Tempo perso

Sempre più affaccendato, con ancora tirata da leggero e persistente malessere per stanchezza, strascico di fatto che fu morbo d’infesto, ci si ritrova schiavi di tempo, che mai, pare, ve n’è abbastanza. Pure mi decido che non indugerò su ciò che non mi viene adesso, che ne guadagno a sufficienza per impiegarlo al meglio nel non far niente, che è cosa in cui ho talento autentico. E se mi viene di scrivere, ma non abbastanza, vi riciclo il già scritto che scriverei pure io così, ma senza meglio di certo. Nè vi manco di musica, spero buona, che aggradi ai più, che vi leggete il seguito con quella di fondo.

“Quante persone, lungo questo viaggio, stivano la barca fino a rischiare di farla affondare di cose sciocche che pensano essenziali al piacere e al comfort, ma che in realtà sono soltanto inutile zavorra? Come riempiono la povera piccola imbarcazione fino all’albero di bei vestiti e grandi case, di domestici inutili e di una miriade di amici alla moda ai quali non importa un fico secco di loro, e dei quali a loro importa ancora meno, di costosi divertimenti che non divertono nessuno, di formalità e mode, di finzioni e ostentazioni, e di – oh, la più pesante, la più folle delle zavorre! – della paura di che cosa penserà il vicino, di lussi che possono soltanto nauseare, di piaceri che annoiano, di vuote mostre di sé che, come la corona ferrea del criminale di un tempo, fanno sanguinare e tramortiscono il capo dolorante che la porta! È zavorra uomini… tutta zavorra! Gettatela fuoribordo.

Rende la barca così pesante che remare vi sfinisce. La rende così lenta e pericolosa da manovrare che l’ansia e la preoccupazione non vi concendono mai un attimo libero; e non avete mai un momento di riposo per sognare pigramente, mai un momento per osservare le nuvole che sfiorano le onde spinte dal vento, o i scintillanti raggi di sole che giocano con le increspature, o i grandi alberi sull’argine che si curvano per fissare la loro immagine riflessa, o il bosco tutto verde e oro, o i gigli bianchi e gialli, o i giunchi che ondeggiano oscuri o i falaschi, o le orchidee o gli azzurri non-ti-scordar-di-me. Liberatevi della zavorra, uomini!

Lasciate che l’imbarcazione della vostra vita sia leggera, carica soltanto di quello di cui avete bisogno: una casa accogliente e qualche semplice piacere, un paio di amici degni di questo nome, qualcuno da amare e che vi ami, un gatto, un cane, e una o due pipe, cibo e indumenti a sufficienza e da bere in abbondanza, perché la sete è una compagna pericolosa. La barca sarà più facile da governare, e non sarà tanto soggetta a capovolgimenti, e se si capovolgerà non sarà così grave; la merce semplice e di buona qualità sopporta un bagno. Avrete tempo per pensare oltre che per lavorare. Tempo per scaldarvi al sole della vita… tempo per ascoltare le melodie eoliche che il vento divino trae dalle corde del cuore umano tutt’intorno a noi… tempo per… Scusate tanto. Divagavo.” (Tre uomini in barca, per non tacer del cane, Jerome K. Jerome)

Le storie nella storia (Allonsanfàn parte ventunesima: “Era di giugno” di Mario Di Sorte)

Raro che parli di libri da queste pagine, non mi risulta d’averlo mai fatto se non in riferimenti di sgambescio, obliqui, qualche citazione rubata all’uopo. E ve n’è ragione precisa nel fatto che mi è raro di rimanerne preso a tal punto da non poterne fare a meno se escludo cose di lettura antica, volumi e volumetti che s’affollano – o prendono polvere – sui miei comodini, compagni d’un viaggio non invidiabile. C’è poi quell’altra cosa che mi crea indugio nel farlo, quell’altra cosa che riguarda me, anzi, ad essere onesti quell’altro me, da cui in queste pagine decisi di divorziare unilateralmente. Poiché egli di libri ne scrive, non parlando dei suoi mi pareva che potrebbe aversene a male ch’io parli di quelli d’altri.

Per una volta faccio finta di niente, stimando che forse non se ne accorge, seppure prima di procedere fui frenato anche da altro che m’accorsi essere invidia. E già, ché io mai ebbi capacità di farmi capire ad immediatezza di lettura, nemmanco forse ci provai. Ed invece il libro di cui voglio parlare è chiaro e limpido, scritto da un amico carissimo e fraterno (e pure questo mi frenò un attimo, ch’è facile essere additato qual preda di piaggeria) che sa dare peso alle parole, ne conosce il senso profondo, ne soppesa l’esatto valore. Ma finii per superare residui di pruderie, dunque procedo.

Era di Giugno (Effigi Edizioni) di Mario Di Sorte è un libro che esplora la storia, ce ne rende un’immagine composta di frammenti e vissuti drammatici, ma non convenzionali. Lo fa attraverso le vicende umane di tre ragazzi, Bobby, Alfred e Tonino, diversi, com’è necessario che siano gli sguardi che si volgono alla comprensione della complessità che regola i fatti degli uomini, l’irrazionalità della guerra, in questo caso, la costruzione di relazioni che pure fanno degli uomini ancora una volta uomini. Di Sorte usa uno strumento narrativo singolare, originalissimo, crea l’ordito d’una trama fitta con eleganza ma mai indugia in trovate ed orpelli estetizzanti.

Pare lo scienziato che osserva il vetrino ad occhio nudo prima di posizionarlo con perizia sotto le ottiche potentissime d’un microscopio. Aumenta progressivamente l’ingrandimento e crea un passaggio di testimone nel ruolo di protagonisti del libro di cui non ci si avvede subito. La storia, la gigantesca mobilitazione internazionale, i fermenti di liberazione e resistenza, la follia della barbarie della guerra sono fatti anche di luoghi, personaggi che attraversano il tempo, che paiono navi alla deriva. Nella prima parte del romanzo è tutt’altro che quinta scenografica per il racconto di precise vicende umane, è essa stessa protagonista e la coinvolgente narrativa di Di Sorte ce la rende in dettagli precisi, atmosfere convulse e rapidi cambi di scena. Interni di navi inseguono porti brulicanti, immense distese d’oceano, deserti e campi di guerra si alternano, e pare di sentire dentro le pagine del libro un vociare sconnesso, i boati terrificanti che disvelano orrore e speranze. Poi il microscopio della narrazione cambia oculare, coglie presenze umane sempre più precise, delineate, prima camei di grande potenza letteraria, apparizioni fugaci (il comandante d’una nave che trasporta prigionieri è figura sorprendente, come certe magnifiche presenze nei libri di Conrad). L’Italia prende posizione, lentamente, si lascia attraversare, ci mette se stessa, i suoi boschi, i suoi borghi, le campagne, ogni dettaglio è descritto con precisissima attenzione. Nulla pare lasciato al caso nelle descrizioni di Di Sorte, tutto concorre a costruire l’unicum narrativo della complessità degli eventi da cui emergono poderose presenze d’umanità varia, quelle che, senza rendercene quasi conto, ritroviamo adesso protagoniste, come avessero ricevuto un immaginario testimone dal tutto d’intorno. Le donne, gli uomini si esprimono con i loro rancori, le violenze, gli amori, la solidarietà, e fanno di questo libro un romanzo non catalogabile, che si muove oltre il genere. È libro storico, certo, insieme romanzo d’amore e di guerra, di sogni e nostalgie, di struggente desiderio di mondi altri, di speranze, di utopie che emergono dalle macerie e cui pare non importa molto di epiloghi sempre e comunque mai scontati.

Minoranze

Non è che uno sceglie di essere minoranza, semmai anela il contrario. Ci credo poco – ma ne ammetto pure l’esistenza – che c’è un taluno che sceglie di essere sempre e comunque minoranza. È cosa degli uomini affratellarsi con milioni di altre creature, pure lontane e diverse. Ma l’evidenza dell’essere minoranza mi sopraffà sinché sono stato investito dall’età della ragione, cosa peraltro non richiesta. Che poi essere nell’età della ragione non per questo impone d’avere “ragione”. Si può dissimulare il proprio torto, nel profilo basso del parziale fraintendimento, nella diplomatica accettazione del volere altrui, nel mugugno a bassi decibel. Ma sempre dentro la riserva indiana, poi, ci si ritrova, senza se e senza ma, spesso con un solito irrisolto perché.

C’è che uno non se lo sceglie da che parte stare, mi sono persuaso che gli tocca. Si può cambiare il corso degli eventi, ammettere che esiste il libero arbitrio, comunque ci si porta dietro la propria ineluttabile condizione esistenziale. Almeno penso, che non ne sono manco così sicuro, pasciuto nel dubbio, forse nel sonno della stessa ragione. Così, predestinato, per origini e censo, a rapinare le vecchiette davanti alla posta, mai m’avvidi di come ciò possa non essere successo, spiattellato a fare un profino qualsiasi, financo a godermi certe smanie piccolo borghesi, talora pure a montare librerie Ikea. Però ho passato tutta la vita nel desiderio d’omologazione maggioritaria, d’adesione agli immaginari collettivi, che sono convinto che ti toglie pensieri, il contrario t’arrovella. E ciò m’è accaduto in ogni frangente che vissi, cosa di cui non vi terrò edotti né nel dettaglio, nemmeno nelle sue linee generali, poiché è cosa di poco conto.

Il punto è che, seppure t’asciuga i criticismi, dunque ti solleva di certi gravami d’insonnia, l’essere maggioranza non è a costo zero, richiede tributi che taluni pagano con nonchalance, per altri è compito delicato, che impone fatiche e ti induce a scegliere di quali fatiche puoi fare a meno, quali altre sei in grado di sopportare. A me, lo dico francamente, dell’essere maggioranza mi preoccupa l’essere rapido e preciso. Eppure ci avevo sperato, come montagna inamovibile, in attesa del profeta, che la triste reclusione dei distanziamenti sociali, potesse stravolgere il senso delle cose, stralciare paradigmi, ridurre davvero le distanze. Invece!

È dai tempi della scuola, da quando la frequentavo dall’altra parte della barricata, intendo, che mi sento ripetere, se non esplicitamente almeno nelle indicazioni generali, che occorre essere rapidi, puntuali, efficienti, efficaci, in definitiva, meritevoli. Poi l’università, il lavoro, la musica non cambia, inno imperituro, richiamo costante alla mitica perfezione dell’agire, del produrre. Bisogna apparire decisi, vincenti, volitivi, esprimersi in modo sintetico ed esaustivo, non indugiare, accelerare, non tergiversare, perfezionarsi sino all’eccellenza, dimostrare volontà ferree, strategie definitive, risultare impeccabili, al di sopra d’ogni sospetto di lassismo, rinnegare il dubbio, compiacersi delle proprie granitiche certezze. Eleganti, ma senza pacchianerie – questo, invero, anche alla maggioranza, non è che proprio… -, in forma scultorea, frequentare i luoghi giusti, le giuste compagnie. Rapidi, dunque fast food, apericene, sushi, musiche con ritmi definiti, bum bum senza sorprese, rime baciate, brevi, che si ricordino, niente dissonanze e asimmetrie; il jazz è morto, l’improvvisazione sepolta. E io, se mi guardo intorno, se mi affaccio dai miei anni con lo sguardo indietro, la storia che vedo è un’altra.

Quanti progetti, quante cose iniziate e lasciate lì, in attesa di chissà cosa. Quante incompiute, quante risoluzioni fallite, quante approssimazioni. Non ho mai avuto una visione circolare del tempo come gli orientali, mi sono crogiolato di memorie, facendo in modo che il futuro si muovesse con “lentezza” sino a toccarsi col presente, ed insieme si mettano ad aspettare il passato per un tamponamento a catena che li faccia coincidere in un unico punto temporale indefinito ed infinito. Poi, col tempo, continuerò ad esplorare lo “spazio breve che suggerisce l’infinito” (Jean Grenier), e sceglierò in un viaggio sghangherato la mia “Itaca, la terra fedele, il pensiero audace e frugale, l’azione lucida, la generosità dell’uomo che sa” (Albert Camus). Perché quante approssimazioni, per fortuna, possono restituirci almeno uno scorcio di quella bellezza infinita che è nella nostra irredimibile natura umana di creature lente, di strateghi della lentezza, in competizione con le più ostinate lumache nel contemplare i dettagli più insignificanti di questa terra, per cogliervi dentro la suadente poesia. Di converso, quante brucianti accelerazioni, pragmatismi risolutivi, decisionismi improcrastinabili, precisioni burocratiche, successi epocali, ci hanno lasciato l’eredità d’un condono edilizio…!

Per chi lo sa

“C’è un tempo in cui devi lasciare i vestiti, quelli che hanno già la forma abituale del tuo corpo, e dimenticare il solito cammino, che sempre ci porta negli stessi luoghi. È l’ora del passaggio: e se noi non osiamo farlo, resteremo sempre lontani da noi stessi.” (Fernando Pessoa)

Quel tempo arriva nelle forme che vuole, quando desidera di farlo, mai si presenta a richiesta, finge di non essere stato invitato, pure se ad evocarlo è stata ogni stilla di sangue e sudore che puoi buttar fuori. Ci hai pensato a quel tempo, in un lasso di tempo infinito, indeterminato, non te ne serve altro. È roba che si consuma a gambe ferme, non quando ti muovi, nemmeno quando ti si muovono le consapevolezze doverose del quotidiano, quando l’abito da lavoro che t’è toccato pare così logoro che non c’è più spazio per immaginare il colore della carne che prova a nascondere. Che è dato a stupirsi pure per la scoperta d’essere colorato in qualche modo, non d’amorfo grigio, che era cosa che desumevi da stanchezze definitive. Si realizza di forme concrete un tempo ancora d’orizzonte, ch’è perso nel chiaro d’una luna, forse nelle cappe del sole di scirocco, nel rosso della sabbia del deserto che s’avvicina a trasporto di libeccio. C’è ancora quel profumo strano, acre, di vita vissuta come viene, pure dovrebbe non esserci, che non c’è distesa di posidonia nelle aule vuote, nemmeno nelle stanze a vista di terminale. Lo specchio pare gioca ogni giorno ad implacabile riflesso d’autore, non fornisce manipolazioni sghembe d’immagine, che non si riconosce mai d’acchito, non fa come riverbero azzurro di mare, che di distorsione fece solo virtù sua.

In quotidiano di lavorio indefesso c’è urlo ovunque, sgraziato e d’artificiosa perfetta fattura, che a natura è altro che frastuono, quando è tuono a spavento pare invece rimbrotto benevolo, strappa sorriso, fa regalo di libertà che non è d’acquisto a svendita. Risorsa da lavoro, si dice, pare compenso per acquisto di libertà, ma quella non è cosa d’un tanto a chilo, non merita che la fatica d’essere vissuta a pieno, che vuol dire avere occhi per compiacersene, non polmoni per respirare la merce che ne è surrogato. Ed è vero, poi, ed alla fine, che il lavoro rende liberi, liberi dal desiderio d’esser liberi, quando te ne sei assuefatto e quel tempo, quando arriva, ci sta che si palesa e non te ne accorgi, che hai dimenticato in fondo ad un cassetto di inutili memorie l’orologio che suona al suo passaggio.

Radio Pirata 17 (portafortuna)

Radio Pirata fa 17 contro iella, che in pantano di quella si sguazza allegri e felici di spensieratezza. Che bomba sempre fa profugo e c’è chi apre casa ad accoglimento, taluni pure si leccano baffi ed aprono portafoglio per ospito a cottimo di fuga da guerra. Ma Radio è musica, e non m’astengo a proposta che pure m’aggrada. Che è musica di barricata e pare rifugio da bombarda.

Che plauso a guerreggianti da parte a parte, che dice taluno che guerra è grosso affare, che partecipo anch’io a chiama di responsabilità di governissini di migliorissimi ed illuminati di sapienza e sapere. Ch’io dico, se voglia avete di baruffa, a scolapasta in testa perché non vi presentate voi a cambio di taluno che lì non si aggrada a starci? Che si fa a cambio pure a metro, che a chilo si vince facile noi, che di panze piene ne abbiamo a iosa.

Sotto un altro, che la guerra è bella, che lega uomini di sicuro afflato a patria ed umanità conclamata, che crea unità nazionale a stringiamoci a coorte, ad armiamoci e partite. Che se fate bravi v’aggiusto d’accise. però poco e poi vediamo. Ora è oro a patria, che quella ha valore alto di concordia e vogliamoci bene dal primo all’ultimo, che però è meglio che ultimo non s’allarga che primo ci tiene che è tale, ed a protesta risponde che è di vil fedifrago e traditor. In questo momento, che è a stato d’emergenza, lamento è bandito. Che infatti questa è Radio Pirata e va di musica a controtendenza.

Manco a striscio di chiappe a fiume asciutto e siccitoso si trova sollazzo, che taluno, a disperazione, rinuncia financo a canna del gas per epilogo, che poi lascia bolletta a chi resta e pure lo invita a lancio da precipizio a testa a scoglio a corollario di maledizione a chi scelse via facile, ma d’eccesso di costo, per destino crudele. Nemmeno rimarrà tempo per dimenticare inutilità del tempo e giorni vissuti.

Già morta, già cosa, quando ancora dobbiamo viverla, la nostra epoca è sola nella storia e codesta solitudine storica influisce fin sulle nostre percezioni: ciò che noi vediamo “non ci sarà più”; si riderà delle nostre ignoranze, ci si indignerà delle nostre colpe. Quale risorsa ci rimane?” (Jean Paul Sartre)

Ma che siamo noi, che siamo?… Formicole che s’ammazzano di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo. In fila avant’arriere senza sosta sopra quest’aia tonda che si chiama mondo, carichi di grani, paglie, pùliche, a pro’ di uno, due più fortunati. E poi? Il tempo passa, ammassa fango, terra sopra un gran frantumo d’ossa. E resta, come segno della vita scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra, qualche scena o figura.” (Vincenzo Consolo)

Pure mi viene da dire che sono stanco, che ho altro da fare ch’io farei, che assai volentieri me ne starei a sdraio su uno scoglio, a sole di tramonto, a mondare ricci di mare ed a pienarli di limone per inzupparci dentro pezzi di pane, a berci sopra direttamente da fiasco. Quello mi verrebbe di fare e basta, ora, porgendovi le mie più sentite scuse per non partecipo.

Tempo al tempo

Che schiavi siamo del tempo, che mai, pare, ve n’è abbastanza. Pure mi decido che non indugerò su ciò che non mi viene adesso, che ne guadagno a sufficienza per impiegarlo al meglio nel non far niente, che è cosa in cui ho talento autentico. E se mi viene di scrivere, ma non abbastanza, vi riciclo il già scritto che scriverei pure io così, ma senza meglio di certo. Nè vi manco di musica, spero buona, che aggradi ai più, che vi leggete il seguito con quella di fondo.

“Quante persone, lungo questo viaggio, stivano la barca fino a rischiare di farla affondare di cose sciocche che pensano essenziali al piacere e al comfort, ma che in realtà sono soltanto inutile zavorra? Come riempiono la povera piccola imbarcazione fino all’albero di bei vestiti e grandi case, di domestici inutili e di una miriade di amici alla moda ai quali non importa un fico secco di loro, e dei quali a loro importa ancora meno, di costosi divertimenti che non divertono nessuno, di formalità e mode, di finzioni e ostentazioni, e di – oh, la più pesante, la più folle delle zavorre! – della paura di che cosa penserà il vicino, di lussi che possono soltanto nauseare, di piaceri che annoiano, di vuote mostre di sé che, come la corona ferrea del criminale di un tempo, fanno sanguinare e tramortiscono il capo dolorante che la porta! È zavorra uomini… tutta zavorra! Gettatela fuoribordo.

Rende la barca così pesante che remare vi sfinisce. La rende così lenta e pericolosa da manovrare che l’ansia e la preoccupazione non vi concendono mai un attimo libero; e non avete mai un momento di riposo per sognare pigramente, mai un momento per osservare le nuvole che sfiorano le onde spinte dal vento, o i scintillanti raggi di sole che giocano con le increspature, o i grandi alberi sull’argine che si curvano per fissare la loro immagine riflessa, o il bosco tutto verde e oro, o i gigli bianchi e gialli, o i giunchi che ondeggiano oscuri o i falaschi, o le orchidee o gli azzurri non-ti-scordar-di-me. Liberatevi della zavorra, uomini! Lasciate che l’imbarcazione della vostra vita sia leggera, carica soltanto di quello di cui avete bisogno: una casa accogliente e qualche semplice piacere, un paio di amici degni di questo nome, qualcuno da amare e che vi ami, un gatto, un cane, e una o due pipe, cibo e indumenti a sufficienza e da bere in abbondanza, perché la sete è una compagna pericolosa. La barca sarà più facile da governare, e non sarà tanto soggetta a capovolgimenti, e se si capovolgerà non sarà così grave; la merce semplice e di buona qualità sopporta un bagno. Avrete tempo per pensare oltre che per lavorare. Tempo per scaldarvi al sole della vita… tempo per ascoltare le melodie eoliche che il vento divino trae dalle corde del cuore umano tutt’intorno a noi… tempo per… Scusate tanto. Divagavo.” (Tre uomini in barca, per non tacer del cane, Jerome K. Jerome)

E se non vi piace questa cosa, fatevi pure il tutto pieno, non mi oppongo se vi fa solluchero

Fotografia, tempo e specializzazioni (reloaded)

Che mi scappano dieci minuti, sottratti abilmente, con furto a destrezza, al lavoro. Troppo pochi per dedicarmi a scrivere altro, da ciò desumo che mi tocca di riciclare, pratica in cui eccello, che non m’è mai di fatica, sfruttare il già fatto. Poi m’attende full immersion in altre faccende d’affaccendamento. Stavolta vi faccio pure la colonna sonora al testo, che quella, come ebbi a dire, almeno, vi rimane.

“Charles Baudelaire si scagliò con tale veemenza sulla fotografia, da far venire mossa ogni foto nel raggio di chilometri dal suo Salon. Non era ammissibile, per il poeta vergine che la fulminea attrazione dell’attimo spostasse lo sguardo dalla contemplazione elevatissima dell’arte pura, nella sua rappresentazione più autentica, come nel teatro o nella pittura. Inaccettabile il processo di massificazione e tecnologizzazione dell’arte. L’industria si sostituiva al genio creativo, lo filtrava attraverso uno strumento, poneva anche gli inetti nella condizione di potersi definire artisti. Poi si fece fotografare in poltrona dall’amico Nadar, e questi ne colse nella sua posa disincantata tutta la poetica, sublimandola nell’attimo, appunto.

Nadar aveva compiuto il miracolo, anzi no, la magia, di elevare la sua arte a livelli vertiginosi, usando l’immagine del suo più feroce – e certamente credibile – avversario, per emanciparla dal mero tecnicismo cui rischiava di essere relegata per sempre. Di più, l’invasione di campo della fotografia, capace di raccontare il reale con efficacia assai maggiore del più attento iperrealismo manierista, sospinse tutte le altre arti figurative verso orizzonti nuovi, alla ricerca di realtà parallele cui l’occhio non poteva giungere. Stessa preoccupazione di preservare la purezza dell’arte espressa da Baudelaire si ripalesò con il de profundis dei dagherrotipi e linotipie nell’eredità concessa alle prime 35 mm. Eppure, non v’è dubbio che i movimenti colti dal click di Cartier Bresson, ma anche le immagini sfocate di Robert Capa, facciano parte a pieno titolo di ambienti di massima espressione artistica. Con il digitale, come per un misterioso fenomeno carsico, riemerge l’urlo dei puristi, poi la fotografia per tutti col cellulare, credo abbia fatto venire l’orticaria persino alle ortiche. E se c’è chi invita alla riflessione prima del click, stigmatizza l’improvvisazione ottica, c’è invece chi accoglie come una vera rivoluzione democratica la possibilità che miliardi di occhi moltiplichino i propri sguardi con ogni mezzo possibile, raggiungendo l’apoteosi del numero infinito di scatti. Quanti appuntamenti all’alba dietro conventi di frati minoriti si sono consumati nella disfida finale per definire la verità che distingue lo scatto fine a se stesso – ma sarà sempre tale? – dalla foto concettuale? Ammetto che non parteciperò alla dialettica serrata tra i fautori del deposito di megapixel, non prendo parte, non sono interessato alla questione, ho deciso di far repubblica e di dichiararmi neutrale. Sguscio via, piuttosto, evito di frequentare i circoli fotografici come ho smesso di occhieggiare ai cenacoli pittorici, bazzicare simposi letterali.

Mi sono fatto una mia opinione sulla fotografia, che non appartiene alla fotografia, né alla scrittura, tanto meno alla musica o alla pittura o a cos’altro vi pare. Persuaso, infatti, che la narrazione che ci portiamo dentro – nessuno escluso – trovi modo di esprimersi in un momento qualsiasi quando incontriamo la realtà che la rappresenta, e come ad uno specchio costruiamo la magia dell’incontro tra il nostro dentro e il resto d’intorno. Basta avere occhi, certe qualità dell’anima, per guardare il nostro dentro e la sua rappresentazione lì fuori. Quando accade siamo pervasi dalla meraviglia e immortaliamo l’attimo con un’immagine, una poesia, due o tre note in fila, se ci aggrada e ne siamo capaci. Ciascuno come gli aggrada esprime la propria sorpresa nel sentirsi una parte del tutto e vuole conservare quell’istante, renderlo infinito, come il tempo che oltrepassa il frammento di se stesso dello scatto. Nella fotografia, il tempo dell’incontro dura un attimo, bisogna coglierlo prima che fugga, più lungo nella poesia e nella musica, ancora più ampio nella prosa, per il respiro profondo di tempi dilatati. Ed allora basta eliminare la variabile temporale per riprendersi l’originario progetto narrativo che è la parte razionale di quell’intimo e segreto miracolo dell’atto creativo. Del resto “il tempo della produzione, il tempo-merce, è una accumula­zione infinita di intervalli equivalenti. È l’astrazione del tempo irreversibile, di cui tutti i segmenti devono provare sul cronometro la loro sola uguaglianza quantitativa. In definitiva il “tempo è, in tutta la sua realtà effettiva, ciò che esso è nel suo carattere scambiabile. È in questo dominio sociale del tempo-merce che «il tempo è tutto, l’uomo non è niente; egli è tutt’al più l’incarnazione del tempo». È il tempo svalorizzato, la completa inversione del tempo come «campo di sviluppo umano»” (Guy Debord, Miseria della filosofia). Posso dunque ascoltare un’immagine, guardare un suono, sentire l’odore intenso della poesia e della scrittura, se cancello il tempo. Ed il tempo derubricato ad un parametro “non vitale” consente di rifuggire l’orrore della specializzazione e dialogare con le forme espressive, comunque si manifestino. Se si scattano foto perché sono il nostro naturale ricongiungimento con il reale, dunque, poi è bene intrattenere rapporti con altri fotografi, ma senza codificarli nella liturgia dell’appartenenza, piuttosto val la pena leggere un libro e parlare con chi ne scrive, ascoltarsi un disco in compagnia di chi fa musica. Perché nella specializzazione si nasconde il rischio mortale dell’annullamento della dialettica concreta e progressiva delle narrazioni individuali, la cui somma è la narrazione collettiva che trascende il tempo e destruttura e annulla l’immagine-merce al cospetto dell’immaginario. In fondo Nadar non ha letto attentamente le poesie di Baudelaire prima di catturarne l’espressione “maledetta” nel volto d’un uomo in poltrona?”

Tempo al tempo

Ancora, pur se passa tempo, non ho capito bene se la cosa sta come dicono taluni, che sono nato vecchio oppure, com’è espressione d’altri, che mi arretro d’infante. Al bivio, mi pare di capire, che potrei azzardare un rincoglionimento senile, semmai, al più, un regresso infantile. Posto questo, che è cosa di cui mi sconfinfero assai poco, mandiamo la musica, che è meglio.

Insomma, nel mio caso, come m’appare evidente, v’è, che mi compete a prescindere dalla direzione al bivio, fondamentale stasi, fermo a statua di sale, colonna corinzia in terre non terremotate. E nella stasi mi riconosco, che, sia d’infante quale fui, – ed eventualmente sono – sia da anziano in dismissione come invece nacqui, – o, casomai, mi ritrovo – di poco mi sono concesso evoluzioni. Che da giovane, già vecchio, mi premeva di produrmi in rivoluzioni, così mi rimase vezzo da vecchio, regredito a giovanilismi desueti. Pure, m’avvedevo, già allora, che per guerriglieggiare ci vuole verve adatta, mica pigrizie ataviche, che quelle assai mi si confanno.

Che la rivoluzione io l’avrei anche fatta, se non fosse stata pratica di eccesso di movimento. Non volendomene sottrarre, fermo – sempre, non si sa mai – nei miei sacri convincimenti, mi trovai spazio adatto nella pratica del verbo, che nel far manifestazioni, o distribuire dazebau e violantini, più spesso m’affaticavo, talora mi ritrovavo ginocchia a grattugia, lividi e squarci vari da randello nerofumo. Mi ritrovai, così, a dar contributi alla causa quale addetto al verbo, a girar manovella al vecchio Gestetner, la quale cosa non mi comportava particolari patimenti. Ed a Lettera 24, andavo di matrice, che quella costava, e per renderla conveniente non se ne doveva sprecare con battiture a velocità galattica. Piuttosto la digitazione doveva procedere lettera per lettera, da far notte a riempirne una. Poiché la lentezza era per me virtù sublime, – pigrizia pure – mi ritrovai campione mondiale della rivoluzione da garage a piombo tetraetile d’inchiostri eversivi. Oggi, che la velocità del virtuale m’impedisce appagamenti da rivoluzionario, d’altro m’invento, che alla mia – di rivoluzione, intendo – mica rinuncio facile. Pure nell’oggi non disdegno di compiere gesta antisistemiche. E sotto il vento che fischia, a piedi, – scarpe rotte eppur bisogna andar – che già è quello atto eversivo, mi sono appresentato dinnanzi al centro commerciale e, tra l’avvilimento collettivo, ho dato 85 centesimi al ragazzo che ti chiede l’obolo. Quelli avevo, quelli gli ho dato, che lui non ha il POS ed il mio bancoposta – tinto di rosso per ragioni avverse le mie – avrebbe di certo opposto egualmente lo gran rifiuto. Poi, ho finto l’ingresso, quindi sono arretrato, nell’atto del non partecipo. Rigirati i tacchi consunti, m’apprestai dunque al bar dell’aperitivo, il più a gettoni di tutti, col bum bum di prima mattina, che d’olivette in plastica e melasse colorate a bollicine, cattura il tutto umano per mille mila miglia. Lì, dirimpetto, spavaldo a Che, sigaretta autoprodotta in bocca, gravata in basso da inconsistenze cellulosiche, ho tirato fuori, di provocazione estrema, la bottiglietta in vetro col vin del contadin, la fetta di pane schitto, e, sul gradino della parrocchiale ho provveduto alla resistenza passiva, a gettar passioni al sol dell’avvenire. Che soddisfazione lo sguardo ad orrore, che l’eversione si concreta all’uopo quando il tutto d’intorno ti schifa a vista.

Del tempo ne rimane

Che ormai manco me lo sento di dire “io” quando non ho minuti per grattarmi la testa. Che io non ci sono portato a non avere tempo, non è cosa mia. È quell’altro me che s’affanna senza soluzione, pure mi coinvolge, senza pietà, che dice che da solo non gli pare giusto, che devo dare contributi. Poi, sotto sotto, lo so che manco lui c’è portato, ma pare non se n’avveda, s’arrabatta su tutto. Niente tralascia. Glielo ribadisco, l’imploro, lo supplico, talora, di lasciare perdere, di starsene buonino, che altre cose abbiamo da fare, ben più importanti. Niente, da quest’orecchio non ci sente.

Mi fa persuaso, però, ed a sua insaputa, che di ragione ne ho a bizzeffe, nemmeno basterebbero tomi interi per elencarle nella loro arguta giustezza. Mi sorprendo che non s’annessuna come mi piacerebbe che facesse, così, ad armi pari, identità sovrapponibili, potremmo dedicarci alle cose che ci aggradano, quelle si, davvero. Che tempo non ne rimane di far visita alle nostre bettole, per un jazz che langue, pure per starsene un po’ di più su queste pagine, a chiacchierare come fossimo al baretto da Piero, davanti all’uovo sodo e il vino, per la protoapericena. Né ce ne resta per sorprenderci a rigirarci felicemente pollici su uno scoglio, oppure on the road, come ci compete. Ma pure stesi sul divano andrebbe bene, un libro, un bicchiere. No, non demorde, che pare che se smette collassa l’universo. Io glielo avevo detto che se ci mettevamo a fare gli insegnanti, poi, ce ne saremmo pentiti. E lui, invece, che piglia tutto come missione umanitaria, ci si butta a capofitto. Anche se scopre che non esiste fare l’insegnante, che pare furiere dell’esercito del Regno delle Due Sicilie (ma quale è l’altra?), al più passacarte di tribunale bizantino. Che quando entra in classe si riposa, si gode il momento. S’è messo a sindacato, che non ce n’era altro da fare, non becca una lira e le beghe dell’uno, come di tutti, diventano cosa sua, gli arrovellano i pensieri, che, pure se non becca una lira, ci sono taluni che lo guardano come fosse collettore d’ogni privilegio gli sia dato di depredare. Ultimamente, tira il fiato coi denti. Ma non è che non gli s’appresentano cose interessanti. A bizzeffe. Una mostrettina ogni tanto, che ce lo chiamano pure, ch’è occasione per starsene in giro e vedere gente che gli aggrada, e lui tre su quattro dice no, che non può, pare financo che se la tira. Anche un editore che gli vuole pubblicare una cosa, che s’è fatto sentire, se la vive come agonia che – dice – non gli basta il tempo per l’ordinaria amministrazione. Ma quale dovrebbe essere l’ordinaria amministrazione, scavare trincee e riempirle, per tenere alto il morale della truppa? Che il destino che ci competeva era altro, né patria né Dio, come al tempo quando non c’era il tempo, quando eravamo uno, quando avevamo derubricato generalità anagrafica al niente, quando avremmo detto a Boccadoro, hazte a un lado, niña, que no tengo nada que hacer, y quiero hacerlo bien, quando pensavamo di avere già vinto, con quell’enorme privilegio che ci eravamo presi d’essere nessuno, in terra di qualunque.

Senza il tempo

Il viaggio in macchina sino al mare, d’inverno, mentre il resto del mondo s’affolla per il cotechino, è l’esperienza definitiva di una scoperta. L’altopiano si concede il leggero e costante declivio, bombatura d’immenso tra chiome sparse ed anarchiche di carrubi e olivi che si sorprendono della spiazzante cromia del fiore dell’oltretomba, del bianco della ruchetta e del rosso dei papaveri. Negli stagni che incontri per primi, la pioggia, sin dall’autunno, ha riboccato la speranza del volo e ce la trovi bella dipanata la fantasia del colore. Più in là, oltre la lingua di sabbia, lo specchio più immenso dell’acqua, chiuso solo dall’orizzonte, se ne sta fermo. Perché talvolta il mare se ne sta fermo pure se sotto sotto si muove, eccome se si muove.

Che pare proprio come se si stesse preparando per il cenone pure lui. Lo sa Pilu Rais, che cerca il fondo del bicchiere ancora un’altra volta, dopo aver scavato il fondo del blu. La sua barchetta è d’argento comunque, quale sia la tinta che ha scelto per l’ultimo ritocco. E s’avviluppa della rete dove sguscia una vita ancora. Non c’è verso di chiederglielo, ti porge il fiasco – di bicchiere più d’uno non ne ha – e fa cortesia darti il collo che sei tu a scegliere quello che ti serve. Te ne serve quanto basta, ma non ti stordisce qualunque sia l’ora, pare anzi che ti ringalluzzisce mentre ti senti che fai parte dell’universo. Piccolo piccolo, ma parte del tutto, dunque, tu stesso tutto. Quando il vecchio pescatore porta via le sue rughe salmastre e l’ultima cassa di colori sguscianti, te ne rimani solo. La lastra di mare è così ferma che ti dà l’idea che qualunque cosa ci si possa lanciare sopra poi rimbalza. Ti sfiora l’idea che puoi metterti a camminare sulla sabbia per contare quante orme riesci a fare. Ti sfiora, appunto, prima che vedi dove puoi fermarti e che bastano solo pochi passi. Il tempo non c’è sul mare. S’è dimenticato di misurarlo forse. Solo ne preserva la sua espressione più intima, la memoria, anzi, le memorie. Poiché ne scandisce e declina quelle passate sopra quelle dell’ora, forse persino le future, se sai leggere bene nel diario del viaggio che sarà. Il tempo passa, ma non si riesce a misurarlo, sfugge perché è effimero, insignificante, anche quando se ne è andato il sole non capisci bene quanto ne sia passato. Le memorie restano, la tua, che non t’avvedi di aver giocato, girandolo e rigirandolo tra le mani, per ore, con un murex svuotato da un Bernardo eremita che ha cambiato casa. Quelle d’altri, di mercanti fenici e pirati saraceni, di torme di Ulissi e precipitose fughe tra le mura di castellacci inghiottiti dalle onde. Quelle di avanzate improvvise di lenze ed ami alla prima bonaccia, di bagnanti festosi, d’urla di tonnare, di vele strappate, di cercatori di fortuna, di disperati che aspettano un approdo per l’essenza del desiderio. È allora che puoi tornartene a casa, ma senza saperlo sei partito e non sei più tornato, poiché, che tu voglia o meno, il mare t’ha inghiottito dentro, e t’ha fatto approdo e deriva al contempo.