Mentre della nave che va non v’è traccia, si palesa che, se non ci fu affogo a massa, taluno abbia restituito anime vaganti di speranza ad aguzzini certi, ché occhio non vede cuore non duole. Io vado a banale ripubblicazione di cosa vecchia per lieve sensazione di nausea sopraggiunta ad impedimento di scrittura nuova e compiaciuta.
“…la nave dei folli non era, poi, totalmente un parto della fantasia. Al contrario, era piuttosto comune la prassi di allontanare i matti dalla comunità dei normali, eventualmente proprio affidandoli a gente di mare. Accadeva spesso che venissero affidati a battellieri, a Francoforte, nel 1399, alcuni marinai vengono incaricati di sbarazzare la città di un folle che passeggiava nudo. Le città europee hanno spesso dovuto veder approdare queste navi di folli”. (Michel Foucault)
La follia arriva e batte bandiera sconosciuta. Non ha patria né dio, nemmeno padre e madre, pare tale, la follia, intendo, che non si palesa con documento d’imbarco, s’allontana e basta, a cerca di porto salvo per disperazione d’essere niente e nessuno. La cittadella fortificata del mondo dei sani se ne difende, invita a respingimento, con accordo tra tiranno e tiranno a far che pure accoglienza di pazzo è cosa da folli. D’avanzata sanità di mente si tinge distruzione e guerra, parve laurea a saggezza affondare nave dei folli, bombardo di città di dissenso, ripiegare a tasso d’umanità pari a curva concava.
Orizzonte scruta non per vertigine di visione, solo per scorgo a vista nemico che arriva, che se poi non si palesa ad esodo qual vien dichiarato, che importa, che semplice attesa d’invasione è a generazione di paura e fremito di pelle di popolume a suddito di illuminatissimi, che immantinente si tinge di vessillo patrio a nome noto, sotto egida di tiranno a difendere belle, armate sponde, a sventolar bandiera di grande savio di giustezza conclamata. Il resto è dago, pazzo, diverso per colpa ed essenza di sua scelta, che non nacque né a colore giusto, né a terra di saggezza. Pazzo più pazzo è a sostegno d’idea che pazzia fu per causa di mondo di giusti che non s’avvidero che pazzi fecero a furor di tempesta, a fulmine di guerra, a sfrutto a schiavo creatura e natura. Egli attende anche per sé medesimo imbarco coatto – che presto arriva – di chi, pazzo tra i pazzi, ricerca altra sponda per vita, anziché schiantare a terra desolata senza far rumore a non disturbo saggissimo manovratore.
Ah i guru, che cosa magnifica i guru, quando cercano posizione corretta a favore di flash, di click o d’altro che immortali immagine loro e la renda a popolume adorante quale totem definitivo di bellezza insuperata. Quelli, i guru, tutto capirono della vita che si fecero pagare un tanto al chilo da mille mila persone a teatro strabordante per dire esattezza di come svolgimento debba essere di vita ad altri.
Che ruolo magnifico e specifico hanno i guru, leader di pensiero, totem di venerazione, che alleggeriscono peso di pensiero ad ognuno che lo serba così a far carico di lavoro esclusivo, a farsi sfruttamento per giiustificato motivo che guru seppe trovare tra le pieghe (pure le piaghe) della mente
Ascoltai santi guru, talora a soluzione di sorriso, tale altra volta a digrigno feroce di dente che offerta è vasta, ad imporre felicità a venti quattro. Chi non ebbe a goderne di detta gioia intrinseca d’ascolto si fece peggior nemico di sé stesso per mancati plasmi d’immagine esatta a precisa somiglianza. V’è pure guru che invoca dolore su dolore, ferma espiazione come fatto d’obbligo. E se non v’è dolore bastevole, metaforico cilicio sarà a colpire fedifrago che se ne sottrasse. E piccola borghesia dolente ebbe a ciascuno membro suo guru a scaffale di social o d’altro canale TV, pulpito amorevole, libro denso di fai ciò che dico a costo modesto. Io pure ebbi grande guru cui rimasi ad affezione autentica per portento di messaggio ch’egli trasmise. Ei fu Pilu Rais, grande navigatore con barca a sganghero e miserabile piega di sguardo a tempesta di sale. Egli, intriso di saggezza, a domanda precisa su destino d’umanità, elaborò risposta a scanso d’equivoco: non mi rompete i c…
“Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri.” (Lorenzo Milani)
Tanto decina più, decina meno, pare di sentire la eco di chi disse ch’è finita la pacchia. Ora si muore pacifici e spiaggiati, come foglie di posidonia stese al sole, a speranza vana che la risacca non ne renda abbastanza, che occhio non vede, cuore non duole.
Arrabbattati tutti a dir no a una guerra – solo una, che le altre non è cosa che riguardi – ma questa pare cessa solo se faccio sparo più grosso e ne ammazzo di più d’altro dirimpetto, non ci avvedemmo mai abbastanza di guerra sotto costa che si combatte ogni giorno. È guerra alla vita, come ogni guerra, e vince chi volta lo sguardo altrove, chi spezza il timone d’una salvezza giocata d’azzardo. E poi viviamo dimentichi che quelli lì che sono morti ieri d’appunto, siamo noi pure, che tutti fummo migranti per frammento di DNA e ci fosse stato un muro o un blocco non saremmo qui a farne menzione. Ed io sono migrante da sempre, dunque a crepare furono sorelle e fratelli miei.
“Migranti si è per forza, solo che si nasca in cima a un monte, oppure sullo scoglio più basso che d’alghe e sonno si riempie con la marea. Solo che ti affacci da una finestra e gli occhi se ne vanno fin dove possono – loro – per istinto, e non dove gli viene detto che possono andare. Migranti si nasce, dunque, non ci diventi solo se ti devi mettere a camminare. Se hai mare davanti, per forza sei migrante, anche se non ti piace, perché qualcuno o un’onda, che s’è contrariata di vento o bufera, lì ti ci ha portato, pure prima che tu nascessi. Hai voglia di metterti a costruire frangiflutti, tanto l’onda arriva comunque, come sorge il sole e cala la notte. Perché l’onda è ignorante, mica le puoi dire “questa è casa mia”. Non capisce, s’arrabbata un poco lì per d’intorno, prima senza dare nell’occhio, poi – se le prendono i cinque minuti – si schianta col tonfo e la schiuma sullo scoglio. Forse ti dà il tempo di scansarti, ma certe volte pure t’acchiappa di risacca. E lì è deriva, e dove ti porta lo sa il Cielo. Questa è la storia dell’uomo. Si gioca su un’onda che scavalchi, come argonauta, sfiorando la cresta di Scilla, ballando un tanghettino stonato con Cariddi, tanto, più che un tanghero non sei, così diranno, se te ne stai su uno scoglio ad aspettare l’onda giusta. Che poi ci sta che quella non arriva mai. E pari Penelope che ricama la tela, la cuce e la riscuce, sotto sotto, è mia opinione, poi compiacendosi del reiterarsi del gesto. Magari pensa ad Ulisse che torna, e le viene da pensare “ma che gli dico a questo, dopo tutto questo tempo, se mi s’appresenta d’improvviso?”. Il fatto è che l’attesa, tanto più su uno scoglio, non è più attesa, diventa condizione dell’esistere, t’allunga pure la vita. Vedi Argo, che quando smette d’aspettare si fa il volo del Grande Tacchino nel giorno del ringraziamento e pure dopo ch’è campato quanto mai altri, praticamente tutta un’Iliade ed un’Odissea. Quindi, l’onda, quella giusta intendo, forse arriva, forse no. Ma se non arriva che ci fa? Basta che lo scoglio su cui ti sei seduto ad aspettare sia bello comodo, non di quelli unghiosi che non trovi mai la posizione. Ma che non ci sarà uno scoglio comodo davanti a tutta quell’acqua? Che poi anche tutta quell’acqua, pure salata, che ci pensi e ci ripensi, a che ti serve tutta quell’acqua salata? Di bere non si beve e ti tocca portarti un fiasco di vino rosso che è fatto con l’uva là dietro, che s’è innaffiata di salmastro, così sa di terra e pure di mare. E te ne puoi stare là tutta una vita a spiare l’orizzonte, per capire se laggiù qualcosa si muove, visto che non ti puoi muovere tu che l’onda giusta ancora non l’hai vista. Però sempre migrante resti, che t’è partita già l’anima oltre l’orizzonte, s’è fatta più d’un giro e poi è tornata. Che soddisfazione starsene fermi sullo scoglio, t’allunga la vita, mi pare l’ho detto questo”.
Radio Pirata fa Quarantasette di puntata, che è tempo di concedersi tempo e dunque selezione musicale sarà svolta per snervo a lunghezza indefinita che vi tiene impegnati per ore notevoli, che se non avete nerbo per ascoltare detta scelta, all’uopo Radio non è emittente che fa per voi, e vi tocca di cercare ritornello babadì babadà, che dura poco, ma pure di solluchero concede un tantino meno.
Che è tempo che suono di campanella sancisce passaggio di consegne tra migliorissimi e meritevolissimi, con tanto di tinta unica gli uni e gli altri, che praticamente siamo in una botte di ferro come ebbe a dire tale che mi pare si chiamò Attilio Regolo. Che ci attende destino prospero di bombarda che ormai mi pare che c’è intesa globale a far scoppiare quella che vale mille, che se scoppia quella si risponde con milleuno che precede a successione esatta milledue e milletre, quindi ad libitum sino a cessate il fuoco ma pure cessate e basta d’ogni altra cosa.
E pare che non ci sia troppo tempo a dedico per scrittura che pure scrittura è cosa che pare di poco merito, pure musica buona mi pare di poco merito che adesso abbiamo grande rilancio di economia attraverso zumpazù di cultura elevatissima a spiaggia di superaffollo e bagno a prezzo che tolgo finalmente di mezzo disgraziato in mutande per sostituzione, con grande fervore di applauso di popolume, con appropriata gestione a costume in pelle di leopardo, meglio di pitone. E per rilancio di economia serve preciso e grande cambio di clima che estate dura tutto l’anno, a caldo becco financo a capodanno che pinguino si fa ad ospito a congelatore e si danza a spiaggia in allegria come faccio a Caraibi pure a lidi nostri patrii e famiglii
Pure mi pare che realizzazione di programma sia a punto di grande risultato prossimo venturo per merito congiunto a cambio di staffetta che non ce n’è ad avvedersene a completo intendimento, che cambio di clima pare, infatti, ormai a realizzazione come da promessa elettorale che non è a richiesta nemmeno di intervento specifico. E guardo fiume da terrazza mia, fiume che fu a dipinto dantesco financo a navigazione, che taluno toponimo, e financo memoria, narra di porto e fluitazione per grande costruzione di Rinascimento, ed ora pare sputacchio che trota fa a boccheggio. Nemmeno lancio di messaggio in bottiglia in acqua è a concessione, che a mare non ci arriva, si fa vuoto a rendere e riciclo per immensa discarica di grande paese che guarda ad orgoglio nazionale crescita d’immondizia che è indicazione precisa di balzo in alto di PIL.
Ed è per questo che con sommo giubilo salutiamo precisa continuità di intendimento tra migliorissimi e meritevolissimi, che carcere di terra d’Africa, a pagamento di nostre tasche, è a rinnovo certo di contratto, ad impedimento di torma di falso migrante subdolo, che è a sbarco per tocco esatto di donna bianca, che pure infido si camuffa di bimbo e bimba per trarre ad inganno con annego squallidume pacifista, financo gran capo a sottana bianca. Che se taluno annega è colpa di buonismo un tanto a chilo di gente pretestuosa che vuol fare salvificio di sua nave che ora sarà finalmente a blocco repentino di porto salvo. Porto salvo si farà a trasformo di porto franco e sovrano per rilancio di economia a esporto grande bombarda patria a zona di guerra, pure santa.
E in attesa di capire di che merito si tratta per tal merito paventato, vi lascio con cosarella di un mio giovane collaboratore: “Il mare stava al di là delle alte dune, in attesa.
Quando padre e figlio, dopo un lungo cammino, raggiunsero finalmente quei culmini di sabbia, il mare esplose davanti ai loro occhi. E fu tanta l’immensità del mare, e tanto il suo fulgore, che il bimbo restò muto di bellezza. E quando alla fine riuscì a parlare, tremando, balbettando, chiese a suo padre: «Aiutami a guardare!».” (Edoardo Galeano)
“Dalla creazione del mondo, la barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progresso. Nel corso dei secoli, l’abbiamo soltanto ricoperta con una mano di vernice, nient’altro.”“(Il vagabondo delle stelle”, Jack London, gennaio 1876) Che pure a me tocca di scrostare qualche patina per un po’ di musica che mi ricordo.
“Che abbiamo questo straordinario lusso di essere clienti del tempo, magnifico, unico, abilissimo, inimitabile imbianchino. Che copre le vergogne, e, pure tra le croci a perdere di memoria per chi s’arrende, ci regala l’immagine a patina splendente di chi resta, che ci viene voglia d’andare a vedere – in talune, di recente assai numerose, circostanze – dov’è la data di scadenza che ci tocca, se in marsupio di DNA, o scritto a neon sull’ultima stella a destra, quella accanto al magazzino delle scope.
Che di voli del Grande Tacchino, in un anno, m’è parso d’averne visti, a me di canto, tanti di quei tanti che la metà mi bastavano a gloria futura, né m’aggrada più di dire che io c’ero, mi vien d’aggiungere semmai, si, partecipai, ma con somma cautela. Che se rimpianto m’è dato è dell’adamantina figura di Pier Cloruro da Lambicchi, di cui m’aggraderebbe in uso l’Arcivernice, di ritratti da ripassare a patina nuova ne ho a iosa. Ci ho però sospetto, a tratti fondato su fatti comprovati – ed ho qui la fotocopia a testimonio di documentazione bibliografica – che non farei eccessivi favori se ricoprissi la prima mano con la seconda. Dunque, dilaniato dall’incertezza se impugnare pennellessa e rullo, saluto gli andati, che non ho fretta di raggiungerli, neppure però mi dispiacerà più di tanto quando ciò dovesse avvenire.
E, a sommo di superbia, faccio presente che Marx è morto, pure Brecht – che tutti siamo avvolti in opera da meno di tre soldi – e tanti ancora, a ricoprire intonaci scrostati, e perciò m’insospettisce un certo mal di testa che m’attanaglia da stamattina. Poi mi riannullo, mi rifaccio signor nessuno, che m’è dato di riconoscermi tale, che più prosaiche spiegazioni ho in fondo al bicchiere quali cause o concause, e d’aspirima confido di rimaner tra il peggio ancora un po’, non foss’altro che per prendermi il lusso di vedere come va a finire.”
A tempo perso ho giusto incipit per nuovo lavoro di gestazione lunga solo perché tempo pare tiranno inesorabile. Che incipit si fece a convergenza con desiderio a oggetto dello stesso per ricerca di distacco, e non me ne venne di maggiore idoneità a racconto di mi faccio altro rispetto al tutto, che è tutto che pare assedio di fortilizio a fronte di deserto aperto.
C’è scoglio e scoglio, che non tutti sono uguali. C’è scoglio finto, eletto a frangiflutto, di pietra per scherzo, manufatto di calcestruzzo d’innaturale cubo, schiavo già a concepimento, a prendere schiaffo di mareggiata per protezione di banchina di molo, a non far di rena di lido polvere di marea, a reggersi a barriera per porre divieto di diruto a villetta fronte mare, a budello di strada a fresco di palma solo voragine di falesia. C’è scoglio a supponenza, che mette culo a nord e muso a sud, pure a viceversa, a prender sberle da vento di maestro, ma che non si fa a sottrazione di scirocco e libeccio. Tal altro scoglio si fa ponente e levante insieme, che di grecale patisce l’onda, ma pure a provenza s’espone, a farsi rosicare frammento ad ogni uggio di tempo. C’è scoglio mansueto, che s’alliscia piano di risacca, si infila collana di cistoseira, all’uopo s’adatta ad ospizio per sole, si finge spiaggia rubiconda a color medesimo d’arenaria. C’è scoglio pure che non s’avvede di brutalità di bufera, che prima s’alza a promontorio, poi, a grattar d’onda a tempesta, diventa amputazione, pare nave d’Argonauta pronta a varo e, a confine suo, fatta isola, si cinge di posidonia.
Ce n’è altro che di corrosione di sale si camuffa a riccio puntuto, diviene collezione di lama di rasoio e qui non si cammina. Se ne videro che prima furono in vetta a ripido strapiombo, poi, per scavo d’inesorabile cavallone, si fecero scoglio riverso per crollo improvviso, e ancora portano traccia di antica postura in radice d’arbusto cotto al sole. Se ne scorsero di biancheggianti di calcare, tali altri furono di nero basalto o dorati di friabile argilla. Certi paiono a gobbe di cammello o unica di dromedario, su altri si scavano pozze, diventano alveari di granchio e paguro, s’istoriano della patella, si tingono di mitilo. Tutti questi, tanti altri, non s’affermano d’ospitalità mondana per forza, talora stanno alla larga da fasto di cartolina, s’accucciano a braccia di mare, ne reggono l’urto d’intemperanza, si carezzano di bonaccia, ma pare fanno all’unisono trampolino per sguardo acceso a volta d’orizzonte, passerella per infinito, si tingono di colore di sangue e vino quando la distesa dinnanzi s’inghiotte il sole, per poi risputarlo a luogo opposto. Si strisciano di bianco di sale, talora patiscono il tratto nero della pece, l’azzurro della pietra celeste che impazzimento produsse al polpo a tana di sotto. Se ne vedono che pare che aspettano compagnia, si dispongono ad acqua cheta, ma pure fanno resistenza a fortunale, che sollevano lo spruzzo ad altezza di vertigine e fanno omaggio di sale al tutto d’intorno. Ma non c’è, mai ci fu, mai ce ne sarà, scoglio che si sottrasse a braccia ad aggrappo per porto salvo, che pare – scoglio intendo – a cuore assai ampio per accoglimento d’altro che fece cammino d’intemperia. Che tra uomini fu a poca rilevanza di percentuale rispetto a moltitudine totale di scogli chi mostrò cuore di pari ampiezza che quei pezzi di pietra.
Che mi sconfinfera, oggi, che domenica s’appresta di villaggio altro di villaggio mio antico, di farvi regalino di vecchio racconto, che m’evito di scrivere per stanca di settimana di peso che me ne tolse una certa gana – ad attesa che ritorna -, pure faccio omaggio per lettura a chi non meglio ha da fare.
“Ce n’erano state di domeniche così, che pareva che tutti i colori del mondo si fossero dati convegno in paese, pure sui panni al sole che si fanno a specchio sul mare, una lastra di metallo lucente che in fondo, sulla linea d’orizzonte, diventava cielo senza che si capisse in quale punto esatto avveniva il passaggio di consegne. Dentro i cortili e nei vicoli che scivolavano verso gli approdi, le donne spazzavano dinnanzi alle porte dei dammusi, i bambini si rifacevano le ginocchia dietro le palle di pezza, e qualcuno faceva partire le lenze dal molo. Il vecchio professore se ne stava seduto al sole d’una terrazzina, provando a leggere qualcosa su un libro dalla copertina consunta.
La rue assourdissante autour de moi hurlait. Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse, Une femme passa, d’une main fastueuse Soulevant, balançant le feston et l’ourlet ;
Agile et noble, avec sa jambe de statue. Moi, je buvais, crispé comme un extravagant, Dans son oeil, ciel livide où germe l’ouragan, La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.
Un éclair… puis la nuit ! – Fugitive beauté Dont le regard m’a fait soudainement renaître, Ne te verrai-je plus que dans l’éternité ?
Ailleurs, bien loin d’ici ! trop tard ! jamais peut-être ! Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais, Ô toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais !
Cercava nella sua memoria il senso di parole un tempo assai più chiare, ora oscure per neuroni in disarmo anagrafico. Mentendosi spudoratamente dissimulava il buio di comprensione con altri difetti organici emotivamente più sopportabili, cambiando e rinforcando lenti altre sul naso aguzzo proteso verso il centro della terra.
Cominciavano a muoversi come processionarie le file lente di quelli che raggiungevano la parrocchiale per la messa di mezza mattina, spiate da occhi neri dietro persiane socchiuse, pronti a cogliere dettagli nascosti male sotto i vestiti di festa. Era l’ora in cui i sughi cotti dalla mattina evaporavano per raggiungere la piazza di basole verso il caffè più centrale, popolato degli uomini a sedere che si scambiavano i due quotidiani a disposizione. Più giù, sul molo, erano le barche e le reti tirate in secco, con le casse del pesce stoccato a riva pronte per le tavole dei tre ristoranti della zona, già in fibrillazione per l’invasione di quelli di città in divisa da villeggianti. Arrivavano a frotte quando c’erano giornate così, e quelli del posto non è che ne avvertissero la presenza con gioia, se si escludevano i titolari dei bar, delle trattorie sul lungomare e di quel paio di bettole che dalle verande apparecchiate con tovaglie a quadri bianchi e rossi, offrivano alla vista solo fette di mare e muri scheggiati in cambio di prezzi a buon mercato.
“Gaetano”. Chiamò la donna nel grembiule nero di sovrapposizioni luttuose. “Gaetano”. Ripeté ancora, affacciata al balcone. Gaetano non è che subito rizzava le orecchie. Aveva cose altre per la testa, mentre saltellava tra i frangiflutti che correvano paralleli a ponente del molo più importante del porticciolo. Doveva ritirare la nassa con le quattro scorfane pescate e si accarezzava il gomito contuso colorato del livido, nero come l’occhio destro, mordicchiandosi il labbro tumefatto per capire se ancora faceva male. “Sono caduto con la bici”. Ripeteva alla zia e all’amico Mimmo. Si vergognava a dire che l’avevano pestato quei quattro che facevano banda, sempre pronti a farsi scattare i nervi quando lo vedevano arrivare. Perché a loro proprio quel tipo con cui erano cresciuti non era mai andato a genio. “È troppo strano Palmisano”. Uno che non parlava mai, e se ne stava ore a fissare chissà che cosa. Uno che non raccontava niente, che aveva la pelle attaccata alle ossa e sembrava più piccolo dei suoi dodici anni. Che pareva che viaggiasse su un altro pianeta, con quella testa troppo grossa, non in dimensioni assolute, piuttosto per l’illusione ottica dell’essere troppo “siccu, e poi si move ca pari nu ‘nvertebratu”. Con quell’espressione di sofferenza che si portava dietro da quand’era ancora più bambino, quando se ne stava perennemente allettato perché le malattie le prendeva tutte lui. Così, quei quattro, qualche volta, provavano a tirargli fuori qualcosa, lo chiamavano per nome, cercavano una reazione qualunque. Niente. Quello pareva alienato e gli faceva venire una rabbia che poi alla fine gli veniva di caricarlo di botte. Gaetano se le prendeva e non reagiva, tornandosene a casa come se sulle spalle avesse il mondo. “Ma sempre dalla bicicletta cadi?” Diceva zia Lucia. Un’altra volta la scusa buona era che era scivolato sul “lippo” degli scogli, quando ci era passato sopra per calare la lenza. L’unico ragazzo del borgo a cui non davano noia quelle sue cose strane era Mimmo. Lui ci parlava con Gaetano, e riusciva anche a strappargli più di qualche monosillabo. Quando era con Mimmo gli altri lo lasciavano in pace. Si limitavano a guardarlo male da lontano. Mimmo era d’altra pasta, come tutta la sua famiglia. Tutti comunisti, “ncazzusi”. Quelli, gli Scandurra, non si tenevano niente, e se gli mollavi una sberla te ne restituivano trecento. Il padre era una specie d’istituzione. Faceva l’avvocato e difendeva tutti i disgraziati del paese, facendosi pagare una volta si e chissà quante altre no. Per cui la gente gli portava rispetto.
“Gaetano”. Si sgolava zia Lucia. Poi Gaetano sentì. Più che altro aveva finito di fare quello che stava facendo e si era messo a correre verso casa. Era il giorno del suo compleanno e magari, pensava, qualcuno se lo sarebbe ricordato con un regalo. Gli sarebbe stata utile una canna da pesca nuova, col mulinello possibilmente, per pescare “a lancio” un po’ più a largo, che sotto costa cominciava ad esserci poca roba. Doveva essere arrivato lo zio Carmelo che faceva l’usciere al tribunale in città, e magari la canna l’avrebbe portata lui. Affrontò la leggera salita con la nassa che sembrava un lume, in quel modo che faceva ridere ed arrabbiare gli altri ragazzi, e si beccò una pietra ad una coscia. “Talia come curri”. Lui non si fermò nemmeno a vedere chi gliela aveva tirata, ma sbiascicò un “ahi!”, piano piano, per non dare a nessuno la soddisfazione di dire che gli aveva fatto male, e continuò a correre claudicando pure per l’ultima botta. A quel punto l’obiettivo era la canna nuova ed era sicuro che lo zio gliel’aveva portata, da uno di quei negozi di città. Una canna con un mulinello di quelli “spaziali”, che lanciano ami, esche e galleggianti a più di cento metri.
“Auguri beddu! Guarda cosa ti ho portato”. E in quel pacchetto quadrato venti per venti doveva starci una canna da pesca? E che razza di canna da pesca era quella che stava lì dentro? C’era qualcosa di sbagliato. Ma come, pensò, uno fa il compleanno, e per non disturbare troppo si limita a farlo una sola volta l’anno, e poi non si concede il giusto riconoscimento a quella delicatezza con una canna da pesca nuova? Eppure con lo zio ne aveva discusso che la sua canna da pesca era messa male. “Volevo portarti una canna nuova, ma poi la zia, giustamente, mi ha fatto notare che quando vai sugli scogli caschi e ti fai male, che torni a casa che sembri un Lazzaro”. Ma la zia, gli affari suoi, mai…
“Aprilo, vedi che c’è dentro”.
E che roba è questa? Pensò scartando la confezione di carta blu. Ma anche quando l’oggetto fu totalmente nudo in suo possesso non capì. Sollevò gli occhi verso lo zio, che per lui era come domandare ossessivamente. “Minchia! È una macchina fotografica, una Polaroid”. Sbottò quello a mezzo riso comprensivo.
“Che devi dire per forza queste parole vastase davanti o picciriddu. Spieghici comu funziona inveci di fari u cretinu o solitu to”. Sbraitò zia Lucia.
“E come funziona… Si prende la mira da qua – prese in mano l’oggetto misterioso, ed indicò il mirino – si inquadra quello che si vuole fotografare e si preme questo bottone. Poi si aspetta che esce la fotografia, e dopo mezzo minuto, come per magia, c’è la foto”. E lo disse tutto d’un fiato, ondulando la testa soddisfatto per quella abile docenza sostenuta senza la benché minima esitazione, proprio come fa un professionista serio che istruisce il suo ragazzo di bottega. “Ne puoi fare dieci per volta. La prossima volta ti porto anche un paio di ricariche, così fai pratica. Ci sono fior fiori di fotografi che usano la Polaroid. Anzi, fai una cosa Tano, visto che fra poco si mangia, qua ci sono i soldi. Vai al bar da Nuzzo, prendi i cannoli per tutti, e già che ci sei fai un paio di foto che poi vediamo se hai talento”.
Era ora di pranzo, a quell’ora per strada praticamente non c’era nessuno, e con l’oggetto misterioso Gaetano entrò al bar. Lì c’era soltanto Nuzzo che stava servendo un paio di aperitivi a due che dovevano essere di città. A Gaetano quelli di città andavano giù ancor meno che agli altri perché arrivavano lì per pescare con barche pazzesche che poi scaricavano nafta a mare e il pesce puzzava. In estate si mettevano tutti a fare il bagno come pinguini ed il pesce scappava. Poi avevano quelle canne sofisticatissime, e c’era pure chi usava la “pietra celeste”, anche se era vietato. La buttava sugli scogli sciolta nell’acqua, così i polpi si sentivano avvelenati ed uscivano fuori dalle tane e li raccoglievano a mezze dozzine per volta. Non era così che si faceva. Quella non era pesca.
Lui l’aveva detto al padre di Mimmo che gli aveva dato una risposta che non è che aveva capito tutta, ma il senso almeno gli pareva d’averlo afferrato. “Insomma, questi di città vengono qua e fanno col solfato di rame al nostro pesce quello che gli Americani facevano col Napalm ai Vietnamiti. Li stanano per mangiarseli. Ma la storia ci insegna che qualche volta chi fa certi calcoli poi può anche rimanersene digiuno, oppure finisce pure lui avvelenato”.
Visto che quelli nel bar erano di città, Gaetano, per non farsi turbare la scelta dei dolci, aspettò fuori che se ne andassero, seduto su uno scalino dietro l’angolo a rigirarsi tra le mani la Polaroid. Piroettando quell’escrescenza d’occhi e memoria si esercitava nelle inquadrature. Finì per fermarsi, puntandolo col mirino, su un gatto che faceva la festa ad un sacchetto di spazzatura abbandonato con dentro i resti di pesce le cui parti nobili a quell’ora dovevano essere stati serviti su ben altra tavola. Capì pure come si inseriva il flash. Poi sentì un rombo. Altri di città che avevano una moto, una tuta nera ed il casco in testa. Come fanno questi a tenersi in testa quella cosa pesante con questo caldo che non è nemmeno obbligatorio? Pensò. Il gatto scappò, e, pensò Gaetano, che aveva fatto bene con tutto quel chiasso che facevano. Ma quello che sentì dopo, altro che chiasso. Sembrava la guerra, una Lambretta smarmittata peggio di quella di suo cugino Stefano. Una cosa insopportabile ma che veniva da dentro il bar. Se ne rimase lì paralizzato, con gli occhi sbarrati, tenendosi la Polaroid stretta al petto. Quindi quei due della moto saltarono in sella e ripartirono a velocità sventolando qualcosa di scuro e metallico sbucato fuori da chissà dove. Rimase ancora qualche secondo lì, gli occhi fissi verso tutto quello che aveva visto, in un silenzio che non era certo ci fosse davvero. Poi si alzò, lentamente, ed entrò nel bar. I tre che ci aveva lasciato prima c’erano ancora, i due di città e Nuzzo. Solo che non erano più ritti al bancone, ma se ne stavano a terra, e di Nuzzo si vedeva solo la testa, in un lago rosso di cui un affluente zampillava ancora dalla gola. Chissà perché quel tremore che l’aveva accompagnato sino a quel momento cessò di colpo, e si trovo a sollevare la sua macchinetta, a spingerne, come se non avesse fatto altro per tutta una vita, il pulsante del flash per poi scaricare anche lui il suo caricatore su quei corpi martoriati.
Dieci foto, dieci. La sua prima collezione che valesse la pena di chiamare tale, perché quella di conchiglie era assai incompleta, senza tutte quelle specie di lontano che aveva visto in qualche negozio della città. E ne sarebbe passato di tempo prima di capire come era che tutti quelli che sino ad allora l’avevano preso in giro e menato perché era così “siccu, e si move ca pari nu ‘nvertebratu”, smettessero di colpo di farlo. Semplicemente perché adesso lui era uno che sapeva cose della vita che gli altri della sua età nemmeno si immaginavano, ed avevano capito che lui, anche se si muoveva strano, era uno che arrivava sempre prima degli altri.”
Che fu, quella a passato prossimo, grande settimana di prologo, che si chiuse a giorno 18 settembre, giorno storico che tante cose spiega che rimasero a stretta scrittura di detto paese che fu Italia s’è desta. Che muore ancora ragazzo che va a scuola, e mi pare che, invece, a scuola non ci andò, che si recò con fare per sfrutto ad ultimo giorno senza promozione. Pure ho immagine nitida – che mi fu a recapito di messaggio da quello che fu paese di mio padre, pure di tal La Pira, detto Giorgio, beniamino di pacifismo, dunque bolscevico ad esatta definizione – di bimbi a fin di vita, che taluni non si videro che se li portò fame e sete e flutto pietoso a tomba. Ma questi non ebbero forza, come primo, d’arrivare ad oggetto di campagna elettorale per sdegno unanime, quale invece fece a scandalo altro che non si capisce cos’è. Che mi sorse il dubbio che astiosa rivendicazione dell’un contro l’altro pare invece gioco delle parti a ben congegno per popolume povero d’illusione e pensiero d’utopia. Pure scoppia guerra a destra come a manca, ma guerra è solo quella che arriva a prima pagina. Che si continua a sparo fervido, che ora c’è fremito d’oltranza, che tutti vogliono vincere agone d’elezione per poi ho libero accesso a gioco di bombarda. Taluno pure s’indigna se talaltro propone esibizione muscolare, ma i più s’indignano per indignazione. Ma c’è cosa che è guerra, che aveva pure dio in illo tempore, però mi pare s’abbia fatto sgombero d’Olimpo, ma vaga senza casa e meta, che non si concede meritata pensione. Vado a musica, che è meglio, che poi vi dò io armamentario giusto a riciclo per rispetto d’ambiente.
BOMBA
Incalzatrice della storia Freno del tempo Tu Bomba Giocattolo dell’universo Massima rapinatrice di cieli Non posso odiarti Forse che l’odio il fulmine scaltro la mascella di un asino La mazza nodosa di Un Milione di A.C. la clava il flagello l’ascia Catapulta Da Vinci tomahawk Cochise acciarino Kidd pugnale Rathbone Ah e la triste disperata pistola Verlaine Puskin Dillinger Bogart E non ha S. Michele una spada infuocata S. Giorgio una lancia Davide una fionda Bomba sei crudele come l’uomo ti fa e non sei più crudele del cancro Ogni uomo ti odia preferirebbe morire in un incidente d’auto per un fulmine annegato Cadendo dal tetto sulla sedia elettrica di infarto di vecchiaia di vecchiaia O Bomba Preferirebbe morire di qualsiasi cosa piuttosto che per te Il dito della morte è indipendente Non sta all’uomo che tu bum o no La Morte ha distrutto da un pezzo il suo azzurro inflessibile Io ti canto Bomba Prodigalità della Morte Giubileo della Morte Gemma dell’azzurro supremo della Morte Chi vola si schianterà al suolo la sua morte sarà diversa da quella dello scalatore che cadrà Morire per un cobra non è morire per del maiale guasto Si può morire in una palude in mare e nella notte per l’uomo nero Oh ci sono morti come le streghe d’Arco Agghiaccianti morti alla Boris Karloff Morti insensibili come un aborto morti senza tristezza come vecchio dolore Bowery Morti nell’abbandono come la Pena Capitale morti solenni come i senatori E morti impensabili come Harpo Marx le ragazze sulla copertina di Vogue la mia Proprio non so quanto sia terribile la MortePerBomba Posso solo immaginarlo Eppure nessuna morte di cui io sappia ha un’anteprima così buffa Panoramo una città la città New York che straripa a occhi desolati rifugio nel subway Centinaia e centinaia Un precipitare di umanità Tacchi alti piegati Capelli spinti indietro Giovani che dimenticano i pettini Signore che non sanno cosa fare delle borse della spesa Impassibili distributori automatici di gomma Ma 3° rotaia pericolosa lo stesso Ritz Brothers del Bronx sorpresi sul treno A La sorridente réclame del Schenley sorriderà sempre Morte Folletto Bomba Satiro Bombamorte Tartarughe che esplodono sopra Istanbul La zampa del giaguaro che balza per affondare presto nella neve artica Pinguini piombati contro la Sfinge La cima dell’Empire State sfrecciata in un campo di broccoli in Sicilia Eiffel a forma di C nei Magnolia Gardens S. Sofia atletica Bomba sportiva I templi dell’antichità finite le loro grandiose rovine Elettroni Protoni Neutroni che raccolgono capelli Esperidi che percorrono il dolente golf dell’Arcadia che raggiungono timonieri di marmo che entrano nell’anfiteatro finale con un senso di imnodia di tutte le Ilio annunciando torce di cipressi correndo con pennacchi e stendardi e tuttavia conoscendo Omero con passo aggraziato Ecco la squadra del Presente in visita la squadra del Passato in casa Lira e tuba insieme congiunte Odi e wurstel soda oliva uva galassia di gala usciere togato e in alta uniforme O felici posti a sedere Applausi e grida e fischi eterei La presenza bilione del più grande pubblico Il pandemonio di Zeus Hermes che corre con Owens La Palla lanciata da Buddha Cristo che picchia la palla Lutero che corre alla terza base Morte planetaria Osanna Bomba Fa sbocciare la rosa finale O Bomba di Primavera Vieni con la tua veste di verde dinamite libera dalla macchina l’occhio inviolato della Natura Davanti a te. li Passato raggrinzito dietro dl te il Futuro che ci saluta O Bomba Rimbalza nell’erbosa aria da tromba come la volpe nell’ultima tana tuo campo l’universo tua siepe la terra Salta Bomba rimbalza Bomba scherza a zig zag Le stelle uno sciame d’api nella tua borsa tintinnante Angeli attaccati ai tuoi piedi giubileo ruote di pioggialuce sul tuo scanno Sei attesa e guarda sei attesa e i cieli sono con te osanna Incalescente gloriosa liaison BOMBA O strage antifonia fusione spacco BUM Bomba fa l’infinito una Improvvisa fornace distendi il. tuo Spazzare che abbracci moltitudini avviati orribile agenda Stelle del Carro pIaneti carnaio elementi di carcassa Fa’ cadere l’universo salta ciucciante coi dito in bocca sui suo da tanto da tanto morto Neanche Dal tuo minuscolo peloso occhio spastico espelli diluvi dl celestiali vampiri Dal tuo grembo invocante vomita turbini di grandi vermi Squarcia Il tuo ventre o Bomba dal tuo ventre fa’ sciamare saluti di avvoltolo incalza col tuoi moncherini stellati dl iena lungo il margine del Paradiso Bomba O finale Pied Piper sole e lucciola valzeggiano dietro la tua sorpresa Dio abbandonato zimbello Sono la Sua rada falso-narrata apocalisse Lui non può sentire le un-bel-giorno profanazioni del tuo flauto Lui è rovesciato sordo nell’orecchio pustoloso del Silenziatore il Suo Regno un’eternità di cera vergine Trombe tappate non Lo annunciano Angeli sigillati non Lo cantano Un Dio senza tuoni Un Dio morto Bomba il tuo BUM la Sua tomba, Che io mi chini su un tavolo di scienza astrologo che guazza in prosa di draghi quasi esperto dl guerre bombe soprattutto bombe Che io sia incapace di odiare ciò che è necessario amare Che io non possa esistere in un mondo che consente un bimbo abbandonato in un parco un uomo morto sulla sedia elettrica Che io sia capace di ridere di tutte le cose dl tutte quelle che so e quelle che non so per nascondere il mio dolore Che dica di essere un poeta e perciò amo ogni uomo sapendo che le mie parole sono la riconosciuta profezia di ogni uomo e le mie non parole un non minore riconoscimento, che io sia multiforme uomo che Insegue le grandi bugie dell’oro poeta che vaga tra ceneri luminose come mi immagino un sonno con denti di squalo un mangia-uomini di sogni Allora non ho bisogno di esser davvero esperto di bombe Per fortuna perché se le bombe ml sembrassero larve non dubiterei che diventerebbero farfalle C’è un inferno per le bombe Sono laggiù Le vedo laggiù Stan li e cantano canti soprattutto canti tedeschi e due lunghissimi canti americani e vorrebbero che ci fossero altri canti specialmente canti russi e cinesi e qualche altro lunghissimo canto americano Povera piccola Bomba che non sarai mal un canto eschimese io ti amo voglio mettere una caramella nella tua bocca forcuta Una parrucca di Goldilocks sulla tua zucca pelata e farti saltellare con me come Hansel e Gretel sullo schermo di Hollywood O Bomba in cui tutte le cose belle Morali e fisiche rientrano ansiose fiocco di fata colto dal più grande albero dell’universo lembo di paradiso che dà un sole alla montagna e al formicaio Sto In piedi davanti alla tua fantastica porta gigliale Ti porto rose Midgardian muschio d’Arcadia Rinomati cosmetici delle ragazze del paradiso Dammi il benvenuto non temere, la tua porta aperta né il grigio ricordo del tuo freddo fantasma nè i ruffiani del tuo tempo incerto il loro crudele sciogliersi terreno Oppenheimer è seduto nella buia tasca di Luce Fermi è disseccato nei Mozambico della Morte Einstein la sua boccamito una ghirlanda di patelle sulla testa di calamari lunari Fammi entrare Bomba sorgi da quell’angolo da topo gravido non temere le nazioni del mondo con le scope alzate O Bomba ti amo Voglio baciare il tuo clank mangiare il tuo bum Sei un peana un acmé dl urli un cappello lirico del Signor Tuono fai risuonare le tue ginocchia di metallo BUM BUM BUM BUM BUM BUM tu cieli e BUM tu soli BUM BUM tu lune tu stelle BUM notti tu BUM tu giorni tu BUM BUM BUM tu venU tu nubi tu nembi Fate BANG voi laghi voi Oceani BING Barracuda BUM e coguari BUM Ubanghi BANG orangutang BING BANG BONG BUM ape orso scimmion tu BANG tu BONG tu BING la zanna la pinna la spanna Si Si In mezzo a noi cadrà una bomba Fiori balzeranno di gioia con le radici doloranti Campi si inginocchieranno orgogliosi sotto gli halleluia del vento Bombe-garofano sbocceranno Bombe-alce rizzeranno le orecchie Ah molte bombe quel giorno intimidiranno gli uccelli in aspetto gentile Eppure non basta dire che una bomba cadrà sia pure sostenere che il fuoco celeste uscirà Sappiate che la terra madonnerà in grembo la Bomba che nel cuore degli uomini a venire altre bombe nasceranno bombe da magistratura avvolte in ermellino tutto bello e si pianteranno sedute sui ringhiosi imperi della terra feroci con baffi d’oro. (Gregory Corso)
“Tu vedi un blocco, pensa all’immagine: l’immagine è dentro basta soltanto spogliarla.“ (Michelangelo Buonarroti)
Conobbi e, c’è seria probabilità, conoscerò, artisti d’ogni fatta e luogo, geniali modellatori di materia, capaci di plasmare immagini, suoni, opere ed omissioni, a creare capolavori d’espressione elevatissima, talora concettualmente indecifrabili che non rinunciarono a profondità in luogo di comprensione. Ma è memoria mia, pure se ormai a scarsa frequentazione nella sua opera integra, che ve n’è uno che non seppe giungere secondo, e che quel tal secondo alle sue spalle, parve, ancorché illuminato, dover guardar lontano quel primo sopra tutti.
Me ne avvidi d’opera a tratto di costa a semi abbandono, ch’è di quelli ormai radi che per tutela antica non violata fecero divieto di soggiorno a chiasso inconsulto financo a giorno d’intorno a grande festa d’estate. Che è artista unico ed irripetibile, che trasporta opere ad esposizione millenaria, modella legno e roccia, rimuove rena e la lascia a dimensione altra, la spiana e l’accumula ad aiuto di vento.
Che non s’avvede che relitto è scarto, ma ne riarticola posizione e forma, ne liscia il contenuto intimo, lo scava e lo proietta a dimensione di bellezza autentica, lo staglia ad orizzonte che spettatore veda, a forma di contrasto di vertigine, perfezione di sua struttura imperfetta. Liscia semi, barcolla frammento, leviga giunco, infilza albero, smotta la pietra e il sasso rotola e si smussa, financo coccio di vetro diviene miracolo di gioielleria che mercante da dietro banco non s’approfitta che pare furto esporre opera raffinatissima di levigatura d’anno dopo anno. E io, ancora bimbo, ebbi facoltà di vedere musei su musei di detto artista, a costa strapiena, che distanza impediva asfaltatura di nobile esposizione e Bagno un tanto a chilo, peggio, a cottimo di servizio a plasticume dorato, non sostituì l’Expo universale di meraviglia autentica. A ruspa non era ancora concesso spazio, per lido di lindo fiammeggiante, che non v’era necessità di spazzare via tutto per fare spazio a grande cantante da ritmo ad osanna, con testi scritti a sapienza d’antica conoscenza di regola aulica di lingua e ricchezza di vocabolario, che solo con cotale sapienza, a sapere di tutto a poesia, si può evitare la stessa per concepimento di verso a regressione ad infante e mugugno gutturale, senza tema d’incontrarlo a scherzo di caso.
“…la nave dei folli non era, poi, totalmente un parto della fantasia. Al contrario, era piuttosto comune la prassi di allontanare i matti dalla comunità dei normali, eventualmente proprio affidandoli a gente di mare. Accadeva spesso che venissero affidati a battellieri, a Francoforte, nel 1399, alcuni marinai vengono incaricati di sbarazzare la città di un folle che passeggiava nudo. Le città europee hanno spesso dovuto veder approdare queste navi di folli”. (Michel Foucault)
La follia arriva e batte bandiera sconosciuta. Non ha patria né dio, nemmeno padre e madre, pare tale, la follia, intendo, che non si palesa con documento d’imbarco, s’allontana e basta, a cerca di porto salvo per disperazione d’essere niente e nessuno. La cittadella fortificata del mondo dei sani se ne difende, invita a respingimento, con accordo tra tiranno e tiranno a far che pure accoglienza di pazzo è cosa da folli. D’avanzata sanità di mente si tinge distruzione e guerra, parve laurea a saggezza affondare nave dei folli, bombardo di città di dissenso, ripiegare a tasso d’umanità pari a curva concava.
Orizzonte scruta non per vertigine di visione, solo per scorgo a vista nemico che arriva, che se poi non si palesa ad esodo qual vien dichiarato, che importa, che semplice attesa d’invasione è a generazione di paura e fremito di pelle di popolume a suddito di illuminatissimi, che immantinente si tinge di vessillo patrio a nome noto, sotto egida di tiranno a difendere belle, armate sponde, a sventolar bandiera di grande savio di giustezza conclamata. Il resto è dago, pazzo, diverso per colpa ed essenza di sua scelta, che non nacque né a colore giusto, né a terra di saggezza. Pazzo più pazzo è a sostegno d’idea che pazzia fu per causa di mondo di giusti che non s’avvidero che pazzi fecero a furor di tempesta, a fulmine di guerra, a sfrutto a schiavo creatura e natura. Egli attende anche per sé medesimo imbarco coatto – che presto arriva – di chi, pazzo tra i pazzi, ricerca altra sponda per vita, anziché schiantare a terra desolata senza far rumore a non disturbo saggissimo manovratore.
"L'amore non conosce barriere. Salta ostacoli, oltrepassa recinzioni, attraversa pareti per arrivare alla sua destinazione, pieno di speranza." - Maya Angelou
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