Trattativa a perdere

Diceva giusto Mastro Don Gesualdo Bufalino: «Si firmerebbero poche dichiarazioni di guerra se chi le dichiara dovesse per legge firmarle col proprio sangue.» Ma è tempo che si tratta, e quando si tratta c’era quel dire che tacciono le armi. Invero ciò appariva di autentica verità quando gli uomini apparivano barbari, incolti, spregiudicati per violenza e propensione all’assassinio. Ora, in tempi civilissimi, con sguardo che si volge con scarsa clemenza alla lontananza degli albori di società, quando si amava o si ammazzava il nemico, la trattativa non si fece mai con dita staccate dal grilletto.

Ché la via diplomatica, si parla – e in taluni casi si straparla – essere quella maestra, che evita dolori infiniti, eccidio senza fine, morte di pietas umana. Che tale dovrebbe essere a concezione antica e desueta. Ma forse ancora è così, solo che c’è stato un errore precisissimo nel chi conduce la trattativa.

Questo o quello che tratta, se ne sta beato a lungi dall’essere egli stesso vittima di sparo, non si fece target quando dichiarò morte per altri. Se ne guardò bene di farsi soldato di trincea, mito spartano dell’ammazzo tutti io che addiverrò onor d’Olimpo quale semidio o tutto tale. E quante guerre non sarebbero più tali, a ribaltar paradigma di Mastro Don Gesualdo, se la trattativa non la conducesse più potentissimo di bombarda facile e salotto blindato, ma disgraziato che sta sotto tiro ed anela solo a pace per se e famiglia sua, pure un po’ di vita dignitosa e talora pure solo vita? la trattativa, mi sono fatto persuaso, avrebbe esito diverso assai. Ed alla fine della storia, ve ne sarebbe uno solo plausibile d’esito: che guerra manco parte.

Piccoli, reiterati messaggi nella bottiglia

Mi sono accorto che WP concede un piccolo dato che prima non avevo notato: riporta il numero dei download – si dice così – di file dal blog. Ecco, qualche tempo fa, avevo messo un file scaricabile, una cosa della cui natura avevo parlato qui, dunque non mi ripeto. Ce ne sono stati diversi centinaia, che è cosa che mi dà una certa soddisfazione, e non per ragioni numeriche, nemmeno so se chi ha scaricato il file poi l’ha letto, gli è piaciuto, se ne è stizzito già al primo rigo o poco oltre. È proprio nell’indeterminatezza dell’esito finale di quello scritto che provo gusto, ché in quello sta il messaggio nella bottiglia. Chi lo lancia in mare non saprà mai se qualcuno lo troverà, se lo leggerà in preda a stupore, oppure un’onda dispettosa di risacca non schianterà il vetro sugli scogli, lasciando la carta a macerarsi lenta in acqua e sale.

“Le finestre, talvolta, sono copertine di libri aperti, le porte finestre lo sono di grossi tomi che s’aprono sulle distese di pagine di terrazzi e balconi. Libri di memorie, diari di viaggio, appunti per una fuga. Pagine ancora intonse, da riempire di parole. Mi sono convinto che il Borneo di Salgari deve essere stato scritto su quelle pagine. C’è un momento migliore degli altri per scriverci sopra, quando s’apre la copertina rigida e fuori è appena l’alba. Fa ancora freddo, e l’aria t’entra sotto la pelle, cerca riparo, s’apre varchi e risveglia le curiosità della notte. La luce non mostra ancora la consuetudine, ma fa della penombra l’anticamera della scoperta, come se alla sua esplosione il già visto dovesse trasformarsi nell’inattesa sortita della sorpresa.

Stamane era fresco su quelle pagine, ed il fiume di sotto pareva una striscia dorata rimarcata da piogge abbondanti. Poi i raggi più impertinenti, come un re Mida al contrario che ha cambiato fornitore di stupore, lo trasforma in un budello color rame. E mi viene di lanciargli una bottiglia – ho avuto tempo a sufficienza per procurarmene una vuota, pure con tanto di tappo a tenuta – perché la consegni al mare con un messaggio, un pizzino da niente su cui ho buttato uno scarabocchio, giusto tre parole in fila. Ma mi viene, così per scherzo, l’idea di anticipare la bottiglia. E allora mi precipito su un tronco, una zattera, una canoa, pure un canottino gonfiabile va bene, a favore di corrente sino al mare. Lì c’è bisogno d’altri mezzi, roba cui cazzare la randa e il fiocco per cogliere tutto il vento necessario a strappare nodi alle onde, schivare la fiera famelica, le cannoniere portoghesi, i brigantini di sua Maestà, appena una sosta per un bicchiere buttato giù d’un fiato con i pirati, e poi ancora verso Sud. Sino all’approdo su una Ferdinandea che non c’è sulle carte, naufrago su una spiaggia di vetro, con la mia scorta di prugne secche, cucunci e vino.

La speranza è che un’eruzione improvvisa non mi cancelli con lo scoglio, sprovveduto emulo d’Empedocle, per di più pigro poiché per nulla propenso ad accettare la sfida dell’ascesa vertiginosa al grande vulcano, solo oziosamente sdraiato ad un passo dalla risacca. Ma se proprio deve succedere, almeno fammi ritrovare prima la bottiglia, il messaggio che mi sono mandato per vedere se sono più veloce di me stesso. Eccola là, la bottiglia, mentre si sente il brontolio sottomarino della bestia che risorge. Tra la pomice del bagnasciuga strappo il tappo, e sul postit, che con le cartolerie chiuse di meglio non ho trovato, le tre parole in fila : Appena posso arrivo.”

Quasi mi dimenticavo “il lungo viaggio”

Radio Pirata 65 (settimana cruciale che viene, settimana cruciale che va)

Torna a furor di popolo Radio Pirata, che s’è fatta numero Sessantacinque, traguardo d’invidia autentica per chi non fa giro di boa nemmeno a sessantaquattro. E torna con convincimento ch’è di necessità assoluta far musica e notiziola in qua ed in là, per scovar talento dove talento c’è, a dar possibilità d’emergere a giovane che ha penna facile e vuole darlo a vedere al mondo intero. Che Radio ha volontà di talent scout e si da vetrina a giovane che vuol far di sua scrittura affermazione ad applauso. Ma andiamo subito con musica giusta che settimana comincia di lunedì e detto lunedì è di tali nebbie che ad allietarlo in nota non si fa etto di danno.

Che c’è settimana che si chiuse che odora di zolfo e piombo, per escalescione di guerra a parte del mondo che fu tutta. Che guerra fa a bombarda anche a chi non s’avvede che bomba casca su testa sua perché non sentì botto chiaro e si fece domenica a mangiar pizza tranquillo per scontrino da ecatombe. Che detta guerra è ‘ndo cojo cojo, ma sempre fa centro precisissimo a tale che ebbe a disgrazia di nascere di manto disgraziato, e se s’è fatto malato poi non trova cura che medico ed infermiere, pure medicina facile facile, non c’è per acquisto mancato a sottrazione di finanza, che quella, finanza, serve a far cosa buona e giusta che fu smercio di boma per guerra a dritta e manca.

Ambasciator non porta pena, si disse a saggezza antica, ma antica saggezza è superata e si bombarda ambasciata con tanto di morto e ferito, che se poi taluno che si vide recapitar ambasciator a modo di Attilio Regolo s’altera, – che già era ad alterazione permanente – fa a lancio di ogni cosa a modo pure lui per far morto e ferito. Ma che sia ora spazio a giovane virgulto di penna, ch’egli ritiene interessante messaggio suo, a speranza nostra che non faccia crollo di esagerata audience di Radio Pirata. «Quando i ricchi si fanno la guerra, sono i poveri a morire.» (Jean Paul Sartre) E meno male che fu sintetico, che se continuava a dirla lunga a fatto d’accumulazione di baggianata c’era rischio che audience di Radio Pirata si faceva colo a picco in un tempo di niente.

E quella che se ne andò fu anche settimana di strage che pare coazione a ripetere, in luogo di lavoro dove per sicurezza di risparmio non s’aggiunse troppa altra sicurezza. Che pare cosa non troppo a fatto occasionale che uno se ne va a lavoro, saluta a casa affetti o solitudini, a seconda dei casi, si accomoda a far fatica, poi non torna. E se affetti furono colti d’improvvisa devastazione, pure solitudini, che per cosa conclamata paiono d’anime migranti, pare urlino cose di disperazione. «Attraverso fitte di dolore, ore, squadre e livelle, il job diventava una realtà familiare, una sensazione nuova, brivido di uomini e pietre ed acciaio. Era un gioco, una corsa, una partita, in cui tutti erano attori muscolari, dal fischio del mattino a quello della sera, ed egli era uno di loro. Era giorno di paga e fra poche ore la busta avrebbe segnato un breve armistizio. Era la guerra per la vita, e Paolino era un soldato. Non era come al gioco delle biglie, dove giocava per divertirsi; era un vero assedio, un assedio condotto da uomini maturi e accaniti contro una fame sempre in agguato, contro il nemico ereditario.» (Cristo fra i muratori, Pietro Di Donato) E pure noi abbiamo dato l’obolo d’apparizione a quest’altro che anela a fama imperitura, ma se continua a scriver ad affondare successo di Radio Pirata con insopportabile retorica pauperista, più che fama si becca fame. Che noi, ad altra sorte adusi, mandiamo musica ch’è meglio assai.

E c’è grande isola che si fece matrigna di tenutario di direzione artistica di Radio, che pare essere a secco come piscio di cammello in deserto. E c’è ovvietà in questo che temporalone si ferma, che a traghettamento lento ed infingardo ci vuole tempo indefinito, così rinuncia ad attesa e scarica acqua ad un altrove a bidonata che fa danno, pure a chicco di grandine a strigliar tetto di decappottabile a lusso precisissimo. E prima che isola a forma di tre – che di perfezione fece a meno per esclusiva modestia – si boccheggia di sete, c’è fortuna che s’ebbe direttorio illuminatissimo di levatura cosmica che disse ponte sia, che tutto si sveltisce, pure tasca si piena assai e rapida e a pienare serbatoio poi ci si pensa, se me lo ricordo. E prima di cedere la parola ad altro giovane cercatore si sorti buone per minchiate scritte a cottimo, per non bombardare l’ultima speranza d’un qualche ascoltatore di Radio, andiamo di musica.

«Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l’ evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell’ omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poichè con le isole il punto è questo: sono di per sè parchi naturali e riserve dove lo “specifico” indigeno resiste più a lungo: sicchè rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale… Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benchè non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l’ Alitalia e l’ Autostrada del Sole. Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. Proprio su la Repubblica (31 agosto) Arbasino ci attribuiva una smania di staccarci dalla nazione e ce ne concedeva licenza. Obietto che, dai tempi di Salvatore Giuliano, fra le maschere sanguinose della mafia il fantasma del separatismo non è più ricomparso: e che oggi un eventuale referendum secessionista non raccoglierebbe in Sicilia più di mille o duemila suffragi… La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d’ Italia, dall’ Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d’ Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina… Con tutto ciò, come negare l’ esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’ esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l’ aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.» (Gesualdo Bufalino, su La Repubblica, 19 settembre 1985 su la Repubblica)

Radio Pirata 64 (grande è il disordine sotto il cielo)

Ed arriva a farsi Sessantaquattresima puntatissima pure Radio Pirata che fa concorrenza durissima a grande kermesse che tutto paese di suonatori mette in fila appassionatamente a far tifo per capolavoro immortale, e questo forse vince, ma forse no, ma se si fa passaggio a passerella floreale è roba da commozione comunque che comunque vada è successo conclamato da critica e pubblico. Che c’è chi piange d’adorazione e chi invece piange ch’è allergico a fiore ad oltranza, pure c’è chi piange per grande disordine cosmico. Radio non teme sfida d’Auditel che ha pacchetto solido d’ascoltatore e per puntata in corso s’attrezza a palmares per consegna di premio per taglio di traguardo a man bassa d’ascoltatore.

E si comincia subito che si fece fuori buona parte di giovani collaboratori che si cerca nuove leve da lanciare in produttivissimo mondo di spettacolo che Radio Pirata è, a detta d’estimatori competentissimi ed esperti marketing pure social, trampolino perfetto per carriera bruciante ed aspirazione di diventare numero nessunissimo. Ecco che da cast emerge tal giovane talento cui si concede parola e si spera bene: «Non tutte le prigioni hanno le sbarre: ve ne sono molte altre meno evidenti da cui è difficile evadere, perché non sappiamo di esserne prigionieri. Sono le prigioni dei nostri automatismi culturali che castrano l’immaginazione, fonte di creatività.». (Henri Laborit)
Mi scuso con radioascoltatori che beccammo un altro che ha testa a favore di vento di scirocco, che straparla. Esperto di casting per Radio ha giorni contati che contratto cococo glielo faccio ad uso di doppio velo morbido ed avvolgente e lo metto ad addetto di pulizia WC a cottimo. Per far perdono collettivo vado di musica.

Si procede subito con notiziola che c’è blocco totale ad opera di cingolato che non fu carrarmato sovietico come a temenza passata bensì cosa semovente da campo. Fortuna è che c’è saggezza d’istituzione che dice che protesta è cosa buona e giusta e si fa concessione che s’usa pesticido ed ogni altro orpello che fa venir su zucca a forma di pallone tensiostatico. Così consumatore viene dissuaso a far passeggiata a favor d’aria buona e non lesina presenza sua a grande e grosso supermarket energivoro per acquisto ad oltranza, che passeggiata boschiva mai influenzò PIL. Che saggio governante capisce meriti di crescita economica a tutto spiano e pure a spiano tutto. E se taluno protesta per cambio di clima con lancio di zuppa precotta e blocco di striscia pedonale si fa ergastolo che non si blocca servizio. Che blocco di servizio non è assedio di detto cingolato, al più è ferrotramviere che fa a protesta che arrivo a fine mese pare più complicato che mezzo nuovo a prossima fermata. Per pretesa tale merita precetto di «ti presenti al lavoro o vai a pena d’ammenda pari a stipendio stesso moltiplicato per anni ad arrivare a pensione che è a fine pena mai.»

Sentiamo quest’altro che ce lo porti buono e non dica minkiate come ormai pare d’uopo a chi vuol successo facile con passaggio a Radio Pirata. «Io spero sinceramente per amore della posterità che, se la terra dovesse perdere quella beltà che deve alle cose, che un’accrescimento illimitato di ricchezze (…) farebbe estirpare onde alimentarne una quantità maggiore, cosa aderirebbe a rimanersi stazionaria assai prima che la necessità ve la obbligasse. (…) Vi sarebbe sempre un altro scopo per ogni specie di cultura mentale, e pei progressi morali e sociali; vi sarebbe luogo, come prima, a perfezionare l’arte della vita e vi sarebbe eziandio più facilità per farlo.» (John Stuart Mill) Niente, non ce la possiamo fare, pure questo pare ha cambiato spacciatore.

Va beh, si continua che pare non c’è scampo a delirio vario, ‘sti giovani non hanno più voglia di lavorare a mondo dello spettacolo con sacrifico di preparazione. Speriamo nelle donne. «Qualche volta ho la sensazione di non essere un vero e proprio essere umano, ma appunto qualche uccello o un altro animale in forma di uomo; nel mio intimo mi sento molto più a casa mia in un pezzetto di giardino come qui, oppure in un campo tra i calabroni e l’erba, che non… a un congresso di partito.

A lei posso dire tutto ciò: non fiuterà subito il tradimento del socialismo. Lei lo sa, nonostante tutto io spero di morire sulla breccia: in una battaglia di strada o in carcere. Ma nella parte più intima, appartengo più alle mie cinciallegre che ai “compagni”. E non perché nella natura io trovi, come tanti politici intimamente falliti, un rifugio, un riposo. Al contrario, anche nella natura trovo ad ogni passo tanta crudeltà, che ne soffro molto.» (Rosa Luxemburg) Ecco, un uccello si sente, ma io glielo dico ai giovani di lasciare stare le cose pesanti, fanno male.

Che vi devo dire, mi dispiace per ospite irrequieto e con poco sale. Ma non è che ad altra parte per megalitica kermesse c’è meglio assai. Vi lascio però con rinfreschino e musica che abbiamo budget elevatissimo. «È indispensabile che tutti gli esseri e tutti i popoli saggi della terra capiscano che pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale dell’alimentazione umana. Piatto peccaminoso per eccellenza perché comprende e semplifica il peccato rendendolo accessibile a chiunque. Piatto peccaminoso in quanto può significare un’alternativa a tutto ciò che è trascendente, a tutto ciò che è pericolosamente trascendente, se diventa cultura della negazione. Non fate la guerra ma pane e pomodoro. Non votate per la destra ma mangiate pane e pomodoro. No alla NATO e sì al pane e pomodoro. Ovunque e sempre. Pane. Pomodoro. Olio. Sale. E dopo l’amore, pane e pomodoro e un po’ di salame». (Manuel Vasquez Montalban) Il vino lo offre la casa🍷🍷.

Radio Pirata 63 (à la guerre comme à la guerre)

E quando uno meno se l’aspetta, arriva in pompa magna puntatissima di Radio Pirata, che si fece a numero Sessantatre con splendore di forma smagliante, si ripresenta a farsi compagnia con un po’ di disturbo relativo a riflusso gastroesofageo. Farmacia non ebbe dotazione sufficiente a placarne effetto indesiderato e tanto che c’è val la pena alimentarlo d’adeguatezza per celia, ché ad alimentarlo per fatto che si sparicchia son tutti bravi, ma a farne presenza di convivenza costante ci vuole vino di contadino, quello che si fa sale e mare per prospicienza con onda della vigna.

Si parte subito con notizia bomba, che è stupore collettivo che bomba pare ormai a fatto compiuto ad ogni dove, che c’è stupore per dilagare di guerra. Che a dichiarar guerra ci vuole attimo preciso ma è anche boicottaggio attivo di fatto assai più rilevante che se c’è guerra si deve parlare poco di pandori a camuffo, di quadretto a sottrazione contesa e celie di tal portata che illuminano d’immenso quotidiano vivere. È assai fortuna che giornalettume nostro non si fa a confusione e non cede da intendimento di dire va tutto bene, tranne qualche cosarella, ma niente di più.

Ma c’è chi critica con forza che esiste la bomba intelligente. E no, Radio Pirata non ci sta e dice sua verità contro taluni che dubitano d’elevatissimo quoziente intellettivo di bomba ed oggetto contundente simile che si fa a botto ipersonico allorché occorre. Bomba è sempre stata intelligentissima e non si rese sopportabile chi lo negò. Essa, infatti, non sbaglia mai, cade sempre e solo su testa di disgraziato che visse di miseria e di vita degna di non essere vissuta. Dunque, bomba, pare praticamente efficace come legge su fine vita

Radio ha sempre a cuore giovani leve di scrittoruccia, e concede spazio a giovani aspiranti scribacchini senza censura. Largo ai giovani ed a proprio libero pensiero, che certo deve essere sbagliato che di detti giovani ci si dimentica a facile facile. «La vita è così breve che non c’è tempo per i litigi, per il rancore e per la guerra. C’è solamente il tempo per amare e dura solamente un istante.» (Mark Twain) Questo è pazzo, dice cose senza senso, non lo invitiamo più che ci fa crollo d’ascolto, pure gli facciamo causa per danno d’immagine.

È mai possibile tracciare una vera distinzione tra i mezzi di comunicazione di massa come strumenti di informazione e di divertimento, e come agenti di manipolazione e di indottrinamento?” (Herbert Marcuse) E pure questo non pare tutto rifinito. C’è da rivedere parecchio nell’organizzazione del casting di Radio Pirata che ormai si carica per deliri di varia fattura quantitativo non indifferente di scappati di casa.

Vediamo se col prossimo ci azzecchiamo se no licenzio tutti, staff di cast in testa, e faccio un bando per selezione di promesse di scrivo cosa su Radio Pirata. «Vero, disse il Gracco. Egli lo sapeva, e i morti glielo dicevano. Chi aveva colpito non poteva colpire di più nel segno. In una bambina e in un vecchio, in due ragazzi di quindici anni, in una donna, in un’altra donna: questa era il modo migliore di colpire l’uomo. Colpirlo dove l’uomo era più debole, dove aveva l’infanzia, dove aveva la vecchiaia, dove aveva la sua costola staccata e il cuore scoperto: dov’era più uomo. Chi aveva colpito voleva essere il lupo, far paura all’uomo. Non voleva fargli paura? E questo modo di colpire era il migliore che credeva di avere il lupo per fargli paura.» (Elio Vittorini)

E niente, non ci siamo, m’hanno sfasciato l’audience d Radio Pirata, che quest’ultimo pareva pure che ha cambiato spacciatore. Sapete che c’è?

«”Ho sempre avuto la sensazione che le lunghe traversate togliessero dalla mia anima tutte le sozzure ammassate durante un soggiorno a terra…penso che questo sia il bisogno, non soltanto di avventura, ma anche di pulizia fisica e morale, che spinge il navigatore solitario verso altri lidi, dove il suo corpo e il suo spirito, liberati dal contatto e dalle servitù terrestri possano ritrovare la loro essenza e la loro purezza, fra gli elementi naturali che gli antichi avevano divinizzato.

Vento, Sole e Mare, Trinità del Dio dei marinai.”

(Bernard Moitessier)

Arte e aporofobia (reloaded)

Mi tocca di riproporre cosarella già in uso passato, ed altre ne seguiranno che di recente a scriver roba nuova poco me ne avviene, che mi morì in mano la penna per sopraggiunto disgusto di cronaca. E comincio con questa cosa di assai non troppo tempo addietro, ad attenzione stimolata da fatto di grandissimo esperto d’arte elevatissima ad onor di cronaca recentissima per soldo ad eccesso. Ci aggiungo musichetta a far spazio a cenno di svago.

Aporofobia, letteralmente è la paura del povero, più in generale della povertà. Parolina magica poco in uso – né mai lo sarà, perché sarebbe ammissione di responsabilità sociali e collettive di dimensione epica – è qualcosa che travalica le frontiere del razzismo, va oltre. In definitiva, un pezzo della società non sarebbe realmente razzista, piuttosto, appunto, aporafobica. Poiché se il tal di sembianze vagamente differenti a color di pelle è principe di petrolio, merita tappeti rossi se fa sbarco con yacht, se sbarca invece a fame convenuta, meglio s’annega. Comunque, al disgraziato si nega tutto, a partire dall’accoglienza. E l’arte pare, a chi d’indigenza fece il proprio quotidiano non per scelta, al più emolumento accessorio. Eppure questa ha potere catartico, liberatorio, andrebbe garantita all’indigente innanzitutto, poiché ha l’odore del riscatto, del guardare oltre. Dunque vi riciclo una vecchia cosa che parla, seppure prendendola di sgambescio, della cosa in sé.

… oggi nessuno si scandalizza, la società ha trovato dei modi per annullare il potenziale provocatorio di un’opera d’arte, adottando nei suoi confronti il piacere consumista.” (André Breton)

“Sergio Poddighe è un amico, di lui, delle sue cose avevo già parlato qui, pure qui. Abbiamo fatto cose insieme, abbiamo riscoperto le nostre siculitudini, siciliani di mare aperto, con la valigia per un altrove, quel desiderio struggente di tornare, roba impertinente che si fa viva come un fenomeno carsico. Ma abbiamo pure giocato, anche coi nostri nomi, ch’io prestai voce ed armonica sgangherata a questa cosa qui di sotto che ha disegni immaginifici suoi.

Mi ha mandato un suo scritto, pubblicato in rete da qualche parte.

Sergio Poddighe, nel suo studio

Me l’ha mandato per e-mail, che io sono poco social. ve lo ripropongo ché mi piacque parecchio: “«Se da un lato le visite ai musei ci mostrano un persistente interesse per l’arte, dall’altro assistiamo ad una fortissima resistenza a renderla propria. L’acquisto di un quadro, nella mente dei più, rimane prerogativa dei ricchi, magari ignoranti, ma capaci di investire. Tutti gli altri guardano all’opera d’arte come ad un oggetto inaccessibile. A mio parere, la colpa di questa impasse la si deve anche agli artisti: il valore in denaro che danno alla propria opera è quasi sempre esagerato. Con l’equazione “più lo prezzo, più lo carico di valore”, l’artista visivo ha trasformato il suo prodotto in un bene di lusso, rendendone più difficile sia l’acquisizione che la circolazione. Personalmente, se una persona di medio reddito viene nel mio studio desideroso di acquistare un quadro, cerco di fargli un prezzo ragionevole. Non si tratta di sminuire il valore dell’opera, ma di applicare due principi: onorare l’interesse verso il lavoro; rendere il manufatto artistico un oggetto accessibile. Ho gestito per un anno e mezzo una piccola galleria (esponevo solo opere altrui) e una frase ricorrente era: “questo quadro mi piace molto, ma non ho il coraggio di chiedere quanto costa… so già che non è alla mia portata”. Un pittore non dovrebbe tentare di vendere un quadro ad un prezzo che egli stesso non potrebbe permettersi. Un’inversione di tendenza aiuterebbe la crescita di tutti, accorciando la distanza tra chi ama l’arte e chi la produce.» (Sergio Poddighe)

Posto che sono d’accordo con quanto scrive Sergio, che ciò potrebbe apparire non autentica sorpresa – le persone si frequentano se c’è idem sentire, almeno da qualche parte -, mi va di aggiungere qualcosa, quale nota a margine d’una ricerca imperfetta, che è compito statutario di queste pagine mie. A premessa ricordo che certe avanguardie che fecero la storia dell’arte furono più avvezze a frequentazioni di bettole che non di salotti buoni, pure m’è dato a sapere che espressioni elevatissime d’arte trassero ispirazione da privazione e non dal lusso. Tante esperienze di straordinaria bellezza sono finite in dimenticatoi cupi perché non si confrontarono mai in modo efficace con regole, non di bellezza e talento, ma di economie asfittiche e grigie. Oggi, l’artista che non fa scelta diversa da ricerche di prebenda, di curatele un tanto al chilo a prezzo d’oreficeria, di critico ad esaltazione per alzo di quotazione, che non si fece sussieguoso ed accondiscendente con fatto di mercato e potente di turno, rimane invisibile. E mi preme dire a Sergio, ch’egli, che è artista di talento limpido, come altri (pochi, invero) par suo, e che fece scelta diversa, non avrà palcoscenico degno, sarà, come l’arte sua – che pure fu affissa a mezzo mondo -, confinata a poco, che c’è il mondo del valore di scambio che non consente che l’arte giunga a chiunque; lo spazio adeguato a che venga resa nota gli verrà precluso, verrà sottratto a lui, ma anche a tutti quelli che ne avrebbero tratto dal goderne giovamento certo. Aggiungo, l’artista non è soggetto neutro, egli viaggia per il mondo, ne ha, in qualche modo, consapevolezza: dunque, se ritiene che la sua sia arte da grande prezzo pratica una scelta ideologica e nulla più. Egli aspira a vetrina e grande compenso per una ragione sola, perché egli ha, istintivamente, a prova provata di suo agire, un’idea altrettanto ideologica della società. Egli ama la gerarchia sociale, ama il doblone quale criterio di valutazione degli uomini, non è interessato a che la sua arte giunga al più ampio pubblico possibile, che dia un contributo critico alla lettura del mondo, sia di godimento a tanti. Egli aspira alle folle solo se fatte di pubblico pagante, al più in forma di claque al momento del suo ultimo vernissage. Sarà artista costui? Forse si, ma la bellezza è un’altra cosa, non è roba esclusiva. Per quanto mi riguarda questi rimarranno solo mercanti, che vendono la propria arte non perché è bella, ma perché vale un gonfio conto in banca.”

Appunti

Certi scritti paiono appunti che ci restano appesi all’animo, non se ne vanno ché furono scritti di certi inchiostri indelebili. Certe volte l’occhio ci cade proprio su quelli, come su un post-it giallo appiccicato a coprire una macchia del frigorifero. Quelli indicano un’emergenza quotidiana, che il caffè è a fine corsa, il sale a sgoccioli di presenza, d’olio per frittura non ce n’è più. Ma nei primi non c’è lista di spesa, non c’è sensazione che possiamo far scappatina da qualche parte per rimediare. Lì c’è scritto cosa non avremmo voluto leggere, ma è meglio che l’abbiamo fatto.

«L’uomo, si dice. E noi consideriamo a chi cade, a chi è perduto, a chi piange e ha fame, a chi ha freddo, a chi è malato, ea chi è perseguitato, a chi viene ucciso. Pensiamo all’offesa che gli è fatta, e la dignità di lui. Anche a tutta quello che in lui è offeso, e ch’era, in lui, per rendere felice. Questo è l’uomo.
Ma l’offesa che cos’è? È fatta all’uomo e al mondo. Da chi è fatta? E il sangue che è sparso? La persecuzione? L’oppressione?
Chi è caduto anche si alza. Offeso, oppresso, anche prende su le catene dai suoi piedi e si arma di esse: è perché vuol liberarsi, non per vendicarsi. Questo anche è l’uomo?


[…] Ma l’offesa in se stessa? È altro dall’uomo? È fuori dall’uomo?
Noi abbiamo Hitler oggi. E che cos’è? Non è uomo? Abbiamo i tedeschi suoi. Abbiamo i fascisti. E che cos’è tutto questo? Possiamo dire che non è, questo anche, nell’uomo? Che non appartenga all’uomo?
[…] Noi vogliamo sapere un’altra cosa […] se è nell’uomo quello che essi fanno quando offendono.
È nell’uomo?
Noi vogliamo sapere se è nell’uomo quello che noi, di quanto essi fanno, non faremmo; e che noi diciamo di loro dal vederli, non da qualcosa che abbiamo patito noi stessi. Possiamo mai saperlo?
[…] E noi possiamo anche adoperare le armi loro […] combattere quello che loro sono, senza più essere quello che noi siamo.
Non essere uomini? Non essere nell’uomo?
Questo è il punto in cui sbagliamo. Noi presumiamo che sia nell’uomo soltanto quello che è sofferto, e che in noi è scontato. Fama dell’Aver. Questo diciamo che è nell’uomo. Avere freddo. E uscire dalla fame, lasciare indietro il freddo, respirare l’aria della terra, e averla, avere la terra, gli alberi, i fiumi, il grano, le città, vincere il lupo e guardare in faccia il mondo. Questo diciamo che è nell’uomo.
Avere Iddio disperato dentro, in noi uno spettro, e un vestito appeso dietro la porta. Anche avere dentro Iddio felice. Essere uomo e donna. Essere madre e figli. Tutto questo lo sappiamo e possiamo dire che è in noi. Ogni cosa che è piangere la sappiamo: diciamo che è in noi. Lo stesso ogni cosa che è ridere: diciamo che è in noi. E ogni cosa che è il furore, dopo il capo chino e il piangere. Diciamo che è il gigante in noi.
Ma l’uomo può anche fare senza che vi sia nulla in lui, né patito, né scontato, né fame, né freddo, e noi diciamo che non è l’uomo.
Noi lo vediamo. È lo stesso del lupo. Egli attacca e offende. E noi diciamo: questo non è l’uomo. Egli fa con freddezza come fa il lupo. Ma toglie questo che sia l’uomo?
Noi non consideriamo che agli offesi. O uomini! Oh uomo!
Appena vi sia l’offesa, subito noi siamo con chi è offeso, e diciamo che è l’uomo. Sangue? Ecco l’uomo. Lacrime? Ecco l’uomo.
E chi ha offeso che cos’è?
Mai pensare che anche lui sia l’uomo.
Che cosa può essere d’altro? Davvero il lupo?
Diciamo oggi: è il fascismo. Anzi: il nazifascismo. Ma che cosa significa che sia il fascismo? Vorrei vederlo fuori dell’uomo, il fascismo. Che cosa sarebbe? Che cosa farebbe? Potrebbe fare quello che fa se non fosse nell’uomo di poterlo fare? Vorrei vedere Hitler e i tedeschi suoi se quello che fanno non fosse nell’uomo di poterlo fare. Vorrei vederli a cercar di farlo. Togliere loro l’umana possibilità di farlo e poi dire loro: Avanti fate. Che cosa farebbero?» (Elio Vittorini)

Chi mangia chi

A tempo che si fece esaltazione di scontrino a prezzo grosso per irrilevanza di contenuto, pure c’è gara a chi mangia peggio che colletta di tipo Robin Hood mi pare sia d’opportunità di fare a scongiurare costituzioni d’Accademia del Colesterolo a salotto altolocato, che diventa disgrazia autentica giro vita esponenziale per poveretto che deve salire per sgommatura su suo missile biposto a cavalleria strabordante. Povero, al più, ha da farsi posto tra cianfrusaglia di motoape Euro – 10. Ma questione è assai complessa che ci si affida a cosa che fu a tempo suo già edita da tal nessuno ch’io sono e fui, su medesimo luogo di nessunanza, che nessunanza si fregia d’abolizione di dogana e frontiera.

Che meraviglia a giocar di fregola di clava che a luogo di quella si usa disgraziato a ripescaggio da annego sicuro che io non lo voglio e neppure io. Che meraviglia risveglio d’orgoglio sacro d’imperi, che a far due conti pareva che fossero già a puzzo di putrefazione a caldo che cuoce, e ora, a momento di son desto, pure peggio pare odore nauseabondo ch’emana da presidi imperituri di culla di civiltà varie e sparse. Ma io faccio opposizione a riflesso emetico spontaneo, e mi do a raccontar di riciclaggio favola che la morale non la scrissi, che ognuno ci veda quel che gli pare.

“E come tutti i santi giorni che Nostro Signore ha voluto regalarci di vita grama su questa terra, il Signor Padrone, ormai sazio, scelse tra le ossa lasciate nel piatto quello più nudo e ripulito, ché dove c’era ancora carne valevano oro per il brodino della sera. Con quello in mano aprì l’uscio e lo lanciò tra i cani affamati nel cortile. Subito le bestie, sbranandosi l’un con l’altra, cercarono di avventarsi sul magro bottino.

Molte rimasero sanguinanti sul selciato, e più d’una non si sarebbe più rialzata. Il Signor Padrone, al cospetto della ferocia del branco, valutò con soddisfazione di come quello avrebbe difeso la sua casa e la sua ricca dispensa. Il vincitore della contesa, si trascinò a fatica verso di lui con il suo misero trofeo tra i denti, i brandelli di carne che si staccavano lasciando scoperte ferite purulente, e sollevò la zampa per ringraziare il suo benefattore. E questo per ogni santo giorno che Nostro Signore ha voluto regalarci di vita grama su questa terra, per la gioia del Signor Padrone, sempre più raggiante pel colore rosso sangue del selciato del suo cortile. Le povere bestie, esauste per digiuno e dolore, con gli occhi al Cielo cercavano di incrociare lo sguardo di Nostro Signore – non era forse Lui il Signore di tutte le creature? – nell’attesa disperata di aggiudicarsi il prossimo ossicino e placare così la propria fame con la generosità del Signor Padrone.

Poi venne il giorno in cui quei fantasmi rinsecchiti e laceri non ebbero più forza nemmeno per sollevare gli occhi al Cielo, ed al cospetto del Signor Padrone sull’uscio, si trovarono d’improvviso a sbirciare in casa avvedendosi di quanto ricca fosse la sua dispensa, ma di più di quanto pingui fossero le sue chiappe. E quello fu l’ultimo giorno in cui affondarono le loro fauci su una creatura vivente, il giorno prima rimase per sempre l’ultimo in cui lo fecero con i propri simili.

E voi anime elette, esseri superiori, che dominate dall’altezza vertiginosa di una piramide il resto del mondo ma che vi scannate nell’arena per la gioia del Vostro Signor Padrone, quando smetterete di guardare alla sua generosità e vi avvedrete delle sue chiappe succulente?”

Mangia povero che è meglio, ovvero ci sono problemi di reciprocità nel disordine del cosmo.

E io che m’ero fatto fregare dalle code all’hard discount, che pensavo fosse tutta gente morta de fame comme a me. Ed invece a comprare l’antibiotico al sapore – non troppo – e forma di coscia di pollo, il gruviera a buco trapanato con punta dodici, il mirtillo al sentor di diossina, il pangasio radioattivo, c’era una torma afflitta di miliardari che per pudore di proprie flaccidi adipi di classe s’erano occultati ferraruccie e maseratine nel sottopasso lì a tiro di schioppo. Per fortuna che ci sono tipi di illuminazione fatale che le cose le rimettono a posto, per gloria imperitura dell’italica genia della grande proletaria. A mo’ di ottemperanza, vi rigiro cosa antica di mia stessa produzione.

C’è tutto quel ragionamento sulla normalità che mi verrebbe da fare. Roba lunga che non s’esaurisce subito subito. Roba da sociologi e filosofi di certa caratura. Mica la risolvo io con uno sproloquio, io che parlo coi sassi. C’è pure da fare i conti con certe asimmetrie che se n’erano state come la polvere sotto il tappeto e che ora ricominceranno a traboccare sotto i lembi. Prima che succeda bisogna mettersi d’accordo, altrimenti le asimmetrie diventano eccessive, poi qualcuno finisce che si indispettisce e di teste calde in giro se ne trovano sempre, forse non come un tempo, ma qualcuna secondo me ancora c’è. Ci sono certe mie pulsioni in questi giorni no che ne sono la prova provata. Allora si deve trovare una sintesi, bisogna mettersi d’accordo, appunto.

Ragioniamo, dunque, come si compete tra persone civili, tra gente di buon senso. È vero che esistono profonde diseguaglianze, di classe intendo, tra le persone. Che non si tiri però fuori la solita solfa di quel due per cento che detiene il sessanta per cento, eccetera eccetera. A che serve rivangare, è roba da secolo decimonono, mica da gente di questi anni frenetici, gente per bene che pedala, che “fa”, che si impegna e che vuole tornare a fare. Bene, chiarito questo però alcuni puntini sulle i, con discrezione, si intende, io magari li metterei. Va bene che madama la marchesa alla Zona di Espansione Nord non ci va a stare e preferisce il suo castelletto con vista sul lago; mi sta anche bene che il commendatore Ciccio Bombo non prenda in affitto una soffittella semi arredata con vista sulla discarica appena appena sorta dal nulla nella Suburbia a Sud, giacché, giustamente, come dice lui, s’è appena arredata la villa a quattro piani con vista sul golfo, da cui si gode il panorama da sufficiente distanza perché si perda il dettaglio della quinta del promontorio degli abusivi. Mi sta bene che anche il viceversa non sia consentito e non per libera scelta di quelli che stanno a ZEN e Suburbia, ma direi per qualche resistenza altrui. Vi ripeto, mi sta bene, non mi lamento, col mio stipendio mi merito un bilocale né pretendo l’attico, quello con le piante carnivore che si mangiano i giardinieri – che poi di questi tempi è così difficile trovarne di bravi – e la terrazza da cui si domina il mondo, che ti serve il monopattino per andare da una stanza all’altra, che ci puoi giocare a tennis in bagno, pure in doppio! E se la signora contessa non farebbe mai a cambio consentendomi di usare le sue stanze affrescate da antichi schiavi, la capisco, non gliene faccio torto… Per parlare d’altro, è vero che la signora Pinco de Pallis, in virtù dei suoi conti monegaschi e caimaneschi mai e poi mai acconsentirà d’andarsi a scegliere nylon made in Taiwan nel mercoledì del mercato, né – mi pare di poterlo asserire senza tema di smentita – il buon cavaliere, che è il re delle maniglie delle porte blindate, il suo doppio petto blu, con l’aria condizionata incorporata e il certificato sartoriale rilasciato dal notaio, se lo comprò al “butto fuori tutto e chiudo”. Io queste cose le capisco e se anche non ho fatto il militare a Cuneo sono uomo di mondo, me ne faccio una ragione. Pure se il viceversa è sostanzialmente non consentito per ragioni che tralascio, queste sono cose che accetto. I miei maglioni con l’etichetta su cui c’è scritto, con ricco ricorso a simbologie assai criptiche, che è meglio che li lavi a mano, anzi è meglio se non li lavi proprio perché non si sa mai, mica pretendo che se li metta il venerato conte, col rischio che la sua epidermide elegantemente colorata da delicate lampade UV se ne potrebbe avere a male, ribellandosi e producendosi in un effluvio di pustole e pustolette. Quelle sono cuti per bene, altro che la mia rozza copertura che certo non si ribella giacché a certi tormenti è ormai adusa. Mi sta bene, vi dico che mi sta tutto bene, anche il categorico divieto del viceversa… Tuttavia, proprio per pareggiare i conti – la qual cosa, se volete, potrebbe anche essere interpretata come il modesto tentativo di una pacificazione globale – proporrei che si cominci a mettere dei divieti a certi viceversa letti in senso antiorario. Allora, mia cara madama la marchesa, signor comm, egregio presidente, gentile cav., facciamo una cosa, da oggi voi mangiatevi pure le vostre tartine al beluga, con la salsina di Richelieu, bevetevi i vostri Cabernet che tanto a me il mutuo alla posta per pagarmene una bottiglia non me lo danno. Fatevi fare dallo Chef che vi piace tanto – quello col ristorante che per mettere in vetrina i cappelli beccati dai forchettivendoli di certi almanacchi ci vuole la cappelliera, e per pagare il conto dovete fargli un bonifico “estero-estero” – il cervello di cavalletta in gelatina di alghe del lago della foresta del Cippo Lippo, se vi pare, Ma giù le mani dall’acquacotta, dalla caponata, dalla panzanella, dalla sarda al beccafico, dal lampredotto; da oggi, e per sempre, ex legis non v’è più consentito. Salvo che tutto il resto dei viceversa proibiti non vi risulti un prezzo eccessivo da pagare, ed allora però si rimette tutto in discussione e vi tocca di socializzare l’ultimo Barolo che avete preso all’asta al prezzo di un bivani in semiperiferia, e vi tocca di vedere se quel pezzo di tartufo bianco, prima di grattarvelo sull’ovetto, in quel bivani c’è qualcuno che lo vuole condividere.

Arte e aporofobia

Aporofobia, letteralmente è la paura del povero, più in generale della povertà. Parolina magica poco in uso – né mai lo sarà, perché sarebbe ammissione di responsabilità sociali e collettive di dimensione epica – è qualcosa che travalica le frontiere del razzismo, va oltre. In definitiva, un pezzo della società non sarebbe realmente razzista, piuttosto, appunto, aporafobica. Poiché se il tal di sembianze vagamente differenti a color di pelle è principe di petrolio, merita tappeti rossi se fa sbarco con yacht, se sbarca invece a fame convenuta, meglio s’annega. Comunque, al disgraziato si nega tutto, a partire dall’accoglienza. E l’arte pare, a chi d’indigenza fece il proprio quotidiano non per scelta, al più emolumento accessorio. Eppure questa ha potere catartico, liberatorio, andrebbe garantita all’indigente innanzitutto, poiché ha l’odore del riscatto, del guardare oltre. Dunque vi riciclo una vecchia cosa che parla, seppure prendendola di sgambescio, della cosa in sé.

… oggi nessuno si scandalizza, la società ha trovato dei modi per annullare il potenziale provocatorio di un’opera d’arte, adottando nei suoi confronti il piacere consumista.” (André Breton)

“Sergio Poddighe è un amico, di lui, delle sue cose avevo già parlato qui, pure qui. Abbiamo fatto cose insieme, abbiamo riscoperto le nostre siculitudini, siciliani di mare aperto, con la valigia per un altrove, quel desiderio struggente di tornare, roba impertinente che si fa viva come un fenomeno carsico. Ma abbiamo pure giocato, anche coi nostri nomi, ch’io prestai voce ed armonica sgangherata a questa cosa qui di sotto che ha disegni immaginifici suoi.

Mi ha mandato un suo scritto, pubblicato in rete da qualche parte.

Sergio Poddighe, nel suo studio

Me l’ha mandato per e-mail, che io sono poco social. ve lo ripropongo ché mi piacque parecchio: “«Se da un lato le visite ai musei ci mostrano un persistente interesse per l’arte, dall’altro assistiamo ad una fortissima resistenza a renderla propria. L’acquisto di un quadro, nella mente dei più, rimane prerogativa dei ricchi, magari ignoranti, ma capaci di investire. Tutti gli altri guardano all’opera d’arte come ad un oggetto inaccessibile. A mio parere, la colpa di questa impasse la si deve anche agli artisti: il valore in denaro che danno alla propria opera è quasi sempre esagerato. Con l’equazione “più lo prezzo, più lo carico di valore”, l’artista visivo ha trasformato il suo prodotto in un bene di lusso, rendendone più difficile sia l’acquisizione che la circolazione. Personalmente, se una persona di medio reddito viene nel mio studio desideroso di acquistare un quadro, cerco di fargli un prezzo ragionevole. Non si tratta di sminuire il valore dell’opera, ma di applicare due principi: onorare l’interesse verso il lavoro; rendere il manufatto artistico un oggetto accessibile. Ho gestito per un anno e mezzo una piccola galleria (esponevo solo opere altrui) e una frase ricorrente era: “questo quadro mi piace molto, ma non ho il coraggio di chiedere quanto costa… so già che non è alla mia portata”. Un pittore non dovrebbe tentare di vendere un quadro ad un prezzo che egli stesso non potrebbe permettersi. Un’inversione di tendenza aiuterebbe la crescita di tutti, accorciando la distanza tra chi ama l’arte e chi la produce.» (Sergio Poddighe)

Posto che sono d’accordo con quanto scrive Sergio, che ciò potrebbe apparire non autentica sorpresa – le persone si frequentano se c’è idem sentire, almeno da qualche parte -, mi va di aggiungere qualcosa, quale nota a margine d’una ricerca imperfetta, che è compito statutario di queste pagine mie. A premessa ricordo che certe avanguardie che fecero la storia dell’arte furono più avvezze a frequentazioni di bettole che non di salotti buoni, pure m’è dato a sapere che espressioni elevatissime d’arte trassero ispirazione da privazione e non dal lusso. Tante esperienze di straordinaria bellezza sono finite in dimenticatoi cupi perché non si confrontarono mai in modo efficace con regole, non di bellezza e talento, ma di economie asfittiche e grigie. Oggi, l’artista che non fa scelta diversa da ricerche di prebenda, di curatele un tanto al chilo a prezzo d’oreficeria, di critico ad esaltazione per alzo di quotazione, che non si fece sussieguoso ed accondiscendente con fatto di mercato e potente di turno, rimane invisibile. E mi preme dire a Sergio, ch’egli, che è artista di talento limpido, come altri (pochi, invero) par suo, e che fece scelta diversa, non avrà palcoscenico degno, sarà, come l’arte sua – che pure fu affissa a mezzo mondo -, confinata a poco, che c’è il mondo del valore di scambio che non consente che l’arte giunga a chiunque; lo spazio adeguato a che venga resa nota gli verrà precluso, verrà sottratto a lui, ma anche a tutti quelli che ne avrebbero tratto dal goderne giovamento certo. Aggiungo, l’artista non è soggetto neutro, egli viaggia per il mondo, ne ha, in qualche modo, consapevolezza: dunque, se ritiene che la sua sia arte da grande prezzo pratica una scelta ideologica e nulla più. Egli aspira a vetrina e grande compenso per una ragione sola, perché egli ha, istintivamente, a prova provata di suo agire, un’idea altrettanto ideologica della società. Egli ama la gerarchia sociale, ama il doblone quale criterio di valutazione degli uomini, non è interessato a che la sua arte giunga al più ampio pubblico possibile, che dia un contributo critico alla lettura del mondo, sia di godimento a tanti. Egli aspira alle folle solo se fatte di pubblico pagante, al più in forma di claque al momento del suo ultimo vernissage. Sarà artista costui? Forse si, ma la bellezza è un’altra cosa, non è roba esclusiva. Per quanto mi riguarda questi rimarranno solo mercanti, che vendono la propria arte non perché è bella, ma perché vale un gonfio conto in banca.”