M’attrezzai a sdoppiamento in illo tempore, allorché altro non fu di sconfitta persuaso. Egli s’arrovella che non se ne fece pace, ma è agitarsi di pesce in rete, che ormai non v’è più aria di disponibilità per respiro. Altro me è a ostinazione di convincimento che cimento è per destino ineluttabile, che è a produrre testimonianza, a rivendico di io c’ero, che non è medaglia al valore per me che ho identità di nessuno. Egli, però, ed è ad atto di protocollo, capì che parte di lui era a ragionare di convenienza esatta altra se chiedeva d’essere ceduto a libertà. Indi, pure di cuore a ristrettezze, mi fece che sciolse catena. Musica è d’abbisogna.
Pure decidemmo che ciascuno prendeva d’intero parte precisa, non è a sovrapposizione possesso di frammento. Non fu facile trattativa di ciò che spetta all’uno, cosa a tal altro, ma ci fu accordo definitivo con raro sconfinamento. Ch’egli si prese carico di lavorio a saldo per bolletta, baruffa a cottimo un tanto ogni tanto, velocità per esecuzione, carato di perfezione, prodotto finale a prova d’esame. Io feci per me incetta di lentezza, del tempo feci stralcio, d’inesattezza non mi feci cruccio, obiettivo piuttosto, di divenire la retta via che fu storta sin da concepimento.
Egli s’appresentò a seriosità conclamata, a dico cosa meditata e mai d’istinto, di mediazione appacificata vezzo irrisolto, di cronometria di tempo pratica di quotidiano, patì d’urbanità represse. Io m’attrezzai di lentezze, a noia qual virtù suprema ed obiettivo di strategia esistenziale, ozio quale pratica di totem, di tempo a trascorso non m’avvidi, d’inesattezze cercai ad ogni intendimento, feci per me desiderio solitario di scoglio e basta. Pure, egli, mantenne identità a nome preciso, titolo d’accademia, appellativo di professione, epiteto d’impegno sociale, si fece portavoce d’altrui disgrazia, scrisse d’esattezza a punteggiatura, d’orpello si fece carico, di presenza non fu domo e cercò atto rivoluzionario. Dal mio, che son nessuno, mi tolsi nome, pure cognome, feci falò di tessere e passaporti, di pergamene feci fascio a cacciamosche, mi vestì di vagabondo, mi tramutai in cialtrone, godetti dell’essere evitato, evitai affratellamento se non per pari mio di nessuna identità, di scrittura feci a come mi pare, mai a come pare ad altro, fui eversivo che cambiai direzione ad evito ingorgo. Ma di tutto che ci si spartì non s’addivenne a ragionamento di questo a te e questo a me per pane e pomodoro, vino e musica giusta, che ci toccò di dividere a metà, che ce ne manca sempre abbastanza.
Radio Pirata s’avventa su puntata Diciannove con piglio d’austerità per bolletta esosa causa guerra, giammai per tassa a sfondo di tasca di povero e perso. Che grandi di terra hanno a mirino paradiso fiscale di grandi oceani, dove giacciono isolotti a sovrappopolazione di banche. Che furbissimi di governo, lucidi e pervicaci nel colpir malaffare, hanno trovato soluzione: fanno cambio climatico che di risacca l’isola sparisce e con essa banca a soldo di contrabbando e illecito arricchimento. Geniali e modesti, che non dissero che spruzzo d’anidride carbonica era per stroncar flusso eccedente di finanza creativa. Vado di musica a gloriar l’impero.
Mentre mi crogiolo di note, pure mi faccio bicchierosso di mezzo pomeriggio, segnalo che il gioco a premi che merita maggior tribuna d’onore social, prosegue con entusiasmo crescente di partecipanti a sfidare solidarietà pelosa, ottuso pacifismo, a colpi di linda e glabra corsa a scelgo il profugo giusto. Che, reitero d’altra puntata, taluno è profugo, talaltro pare lo è ma non abbastanza.
Dipende sempre da guerra e guerra, pure da certi effetti cromatici epiteliali che, a scuro, non consentono visualizzazioni a top di sublime nitidezza a profilo. Che Cavalli Sforza si pensava d’aver abolito razze a scienza, ma quelle esistono ancora a guerra ch’egli non ci pensò. Via di musica a tonalità multicolore.
Che pare che governo s’arena a tetto di due per bomba ad accordo internazionale, che su quello non si transige, che nostro è paese serio, mica talaltro che esporta banane e accatta a tasso di strozzo farina a ogm, che invece a missilino si faceva sconto di fine stagione. Che taluno – pure quell’altro me che gioca a briscola pazza pensando che vale qualcosa, ma è due di coppe con briscola a denaro – obietta che pure è accordo internazionale soccorso in mare a disgrazia di naufrago, che UE grande gloriosa e giusta direbbe stabilizzazione di precario, rispetto d’ambiente, discarica anche un po’ meno, e facezie così, che quella è roba da burocrati che non hanno a cuore destini fulgidi d’impero italico.
Pure a convenzione sovranazionale si pretende financo giustizia veloce, non lenta come lambretta scarburata per ricco a vagonata d’avvocato per accompagno a rituale liturgico di prescrizione, velocissima è già per rubo mela che ci ho fame e vado in prigione a conto di fine pena mai, che avvocatino s’appellò a clemenza della corte. Ancora di giusto a musica per statutaria deliberazione di Radio Pirata da universo condivisa, che qui non mi faccio tetto in basso.
Che è notizia falsa che notizia non si passa, pure che è inviso al mondo dei giusti giornalai dissenso ad unanimità. Giammai questo accade, solo si sottolinea ad uopo che tale presa di posizione ad avverso su argomento serio, è di tali a sveglia al collo e osso al naso, che, a notte, ruotano intorno a bordo di terra piatta. Che riporto, a conforto d’assioma, e prima di musica, frase precisa di noto terrapiattista: “E qual è mai il giornale che scrive per il fine che in teoria gli sarebbe primario cioè informare o non invece per quello di influenzare in una direzione.” (Lorenzo Milani)
E mentre mi cospargo capo di cenere, che mi scappò detto a pubblico, in veste d’altro me, che pace non è guerra, mi dissero a buon senso comune ch’è tutta retorica, che sono a simpatia di zar, che equazione mi parve difficile a comprensione, pure se di matematica fui edotto, ma forse non ad abbastanza. Che glielo avevo detto io a quell’altro me che forse era meglio perseverare a silenzi di nessuno, semmai profittare di rosso e musica, magari ad odor di scoglio, vista d’orizzonte terracqueo.
Che a sfuggita mi leggo una notizia, me la girano dei tali strani laggiù, che scrutano onde, s’arrovellano di tale incombenza. Cinquanta se ne inghiottì il mare, sorpresi dal nulla a disperazione d’arrivare a vita nuova, sorpresi senza un nome. Sono quelli che non contano, non è a pietà che ci si muove per loro, invisibili pure a morte. M’andrebbe di scrivere, ma forse no. Vi do musica, vi do cosa già scritta, che tanto funziona uguale.
“Mi scappa come mi scappa, di scrivere, intendo. Pure di parlare, talvolta. Che la trama me la cucio addosso, che non è tela di Penelope, è altra roba che non so. Scrivo che chiaro non sono manco a me, forse al me di dentro, che sempre vedo di definizione mai esatta e virtù sfuggita. Che lascio all’altro me – di fuori – la complicazione d’obbligo di parlar chiaro, che il fluire di parole a scopo è il pane suo, il mio m’è di nutrimento diverso. E quando scrivo mi scappano sghiribizzi, che s’affamano delle mancanze. Che penso a cose, mi scappa che penso al mare, che nel mare c’è tutto. C’è il viaggio, che il mare viaggia conto terzi, fermo non ci sta. Seppure ve ne state soli sullo scoglio, quello lo stesso si muove, vi concede la vista del mondo intero. Se lo porta dentro, e nell’onda che s’arrovella, pure di bonaccia, c’è universo che sobbolle.
Vi riconoscete in quel viaggio definitivo, perché l’avete già fatto dentro, avete occhi per incontrarlo che già lo conoscete. Chi è di mare aperto, nato con la valigia in mano, migrante per forza, pure se va via sa che, quando se ne torna a casa, la casa fa questo lavoro qui, si sposta da un’altra parte, gioca con le attese, le speranze. Si culla dell’onda. Che non è una la casa che si riconosce al mare, ma è porta aperta sulla vertigine, si trasforma tutti i giorni che domineddio mandò sulla terra, giacché ogni porto che l’onda tocca è già casa. D’inverno, pare che si concede solo a chi ha occhi aperti sull’infinito, e lo ritrova sulla striscia dell’orizzonte. Taluni non sanno ch’esiste, oltre il tempo dedicato a voltargli le spalle, che occhi aprono di distrazione e a tempo, non sanno come aprirli. Con questi gioca, li caccia via, come mercanti dal tempio, si mette a far paura quando ha i cinque minuti. Mi sono persuaso che non voglia intrusi, quelli che occhi alla vertigine non ne vogliono avere. Il mare odia il tiranno, ch’è ponte definitivo e cerniera tra mondi, se li stringe tutti al petto, te li mostra ad ogni onda. L’orizzonte che s’apre all’infinito apre lo sguardo di dentro, gli dà sfogo. Che struggente apprensione mi creava, da bambino, la vista oscurata di cipresso a morto del Teatro Greco, concepito, da chi inventò filosofie, come trampolino di cuore per il balzo dell’occhio verso l’oltre. Ostruito alla vista, a volontà vigliacca del luttuoso nero ch’aggrovigliò il paese, né mai andò via davvero, l’oscena cortina a questo serve, a togliere fantasie, che se guardi oltre, c’è il rischio che pure il pensiero ti corre in quella direzione. C’è il rischio che t’avvedi delle porte aperte, della mano tesa, dello sgusciare del mondo, t’avvedi che non appartieni che al nulla, dunque sei del tutto che vortica d’intorno, sei tu il tutto che vortica d’intorno. Pilu Rais, con la barca lontana di scoglio quando azzurro s’arriccia di bianco, se occorre, conosce la strada per conquistare l’aperto assoluto, e scandaglia di sensi l’abisso, che creature d’argento offre al desco di chi sa attendere. Tempo e mare confliggono di scontro definitivo, l’uno che dell’altro non si cura, l’altro s’acciglia dell’attesa. Il mare questo fa di mestiere, che ti porta genti che hanno storie da raccontare, e se hai una certa qualità dell’anima, ti metti lì e le ascolti, tendi la mano, diventi gente che ha storia da raccontare. Se vivesti nella paura, che mai hai rivolto sguardo all’infinito, il racconto t’angoscia, sostituisci all’orizzonte il rassicurante filare del cipresso, la banchina a cemento, il fortilizio inespugnabile, a difesa del nulla di cui ti sei vestito, schiavo per sempre, con bende a occhi, cuore mutilato.”
Via, andiamo subito di musica, che com’ebbi a dire, quella vi resta, e qui ci sta pure bene.
Non so se avete presente quelli che hanno due cognomi, anche tre. Ce ne sono taluni che se li portano con discrezione, non gliene importa più di tanto. Talaltri, invece, ne vanno matti. È cosa che li gratifica, come se essere nati con quella pletora di ridefinizioni anagrafiche sottintendesse condizioni auliche del corpo e dello spirito, superiorità ereditarie (a me vengono in mente cose tipo emofilia e robe che si acuiscono con la scarsa ibridazione per paure patrimoniali, ma io soffro di deformazioni socio-politico-antropologiche). Ci sono poi quelli che ci stanno proprio male se non si prende atto della loro cognomanza binomiale, e te lo fanno notare, per esempio mostrando sufficienza quando, che ne so, appongono firma, qual sigillo regale, su un qualche modulo intriso di burocratismi elementari, irrispettosi del rango di chi legge e sottoscrive, e accompagnano quel gesto d’umana quotidianità su infarciture di pertanti, con dolenti esclamazioni del tipo: “oh, che fastidioso firmare con due cognomi, beati voi – sottintendendo il ‘comuni mortali’ – che non avete lo stesso atavico problema”… e nel frattempo, sollevano prudenti lo sguardo, nella speranza dissimulata di cogliere in quello degli astanti anche una sola espressione che ne disveli stupore frammisto ad invidiosa ammirazione. Ho comunque memoria di certi personaggi che possedevano ormai più titoli e cognomi che averi, e che vivevano nell’angoscioso ricordo di quei tempi in cui un titolo si poteva cedere dietro lauto compenso, a porre pezze precarie a certe propensioni che dilapidavano patrimoni, castelli e latifondi, dietro giochi d’azzardi ed altre umane debolezze. Viceversa, ho contezza di moderni ricchivendoli che devono le proprie fortune ad imprese audaci non proprio trasparenti, e che celano le proprie umili e polverose origini dietro ricerche araldiche che ne disseppelliscano nobili discendenze. Manco a dirlo, pagano fortune per ciò, essendo il mondo pieno di tali ceffi che, di par loro, venderebbero qualsiasi certezza ereditaria. Fortune, se non pari, assai simili a quelle che servono per nutrire monoliti a quattro ruote, con cui divelgono lastre di piccole piazze storiche o asfalti in ampi piazzali, assai rumorosamente, è ovvio, perché nessuno se ne perda l’evoluzione ed estasiato esclami: “che bella macchina s’è fatta il conte”. Ma quelli più sorprendenti sono certuni che inseguono apparenze aristocratiche con l’uso disinvolto di simboli arcaici. Ho visto certi industrialotti che hanno reso partenoniche le colonne che reggono il cancello d’ingresso al capanno prefabbricato e modulare, e su, in vetta ad esse, hanno posto ruggenti sculture leonine, accuratamente invecchiate con processi artificiosi, sicché se ne può dedurre origine antica, possesso da generazioni. Che il povero operaio, ormai dearticolodiciottizzato, pure delocalizzato, non solo mantiene un profilo basso, dopo il seppellimento di tessera sindacale per paura d’impedimento a riattraversamento d’ingresso, ma varca il medesimo al fabricozzo con spirito da novelle Forche Caudine. Non m’è difficile immaginare che se costruissi il mio albero genealogico, con intendimento d’aggiunta di qualche titolo o cognome a quell’unico piuttosto prosaico che mi porto dietro sin dal mio primo affaccio su questa terra, alle mie spalle, e ripercorrendo a ritroso la storia ed il tempo degli avi, mi ritroverei con qualche pirata, un pescatore di ricci di mare, un cammelliere stanco di sabbia, forse!
Allora non mi resta che consolarmi per questa che sono certo è la verità unica ch’appartiene alla mia genia, con il narrarvi d’un piatto che mai il signor conte, il duca od il marchese, oserebbero assaggiare, giacché il presupposto per gustarne l’essenza sta nell’intingervi le dita in tradizionale condivisione, e giammai essi consentirebbero alle proprie nobili ed ingioiellate falangi di sguazzare nei medesimi intingoli d’altri. Di più, temendo contaminazioni geopolitiche, virali e classiste, mai addiverrebbero alla conclusione di potersi concedere tuffi di pura contaminazione. E si, accenno al cuscus, – doppio nome, ma ripetuto che non si butta nulla – la cui origine è si antica, ma nient’affatto nobile, che appartenne a poveri carovanieri subsahariani. Da lì, senza permessi di soggiorno, varcò frontiere, sorvolò vette elevatissime, naufragò su spiagge d’oceano. Anima migrante, si integra ed integra, poiché si fonda sul desiderio definitivo dei suoi piccoli chicchi d’assorbire le essenze dei luoghi, fossero fatte di poveri tocchi di carni capitati per caso tra le dune d’un deserto, abbondanti pescati sulle coste del Mar d’Africa, o verdure selvatiche d’ogni fatta, ed intingoli. Non disdegna le contaminazioni profonde, dunque, ed anzi le ricerca rifiutando d’ideologia la purezza declamata dell’esclusivo regionale. È realmente l’archetipo illustrativo dell’unità, sin dall’attingerne il contenuto dal piatto (che sia di ceramica colorata, magari con cretti e scorticature) che invita a creare un humus assoluto fatto d’ogni contributo. Infine, è piatto che sin dalla sua preparazione invita alla lentezza, alla meditazione, alla conversazione. Non v’azzardate ad iniziare a prepararlo senza prima esservi assicurati d’avere a portata di mano qualcosa da bere. Per gli astemi c’è il tè, eventualmente, come quello nel deserto. Ma io astemi ne conosco assai pochi, che v’è detto, non aulico ma esplicativo, che “non ti piglio se non t’assomiglio”. Non mi resta che darvene sintesi, una delle tante (tutte hanno diritto di cittadinanza, perché il cuscus è apolide). Alla base v’è la semola di grano duro – ve ne consiglio una metà a grana fine e l’altra un po’ più robusta – che va posta su un piatto di ceramica ampio (mezzo chilo per quattro persone) e spruzzata d’acqua salata. Quindi, con sapiente movimento rotatorio delle dita, si consente ai grani di assorbire il liquido sino ad assumere la caratteristica forma a piccole sfere. Si procede, dunque, alla prima setacciata. Le palline che passano vanno addizionate di semola fresca perché si accrescano sino a raggiungere il diametro desiderato di circa due millimetri. È bene che in questa fase si beva del Frappato fresco, e si conversi del più e del meno. Giacché si presuppone che inizialmente il tasso alcolico non sia ancora accettabile, si può indugiare in conversazioni sull’arte e la bellezza! La cottura avviene nella cuscussiera a vapore, con olio d’oliva, chiodi di garofano, aglio, prezzemolo e peperoncino rosso. Sul fondo consiglio di mettere brodo di pesce misto, fatto di specie poco pregiate, ma ricche di profumi amplificati da aromi. Il vapore del brodo risalirà verso il piano nobile cucinando la semola. Ci vogliono almeno due ore perché la cottura sia completa, non c’è fretta, è ovvio, soprattutto se la compagnia è buona ed il Frappato non è ancora finito. Poi si versa il contenuto su un grande piatto, si rimescola un po’ e si rimette a cuocere per un’altra mezz’ora buona, praticamente un paio di bicchierini, una sigaretta, una decina di pagine di libro giusto, con racconti di viaggio per mare e spazi aperti d’orizzonti, lunghi reef d’afrojazz sullo sfondo. Infine, fatelo riposare ancora al piatto, quindi conditelo con il brodo di cottura filtrato, e servitelo con il pesce che avrete avuto cura di tirare fuori del brodo prima che si disfi, pure con verdure saltate in padella, pomodoro fresco (consiglio, oltre a sedano, carote e cipolla, anche melanzane, zucchine e peperoni). Io aggiungo alle verdure anche un cucchiaio di miele di timo! Poi dateci dentro senza ritegno, limitando l’uso delle posate, ma non quelle di un irrispettoso Nero d’Avola, e se qualcuno dei presenti inorridisce per l’abbinamento di un vino così corposo al pesce, ditegli di farsi gli affari suoi e la prossima volta non lo invitate.
Che mi scappano dieci minuti, sottratti abilmente, con furto a destrezza, al lavoro. Troppo pochi per dedicarmi a scrivere altro, da ciò desumo che mi tocca di riciclare, pratica in cui eccello, che non m’è mai di fatica, sfruttare il già fatto. Poi m’attende full immersion in altre faccende d’affaccendamento. Stavolta vi faccio pure la colonna sonora al testo, che quella, come ebbi a dire, almeno, vi rimane.
“Charles Baudelaire si scagliò con tale veemenza sulla fotografia, da far venire mossa ogni foto nel raggio di chilometri dal suo Salon. Non era ammissibile, per il poeta vergine che la fulminea attrazione dell’attimo spostasse lo sguardo dalla contemplazione elevatissima dell’arte pura, nella sua rappresentazione più autentica, come nel teatro o nella pittura. Inaccettabile il processo di massificazione e tecnologizzazione dell’arte. L’industria si sostituiva al genio creativo, lo filtrava attraverso uno strumento, poneva anche gli inetti nella condizione di potersi definire artisti. Poi si fece fotografare in poltrona dall’amico Nadar, e questi ne colse nella sua posa disincantata tutta la poetica, sublimandola nell’attimo, appunto.
Nadar aveva compiuto il miracolo, anzi no, la magia, di elevare la sua arte a livelli vertiginosi, usando l’immagine del suo più feroce – e certamente credibile – avversario, per emanciparla dal mero tecnicismo cui rischiava di essere relegata per sempre. Di più, l’invasione di campo della fotografia, capace di raccontare il reale con efficacia assai maggiore del più attento iperrealismo manierista, sospinse tutte le altre arti figurative verso orizzonti nuovi, alla ricerca di realtà parallele cui l’occhio non poteva giungere. Stessa preoccupazione di preservare la purezza dell’arte espressa da Baudelaire si ripalesò con il de profundis dei dagherrotipi e linotipie nell’eredità concessa alle prime 35 mm. Eppure, non v’è dubbio che i movimenti colti dal click di Cartier Bresson, ma anche le immagini sfocate di Robert Capa, facciano parte a pieno titolo di ambienti di massima espressione artistica. Con il digitale, come per un misterioso fenomeno carsico, riemerge l’urlo dei puristi, poi la fotografia per tutti col cellulare, credo abbia fatto venire l’orticaria persino alle ortiche. E se c’è chi invita alla riflessione prima del click, stigmatizza l’improvvisazione ottica, c’è invece chi accoglie come una vera rivoluzione democratica la possibilità che miliardi di occhi moltiplichino i propri sguardi con ogni mezzo possibile, raggiungendo l’apoteosi del numero infinito di scatti. Quanti appuntamenti all’alba dietro conventi di frati minoriti si sono consumati nella disfida finale per definire la verità che distingue lo scatto fine a se stesso – ma sarà sempre tale? – dalla foto concettuale? Ammetto che non parteciperò alla dialettica serrata tra i fautori del deposito di megapixel, non prendo parte, non sono interessato alla questione, ho deciso di far repubblica e di dichiararmi neutrale. Sguscio via, piuttosto, evito di frequentare i circoli fotografici come ho smesso di occhieggiare ai cenacoli pittorici, bazzicare simposi letterali.
Mi sono fatto una mia opinione sulla fotografia, che non appartiene alla fotografia, né alla scrittura, tanto meno alla musica o alla pittura o a cos’altro vi pare. Persuaso, infatti, che la narrazione che ci portiamo dentro – nessuno escluso – trovi modo di esprimersi in un momento qualsiasi quando incontriamo la realtà che la rappresenta, e come ad uno specchio costruiamo la magia dell’incontro tra il nostro dentro e il resto d’intorno. Basta avere occhi, certe qualità dell’anima, per guardare il nostro dentro e la sua rappresentazione lì fuori. Quando accade siamo pervasi dalla meraviglia e immortaliamo l’attimo con un’immagine, una poesia, due o tre note in fila, se ci aggrada e ne siamo capaci. Ciascuno come gli aggrada esprime la propria sorpresa nel sentirsi una parte del tutto e vuole conservare quell’istante, renderlo infinito, come il tempo che oltrepassa il frammento di se stesso dello scatto. Nella fotografia, il tempo dell’incontro dura un attimo, bisogna coglierlo prima che fugga, più lungo nella poesia e nella musica, ancora più ampio nella prosa, per il respiro profondo di tempi dilatati. Ed allora basta eliminare la variabile temporale per riprendersi l’originario progetto narrativo che è la parte razionale di quell’intimo e segreto miracolo dell’atto creativo. Del resto “il tempo della produzione, il tempo-merce, è una accumulazione infinita di intervalli equivalenti. È l’astrazione del tempo irreversibile, di cui tutti i segmenti devono provare sul cronometro la loro sola uguaglianza quantitativa. In definitiva il “tempo è, in tutta la sua realtà effettiva, ciò che esso è nel suo carattere scambiabile. È in questo dominio sociale del tempo-merce che «il tempo è tutto, l’uomo non è niente; egli è tutt’al più l’incarnazione del tempo». È il tempo svalorizzato, la completa inversione del tempo come «campo di sviluppo umano»” (Guy Debord, Miseria della filosofia). Posso dunque ascoltare un’immagine, guardare un suono, sentire l’odore intenso della poesia e della scrittura, se cancello il tempo. Ed il tempo derubricato ad un parametro “non vitale” consente di rifuggire l’orrore della specializzazione e dialogare con le forme espressive, comunque si manifestino. Se si scattano foto perché sono il nostro naturale ricongiungimento con il reale, dunque, poi è bene intrattenere rapporti con altri fotografi, ma senza codificarli nella liturgia dell’appartenenza, piuttosto val la pena leggere un libro e parlare con chi ne scrive, ascoltarsi un disco in compagnia di chi fa musica. Perché nella specializzazione si nasconde il rischio mortale dell’annullamento della dialettica concreta e progressiva delle narrazioni individuali, la cui somma è la narrazione collettiva che trascende il tempo e destruttura e annulla l’immagine-merce al cospetto dell’immaginario. In fondo Nadar non ha letto attentamente le poesie di Baudelaire prima di catturarne l’espressione “maledetta” nel volto d’un uomo in poltrona?”
M’azzardo a dare consigli, che ci fosse chi li dà a me. Uno scarno scarno, che prima che vi mettete a leggere, andate in fondo e fate partire la musica, che almeno quella vi resta. Così leggete con quella di base che scappò detto a taluni, che quello che scrivo talora non si capisce. Ed è cosa che può essere, che non mi metto a centellinare parole come si deve. Mi scappa come mi scappa, di scrivere, intendo. Pure di parlare, talvolta. Che la trama me la cucio addosso, che non è tela di Penelope, è altra roba che non so. Scrivo che chiaro non sono manco a me, forse al me di dentro, che sempre vedo di definizione mai esatta e virtù sfuggita. Che lascio all’altro me – di fuori – la complicazione d’obbligo di parlar chiaro, che il fluire di parole a scopo è il pane suo, il mio m’è di nutrimento diverso. E quando scrivo mi scappano sghiribizzi, che s’affamano delle mancanze. Che penso a cose, mi scappa che penso al mare, che nel mare c’è tutto. C’è il viaggio, che il mare viaggia conto terzi, fermo non ci sta. Seppure ve ne state soli sullo scoglio, quello lo stesso si muove, vi concede la vista del mondo intero. Se lo porta dentro, e nell’onda che s’arrovella, pure di bonaccia, c’è universo che sobbolle.
Vi riconoscete in quel viaggio definitivo, perché l’avete già fatto dentro, avete occhi per incontrarlo che già lo conoscete. Chi è di mare aperto, nato con la valigia in mano, migrante per forza, pure se va via sa che, quando se ne torna a casa, la casa fa questo lavoro qui, si sposta da un’altra parte, gioca con le attese, le speranze. Si culla dell’onda. Che non è una la casa che si riconosce al mare, ma è porta aperta sulla vertigine, si trasforma tutti i giorni che domineddio mandò sulla terra, giacché ogni porto che l’onda tocca è già casa. D’inverno, pare che si concede solo a chi ha occhi aperti sull’infinito, e lo ritrova sulla striscia dell’orizzonte. Taluni non sanno ch’esiste, oltre il tempo dedicato a voltargli le spalle, che occhi aprono di distrazione e a tempo, non sanno come aprirli. Con questi gioca, li caccia via, come mercanti dal tempio, si mette a far paura quando ha i cinque minuti. Mi sono persuaso che non voglia intrusi, quelli che occhi alla vertigine non ne vogliono avere. Il mare odia il tiranno, ch’è ponte definitivo e cerniera tra mondi, se li stringe tutti al petto, te li mostra ad ogni onda. L’orizzonte che s’apre all’infinito apre lo sguardo di dentro, gli dà sfogo. Che struggente apprensione mi creava, da bambino, la vista oscurata di cipresso a morto del Teatro Greco, concepito, da chi inventò filosofie, come trampolino di cuore per il balzo dell’occhio verso l’oltre. Ostruito alla vista, a volontà vigliacca del luttuoso nero ch’aggrovigliò il paese, né mai andò via davvero, l’oscena cortina a questo serve, a togliere fantasie, che se guardi oltre, c’è il rischio che pure il pensiero ti corre in quella direzione. C’è il rischio che t’avvedi delle porte aperte, della mano tesa, dello sgusciare del mondo, t’avvedi che non appartieni che al nulla, dunque sei del tutto che vortica d’intorno, sei tu il tutto che vortica d’intorno. Pilu Rais, con la barca lontana di scoglio quando azzurro s’arriccia di bianco, se occorre, conosce la strada per conquistare l’aperto assoluto, e scandaglia di sensi l’abisso, che creature d’argento offre al desco di chi sa attendere. Tempo e mare confliggono di scontro definitivo, l’uno che dell’altro non si cura, l’altro s’acciglia dell’attesa. Il mare questo fa di mestiere, che ti porta genti che hanno storie da raccontare, e se hai una certa qualità dell’anima, ti metti lì e le ascolti, tendi la mano, diventi gente che ha storia da raccontare. Se vivesti nella paura, che mai hai rivolto sguardo all’infinito, il racconto t’angoscia, sostituisci all’orizzonte il rassicurante filare del cipresso, la banchina a cemento, il fortilizio inespugnabile, a difesa del nulla di cui ti sei vestito, schiavo per sempre, con bende a occhi, cuore mutilato.
“L’arte, io non lo so se sia eterna o provvisoria, se la forma d’arte nella quale viviamo per molti secoli ci si sia connaturata come sangue, ma so che questa carica, che noi abbiamo oggi, è una carica di comprensione della vita”. (Cesare Zavattini)
Che tutto fuori furibonda, pure il ciclone non pare meno cauto del solito, e s’addesertano le verdi foreste, s’allaga il deserto e si fa lago, s’imbronciano i banchieri, scavallati a destra – che a manca s’è persa la retta via -, sepolti d’angustia e a rischio dePILazione, colpa torme sbavanti di ferocia inaudita, ch’è a rischio l’olivetta in ammollo nella melassa di color catarifrangente e le faccelibro traboccano d’astinenze umane. Così m’appare il mondo, che ogni angolino di suadente lentezza, mista di bellezza, si fa specie in via d’estinzione programmata. Eppure, taluni anfratti ancora ne scorgo, che uno me lo sono visitato di recente, come toccasana per gengie stanche d’arrotamenti, dove, quando posso, scappo e vado. In mezzo alla Bassa, a due passi dal fiume che, salvo improvvido scroscio marziano – che quelli ormai se li beccano le vie vulcaniche meno avvezze, nel mondo che s’arrivede al contrario -, pare placido assai più dell’altro corso del 24 Maggio.
Defilato, solo vagamente, in quel di Gualtieri, in terra di Zavattini, c’è la Casa Museo di Antonio Ligabue (e qui c’è tutto quello che dovete sapere: http://www.museoligabue.it/), posto dove approdi con l’intenzione della scoperta lenta. Lì, Giuseppe e Gilda, magnifici amici, di quelli che li devi mettere in agenda al primo posto, t’accompagnano in viaggio senza tempo, dentro pennellate ed unghiate del pittore più sano tra i pazzi, che lì dormì appollaiato in quel che fu fienile ed ora è luogo di ristoro d’anime contemplative.
E c’incontri storie, ogni volta un’altra diversa, sempre che t’affascina, sia di un vecchio sindaco che decretò ospitalità strutturata all’artista, sia del figlio dell’autista del maestro, sorprendente Roberto, che ne conobbe i dettagli al desco, e te li racconta con dovizia di particolare, con un sorriso talmente rasserenante che non te ne vai più. Ci sta che te ne staresti lì un paio di migliaia di anni che, com’è destino delle magie di certi posti, prima o poi qualcuno passa che ti delizia del racconto, che t’aggiunge una curiosità o te ne risolve una che manco t’era venuta in testa. E pare un film quel gazebo, con le biciclette ferme che non attendono pedalata, ma che invogliano al bicchier di vino – che io, terrone di mare, gradirei più fermo delle fucilate a bolle del Lambrusco, ma me ne faccio ragione. È ospitalità antica, di quelle che non chiedono altro che il racconto, che invogliano alla domanda, alla risposta rendono pronti e mai esausti.
Giuseppe Caleffi, Virgilio e al contempo Cicerone dello spazio, non ti fa mancare che la storia continui, che di dettagli dentro un quadro ce n’è quanti ne vuoi, se è lavoro sofferto. Pure solo se è una punta secca d’un maestro di follie e trovate, t’apre d’affabulazioni un mondo ch’è fatto di bellezza soffusa, di colori sgargianti, e nebbie d’ovatta. Ogni oggetto, che in casa deporresti nel bugigattolo, lì pare che ti racconti di vicende d’umanità profonda, si fa catalizzatore d’attenzione emozionata, t’attira nel vortice del tempo, ti lascia fuori gli orpelli dell’inutilità del resto d’intorno e ti riaffratella con la vita.
Poi, che ti resta, se t’avanza tempo, se non d’andarti a mangiare tortelli di zucca (un po’ più alla mantovana, da quelle parti, mi par di capire, che all’emiliana), dopo l’estasi della passeggiata fricchettonante in riva al Po, speranzoso – e lo dico per me – che il vino non faccia troppe bollicine, che la gastrite, quel giorno d’estasi, l’ho lasciata a casa per sommo sollucchero.
Mi capita, spesso, anche perché mi consente di soddisfare pigrizie ataviche, di ripubblicare cose scritte già tempo fa, prima che il tempo mi conceda il desiderio di ripudiarle. Lo rifaccio ancora, questa volta con una certa malcelata inquietudine, poiché a me pare pure di respirarne a vagonate nell’aria. E’ cosa che ho buttato giù circa un anno fa e, com’è d’uopo, mi virgoletto, così mi cito. Fate voi se s’adatta ai tempi nuovi, e magari, prima di cominciare a leggere, avviate la musica giù in fondo, che v’aiuta la digestione.
“Ed ora che piano piano si cerca di ritornare all’auspicata “normalità”, mi rendo conto che forse non è quello che volevo, almeno non in queste forme. In realtà di tempo per riacquistare la facoltà di rimettere il naso fuori di casa non me ne rimane a bizzeffe, prigioniero, da insegnante, della didattica a distanza che ha moltiplicato il mio impegno sottraendomi la parte più essenziale e bella del mio lavoro, il rapporto con i ragazzi. E sarà pure che questa auspicata “normalità” si scontra con quella che molti hanno definito la “sindrome della capanna”, quella sorta di appagamento definitivo dello starsene in casa che ci becca giusto giusto quando l’evasione è alle porte. E poi la mascherina mi appanna gli occhiali, i guanti mi fanno perdere la sensibilità nel maneggiare le cose, mi indispettiscono. Sarà anche che del ritorno al “normale” mi fa paura l’orrenda atmosfera di intolleranza che, sopita per qualche scampolo di tempo nelle segrete stanze dei nostri domicili coatti, ora si ripresenta per la solita insostenibile insipienza dell’essere.
Ma tant’è, si ricomincia. Ricomincia la “normalità”, lo sfruttamento, il massacro ambientale, lo sbraitare contro qualche minoranza per nascondere le nostre più inconfessabili frustrazioni. Tornano in scena i protagonisti dell’odio a cottimo, sguaiati, bugiardi. Il loro obiettivo però non è cancellare le minoranze, lasciando che divengano capro espiatorio per i nostri disagi, le nostre fragilità, piuttosto soggiogare le masse, dunque ciascuno di noi. Le minoranze vengono usate in modo cinico e spietato per obnubilare le moltitudini che tornano a reclamarne il sangue come nell’antica Roma si esigeva quello dei gladiatori. Occuparsi degli ultimi, liberare Spartaco e far sentire la sua voce, non è dunque soltanto l’agire di chi non rinuncia alla propria umanità, ma anche un necessario atto di legittima difesa.
Eppure mi viene da pensare che, mentre fremevamo nei nostri isolamenti, come un inintelligibile disturbo sotto la pelle, magari a molti s’è palesata quella voglia di riscrivere un’altra “normalità”, di riprendersi da protagonisti quel pezzo d’umanità che fugge, diventarne gli untori in una nuova pandemia per cui non vorremmo si trovasse cura. Voglio lasciarvi con una cosa che certe volte mi torna alla mente, una di quelle che per quanti anni possano avere non se ne vanno mai, come un monito perenne e vertiginoso.”
“Le atrocità sollevano un’indignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono “more”, “sudice”, dago. Questo fatto illumina le atrocità non meno che le reazioni degli spettatori. (…) L’affermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom. Della cui possibilità si decide nell’istante in cui l’occhio di un animale ferito a morte colpisce l’uomo. L’ostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – “non è che un animale” – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il “non è che un animale”, a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dell’animale. Nella società repressiva il concetto stesso dell’uomo è la parodia dell’uguaglianza di tutto ciò che è fatto ad immagine di Dio. Fa parte del meccanismo della “proiezione morbosa” che i detentori del potere avvertano come uomo solo la propria immagine, anziché riflettere l’umano proprio come il diverso”. (Theodor Adorno)
Una premessa me la voglio concedere, per sfizio, quasi pure per vezzo, che di vezzi mi nutro. Tutto quello che c’è in questo blog è, salvo diversamente specificato, opera mia, immagini e testi intendo. La musica la faccio fare ad altri (come peraltro s’evince) che io non sono capace, pur ammettendo che mi riesca il resto. Ed anzi, avviatela prima di continuare a leggere, se ne avete voglia. Insomma, dicevo, poiché è tutta roba mia, e poiché io sono nessuno, è tutta roba di nessuno, pari pari un sillogismo aristotelico. Aggiungo, ampliando il sillogismo, che, poiché è di nessuno, è pure di tutti. Dunque, chi volesse se la può prendere, non deve citarmi, può farne quello che gli pare, e senza tema di plagio, che la proprietà privata mi turba nell’intimo. Posto questo, che mi pareva assai doveroso, mi veniva voglia di scrivere certe cose oggi. Pure m’accorgo che quello che volevo scrivere l’ho già scritto, e per la premessa fatta mi cito senza citarmi e riposto una cosa vecchia. Ma sono persona dabbene e non voglio attribuirmela all’oggi, così me la virgoletto che si capisca che cito.
“Le finestre, talvolta, sono copertine di libri aperti, le porte finestre lo sono di grossi tomi che s’aprono sulle distese di pagine di terrazzi e balconi. Libri di memorie, diari di viaggio, appunti per una fuga. Pagine ancora intonse, da riempire di parole. Mi sono convinto che il Borneo di Salgari deve essere stato scritto su quelle pagine. C’è un momento migliore degli altri per scriverci sopra, quando s’apre la copertina rigida e fuori è appena l’alba. Fa ancora freddo, e l’aria t’entra sotto la pelle, cerca riparo, s’apre varchi e risveglia le curiosità della notte. La luce non mostra ancora la consuetudine, ma fa della penombra l’anticamera della scoperta, come se alla sua esplosione il già visto dovesse trasformarsi nell’inattesa sortita della sorpresa.
Stamane era fresco su quelle pagine, ed il fiume di sotto s’intravedeva appena, una striscia dorata, sottile per le piogge mancate. Poi i raggi più impertinenti, come un re Mida al contrario che ha cambiato fornitore di stupore, lo trasforma in un budello color rame. E mi viene di lanciargli una bottiglia – ho avuto tempo a sufficienza per procurarmene una vuota, pure con tanto di tappo a tenuta – perché la consegni al mare con un messaggio, un pizzino da niente su cui ho buttato uno scarabocchio, giusto tre parole in fila. Ma mi viene, così per scherzo, l’idea di anticipare la bottiglia. E allora mi precipito su un tronco, una zattera, una canoa, pure un canottino gonfiabile va bene, a favore di corrente sino al mare. Lì c’è bisogno d’altri mezzi, roba cui cazzare la randa e il fiocco per cogliere tutto il vento necessario a strappare nodi alle onde, schivare la fiera famelica, le cannoniere portoghesi, i brigantini di sua Maestà, appena una sosta per un bicchiere buttato giù d’un fiato con i pirati, e poi ancora verso Sud. Sino all’approdo su una Ferdinandea che non c’è sulle carte, naufrago su una spiaggia di vetro, con la mia scorta di prugne secche, cucunci e vino.
La speranza è che un’eruzione improvvisa non mi cancelli con lo scoglio, sprovveduto emulo d’Empedocle, per di più pigro poiché per nulla propenso ad accettare la sfida dell’ascesa vertiginosa al grande vulcano, solo oziosamente sdraiato ad un passo dalla risacca. Ma se proprio deve succedere, almeno fammi ritrovare prima la bottiglia, il messaggio che mi sono mandato per vedere se sono più veloce di me stesso. Eccola là, la bottiglia, mentre si sente il brontolio sottomarino della bestia che risorge. Tra la pomice del bagnasciuga strappo il tappo, e sul postit, che con le cartolerie chiuse di meglio non ho trovato, le tre parole in fila : Appena posso arrivo.”
Ci sono personaggi della letteratura che se ne stanno nell’immaginario senza fare rumore, non vogliono dare fastidio. A volte ritornano, come un fiume carsico che riemerge più in là. A me ne è rimasto uno che mi si affastella ultimamente, insieme ad altre memorie, si fa il fotofinish con il Capitano Achab: l’Abate Faria, rincalzo di punta nel Conte di Montecristo di Alexandre Dumas e Auguste Maquet. Lessi il romanzo ch’ero alle medie e ancora c’era in giro il maestro Manzi.
Ogni mese o due – non ricordo bene – un professore che aveva la sigaretta accesa incorporata, rovesciava sulla cattedra un po’ di libri sbiaditi e logori, e noi dovevamo pescarne uno dal mucchio. Già allora avevo una certa repulsa per lo sgomito, m’è rimasta per le resse al banco delle cene a buffet – di norma digiuno -. A scanso d’equivoci, non è che spintonarsi alla cattedra fosse da ascrivere ad avidità culturale di quella ciurma scalcagnata della nave Suburbia; è che il professore pretendeva la relazioncina sul libro che avremmo dovuto leggere. Dunque, sic et simpliciter, l’azzanno collettivo era funzionale all’accaparro del libro con tante figure e poca roba scritta. Il Conte di Montecristo non rientra in quella categoria e, da buon ultimo, mi toccò a primo acchito. Facendo di necessità virtù, lo lessi d’un fiato, folgorato sulla via di Damasco. Divenni, senza porre tempo in mezzo, io stesso il conte, spietato come lui, ricco assai meno. Tuttavia, sfidavo a singolar tenzone i coetanei più grossi, perché tanto più il nemico è armato più ne verrà in gloria l’averlo affrontato. Accampando pretesti per presunti torti subiti, davo appuntamenti all’alba dietro conventi dei frati minori, brandendo l’indice a mo’ di spada. Ne buscai tante, ma ne uscivo soddisfatto. Per un periodo almeno. Poi, coi lividi, mi crebbe il dubbio, una cosa sotto la pelle che incomprensibilmente mi procurava pruriti nervosi. Decisi di rimettere mano al testo per cercare di capire cosa mi fosse sfuggito e che mi cortocircuitava in testa. Alla ressa successiva, poiché era ormai nota la mia spietatezza, non dovetti sgomitare. Le folle s’allargarono davanti a me come s’aprirono le acque del Mar Rosso al passaggio del popolo eletto, e m’assicurai si il libro di poche righe e tante figure, ma sotto vi feci scivolare con destrezza il fitto “Il Conte di Montecristo”, compiendo il mio primo esproprio proletario. Lo lessi e lo rilessi, quasi non pensavo ad altro. Fu lì che il conte divenne comprimario dell’abate. Ma come, pensai, quello s’affanna per uno spicchio di cielo, per un sorso d’aria, ti fa pure cristiano (nel senso d’umano, senza troppe accezioni religiose, come dicevano i vecchi) spiegandoti le cose del mondo, l’uso proprio del verbo, ti spiana strada per libertà definitive scavando il tunnel della Manica con le unghie e un cucchiaino da tè, t’attrezza un’autostrada verso la ricchezza, e tu che fai? Adesso che sei stramiliardario, che al cospetto Trump pare il ragazzo che ti chiede l’Euro del carrello della spesa, ti potevi comprare un’isola della Grecia o della Martinica, farti un Resort con tutti i confort; oppure, se proprio ti piaceva la bella vita d’occidente, un castello nella Loira, in riva al bosco, con giardino, sauna e doppi servizi. Se pure t’era rimasta in cuore la nobile fanciulla di cui i traditori t’avevano privato con cinica arguzia, vattela a rapire notte tempo, che lei ci viene con te, che t’ha serbato ricordo caldo nella memoria. Con lei te ne potevi stare tranquillo e beato a goderti la fortuna che t’è accorsa, a brindare con Bordeaux e Cognac alla memoria dell’abate, portandoti dietro pure l’unico vantaggio della reclusione: l’essere regredito alla condizione umana primigenia, capace d’afferrare il senso di ciò che si intende per bisogno essenziale, consapevole, finalmente, di cosa significa appagarlo. E invece… Ti procuri un servo sciocco, ti vesti come un manichino d’una Standa d’epoca, e t’appresti a vendicarti, arrovellandoti e costruendoti prigioni di fegato e bile. E la libertà? Non ti serviva quella?
Ecco, questo ne ricavai, che il conte quasi non me lo ricordo, l’abate, invece, me lo porto dietro.
Ultimamente, come dicevo, mi si è ripresentato, l’abate intendo. Saranno le lunghe reclusioni forzate, le quarantene, la prigione del lavoro che s’accosta alle quattro mura tra cui soffrire la clausura, ma, insomma, a me manca l’Abate Faria, tanto più che non ho vendette da consumare.
E come Edmond, tutti, soli con noi, riconquistiamo lentamente ma inesorabilmente l’essenza stessa della natura umana, con le barbe che sfogano la loro pulsione antigravitazionale, capelli che s’arruffano, forchette che spariscono, vestiti che si ungono di soffritti. Ma come un qualsiasi Dantes, la libertà ritrovata, anche solo per un istante, si trasforma in vendetta. Dal carcere alla ressa ai centri commerciali, davanti ai concessionari per comprare la vettura con cui ingravidare il garage, affollare i parcheggi, congestionare gli incroci, prenotare appuntamenti notturni con operatori estetici che recuperano dall’abbrutimento le forme ataviche della nicchia ecologica. A me viene voglia d’altro, di corse (lente, anzi, lentissime, facciamo passeggiate) ignudi sulle spiagge deserte del Mar d’Africa, sino al tramonto ed alle reti di Pilu Rais, nella speranza della ricciola all’acqua pazza, delle rughe dell’altopiano quando piove, che gli orti si gonfiano d’orgoglio e le mucche promettono formaggi, col contadino, prima scosso del tuo apparire selvatico, che poi si commuove e t’omaggia d’uova e verdure. E la sindrome della capanna che diviene ritiro assai poco spirituale in amplessi incondizionati tra comunardi e baratti d’essenze biologiche. È la libertà che mi penso. Ma voi, novelli Dantes, di chi volete vendicarvi, della vita stessa, della bellezza che non v’è stata prescritta dal medico o da un faccialibro qualsiasi e che non riconoscete più, pure vi infastidisce quando, solo guardando un estratto conto – spesso in rosso –, sceglierete cosa fare del sorso d’aria che v’è concesso?
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