Bussole perse

“Per arrivare all’infinito, e credo vi si possa arrivare, abbiamo bisogno di un porto, di uno soltanto, sicuro, e da lì partire verso l’Indefinito.” (Fernando Pessoa)

Così è il viaggio di scoperta, pure che tu lo faccia standotene fermo. Quello si consuma solo se non hai meta, il progetto è trasformazione, l’itinerario si sorprende di non essere tale, si spiazza da sé, si pasce d’indeterminazione. Ma il porto, quello è necessario, qual punto di partenza, certezza irrinunciabile, quello d’arrivo vattelapesca dov’è, che fu fortuna che non si conobbe. Il porto sicuro non è mai meta finale, si fa tappa intermedia per forza, il luogo del tirar fiato, ritemprarsi alla banchina che si camuffa da trampolino per l’infinito, per un nuovo salto incognito.

Porti salvi e sicuri solo si perdono nei vicoli diradati dell’attesa d’una nuova partenza, nel tempo che non esiste, che mai fu perso per la certezza dell’altro viaggio. Quello che arriverà sarà di vertigine pura se il porto che hai dietro comprendi ch’è solo ennesimo approdo, e te ne propone altro pari a sé stesso in un altrove che non sa di esistere se non al confine dell’immaginazione, in una mappa sbiadita e cangiante dove la rotta si è persa nel rivolo delle mille e mille derive, tra altrettanti sbarchi fortunati. Un porto c’è sempre, ché dove finisce il mare il mare ricomincia. C’è chi arriva, chi va via, tutti hanno una storia che raccontano, che ti dice che c’è anche altro. Quella, l’immaginazione, si veste d’abito scarlatto, come certe vele al tramonto, si fa porpora di murice, blu cobalto d’abisso, ed ogni altro colore si troverà financo in tutte le sfumature raffinatissime di grigi, dentro le linee d’ombra.
“A quel punto mi ero accorto che cercare era il mio destino, l’emblema di coloro che escono la notte senza alcuna precisa intenzione, lo scopo degli assassini di bussole.” (Julio Cortázar)

Per chi lo sa

“C’è un tempo in cui devi lasciare i vestiti, quelli che hanno già la forma abituale del tuo corpo, e dimenticare il solito cammino, che sempre ci porta negli stessi luoghi. È l’ora del passaggio: e se noi non osiamo farlo, resteremo sempre lontani da noi stessi.” (Fernando Pessoa)

Quel tempo arriva nelle forme che vuole, quando desidera di farlo, mai si presenta a richiesta, finge di non essere stato invitato, pure se ad evocarlo è stata ogni stilla di sangue e sudore che puoi buttar fuori. Ci hai pensato a quel tempo, in un lasso di tempo infinito, indeterminato, non te ne serve altro. È roba che si consuma a gambe ferme, non quando ti muovi, nemmeno quando ti si muovono le consapevolezze doverose del quotidiano, quando l’abito da lavoro che t’è toccato pare così logoro che non c’è più spazio per immaginare il colore della carne che prova a nascondere. Che è dato a stupirsi pure per la scoperta d’essere colorato in qualche modo, non d’amorfo grigio, che era cosa che desumevi da stanchezze definitive. Si realizza di forme concrete un tempo ancora d’orizzonte, ch’è perso nel chiaro d’una luna, forse nelle cappe del sole di scirocco, nel rosso della sabbia del deserto che s’avvicina a trasporto di libeccio. C’è ancora quel profumo strano, acre, di vita vissuta come viene, pure dovrebbe non esserci, che non c’è distesa di posidonia nelle aule vuote, nemmeno nelle stanze a vista di terminale. Lo specchio pare gioca ogni giorno ad implacabile riflesso d’autore, non fornisce manipolazioni sghembe d’immagine, che non si riconosce mai d’acchito, non fa come riverbero azzurro di mare, che di distorsione fece solo virtù sua.

In quotidiano di lavorio indefesso c’è urlo ovunque, sgraziato e d’artificiosa perfetta fattura, che a natura è altro che frastuono, quando è tuono a spavento pare invece rimbrotto benevolo, strappa sorriso, fa regalo di libertà che non è d’acquisto a svendita. Risorsa da lavoro, si dice, pare compenso per acquisto di libertà, ma quella non è cosa d’un tanto a chilo, non merita che la fatica d’essere vissuta a pieno, che vuol dire avere occhi per compiacersene, non polmoni per respirare la merce che ne è surrogato. Ed è vero, poi, ed alla fine, che il lavoro rende liberi, liberi dal desiderio d’esser liberi, quando te ne sei assuefatto e quel tempo, quando arriva, ci sta che si palesa e non te ne accorgi, che hai dimenticato in fondo ad un cassetto di inutili memorie l’orologio che suona al suo passaggio.

Come pesci nella rete

Non sono niente. Non sarò mai niente. Non posso volere d’essere niente. A parte questo, ho in me tutti i sogni del mondo.” (Fernando Pessoa) Nessuno per forza, che è dimensione pure che appaga per scelta e non per celia, nemmeno per altro.

Eppure vissi il tempo di caccia a gettone, per telefonata improrogabile, o ci hai cento lire per ipotesi avveniristiche di contatto a tempo breve, comunicazione fugace. E furibondi amori di gioventù ebbero necessità di appostamenti lunghi, quali se n’ebbero solo da pescatori di passo per lampughe e agugliate settembrine. Pure mischie di piazza, a suon di carica e livido conseguente, si fecero a chiamata collettiva per rotazione di manovella di antico Gestetner per sigillo di proclama a marchio di piombo tetraetile. Lettere ve ne furono, vergate a nero di Pelikan su carte di presumibile pregio, e si fece attesa fremente di risposta ad affrancatura per seguito ad imbuco di postino a divisa e pedale. Ve ne furono riparazioni di nusicassette, rullino a sviluppo in puzzo d’acido a scantinato, rotear di vinili. Lettera 22, ad apposita fedele valigetta, fu compagna di viaggi lunghi, financo a mezzo di pollice in su. Che i tempi cambiano, non se ne stanno fermi, neppure paiono carichi di sofferenze per nostalgie d’occhi volti indietro, a sguardo a quelli che furono.

Lo fecero rapidi da vertigine, sinché se n’ebbe il tempo di rendersene conto non parvero a lasciar spazio a constatazioni d’adattamento. Piano piano, un pezzo di vissuto ebbe a finir a forma di rettangolo piatto luminescente che sta esatto a tasca, che per tutti i ricordi non basterebbero invece bauli a stipar stive di grossi carghi. Dapprima fu la busta paga, che divenne cedolino elettronico, financo salario accessorio si fece a memoria virtuale. Che io non ebbi mai a ridire di leggiadre signore a sportello, di cui apprezzai senz’altro l’eleganza del ciabattare, del tergiversare, del rendere – pur ad assenza di fila che paese è a spopolamento avanzato – il fluire del tempo per pagamento di tassa e bolletta eterno. Mansione di semplicità estrema dilatava tempo sino ad era geologica, sinché ebbe a sopraggiungere la seconda – si dice così – app, che fu a sostituzione di lentezza a cassa. E la terza si palesò ad icona a far da registro per voto ad alunno, sua assenza e a dir ad intero parentame che fece di suo comportamento atteggiamento da sprovveduto. Poi ne venne un’altra, dunque un’altra ancora, per questo, anche per quello. Financo bloghettino, che pareva di chiacchiera con sassi, si mise lì, ad ordine simmetrico, tra news e meteo, calendario e strumento di conversazione a luogo d’imbuco a francobollo giusto.
Insomma, sin qui pareva tutto normale, che d’agio riempii pezzo consistente di mia esistenza, sinché, un paio di giorni fa, come s’era sempre appalesata, la connessione alla rete sparì, che compresi significato recondito d’antica espressione a presagio profetico qual parve “a finir nella rete”. A distacco da mie escrescenze mi sentii pesce che s’agita a punto di morte, mi dibattevo, spippolavo impostazioni, ma non ne venni fuori. Mi feci pure riunione, per barlume di campo che me lo consentì, da fredda panchina di parco, e non da comodità casalinga a caffettiera pronta. Ma la tecnologia, lo so, è fatta di cose esatte, mica si lascia andare a fantasie d’incompetenza. Che subito m’apprestai al più prossimo negozio di telefonia, anzi, unico. Che lì mi dissero che l’operatore mio era a diversità di quello loro, ma ebbero notizia che il mio s’era ricoperto di guasti e la situazione sarebbe peggiorata. Mi consigliarono, adunque, di cambiar per offerta migliore e sempre campo libero. Quindi telefonai al mio operatore, per vedere di rintracciare il problema. “digita uno se vuoi accedere direttamente all’offerta, due se intendi prima provarne i benefici sui costi di gestione per trenta giorni, tre per conoscere altri piani tariffari, quattro per informazioni sul tuo attuale profilo tariffario, cinque se vuoi modificarne una parte soltanto, sei…, sette…, otto…, nove…, zero…, asterisco…, cancelletto…”. Alla fine, uno zelante operatore che rispondeva da paese lontano, dopo rapida ricerca, mi escluse difetto di segnale e mi disse che avevo la sim vetusta, quindi dovevo cambiarla. Prima mi consiglia però una serie di procedure a tentativo di riporto in vita la mia moribonda escrescenza ectoplasmica. Non funzionano. Però richiamo, dopo digita questo e digita quello, una cortese signorina mi dice che è il telefono da cambiare, che il mio è vecchio assai, spiego che l’ho comprato solo un anno e mezzo fa, ma mi spiega che non vuol dire niente. La notte provo a prendere sonno tra un attacco di panico e l’altro. Quando ci riesco, il suono sordo e ottuso della chat dei colleghi mi comunica che è tornata la rete. Quasi sobbalzo di gioia, ma mi fermo a mezz’aria, ché quell’euforia di riconquista di spazi virtuali – ne fui ad immediato persuaso – fu a maggior paura del distacco col mondo parallelo d’un segnale invisibile.

Il viaggio di Alice

È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo; se li creo esistono; se esistono li vedo… La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.” (Fernando Pessoa)

È iniziato il viaggio di Alice, proseguirà ancora a lungo, per qualche mese, sino all’autunno.

Avevo parlato dei ragazzi di Immagina che l’hanno realizzato qui, ma anche di come si sviluppa, della loro particolarissima rivisitazione, degli artisti che hanno voluto viaggiare con loro, invece qui.

È viaggio antico e moderno insieme, viaggio di riscoperta, collettivo. Ve ne faccio semplice reportage, ad ovvio accompagnamento di musica (è sopra, fatela partire mentre vi fate ‘sto viaggetto surrogato, e se ve lo perdete dal vivo peggio per voi).

Solo un’isola

Nacqui su un’isola talmente piccola che per girarmela tutta mi bastava poco. Ma mai mi venne d’annoiarmi a far perimetri e perimetri. Pure, se m’allontanavo per altra terra, cascavo comunque su un’isola, grande per come ti pare, ma sempre isola era. Un’isola, più è piccola più sa d’infinito, più si fa centro di mondo intero, che tutto ciò che ti circonda è infinito, dunque, qualunque cosa è dentro quello sconfino, non può che esservi centro, è a sguardo d’infinito a destra e manca, a destra e manca di dove ti giri. Che dunque sarei a destino centro d’universo d’abisso? Che tale evidenza di vertigine mi fece nessuno che non ho altro da riportare che uno sguardo a ciò che non conosco.

Che quello sguardo mi rimase inesausto, non me ne venne a conoscenza mai di cosa è oltre l’orizzonte, tanto v’andai incontro, tanto quello si spostò. Mi feci ragione di ignoranza, pure mi feci ragione che quella era passione autentica di conoscenza. Mi faccio isola e m’esploro quello che mi viene, né mai mi parve d’aver finito, manco m’attrezzai a star fermo di pensiero pure quando mi depositai come delfino spiaggiato ancora su un’altra isola. Ma sono isola io, forse, che chi nasce isola non se n’avvede che è tale anch’egli, si porta uno scoglio dentro, a mare d’infinito ed infinito d’orizzonte, sia che lanci sguardo a destra, sia che lo fermi a manca.

Quale voce giunge sul suono delle onde
che non è la voce del mare?
E’ la voce di qualcuno che ci parla,
ma che, se ascoltiamo, tace,
perché si è ascoltato.

E solo se, mezzo addormentati,
senza sapere di udire, udiamo,
essa ci dice la speranza
cui, come un bambino
dormiente, dormendo sorridiamo.

Sono isole fortunate,
sono terre che non hanno sito,
ove il Re dimora aspettando.
Ma, se ci andiamo svegliando,
tace la voce, e c’è solo il mare.
” (Fernando Pessoa, “Le isole fortunate”)

Per chi lo sa

“C’è un tempo in cui devi lasciare i vestiti, quelli che hanno già la forma abituale del tuo corpo, e dimenticare il solito cammino, che sempre ci porta negli stessi luoghi. È l’ora del passaggio: e se noi non osiamo farlo, resteremo sempre lontani da noi stessi.” (Fernando Pessoa)

Quel tempo arriva nelle forme che vuole, quando desidera di farlo, mai si presenta a richiesta, finge di non essere stato invitato, pure se ad evocarlo è stata ogni stilla di sangue e sudore che puoi buttar fuori. Ci hai pensato a quel tempo, in un lasso di tempo infinito, indeterminato, non te ne serve altro. È roba che si consuma a gambe ferme, non quando ti muovi, nemmeno quando ti si muovono le consapevolezze doverose del quotidiano, quando l’abito da lavoro che t’è toccato pare così logoro che non c’è più spazio per immaginare il colore della carne che prova a nascondere. Che è dato a stupirsi pure per la scoperta d’essere colorato in qualche modo, non d’amorfo grigio, che era cosa che desumevi da stanchezze definitive. Si realizza di forme concrete un tempo ancora d’orizzonte, ch’è perso nel chiaro d’una luna, forse nelle cappe del sole di scirocco, nel rosso della sabbia del deserto che s’avvicina a trasporto di libeccio. C’è ancora quel profumo strano, acre, di vita vissuta come viene, pure dovrebbe non esserci, che non c’è distesa di posidonia nelle aule vuote, nemmeno nelle stanze a vista di terminale. Lo specchio pare gioca ogni giorno ad implacabile riflesso d’autore, non fornisce manipolazioni sghembe d’immagine, che non si riconosce mai d’acchito, non fa come riverbero azzurro di mare, che di distorsione fece solo virtù sua.

In quotidiano di lavorio indefesso c’è urlo ovunque, sgraziato e d’artificiosa perfetta fattura, che a natura è altro che frastuono, quando è tuono a spavento pare invece rimbrotto benevolo, strappa sorriso, fa regalo di libertà che non è d’acquisto a svendita. Risorsa da lavoro, si dice, pare compenso per acquisto di libertà, ma quella non è cosa d’un tanto a chilo, non merita che la fatica d’essere vissuta a pieno, che vuol dire avere occhi per compiacersene, non polmoni per respirare la merce che ne è surrogato. Ed è vero, poi, ed alla fine, che il lavoro rende liberi, liberi dal desiderio d’esser liberi, quando te ne sei assuefatto e quel tempo, quando arriva, ci sta che si palesa e non te ne accorgi, che hai dimenticato in fondo ad un cassetto di inutili memorie l’orologio che suona al suo passaggio.