e sedendo lungo flussi desolati. Perdenti al mondo e scommettitori sul mondo, da cui la pallida luna scintilla.
Ed anche siamo gli agitatori e i motori del mondo per sempre, così pare.
” (Arthur William Edgar O’ Shaghnessy)

Che è quello che ci resta sognare i sogni, il gesto estremo di autoconservazione. È quello che ci resta desiderio d’impossibile, che ci fece folli, sconfitti, ma al contempo capaci d’andare oltre il senso stesso di chi vince, chi perde, superare categorie di putrefazione, ignorare necessità che non ci appartengono solo per farci primi fra moltitudini di ultimi. Desiderare di non partecipare, abbandonare al deserto che s’apre ad ogni veglia gli sgomiti a mors tua vita mea, lasciare che siano soli a concorrere, per la disfida finale, renderli definitivamente inutili, quelli vocati a competizione, ritrovarli a tagliare traguardi fittizi che sono tali solo per chi non ha occhi per altro, e mai s’avvide d’infinito di vertigine che nasce dalla lentezza.

Chi ha mare, invece, può pure permettersi di non partecipare, ha orizzonte libero, come chi ha vette elevatissime da cui sporgere lo sguardo, e vede curvature del pianeta, vele che si sbiadiscono allo scirocco, che scivolano di lentezza vertiginosa, ché non hanno fregola d’arrivo. Ha possibilità d’incontro con un’isola, che è punto d’approdo per altri infiniti approdi. Chi ha orizzonti si premura di quelli, che il resto è piatto freddo e scondito, non conosce volontà di sorpresa e sogno di deriva per scoperta, rende l’io universo di solitudine, e nemmeno se ne avvede pur se s’atteggia a compagnia sacra, nel convincimento fallace della ragione a propria immagine e somiglianza. Chi è solo ma riconosce la sfida dello sguardo oltre l’orizzonte non è tale, riconosce l’infinito, ne è parte, partecipa a centro d’universo.
“… E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia,
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio.
È una barca che anela al mare eppure lo teme.

(E. L. Masters, George Gray)

Nero Pinocchio (Allonsanfàn parte quattordicesima: Raffaello De Vito)

Le atrocità sollevano un’indignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono “more”, “sudice”, dago. Questo fatto illumina le atrocità non meno che le reazioni degli spettatori. (…) L’affermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom. Della cui possibilità si decide nell’istante in cui l’occhio di un animale ferito a morte colpisce l’uomo. L’ostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – “non è che un animale” – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il “non è che un animale”, a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dell’animale. Nella società repressiva il concetto stesso dell’uomo è la parodia dell’uguaglianza di tutto ciò che è fatto ad immagine di Dio. Fa parte del meccanismo della “proiezione morbosa” che i detentori del potere avvertano come uomo solo la propria immagine, anziché riflettere l’umano proprio come il diverso”. (Theodor Adorno)

Raffaello De Vito è fotografo raffinato, dotato di grande tecnica, padronanza degli strumenti. Ma non ne fa uso consueto, non ricerca perfezione d’immagini e basta, studia, concepisce, elabora narrazioni complesse. Il suo “Nero Pinocchio”, in mostra prima a Basilea, poi all’Altelier di Modica Alta (Luglio-Settembre 2022), è il recupero della vicenda del burattino secondo una rilettura analitica e controcorrente – o forse spietatamente corretta – delle pagine di Collodi, attraverso il filtro efficacissimo della sua trasposizione televisiva di Comencini.

Il burattino di De Vito si riappropria di atmosfere gotiche, minimaliste, sopite allo sguardo da trascorsi rassicuranti e consueti, come nelle illustrazioni “educative” del Dorè, o filmiche, manichee, edulcorate delle animazioni disneyane. Denuncia l’inadeguatezza di quelle rappresentazioni, disdegna con sguardo arguto l’idea del burattino che diviene finalmente bimbo in carne ed ossa solo dopo un percorso di crescita di consapevolezze cash & carry. De Vito centra la quinta scenografica della vicenda nell’estremo miserabile del mondo degli ultimi, ma non ne fa riproposizione compassionevole, pietistica. Ne disvela piuttosto l’essenza materiale, non indugia in infingimenti, nemmeno produce moralismi.

Il suo Pinocchio, come quello di Comencini, attraversa l’orrore della violenza (le torture di Abu Ghraib, la grottesca umiliazione dei prigionieri chiusi in sai pinocchieschi, appunto), è vittima di giustizie ingiuste (il carabiniere non ha sguardo umano, è solo divisa, financo nello sguardo), attraversa l’effimero eldorado del paese dei balocchi, la sconfinata illusione d’una vita altra, viene ingannato, vilipeso. Pinocchio, dunque, nella narrazione di De Vito, è burattino per sempre, vittima assoluta, paga pegno per la sua deviazione dal consueto. È personaggio contemporaneo, si riaffaccia all’oggi nelle parallele forme del migrante, con le sue identità annullate, marginalizzato, respinto, vilipeso, torturato, sfruttato, ridotto a clandestinità permanente. Il Gatto e la Volpe dialogano negli abiti più consoni al loro ruolo di predatori, non solo di qualche moneta, d’umanità. Sono gli incappucciati del Ku Klux Klan, paiono divertirsi nel pianificare la caccia all’ultimo, la sua definitiva marginalizzazione. I volti celati nascondono nature social, di piazza virtuale che urla a nuove, abbondanti impiccagioni, crocifissioni. Mangiafuoco è convitato di pietra d’ogni immagine, non è soggetto riconoscibile, non è immagine precisa in quanto sistemico, artefice del circo della filiera lunga, massimizzatore di profitti, si nutre dei nuovi schiavi. È il 100% italiano che esclude da tracce percentuali nazionalità di braccia invisibili, corpi depredati. Pinocchio è bracciante senza nome, sconta identità sottratta, corpo dimenticato, spiaccicato sui prodotti dell’”eccellenza” a cottimo, un tanto al chilo, archetipo illustrativo d’operare di caporalati collettivi. C’è più di qualche congruenza in “Nero Pinocchio” con l’essenza stessa dell’originale collodiano, se ne coglie il ribaltamento paradigmatico della visione consueta, in un certo senso la narrazione è compiuta, con la sua vertigine dialettica. Come per un fiume carsico De Vito fa riemergere la critica profonda a realtà che parevano dimenticate, da quel tempo di secolo nobile, e che, invece, sopravvivono, invisibili, sotto traccia, spaventose come allora.

Raffaello De Vito nasce a Mirandola nel 1967. Vive e lavora come fotografo pubblicitario a Reggio Emilia. Si avvicina alla fotografia all’età di 12 anni e a 14 inizia il suo percorso formativo in uno studio di fotografia pubblicitaria, esperienza che lo porterà a confrontarsi con diversi professionisti del settore e con importanti aziende presenti sul mercato internazionale. Alla fine degli anni Ottanta inizia una collaborazione come assistente alla produzione con Luigi Ghirri, collaborazione che si interrompe nel 1991 con la prematura scomparsa del grande fotografo e che ha dato inizio a una ricerca visiva che esplora ancora oggi.
Un costante lavoro di semplificazione, di sottrazione e di sintesi verso un linguaggio universale immediatamente comprensibile. Ha al suo attivo diverse esposizioni in Svizzera, Francia, Spagna, Inghilterra e Italia oltre a numerose pubblicazioni nei siti web di tutto il mondo.

http://www.raffaellodevito.com/

Radio Pirata 33 (ode al telecomando)

Radio Pirata approda a Trentatré che son come anni di tale in croce in illo tempore. Che pure casca a pennello che pare che di morto ammazzato, a giorno di oggi, non c’è a scordarsi. Che c’è coro unanime a scrivo io epitaffio più bello, che bomba fu tragedia autentica di stato, che tutto mondo di migliori si stringe a contrizione a ricordo commosso di eroi di patria che soccombero a mano armata di telecomando di mammasantissima. Lì s’ebbe prova di scienza di certa pericolosità di telecomando che, ad anni uno da grande scoppio, signore di telecomando a resuscito per sostegno di migliori, venne a farsi primo fra primi. Inizio a primo posto anch’io a nota elevatissima, d’asciutto però, che d’unto ho solo bruschetta di pomodoro.

Nemmeno a memoria c’è che mi scordo di tali morti ammazzati a bomba, che pareva di guerra a Sudamerica, che colpevole non è chiaro, che tutti sono innocenti, pure se voltano faccia altrove per trent’anni. Poi, d’improvviso, tutti si ricorda che esiste grande mammasantissima. Che però scompare a fra un quarto d’ora dopo mezzanotte, se tutto va bene. Poi c’è pensiero sempre fulgido e luminoso di migliori fra migliori che dice, di cosa stavamo parlando? E di discorso si fa a cambio che c’è altra bomba che mi cattura ad attenzione, che quella è bomba giusta e ne compro a quintalate. Faccio scoppio di musica.

E in caso bomba smette, c’è bomba nuova pronta, che nostro fedele padrone, che dice a modestia sua ch’è alleato, ribadisce che c’è odore di santità per giustezza a compro bomba, per popolo c’è sempre compro oro, oppure strozzo va anche in voga, che da domani mammasantissima circola tranquillo che finì giorno di comanda.

E se taluno, a malvagità di definizione, smette di lancio bomba che blocca sacra legge di mercato, indice s’innalza che si continui pure da altra parte e si dice a superpotentissimo di prezzo basso, guai a te se ti muovi, che noi siamo qui, che mercato di bombarda e missilissimo è pronto all’uopo d’intervento. Musica sia per carica di cavalleria.

Che grande distesa di muscolo, se è caso, la faccio su spiaggia pulita d’isola bella, che chiamo pure studente a partecipo, che s’istruisce ad amor patrio di bombarda d’accordo internazionale. Poi chiamo a sotto armi e come conduttore di Radio Pirata, a tempo debito, faccio siringone di plurivaccino che ora c’è pure orrendo nuovo morbo. Che fu fortuna che è ad arrivo nuova e feroce pandemia , che si ritrova posto di lavoro a salotto con telecomando – per corso e ricorso di storia, sempre a tasto giusto premo – a provetto epidemiologo che era a rischio di reddito di cittadinanza per mancanza di tallero a comparsata. Compare musica qui.

Ma questa è pandemia di scimmia, pare manna a cielo, ch’ebbe a dimostro di ragione il grande governo di migliori a dire che profugo è solo tale, tal altro è a contatto di scimmia, tutto mondo infetta, tutto mondo che però riconosce grande intuizione di grandi fra grandi. Che quello, finto profugo, è a malvagio d’animo, manco si mette svastichetta per camuffo ad eroe di patria invasa, ma fa mercimonio e promiscuità con creatura d’altra specie e ne cattura infimo male. Che fu fortuna che noi s’ebbe, come colpo in canna, armamentario di vaccino a sfare, che ora è corsa a polivalente che immunizza pure da uso distorto di telecomando che non è a lancio da scogliera elevata, ma d’obbligo di rapido passo di qua e di là, dove s’accoglie il tutto uguale. E di musica chiudo. Ma pure mi verrebbe di chiudere, punto.

Radio Pirata 29 (in fondo al gruppone)

Radio Pirata, oltre ragionevolezze, giunse a Ventinove, ch’è numero primo, ma radio preferisce ultima posizione e si contraddice, che quella – contraddizione, intendo – è in seno al popolo. Che, a tempi di guerra, sovrano dice e non dice, che il bel d’essere sovrano – pur talora basta migliore tra migliori – è dar promessa a mantenimento non tale e quale, che n’ebbe facoltà per accredito divino, mica per green pass qualsivoglia. Pure Re – o migliore tra migliori – può che promette, ad applauso e standing ovation, sangue, sudore e lacrime per fondo di fila, che primi chiedono a voce convinta. Che vado di non musica, all’uopo, che a brano di nota vado dopo.

Che fu a lavoro di collaboro con amico Sergio Poddighe

Che ad elmetto per armiamoci e partite s’attrezza elité di grande sovranità, per far fronte a crisi. Ancora insegue bomba che quella è di sacra liturgia di risoluzione di problema. Mi metto elmetto anch’io e parto per vacanza da parte opposta a guerra che ho vena a disobbedienza, prendo corriera e varco confine di disfattismo militante.

Disegno di Sergio Poddighe

Che parvero di disfattismo militante pure tali rider che beccarono manganello che a Primo Maggio si permisero a manifestazione, che dissero, a privazione di pudore, non trotto più per sgobbo a obolo di miseria. Parevano ingrati quali chi non ebbe a cuore destino d’imparo mestiere per sapere se lavo piatto – a giusto e a gratis – si fa a senso orario o antiorario di passo di spugna, ad olio di gomito vieppiù, che risparmi a detersivo, che forse è fatto con petrolio di zar e pare condizionatore acceso. Che povero ricco che sostiene a stampella PIL è costretto a ricatto di pago financo chi lavora, e che ad imparo non offrì sudore a cottimo. M’attrezzo a musica stavolta.

Che fu fortuna che governo d’illuminati veglia su nostri destini rosei con trovate d’altissimo ingegno quali ministro d(‘)istruzione che disse crisi è a dramma, che non c’è figlio per colpo d’amplesso a segno, e scuola trovasi a corto di cliente. Ma egli predisse destino fulgido come non mai, con trovata a colpo di genio che d’originalità spicca a firmamento, che pare, pure quella, stella di copertone: A tutti un Primo Maggio senza lavoro. classi ma con qualità elevatissima. Che a taluno pare cosa già detta, ma mettete che ora, a risparmio, finalmente si trova soldo per bomba in più che fa comodo. Ne mai ora, che manca natale, si può, a pensiero deviato, impedire che paese diventa reparto di geriatria con accolgo il morto annegato a luce di sole, che quello poi accampa diritto, e dove andiamo se tutti accampano diritto che ancora povero ricco è ad obbligo di pago per braccia forte di lavoro a litri di sudore? Meglio un tanto arriva a luogo di morto annegato, che d’arrivo è nascostamente e non si vede, così poi è a non pretende. Musica d’opportuno si faccia.

E ora vado a termine ultimo di puntata che a consueto do’ parola a giovane collaboratore che pago con onore di far parte di squadra prestigiosa di Radio Pirata, che così impara taluna cosa importante.

“Quando i governi opprimono e sfruttano fanno il loro mestiere e chiunque gli affida senza controllo la libertà non ha il diritto di meravigliarsi che la libertà sia immediatamente disonorata. Se la libertà è oggi umiliata o incatenata, non è perché i suoi nemici hanno usato il tradimento, ma perché i suoi amici hanno dato le dimissioni.” (Albert Camus)