Fluidità di salvagente.

Siamo fluidi, acqua che scorre. Ora è qui, fra un qualche po’ se ne va da altra parte che non la vedo più, quella di prima intendo. Io l’acqua l’avrei lasciata stare, ma non mi veniva altro di meglio per esprimere pensieri comunque confusi, pure, a crisi climatica, è a sottolineatura che questa cosa dell’acqua è metafora e basta. Che è così che siamo, scorriamo per gravità, ma tale cosa, la gravità, non pare va nella direzione sua giusta, nemmeno dove la porta il cuore, l’occhio o la ragione, che pare che c’è direttorio che dice “va di qua, anzi no, va di là!” Io, al massimo, vado di musica.

Insomma, siamo sempre a far discussione di salvataggio, però facciamo spesso di cosa altra, ché il morto d’annego un attimo può attendere, mica si può parlare sempre di quello. E poi, a caso ultimo, che c’entriamo se è morto d’annego che non ebbe rispetto per linea ritta che tracciammo a lapis su carta precisa di globo terracqueo, che quella parla chiaro e dice che fece morto da parte sbagliata, dunque non è a competenza che si butta salvagente?

Ma siamo fluidi, liquidi come chiare, fresche, dolci acque, e c’è ora cosa più impellente che occorre a salvataggio di subito e adesso, che quello fece a metto d’accordo tutti, i belli e i brutti, ché lì non si vide confine esatto, è cosa che dogana non è data a elevazione, nemmanco ci fu petizione a costruzione di muro elevatissimo. E si, perché banca di silicone, che è valle che rese globo terracqueo assai fluido, dunque più globacqueo, pure se a secco di cosa esatta d’accadueo, tracima da serbatoio suo e se ne va a giro di mondo che rischia che fa effetto domino. Ma qui nessuno dice vai a rovinare a casa tua che non si parte da là. Ma come, ancora, ma non s’era detto basta? Che se c’è cristoncroce a disperazione che annega si dice io che c’entro, se affoga banca c’è crisi globale e tutti a straccio di vesti. Sarà che sono scemo e non capisco. Si, lo so, c’è il mercato, l’impresa e quella dà lavoro… ma non sarà che c’è tasso d’avidità un tantino che spinge a certe operazioni che paiono da scafisti a carico di disgraziato? Che mi racconta collega che lui va in pensione ma che la liquidazione subito lo stato non gliela dà, pure se sono soldi suoi. Ma stato caritatevole dice che ha fatto accordo con banca precisissima di stupefacente solidità, che i soldi te li dà lei pure se sono soldi tuoi e tu gli paghi interesse cospicuo. Ma quelli sono soldi suoi e se se li deve pagare mi pare cosa da strozzo. Ma io di queste cose elevatissime ci capisco poco. Pure poco ci capisco che uno si fa mutuo e gli dicono questa è rata, un po’ cambia, ma si spera che è a cosa di meno e invece si fa rata da sequestro di persona. Dunque, operazioni tali e altre, pare si configurano come salvagente. E quella, banca, intendo come sistema, annega uguale. Quando verrà tempo mio dirò aspetto tempi negletti di stato democratico per liquidazione, e a banca faccio tiè, che il salvagente non glielo compro. Però poi, a vedere bene siamo a gettare salvagente sempre a codesta strana gente che non ebbe nome, o da qui o da lì. Pure ce lo gettiamo noi detto salvagente, che ce lo frugano a tasca vuota. Che è gente che trascina ad annego tanti altri a disgrazia definitiva per mondo intero. Insomma, se a scafista dico che lo becco, a questo che gli devo fare? Si, lo so, questa è gente che davanti alla giustizia soffre assai di più che povero derelitto. È che siamo fluidi, passiamo da cosa di passione ad altra che ci interessa di più, ma io, d’ultimo, è meglio che mi concentro a fluido di vino rosso, pure qua ho messo un paio di canzoncine che mi tengo ad impegno altro di mente per mezzoretta buona e mi sbuccio le fave secche.

Radio Pirata 52 (Contromanifestazione canora)

Radio Pirata si fa Cinquantadue tondi tondi, pure a contromanifestazione che diventa tale di grandezza e forma che altra pare ella contromanifestazione. Qui e ora facciamo a meno di comici, che tutti scelsero altra platea, pure quelli a distacco ad altra mansione che se non fosse che fanno piangere farebbero ridere a bomba. Qui a Radio si fa cosa seria che si scelgono migliori promesse musicali e si esaltano grandi virtù di giovani musicisti che si faranno ossa proprio a questa prestigiosissima kermesse che ancora una volta risulta prima negli ascolti a casa mia. Per non far delusione a nessuno cominciamo subito con ascolto sensato e breve dichiarazione di detto autore.

La morte non è la più grande perdita nella vita. La perdita più grande è quello che muore dentro di noi, mentre viviamo, quando rifiutiamo di affrontare i nostri demoni. Quando costruiamo muri invece che ponti, ci alieniamo, diventiamo estranei” (Chet …)

Che ponte pare quello che toglie isola dall’essere isola, ma mai ci fu pensiero di più grande distanza da ponte che unisce, ponte è a concezione di cosa che distrugge e basta, pure se non crolla non affratella, si fece a maggiore segregazione che ciò non fu possibile nemmeno ad immaginazione contorta e deviata.

E dopo assaggio di nuovissima ed intensa cosa di giovane talento a batter tasti in bianco e nero, discernendo il suono dell’uno da quello dell’altro per farne fusione perfetta, mi piglia schiribizzo di darvi notiziona in anteprima assoluta: a me non mi viene da ridere, pure se c’è cose che farebbero scompisciar dal ridere fossero film dei Monty Python, ma ebbi idea che talune sono vere.

Fu fortuna che, con atto di scaltrezza, m’assicurai nuova ed intonsa bottiglia d’Oro Pilla ad accompagno di note di Radio Pirata Controfestival che comincia, a parer mio, ad essere cosa di spessore importante. Forse non rido, ma almeno non piango e vado di cose preferite.

“La creatività consiste nel rendere meravigliosamente semplice ciò che è complicato.” (Charlie…) Qui in Radio Pirata facciamo solo cose semplici, ché quelle complicate non sappiamo bene come sono fatte, sono cose che appartengono a gente illuminatissima, gente meritevole e migliorissima, gente che sa come sparacchiare bombe e che fa festival di grandissima audience. È roba per persone che muovono PIL, che affogano nel rendiconto bancario, che sanno bene chi fare affogare a lontananza prescrittiva da porto salvo.

“Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra.” (John…) Che, anche se sono giovani e non si conoscono così bene, a noi ci piace che certi musicisti dicono queste cose, che ci facciamo per benino a curatori loro, certo confusi, ma quando mai a Radio Pirata abbiamo aspirato ad ordine e cose così?

Sguardo fisso

Pace non cerco, guerra non sopporto

Tranquillo e solo vo pel mondo in sogno

Pieno di canti soffocati. Agogno

La nebbia ed il silenzio in un gran porto.”

(Dino Campana)

M’ero dato, ch’ero poco più che un bambino, un rigore di vita preciso, a scoglio tra i più solitari sin dall’alba, al più, per scavalco abusivo, ed ancora a scarse frequentazioni, mi concedevo resa d’omaggio alla tomba del poeta tedesco e negletto di cui mai lessi un solo verso. Non ci fu giorno che non facessi del mio tempo occasione di sguardo sotteso sull’onda, a sgamo di barca che fa capolino ad oltre orizzonte, nemmeno pensai un attimo a far di me cosa che tanti dissero, che parevo strano a buttar pezzo di mia gioventù ad apparenza di gianfanniente. Mai considerai perso quel tempo di scarsa presenza umana. Che quel poco era gioco di cime, pure io mi trovai a reggerne taluna, per dar mano d’aiuto a barcarella che s’apprestava a moletto con onda che si faceva ostacolo a preciso riparo. Altre e tante volte tirai – a far cosa d’istinto – a secco di rena o scoglio puntuto nuotatore non provetto. Altri vidi fecero uguale, che a star fronte mare s’apprende cosa semplicissima, che è a tendere braccia a chi nuota a fatto di difficoltà. Pure l’onda pare t’aiuta a presa di quella decisione. Che non mi feci mai abbastanza edotto di come si può dire non tendere braccia a braccia che affonda. Forse che la cosa più semplice è proprio così tale da risultare di difficoltà manifesta a chi rinunciò ad avere pensiero suo che non fosse d’automa a radiocomando.

Che uomini sono quelli che preferiscono la monotonia del mare? Mi sembra che siano di quelli che hanno scrutato troppo a lungo, troppo profondamente nel groviglio delle cose interiori, per non cercare in quelle esteriori una cosa sola, la semplicità…” (Thomas Mann)

La banda del buco

Sarà che nacqui e crebbi in rione fronte porto e tali luoghi, dove transita ricchezza d’ogni fatta, furono per secoli a popolazione di disfatta esistenziale, di genti che, a privazione compiuta, mai misero a tavola con regolarità pranzo e cena. Che quelli son luoghi di patimento per sfinimento a sottrazione di risorsa che ad altri tocca, di mignotte a sfruttamento, piccola banditaglia, scassapagghiari, avrebbe detto Sciascia.

Sarà che quella suburbia che poi si fece, dopo il caccio via della plebaglia, nobile supermarket di turismificio a riciclaggio, io la conobbi e ne feci parte, che a scapito di destino cinico e baro ebbi solo fortuna che non me ne feci inghiottire per resto dei miei giorni. Ma certe storie me le sento a sfrigolio sulla pelle.

Insomma, ve la racconto per come viene che fu tutto tra Natale e Capodanno, allorché le tavole s’imbandiscono d’ogni ben di dio e l’albero fa d’ombrello a saccheggio di centro di commercio a tutt’altro che esproprio proletario, piuttosto a cambio con cambiale mi parrebbe di dire. Succede che, come ogni mattina, quella precisa, me ne vado a prendere il caffettino da vacanza al baretto di Piero, e passo dapprima alla botteguccia di tal Giuseppe, che di norma mi saluta con gesto plateale e cordiale. Che invece quel giorno, a digrigno rumoroso e stridente di gengie, mi svela che fanno bene a certi paesi a tagliar mani e teste. Poiché non m’era ancor giunto all’uopo il caffè, non mi fermo ad approfondimento del cambio d’umore solito. Piero me lo serve che s’è incaponito su sta cosa della fucilata al cinghiale, sbraitando frasi che non ripeto che, malgrado natali tutt’altro che nobili, mi feci ad adeguatezza di linguaggio assai dabbene. Mi toccò di far da paciere con sacre istituzioni del merito e meritevolissime che tanto qui cinghiali non ce n’è, nemmeno lupi ed orsi. Poi me ne torno e mi fermo per capir meglio a botteguccia, che già che ci sono compro confezione per specifica ricetta di cappero di timpa. Al mite bottegaio di minuto esercizio a sfango appena di spese, la sera prima la banda del buco aveva dato assalto, infrangendo il tentativo d’accesso a ricerca di ricchezza insperata contro un lucchetto made in China.

Ma poiché dirimpetto al negoziuccio ci stanno panineria d’un certo affollo e ristorantino di buona frequenza, per non far notare l’assalto la banda aveva cominciato ad assemblare a mò di nontivedo, dinnanzi alla saracinesca a protezione del bottino, i pneumatici dismessi del gommista di fianco. Vai che non si notano, che ci fu intervento di massa per messa in fuga. Poi, tornati sui loro passi, fallito l’assalto al primo obiettivo strategico, si rivolsero all’appena più defilato bugigattolo ad ospitalità di smercio di pane e biscotti. Lì ebbero, gli abili professionisti, sorte differente, che penetrarono all’interno del prezioso caveau per saccheggio di sei o sette euro ancora in cassa. Non s’avvidero d’un cellulare lasciato per disgrazia sul banco, e poggiato il loro ad aver mano libera per colpo del secolo, andando a ripresa dello strumento di comunicazione, lo scambiarono d’accidente con quello in loco. Il loro venne, a breve lasso di tempo, in possesso della Benemerita per facile intercettazione dei soliti ignoti. Fine della favola. Ma che gli vuoi dare a questi, condanne esemplari? Che manco a film di commedia di De Sica e Totò ce n’è memoria di simili gesta, che la natura di abili professionisti di certi colletti bianchi e rigidi di buona fattura d’amido è quella di far carriere a piede libero ad incassar miliardi a tangente, pure pare oggi curriculum per carriere vertiginose. Ed invece dagli allo sfigato che a disperazione si fece a farsi imprigionare facile facile. Che non m’è a giustificarne impresa di delinquenza, ma la forca montata in piazza alla mattina successiva mi parve a tratto d’esagero, a farne capro espiatorio di mali del pianeta pure. Ma è così che vanno le cose, ultimo contro ultimo e si salvi chi può, che a nessuno viene in mente d’affondar canini nelle succulente chiappe del signor padrone del vapore.

A non sprecar tempo

Esiste una specie di morti viventi, di gente banale che a malapena ha coscienza di esistere se non nell’esercizio di qualche occupazione convenzionale. Portateli in campagna o imbarcateli su una nave e vedrete quanto si struggeranno di nostalgia per il lavoro o il loro studio. Non sono mossi da curiosità, non sanno abbandonarsi alle sollecitazioni del caso, non provano piacere nel mero esercizio delle loro facoltà, e, a meno che la necessità non li incalzi minacciandoli con un bastone, non muoveranno un dito. Non vale la pena di parlare con gente simile: sono incapaci di abbandonarsi alla pigrizia, la loro natura non è abbastanza generosa; e trascorrono in una specie di coma le ore che non sono applicate a una frenetica furia di arricchirsi.” (Robert Louis Stevenson)

Il mare frenesie non ne vuole, pretende attese. La lampara che corre lungo la costa di notte è capace di rimanere senza una sardina per gran parte del tempo. Poi, a che la pesca pare finita, si riempie di seppie. Quindi l’attesa non fu mai tempo perso, che quella va impiegata bene, non può essere giocata come fatto inutile.

E nell’attesa si consuma la consapevolezza che qualcosa è ad accadimento, pure se non è certo, dietro l’onda ci sta che c’è. Pare, l’attesa, messa lì a bella posta a riflessione sul tutto, che è vuoto che si può riempire. Il pieno a colmo di spazio e di tempo è già finito, non va oltre ciò che è stato, non accetta evoluzioni altre. Il vuoto è desiderio, è sorpresa di scoperta per ogni cosa possa colmarlo un poco. È insegnamento di mare questo, che mare è immenso vuoto a certe ore, tanto che non se ne vede confine autentico. Ma è pieno d’ogni attesa, pieno d’ogni ricchezza solo se ne voglia prendere quello che ci tocca. E ci tocca quello che siamo riusciti ad aspettare, che non ci venne a sottrazione d’impazienza. Forse nemmeno arriva altro che quella vista, che è già tutto, pure gratis, non si paga niente per vederla.

La nave dei folli

“…la nave dei folli non era, poi, totalmente un parto della fantasia. Al contrario, era piuttosto comune la prassi di allontanare i matti dalla comunità dei normali, eventualmente proprio affidandoli a gente di mare. Accadeva spesso che venissero affidati a battellieri, a Francoforte, nel 1399, alcuni marinai vengono incaricati di sbarazzare la città di un folle che passeggiava nudo. Le città europee hanno spesso dovuto veder approdare queste navi di folli”. (Michel Foucault)

La follia arriva e batte bandiera sconosciuta. Non ha patria né dio, nemmeno padre e madre, pare tale, la follia, intendo, che non si palesa con documento d’imbarco, s’allontana e basta, a cerca di porto salvo per disperazione d’essere niente e nessuno. La cittadella fortificata del mondo dei sani se ne difende, invita a respingimento, con accordo tra tiranno e tiranno a far che pure accoglienza di pazzo è cosa da folli. D’avanzata sanità di mente si tinge distruzione e guerra, parve laurea a saggezza affondare nave dei folli, bombardo di città di dissenso, ripiegare a tasso d’umanità pari a curva concava.

Orizzonte scruta non per vertigine di visione, solo per scorgo a vista nemico che arriva, che se poi non si palesa ad esodo qual vien dichiarato, che importa, che semplice attesa d’invasione è a generazione di paura e fremito di pelle di popolume a suddito di illuminatissimi, che immantinente si tinge di vessillo patrio a nome noto, sotto egida di tiranno a difendere belle, armate sponde, a sventolar bandiera di grande savio di giustezza conclamata. Il resto è dago, pazzo, diverso per colpa ed essenza di sua scelta, che non nacque né a colore giusto, né a terra di saggezza. Pazzo più pazzo è a sostegno d’idea che pazzia fu per causa di mondo di giusti che non s’avvidero che pazzi fecero a furor di tempesta, a fulmine di guerra, a sfrutto a schiavo creatura e natura. Egli attende anche per sé medesimo imbarco coatto – che presto arriva – di chi, pazzo tra i pazzi, ricerca altra sponda per vita, anziché schiantare a terra desolata senza far rumore a non disturbo saggissimo manovratore.

A sfidar destini

La terra trema, di bombarda non cessa il suono, a mare aperto c’è continuità d’annego a fuga di disperazione, pure virus appare a cedimento d’eversione per boicotto, che crede a terrapiatta, rema contro governo di migliorissimi, a sprezzo che fu abolito per legge di stato edotto e saggio, non s’eclissa e fa morto ammazzato per piglio criminale e senso civico da fattucchiera. Bolletta schizza con benzina, d’inflazione fecero overdose che stempero dolor con nota ridotta a strumento solo.

A pagamento per sgobbo c’è sempre voce a ribasso, pure per insegnante, che se vuol aumento di centesimo dimostri d’essere ad abnegazione totale, con conseguente contratto h24, reperibilità a notte fonda per esercizio a crocettatura, che pare settimanale a mille mila tentativo d’imitazione, tal altra rassomiglia a roulette che russa è meglio non si dice, che entri in camera caritatis e lista di proscrizione a compagnia di Tolstoj. C’è anche pletora di nullafacenti, a dimostro falso e negletto che sistema è sbagliato, quale kamikaze a martirio, continua a farsi d’ammazzo a posto di lavoro. Grandi firme seguono moda a dir che se donna è incinta al massimo laverà piastrella ch’io non ce la voglio, che a notte inoltrata, senza luna ed ululato di lupo a cottimo, poi non si presenta a lavoro che s’occupa di bebè. Che a ben vedere, pare che taluno lassù esiste, che coincidenza è troppa a malcapitati noi, e col tutto insieme così, vien da pensare che è ad alterazione permanente. Rivolge strale che manco Giove Pluvio, ad anni di suo regno celeste, pareva mosso a tale adirata postura. Mi viene a pensiero che entità possa palesarsi a chiarimento d’equivoco, che ci dice che non si fa a siffatto modo, che con tale autorevolezza conclamata di liturgia salvifica, noi a cenere immergiamo capo, e si volta pagina a giuro non lo faccio più.

In attesa di venuta, m’è palese desiderio di scoglio, pure di frastagliata costituzione a falesia, sferzato da vento di libeccio, che sudore, sangue e lacrime regala di mare onnipotente, sino a sguardo d’orizzonte perduto, per sogno di spiaggia altra e vertigine definitiva. Ad ora mi tocca solo surrogato d’acqua a sputacchio di fiume, asfissiato da cambio climatico

Stasera pure ho invito a cena, che invito è vieni, ma cucina tu. Allora mi sconfinfera antica saggezza popolare per ritrovo di soluzione per casi di grave complessità. Rapidità di esecuzione, sintetica ma esaustiva rappresentazione a slow. Qualcosa nel prodotto finito che ricorda, nella sua natura più intima, il pane e pomodoro. Gli ingredienti sono formazione cameristica che esegue repertorio di tale minimalismo che Glass appare barocco, ma nel contempo è ensemble ad emersione d’eleganze sorprendenti. Allora, mentre l’acqua prova ad aggiudicarsi bollore, si sguscia taluno spicchio d’aglio, se ne asporta l’infame anima verde, e si trita grossolanamente il resto. Quando acqua e sale appaiono preda di deliri convettivi, vi si immergono gli spaghetti e si lancia frammentume d’aglio a tuffo in bollenza d’olio d’oliva, meglio se di giovane piccantezza. Si accompagna la sfrigolante esuberanza con peperoncini rossi (ne ho di varietà che guarderò di sottecchi ignari commensali, sussurrando appena “qui si parrà la tua nobilitate”). A quel punto un film di schiuma d’amido si sarà fatto strato sulla superficie d’acqua, per evasione da trafilature bronzee, e con un cucchiaio ne raccolgo d’abbondanza a stempero soffritture infernali, per verso su aglio e peperoncino a formare biancheggiante salsina. Appena gli spaghetti sono addentabili, si ricongiunge il tutto in padella per divertito salto d’insieme che avvolga ogni cosa all’altra, in morbido e vellutato abbraccio su cui discontinuità cromatica sarà di trito di prezzemolo freschissimo. Infine, sapidissimo grattugiato di ragusano stagionato (va bene anche pecorino, romano o toscano che sia, qualcuno osa parmigiano o grana…). E di bombardo con Sirah a fiasco, meglio a damigiana, è guanto di sfida a Fato, o chi per lui, che si spera in resa sua a senza condizione.

Il legno che vive

Le civiltà senza navi sono come i bambini i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare. I loro sogni allora si inaridiscono; lo spionaggio si sostituisce all’avventura, e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari”. (Michel Foucault, “Utopie Eterotopie”) Le navi, le barche, ondeggiano sulle onde, disegnano piccoli punti sensati sul mare, come le note tracciano melodie su un pentagramma.

Pure quelle che paiono di meno fascino, i traghetti che fanno su e giù tra Scilla e Cariddi, o spola per qualsiasi terra, financo da sponda all’altra di canale o fiume, che hanno odore acre di vernice e olio rancido di frittura e motore, hanno chiglia che s’affacciano all’abisso, tolde che s’illuminano di firmamento o bruciano al sole.

Mi piacciono quelle piccole, di legno diseredato, barche che levi a favor di scoglio s’è tempesta di scirocco, che tirano il fiato coi denti, che le senti digrignar gengie di sforzo per non far di sovraccarico di disperati pasto di fiera famelica. Quelle che s’abbracciano a prua nome di papà morto, d’amata, di santo distratto. Che s’appigliano a calafati antichi per reggere, come mulo a soma, miserabili sussistenze di pescatore a lampare. Pure, mi piace che s’accollano destini di genti antiche e dimenticate, si trasformano di colori d’arcobaleno, arrossiscono d’emozione a bellezza di tramonto, s’abbracciano a cime sfilacciate scosse di bufera, si riposano a porto salvo, si fanno cullare e cullano di bonaccia, s’attrezzano al peggio quando di chiglia fragile fendono l’onda. Quando le vedo, le barche – che starei a guardarle per sempre, dallo scoglio che si schiera a alito caldo d’oriente – mi sovviene del viaggio ch’è sofferenza per chi ci campa, che lascia la certezza, e s’affratella di gioia ad altro che ritorna su legno ferito da scampata bufera. Che ci sono certe barche che campano nelle memorie, e mai muoiono, che le senti nominare ancora nei secoli dalla gente che ha rughe di sale a cottimo. Pare non s’arrendono mai, finché s’adagiano ad acqua, e di silenzio si mortificano quando cedono al fondo d’abisso, si piegano meste alla deriva o si spiaggiano da creature esauste. Che hanno ancora storie da raccontare che non s’ascoltano se non hai orecchie giuste, e ti pare che quella che hai davanti è solo vecchio legno corroso di sale, manco buono per farci fuoco. Che hanno occhi, le barche, vedono lungo, cuore che batte, pure dimenticate a secca o a pantano, si consumano piano, senza rumore, un pezzo alla volta, che loro sanno cos’è il pudore.

Biancheggiar per sbaglio

La musica è una macchina per sopprimere il tempo”. (Claude Lévi-Strauss, “Il crudo e il cotto”, 1964) Così, che musica sia, senza porre tempo in mezzo, dovesse essere troppo tardi.

Che fuori c’è la neve, pure ci sono malelingue che sospettano, insinuano il dubbio, ch’io ne abbia una certa repulsa. Che è cosa di falsità senza confine, e chi lo sostiene mente sapendo di mentire. Io adoro la neve, quei flebili fiocchi che si depositano formando coltre candida, che pare piumino Ikea. Unica cosa chiedo, di goderne lo struggente spettacolo da dietro i vetri, al riparo, abbarbicato a Cognac, pure, per conforto d’anima, al boccione del Nero d’Avola.

Che voglio attenuanti a parziale remissione del peccato che confesso, ch’io non nacqui da neve, e se mi ritrovo europeo, financo italiano, con autografo d’autorità locale a data di scadenza di documento d’identità, ciò si deve a mera convenzione amministrativa.

Mi confà di spiegare che fui spiattellato al di là di confine d’Africa solo per qualche chilometro, su scoglio ispido, a favor d’onda e sguardo al sud di levante, per puro caso, che tranquillo era d’accadimento che invece mi trovassi sulla sponda opposta, che qui ci arrivavo in barcone e trafelato. Che mi ritrovai dove nacqui solo per distrazione di antenato fenicio dedito a contrabbando di porpore, o forse di dabbenaggine di greco, filosofeggiante di matematiche, imbonitore di folle e amplificatore di follie, ancor più probabile di mercante arabo a cambiali esauste, forse financo di Lestrigono di passaggio, ibrido di sirena e ciclope, sempre a cavallo di scoglio, da scirocco e libeccio sferzato senza tema, che la neve la conobbi solo per biancheggiare lontano di cime di vulcano.

Pure non m’avventuravo lì che mi si disse videro recarvisi tale Empedocle, di cui trovarono solo sandalo a vaga bruciacchiatura, oinochoe di distillato di melicucco. Che d’arrostir castagne al camino m’è d’uopo rinunciare a sostegno dello sgranocchiare carrube come asino o decollato in ascesa al cielo, che non riconobbi impronte bianche di mammoni e mannari, piuttosto solchi a rena, trafitti da lacrime d’Aci e chiome d’Aretusa e Ciane. Pure non ho memoria di racconti d’inverno al focolare della nonna, piuttosto dei brontolii di Ferdinandee, singulti di Cariddi, segreti di trovatura e Re Bafè. Ma m’è finito il caffè, mi tocca d’uscire. Mi copro bene.

A Love Supreme

Il mio compito di musicista è trasformare gli schemi tradizionali del jazz, rinnovarli e soprattutto migliorarli. In questo senso la musica può essere un mezzo capace di cambiare le idee della gente”. (John Coltrane)

Sono passati quasi sessant’anni da quando esiste A Love Supreme, il brano più iconico dell’intera discografia di John Coltrane. Impulse pubblicherà, questo 22 Ottobre, la registrazione di una ormai mitica performance al club The Penthouse, a Seattle. Al Classic Quartet, la formazione tipo con cui Coltrane si esibiva, con McCoy Tyner al piano, Elvin Jones alla batteria, e Jimmy Garrison al contrabbasso, in quell’occasione – ed in altre a seguire – si aggiunsero il sax tenore di Pharoah Sanders (considerato il suo erede naturale insieme ad Archie Sheep), il contralto di Carlos Ward, ed il contrabbassista Donald Raphael Garrett. Roba che, se fosse Fantacalcio, si vincerebbe facile. Seppure ne esistano dal vivo numerose altre registrazioni, questa di A Love Supreme assume una rilevanza del tutto particolare, poiché Coltrane non riprodusse quasi mai dal vivo l’intera suite in quattro movimenti proposta nella prima edizione in studio. La registrazione – privatissima – è rimasta pressoché sconosciuta, se non a pochi fortunati eletti, poiché gelosamente custodita nella collezione privata del sassofonista Joe Brazil. Tuttavia, ogni singola versione di A Love Supreme non appare come semplicemente riproposta o, a seconda dei punti di vista, rinata, sembra piuttosto proseguire in un loop vertiginoso e definitivo, come se non smettesse mai di riprodursi all’infinito, come non avesse inizio, pure fosse senza fine. Riparte, piuttosto, da dove s’era interrotta l’ultima volta, s’arricchisce d’arabeschi orientali, di pulsioni identitarie, di spirito e corpo. Concepita come opera spirituale, religiosa, travalica le dimensioni consuete della liturgia e diviene immanente, materica, palpabile. Dentro c’è la storia del Jazz, il blues, l’estasi quasi orgasmica del Gospel, le atmosfere soffuse e dilatate del jazz modale, le feroci improvvise staffilate del free. A Love Supreme è opera politica in senso stretto, ne recupera, potremmo dire, l’etimologia più pura, dal concetto stesso di Polis. Pure, in questo senso, è opera eversiva, anche qui nel senso più autentico dell’e-vertere latino, il cambiare direzione radicalmente. Va oltre il senso d’una ricerca interiore, d’una esecuzione perfetta – che con quel po’ po’ di band non doveva essere nemmeno complicato si realizzasse a livelli elevatissimi -, ma avvolge chi l’ascolta, lo trascina dentro una nuova consapevolezza, rendendolo partecipe di un progetto umano evolutivo, ancor prima che musicale. Il sax di Coltrane, ben prima che si concluda la prima parte, Acknowledgement, è strumento d’un afflato comunitario, penna d’abilissimo narratore. L’omaggio a Dio è al contempo inno ad un’umanità ritrovata, o forse sperata, abbraccio di fratellanza, fusion tra corpo ed anima, tra trascendenza e sangue e sudore. Il tappeto ritmico, potente ed ossessivo, ipnotico, appare letteralmente straziato dalle note tirate del sax. Sensazioni distanti, pacate meditazioni, ed urla lancinanti di dolore, si susseguono senza soluzione di continuità, creando una fitta rete emozionale che non è mai contraddizione dicotomica, piuttosto rappresentazione di un complexus sorprendente, dove ogni dettaglio, la meno percettibile sfumatura, ha un ruolo determinante nel definire una narrazione epica.

Non resta che attendere con ansia questa registrazione, poiché è proprio nella natura dell’opera che sia presente un pubblico che vi interagisce emozionalmente e che dialoghi con musica e musicisti, che divenga contrappunto necessario alla partitura della prima incisione in studio, perché questa prosegua il suo intenso ed indefinito viaggio di scoperta e trasformazione.

A Love Supreme: Live in Seattle (Impulse! Records/UMe)

A Love Supreme, Pt. 1 – Acknowledgement (Live in Seattle/1965)

Interlude 1 (Live in Seattle/1965)

A Love Supreme, Pt. II – Resolution (Live in Seattle/1965)

Interlude 2 (Live in Seattle/1965)

A Love Supreme, Pt. III – Pursuance (Live in Seattle/1965)

Interlude 3 (Live in Seattle/1965)

Interlude 4 (Live in Seattle/1965)

A Love Supreme, Pt. IV – Psalm (Live in Seattle/1965)

Recorded by Joe Brazil at The Penthouse, Seattle WA.