Radio Pirata 64 (grande è il disordine sotto il cielo)

Ed arriva a farsi Sessantaquattresima puntatissima pure Radio Pirata che fa concorrenza durissima a grande kermesse che tutto paese di suonatori mette in fila appassionatamente a far tifo per capolavoro immortale, e questo forse vince, ma forse no, ma se si fa passaggio a passerella floreale è roba da commozione comunque che comunque vada è successo conclamato da critica e pubblico. Che c’è chi piange d’adorazione e chi invece piange ch’è allergico a fiore ad oltranza, pure c’è chi piange per grande disordine cosmico. Radio non teme sfida d’Auditel che ha pacchetto solido d’ascoltatore e per puntata in corso s’attrezza a palmares per consegna di premio per taglio di traguardo a man bassa d’ascoltatore.

E si comincia subito che si fece fuori buona parte di giovani collaboratori che si cerca nuove leve da lanciare in produttivissimo mondo di spettacolo che Radio Pirata è, a detta d’estimatori competentissimi ed esperti marketing pure social, trampolino perfetto per carriera bruciante ed aspirazione di diventare numero nessunissimo. Ecco che da cast emerge tal giovane talento cui si concede parola e si spera bene: «Non tutte le prigioni hanno le sbarre: ve ne sono molte altre meno evidenti da cui è difficile evadere, perché non sappiamo di esserne prigionieri. Sono le prigioni dei nostri automatismi culturali che castrano l’immaginazione, fonte di creatività.». (Henri Laborit)
Mi scuso con radioascoltatori che beccammo un altro che ha testa a favore di vento di scirocco, che straparla. Esperto di casting per Radio ha giorni contati che contratto cococo glielo faccio ad uso di doppio velo morbido ed avvolgente e lo metto ad addetto di pulizia WC a cottimo. Per far perdono collettivo vado di musica.

Si procede subito con notiziola che c’è blocco totale ad opera di cingolato che non fu carrarmato sovietico come a temenza passata bensì cosa semovente da campo. Fortuna è che c’è saggezza d’istituzione che dice che protesta è cosa buona e giusta e si fa concessione che s’usa pesticido ed ogni altro orpello che fa venir su zucca a forma di pallone tensiostatico. Così consumatore viene dissuaso a far passeggiata a favor d’aria buona e non lesina presenza sua a grande e grosso supermarket energivoro per acquisto ad oltranza, che passeggiata boschiva mai influenzò PIL. Che saggio governante capisce meriti di crescita economica a tutto spiano e pure a spiano tutto. E se taluno protesta per cambio di clima con lancio di zuppa precotta e blocco di striscia pedonale si fa ergastolo che non si blocca servizio. Che blocco di servizio non è assedio di detto cingolato, al più è ferrotramviere che fa a protesta che arrivo a fine mese pare più complicato che mezzo nuovo a prossima fermata. Per pretesa tale merita precetto di «ti presenti al lavoro o vai a pena d’ammenda pari a stipendio stesso moltiplicato per anni ad arrivare a pensione che è a fine pena mai.»

Sentiamo quest’altro che ce lo porti buono e non dica minkiate come ormai pare d’uopo a chi vuol successo facile con passaggio a Radio Pirata. «Io spero sinceramente per amore della posterità che, se la terra dovesse perdere quella beltà che deve alle cose, che un’accrescimento illimitato di ricchezze (…) farebbe estirpare onde alimentarne una quantità maggiore, cosa aderirebbe a rimanersi stazionaria assai prima che la necessità ve la obbligasse. (…) Vi sarebbe sempre un altro scopo per ogni specie di cultura mentale, e pei progressi morali e sociali; vi sarebbe luogo, come prima, a perfezionare l’arte della vita e vi sarebbe eziandio più facilità per farlo.» (John Stuart Mill) Niente, non ce la possiamo fare, pure questo pare ha cambiato spacciatore.

Va beh, si continua che pare non c’è scampo a delirio vario, ‘sti giovani non hanno più voglia di lavorare a mondo dello spettacolo con sacrifico di preparazione. Speriamo nelle donne. «Qualche volta ho la sensazione di non essere un vero e proprio essere umano, ma appunto qualche uccello o un altro animale in forma di uomo; nel mio intimo mi sento molto più a casa mia in un pezzetto di giardino come qui, oppure in un campo tra i calabroni e l’erba, che non… a un congresso di partito.

A lei posso dire tutto ciò: non fiuterà subito il tradimento del socialismo. Lei lo sa, nonostante tutto io spero di morire sulla breccia: in una battaglia di strada o in carcere. Ma nella parte più intima, appartengo più alle mie cinciallegre che ai “compagni”. E non perché nella natura io trovi, come tanti politici intimamente falliti, un rifugio, un riposo. Al contrario, anche nella natura trovo ad ogni passo tanta crudeltà, che ne soffro molto.» (Rosa Luxemburg) Ecco, un uccello si sente, ma io glielo dico ai giovani di lasciare stare le cose pesanti, fanno male.

Che vi devo dire, mi dispiace per ospite irrequieto e con poco sale. Ma non è che ad altra parte per megalitica kermesse c’è meglio assai. Vi lascio però con rinfreschino e musica che abbiamo budget elevatissimo. «È indispensabile che tutti gli esseri e tutti i popoli saggi della terra capiscano che pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale dell’alimentazione umana. Piatto peccaminoso per eccellenza perché comprende e semplifica il peccato rendendolo accessibile a chiunque. Piatto peccaminoso in quanto può significare un’alternativa a tutto ciò che è trascendente, a tutto ciò che è pericolosamente trascendente, se diventa cultura della negazione. Non fate la guerra ma pane e pomodoro. Non votate per la destra ma mangiate pane e pomodoro. No alla NATO e sì al pane e pomodoro. Ovunque e sempre. Pane. Pomodoro. Olio. Sale. E dopo l’amore, pane e pomodoro e un po’ di salame». (Manuel Vasquez Montalban) Il vino lo offre la casa🍷🍷.

Che gran cosa sarebbe…

“Tutto è pronto: la valigia,
le camicie, le mappe, la fatua speranza.
Mi spolvero le palpebre.
Ho messo all’occhiello
la rosa dei venti.
Tutto è pronto: il mare, l’atlante, l’aria.
Mi manca solo il quando, il dove,
un diario di bordo, le carte
di navigazione, venti a favore,
il coraggio e qualcuno che mi ami
come non so amarmi io.
La nave che non c’è, le mani attonite,
lo sguardo intento, le imboscate,
il filo ombelicale dell’orizzonte
che sottolinea questi versi sospesi…
Tutto è pronto. Sul serio.
Invano.”
(Juan Vicente Piqueras)

Quando il viaggio si ferma è perché l’oltre s’è fatto scuro, non è più altro di sorpresa. Ed a guardare le valigie pronte ed al contempo sfatte ti sovviene che non è tempo di viaggiare. Forse vale la pena soltanto di levarsi sul davanzale d’una qualche finestra sul tempo per vedere se la luna è ancora lì, se non ha fatto lei stessa le sue valigie ed ha voltato lo sguardo da un’altra parte, lasciando di sé solo il suo lato oscuro, il nulla che si perde nell’infinito del niente. Il lato che non ammalia, che non invita alla partenza, che non spinge la curiosità in un divenire senza fiato. Si tinge del buio e nebbioso financo l’orizzonte che invitava ad essere violato, si abissa il mare dinnanzi alla cascata di sangue e lacrime, si scruta la fine che pare lenta, ma inesorabile per quell’atroce norma cui ci si assuefà, quella che pare cosa che non ci riguarda.

La follia è chiedere il silenzio, chiedere che non esplodano viscere d’inferno, che il boato non sia che un ricordo lontano d’epoche morte. Ed invece “è una gran cosa quando realizzi di avere ancora l’abilità di sorprenderti. Ti fa chiedere cos’altro puoi fare che ti sei dimenticato.” (Lester Burnham, dal film “American Beauty”)

Su un vecchio giradischi, mi ricompongo

Tutto sommato non avrei tanta voglia di scrivere oggi, se non per celia. E che c’è di meglio, accanto al primo bicchiere, di fare collage di vecchie cose, appiccicare ricordi, cose già dette, scritte, ma che non se ne vanno facilmente? Che c’è di meglio se a quel primo bicchiere se ne fa seguire un altro, pure un altro ancora? E se non posso offrirvene – che è limite del virtuale – vi faccio selezione d’ascolto, a parziale compensazione.

Primo step

Succede così, sono quelle cose che non ti aspetti. Cioè, ti aspetti senz’altro che un povero contadino di un piccolissimo paese della Sicilia salga su una nave a vapore nella seconda metà dell’Ottocento e, dopo un viaggio estenuante di settimane, sbarchi con la famiglia a New Orleans per fare il calzolaio, il manovale o chissà ché. Il biglietto da Palermo, poi, costava assai meno di quello delle tratte di Napoli e Genova. Roba che certi barconi sul Mar d’Africa quella traversata sembra che la rifacciano pari pari, comprese certe privazioni estreme. E “quel mare color del vino” di contadini siciliani ne vomitava a migliaia nel Delta, tanto che in certe strade pareva di starsene alla Conca D’Oro o su un moletto dello Ionio. Te lo aspetti che qualcuno cerchi un orizzonte diverso per fuggire alla fame, alla guerra. Quello che non ti aspetti mai, e forse nemmeno Girolamo La Rocca con sua moglie Vittoria Di Nino immaginano, è che in quella terra avrebbero dato vita al “Cristoforo Colombo della musica”. Così che si definisce Nick, il loro secondogenito, il primo ad incidere un disco jazz nel 1917, con la sua “Original Dixieland Jass Band”, proprio con due esse e senza zeta. Nick non ù un virtuoso, ha anche la testa matta, come l’hanno certi di quelli che lasciano un segno, ma anche un labbro così duro da fare certe sparate alla tromba che chi lo ascolta si mette ginocchioni.

Ecco, questo non te l’aspetti, ma questo è il jazz, esattamente quello che non ti aspetti. Pure se certo, al di là d’un certo ego smisurato del vecchio Nick, il jazz aveva già diritto di cittadinanza su questo pianeta da mo’, non altrettanto chi lo suonava, generalmente d’un colore diverso del nostro.

Secondo step

“Cos’è il Jazz? Amico, se lo devi chiedere, non lo saprai mai.” dice Louis Armstrong. La cosa migliore è mettere su un disco e cominciare ad ascoltarlo. Se dopo un po’ ti sembra di sentire l’odore di chi sta suonando, il suo alito caldo, se la musica comincia a strisciarti sotto la pelle e hai la sensazione che scappi fuori da ogni parte di te, che tu sei lì, tra quelli della band, allora l’hai scoperto, il jazz intendo.


Theodor Wiesengrund Adorno lo adoro, mi spilucco i suoi Minima moralia come una beghina si sgrana il rosario. Ma m’arriccio e m’adombro, m’indispettisco stizzito se mi parla del jazz come cosa degradante, puro piacere estetico, alla pari d’esperienze pornografiche e gastronomiche. Musica-merce, come certe canzonette, lontana dalle dinamiche autentiche d’umanità oppresse, asservita ad una concezione dei rapporti sociali capitalistici, subdolamente veicolante contenuti del consumo a prescindere. Mi faccio d’improvviso eretico al pensiero di Coltrane e Mingus seduti con espressione inebetita sui banchi d’un supermercato, mi ateizzo di botto se m’immagino Charlie Parker alla stregua d’un imbonitore per saldi di pentole e materassi. Poi, dopo il primo acchito di repulsa, l’abbattimento del totem ed il superamento d’una dipendenza liturgica in favore del vizio puro, mi rassereno, mi rifaccio razionale, e m’avvedo che tale critica furibonda, il tedesco se la tira fuori in quel ventennio tra anni trenta e primi cinquanta in cui ancora Charles (Mingus) non solletica utilmente le corde del contraddittorio, della dialettica in controtempo. Ed è chiaro che Adorno adduce le sue ragioni di negazione d’arte per il jazz allorché, al suo orecchio perfetto, s’avvicendano, effimere e suadenti, le partiture semplici e ripetitive di certe orchestrine swing, con patinature che sapevano di ruffianeria a favor di bianco più che furibondo canto di liberazione. Dunque, in siffatto modo rappacificato, pure m’azzardo ad avallare le critiche furibonde del Francofortese.
E allora pace fatta, tutto a posto? E no, che rimangono dubbi, m’arrovello d’incertezze. Che se fino ad ora il ragionamento a me pare non far grinze, manco una pieghetta rasa rasa, se mi sono accodato nel derubricare le strombettate dell’omonimo d’un passeggiatore lunatico a pura e semplice mercanzia d’asporto, più d’una cosa non mi torna se penso a Louis (Armstrong).

Semmai mi sovviene che quando bambineggiavo intorno al giradischi della Selezione del Reader Digest, dalla puntina abbassata senza garbo dalla mamma, gracchia quella tromba, ed a me mi si muovono le gambe. Come se ci fosse qualcosa di magico e misterioso in quella roba. Il “No, Satchmo no”, piano piano, lentamente, s’è spento, non mi viene di saltare al brano successivo d’una compilation quando quel tappeto di velluto si fa suono. Pure mi si allarga il riso se mi prefiguro il faccione da palla da basket che campeggia sulla copertina d’un vinile, più d’uno, anzi.

Terzo step

Insomma, piano piano, cominciamo a capirci qualcosa. Il jazz, l’hai ascoltato, ne hai capito il senso profondo, fai parte della band. Possiamo parlarne ancora. John (Coltrane) diceva che “Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra”.


La fratellanza, è questo il punto, la fratellanza.
Il 21 settembre del 1963, dopo l’ennesima strage di afroamericani ad opera di razzisti del Ku Klux Klan, Dizzy (Gillespie), sale sul palco del Monterey Jazz Festival, ed urla al pubblico “Voglio diventare Presidente degli Stati Uniti perché ce ne serve uno!” Il cantante Jon Hendricks gli scrive pure l’inno: “Vote Dizzy! Vote Dizzy! You want a good president who’s willing to run / You wanna make government a barrel of fun (…) Your political leaders spout a lot of hot air / But Dizzy blows trumpet so you really don’t care.”

Ma senza collaboratori e ministri non puoi fare il presidente e così Dizzy si mette al lavoro per stilarla per bene: per Duke Ellington l’incarico deve essere adeguato alla sua grandezza, dunque, Ministro dello Stato. Max Roach, che coi botti ci sa fare, è Ministro della Difesa. Per Louis Armstrong c’è il Ministro dell’Agricoltura, e chi meglio di Charles Mingus può fare il Ministro della Pace? Manco a dirlo c’è Malcolm X, ovviamente Procuratore Generale. Per le politiche sociali ci vuole qualcuno con lo sguardo giusto, la voce adatta, dunque Ella Fitzgerald. A Ray Charles tocca il posto di Direttore della Biblioteca del Congresso e Mary Lou Williams fa l’Ambasciatrice in Vaticano. Incarico delicatissimo per Thelonious Monk, Ambasciatore “in viaggio”. Manca solo un tassello per chiudere la formazione della squadra di Dizzy for President, ma anche per quello non ci sono dubbi, Miles Davis Capo della CIA!

Quarto step

Fratelli della stessa band, non possiamo dimenticarci di nessuno perché, come dice Wynton (Marsalis), “Il jazz è un’arte collettiva e un modo di vivere che allena alla democrazia, è l’arte del timing: ti insegna il quando. Quando cominciare, quando attendere, quando farti avanti, quando prendere il proprio tempo”.

Ti insegna che devi ascoltare, che non sei solo tu a dover parlare ma che quello che dici ha un senso solo se prima o poi toccherà a qualcun altro di dire la sua. Quando suoni tiri fuori quello che hai dentro, fino a sfinirti, ti aspetti che gli altri facciano la stessa cosa, come diceva Miles (Davis) ai suoi suona, suona come ti pare, suona quello che hai. Chi suona meglio non ha solo padronanza con lo strumento, ha qualcosa da dire, deve liberare fardelli importanti, autentica sofferenza. Chet (Baker) è così, tormentato come la sua voce, come la sua tromba. Pare che gli soffi dentro un dolore infinito. Oltre la tromba – pure nella tromba – c’è la sua vita. Incappa spesso in cose pesanti. Questa volta non ha pagato la gente sbagliata, e quelli gliela fanno pagare. Lo pestano talmente tanto che non può più suonare. Ma qualcuno gli paga costosissimi interventi chirurgici che gli restituiscono di poter soffiare ancora i suoi tormenti. Ci prova a capire chi è. Indaga, poi capisce, c’è la «fratellanza». Chet se ne sta al freddo per tre giorni fuori del pianerottolo di Dizzy, senza dir nulla, in quel modo lo ringrazia, non sono necessarie le parole, c’è la musica che resta, la fratellanza.

Quinto step

Il padre di Wynton, Ellis, diceva: “Il jazz libera dalle catene. Ti farà apprendere un modo di pensare sofisticato”. E Wynton… “L’America democratica non ha ancora fatto propria la lezione del jazz. La imparerà attraverso quello che sta accadendo. È solo questione di tempo. La crisi, la mancanza di denaro sono i segni della svolta. Come una persona che dice di essere in forma ma non fa esercizio. Dopo molti anni senza praticare sport e riempiendosi di fritti gli arriva l’infarto. E se sopravvive si mette in forma davvero. Perché il dolore insegna. Lo ha insegnato il jazz.”

Sesto step

“Il jazz ha lo stesso valore per i musicisti e per il pubblico perché la musica, legata com’è ai sentimenti, all’unicità dell’individuo e all’improvvisare insieme, fornisce risposte ai problemi fondamentali della vita. Più è alto il livello di attenzione, maggiori sono i benefici. Come in una conver­sazione, il musicista si accorge quando la gente ascolta: a un ascolto ispirato corrisponde un’esecuzione ispirata. Conoscere il jazz apre nuove prospettive alla percezione della storia. Ho letto resoconti della grande Depressio­ne e ho conosciuto e suonato con persone che l’avevano vissuta. Ma quando ascoltate Mildred Bailey o Billie Holiday, l’orchestra di Benny Goodman o Ella Fitzgerald con quella di Chick Webb, la vostra visione di quel periodo si fa più acuta e perspicace: il linguaggio che adoperavano, il modo in cui ricorrevano allo humour e agli stereotipi per colma­re il divario tra le razze, la loro concezione dei rapporti in­terpersonali…
Si sentiva che le persone stavano delineando un mo­do di intendere e celebrare la loro esistenza nonostante i tempi duri; anzi, se ne facevano beffe.
La musica può metterci in contatto con le nostre esistenze precedenti e prefigurare un futuro migliore. Ci ricorda qual è il nostro stadio nella catena delle conquiste dell’umanità, lo scopo primario dell’arte.
I più grandi artisti in ogni campo parlano attraverso i secoli di temi universali – morte, amore, invidia, vendetta, avidità, giovinezza, vecchiaia, i temi fondamentali, e quindi immutabili, dell’esperienza umana.
L’arte e gli artisti fanno davvero di noi “la famiglia dell’uomo” e molti dei grandi musicisti jazz incarnano quella consapevolezza.” (Winton Marsalis)

Per finire, se la musica è finita, fatela ripartire, meglio se jazz.

Sono un maleducato

Io non ce l’ho con i turisti, anche quelli sono mondo vario. Ce n’è che si concedono meritato riposo, le delizie di un viaggio dopo un anno di tribolazioni. Poi ci sono quelli che s’alzano e se ne vanno, come in un ristorante d’Agrigento, appena s’avvedono che la titolare e chef è nera. Poi, che s’affollino appinguinandosi solo dove c’è ristoro a prezzo da strozzo, ombrellone e sdraio a quotazione da mercato immobiliare a travolgente ascesa, nemmeno mi dispiace.

Se abbandonano le solitudini malservite a sottoprodotti agorafobici di civiltà, quelli come me, per intenderci, che anelano quell’isolamento a godimento esclusivo per egoismo compenetrato mi sta benissimo, non me ne rammarico.

Tuttavia non m’aspetto che ad agosto inoltrato questa sia regola aulica e mi capita che le solitudini di scogliere e rene non siano più tali sempre e comunque, pure all’ora improbabile in cui mi ci reco, quelle desertificate da pulsioni nottambule.

Ora, c’è stata furibonda mareggiata nei giorni scorsi e stamane, invece, c’era calma pressoché piatta, scarsa presenza pure sulla spiaggia. Mi concedo, dunque, la sgambatina post nuotata, a rassodare pigrizie muscolari.

Altrettanto immagino che facciano le due incipriate signore che mi si fanno incontro, a provenienza chiara d’altra parte dell’ampia baia, quella che ospita i due villaggi turistici che comitati belligeranti di liberalità bagnanti hanno relegato ai margini, vincendone le smanie espansionistiche. Intorno s’era già fatto deserto ancor più, per vincoli sovrintentendenziali e paesaggistici, pure per certe monellerie di ruspa a spianar villettina ad odor d’abusivo. Vista la stagione alta, dicevo, che qualcuno sgambetti a rassodar chiappette sulla rena non mi pare cosa astrusa, non me ne dolgo, per principi di democrazia. Le signore, sorridenti ed abbronzate, per nulla disponibili a rinunciare lì a certa gioielleria a brillanza autentica sui parei, manifestano gentilezza sorprendente al mio incontro, con un «buongiorno» da sorriso per pubblicità dentistica e accento d’altre latitudini patrie. Ricambio, ovvio, cercando di celare lo stemma sul rosso zainetto con borraccia, telo mare e macchina fotografica, poiché inneggiante a sindacato che avrebbe potuto produrre il loro autentico turbamento. Una delle due, bionda oltre misura, mi scruta e mi dice, sempre a sorriso pieno e con voce suadente: «lei è di qui?». Ora, io che ho aspetto – anche per abbronzatura rubata alla flebile luce del primo mattino – di chi nacque sulla sponda sbagliata di quel mare, forse anche per sospettosa irriverenza intuì una certa retorica nella domanda, ma annuì affabile. «Che meraviglia questo posto», continua l’altra. «Impareggiabile», rispondo. Poi la bionda si rammarica: «però tutte queste alghe sulla spiaggia, potrebbero toglierle, un posto così bello…». E si, le alghe c’erano, frutto della potatura di posidonia della corrente giardiniera, e le onde dei marosi lì le avevano portate, come natura crudele comanda. A me parve che rammaricarsi d’alghe a mare fosse un tantinello eccessivo, ma rifiutai a me stesso la gioia dell’accigliarmi platealmente preferendo annuire con espressione virante all’ebete. Ma l’altra non intese mollar l’osso, sempre a sorriso a flotta di denti da sbarco in Normandia: «siete così ospitali qui, e così gentili, ma qualche volta pare che non abbiate cura della vostra terra così bella. Rischiate di perdere turisti così». Risposi con tono pacato: «Eh, cara signora, come ha ragione… siamo immeritevoli di tutta questa bellezza, la nostra è terra irredimibile. Ma per esperienza posso dirle che entro qualche ora una bella e roboante ruspa, spumeggiante di gasolio ed irrorante sulfuree benedizioni, eviterà l’accumularsi di questo orrore. Peraltro, tutta questa roba qui rischia, col suo contenuto organico, di nutrire l’ecosistema a far da orrendo cibo per mille e mille creature. Dove finiremo se il mare, col suo moto perpetuo, si mette a dar vita ad ogni genere d’essere immondo? Ci toccherà attendere la bellezza d’un tramonto da cartolina col rischio materiale d’imbatterci in orribili meduse, viscidi molluschi, pungenti crostacei e pesci sguscianti. No care signore, questa non è civiltà. Quanta ragione nelle vostre parole. Ora, se premettete, vado a vomitare oltre le dune». Alle mie spalle, in dissolvenza, un «lei non è per niente educato».

La vela del desiderio (parte seconda)

Avrei voluto scrivere, a modo che m’appartiene, di due creature, mamma e figlia, abbandonati dal mondo intero a farsi polvere di deserti per fame e sete. Non ho ancora trovato energie per farlo, nemmeno misi da parte il pudore necessario, né mi sono persuaso che ce la farò mai. Solo mi preme di sottolineare che non raggiunsero il mare, quell’immane mondo ch’è fatto di sogno e desiderio, quel mondo che divinità potentissime di mali assoluti vorrebbero fosse solo tomba occulta e definitiva.

Siamo i creatori della musica e siamo i sognatori dei sogni. Vagando da esploratori solitari del mare, e sedendo lungo flussi desolati. Perdenti al mondo e scommettitori sul mondo, da cui la pallida luna scintilla.
Ed anche siamo gli agitatori e i motori del mondo per sempre, così pare.
” (Arthur William Edgar O’ Shaghnessy)

Che è quello che ci resta sognare i sogni, il gesto estremo di autoconservazione. È quello che ci resta desiderio d’impossibile, che ci fece folli, sconfitti, ma al contempo capaci d’andare oltre il senso stesso di chi vince, chi perde, superare categorie di putrefazione, ignorare necessità che non ci appartengono solo per farci primi fra moltitudini di ultimi. Desiderare di non partecipare, abbandonare al deserto che s’apre ad ogni veglia gli sgomiti a mors tua vita mea, lasciare che siano soli a concorrere, per la disfida finale, renderli definitivamente inutili, quelli vocati a competizione, ritrovarli a tagliare traguardi fittizi che sono tali solo per chi non ha occhi per altro, e mai s’avvide d’infinito di vertigine che nasce dalla lentezza.

Chi ha mare, invece, può pure permettersi di non partecipare, ha orizzonte libero, come chi ha vette elevatissime da cui sporgere lo sguardo e vede curvature del pianeta, vele che si sbiadiscono allo scirocco, che scivolano di lentezza vertiginosa, ché non hanno fregola d’arrivo. Ha possibilità d’incontro con un’isola che è punto d’approdo per altri infiniti approdi. Chi ha orizzonti si premura di quelli. Chi non ne ebbe e mai ne ricercò ha piatto freddo e scondito, non conosce volontà di sorpresa e sogno di deriva per scoperta, rende l’io universo di solitudine, e nemmeno se ne avvede pur se s’atteggia a compagnia sacra, nel convincimento fallace della ragione a propria immagine e somiglianza. Chi è solo ma riconosce la sfida dello sguardo oltre l’orizzonte non è tale, riconosce l’infinito, ne è parte, partecipa a costruzioni di centro d’universo.

“… E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia,
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio.
È una barca che anela al mare eppure lo teme.

(E. L. Masters, George Gray)

Radio Pirata 57 (buon non lavoro)

Che Radio Pirata si fa Cinquantasette che è Festa di Lavoro, pure faccio auguri a chi lavora e a chi no, che cerca a disperazione che Costituzione ad Articolo 1 pare non c’è o se c’è manca di specifica a “sfrutto”, e pure a ripudio di guerra d’articolo 11 si fa occhiolino distratto. Ma vado di musica che è compito statutario di trasmissione per pace, dunque pare con colbacco in testa.

Che morto ammazzato di lavoro, dice statistica – che la fa cervello asettico di matematica -, è a due al giorno da inizio d’anno. Che è solo storia di distratto a distrazione mosso, che muore a metto piede in fallo mentre passa betoniera o caterpillar, pure scivola d’ascensore, inciampa da impalcatura, precipita da palazzo e ciminiera, non collaborò col dire son morto per destino cinico e baro.

Che di tanti morti d’ammazzo pare guerra guerreggiata, ma è roba disfattista se oggi a bandiera colorata si dice basta con tale guerra, pure con altra che tuona di bomba. E io vado di suono giusto, che faccio colonna sonora.

Che radio si ripete se dice che cotali creature di cervello raffinatissimo dice che è scandalo a chiedere soldo per lavoro a ore senza tetto, che a tali posti già è a pagamento onore di fatica, pure se è a sgobbo indefinito, che s’impara a far fame dove si serve porzione dabbene. Che pure questo è paese civile che istituzione non s’indigna, nemmanco popolo fa gesto di sorpresa e dice ad illuminatissimo, sai che c’è, che forse è meglio che conosci via d’esilio a paese civile dove lavoro è a schiavo, che qui non si dice, pure se è. Musica sia, per lavoro a cottimo un tanto al chilo e contratto di clausura con vita altra che non è a facchinaggio.

Che è giorno di rischio orrendo questo che pare sia ad intenzione di taluni manifestanti per lavoro, protesta pure contro guerra, dunque contro lavoro di persona dabbene che fabbrica, ad onesto progetto per futuro fulgido, bomba ad esplodo certo, per taglio armata industriale di riserva e creo occupazione a sterminio di pretendente. Ma anche faccio di profugo clandestino prodotto di braccia a costo basso, che lavo piatto, colgo pomodoro e, a senza diritto, calmiero prezzo di centro commerciale per salsina gourmet. E meritevolissiono dice basta a tal schiavo d’altro pianeta, che schiavo sia anche autarchico senza sostituzione di massa sottomessa. Musichissima di lavoro concedo ad ascolto di meritato riposo di weekend.

A dire buon lavoro pare ossimoro, che, a cautela, faccio spiegare da collaboratore subordinato con contratto di apprendistato, prima che faccio di lui censura che nacque in posto strano: “Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendere dalla sua schiena.” (Lev Tolstoj)

Buonissimo 1° Maggio, senza lavoro!

Giornata della dimenticanza

D’ultimi tempi quell’altro me che s’affanna di quotidiani furibondi, mi tiene assai lontano dal gradito passatempo della mia bloghettola (sintesi di cosa di rete e bettola per quattro chiacchiere tra amici con bicchier di vino). Che cerco pure di leggere tutto, pure se tempo per risposte me ne rimane assai poco. Stamane, mi capita, costretto a poco movimento causa parainfluenzal declino, di buttar occhio ad un paio di cosarelle che gradii, d’un paio di blog che seguo con interesse: eccovele qui e qui. Poi vado un tanto di musica.

Insomma, che s’avvedono di cose luttuose ad idem sentire che d’altri tempi pure io parlai di fatti analoghi. Ma faccio mia parte che aggiungo un tantino a riflessioni già pregiatissime e la prendo alla larga. Mi feci, ad età scolastica, soprattutto a periodo di media, partecipazione ad attività educativa con metodologia che pareva un tantino segregazionista. Era d’uopo costruzione di classi su basi non proprio pedagogissime, ma erano altri tempi pure se non più medioevo da qualche frammento di secolo. Nella classe mia c’eravamo quelli messi male in arnese. Non me li ricordo tutti, qualcuno si, non di nome ché a certi ambiti non val la pena sottolineatura anagrafica e io, nessuno per scelta consapevole, ne trassi allora pieno convincimento. Il mio compagno di banco – figlio di tal contadino che era a pestaggio istituzionale per manifestazione non gradita a spesso e per protesta di condizione di morto di fame a schiena china e artrosi precoce – parlava a balbuzie e pareva che aveva manciata di ceci in bocca. Allorché interrogato sbiascicava sillaba confusa e compito suo si faceva carta straccia a tempo niente. Tale altro, a banco attiguo, era a soglia di servizio alla patria e di lui poco si sapeva giacché svolgeva a ristorante fuori porta servizio di lavapiatti sino alle tre del mattino e poi, dopo attraverso campagna su campagna con motobecane a sganghero di scarburo, convolava a giusto sonno su banco d’obbligo scolastico per intera mattina.

C’era poi la fila, ch’era novità recente per incedere di modernità, di ragazze a grembiule nero, a precisa distinzione a classe mista ma non troppo. Una di tali, di cui ho memoria solo per capigliatura rossa e silenzio imperscrutabile, era a padre ignoto e madre di mestiere antico. I miei insegnanti – e nemmeno di loro ho memoria di nome alcuno – erano assai poco a propensione a strategia pedagogica d’alto profilo e lettura di lettera a professoressa, piuttosto a righellate su nocca. Pure erano d’età avanzata a pensionamento precoce e dietro l’angolo, che ne cambiavamo a blocco d’anno parecchi in coro. C’era volontà di sorta d’appartheid non codificato. Ma, a far due di conto, che poi divenni coso, per legge di contrappasso, che fa matematica a creatura, tale attività, a faccio elenco separato di buoni e cattivi, mi parve che continuò a mentite spoglie. E allora eccovelo il conto per l’anno che se n’è andato, che ogni anno si ripete, semmai s’amplifica: morti in carcere 203 di cui 84 per m’ammazzo da volontario; sono a morto di lavoro circa un migliaio; circa 1.500 è il migrante che s’è fatto un nome anonimo d’annegato e cibo per pesce; 120 sono le donne femminicidiate; 367 morti senza tetto; sono 4.400 all’anno quelle che si sono sniffate un bel po’ d’amianto a ciclo produttivo preciso ed antico per mancata bonifica, e tutti parvero senza nome che d’altra categoria ce ne sarebbe da raccontare. A tirar le somme pare selezione bancaria che crea scompenso cimiteriale, roba che Darwin si sbagliò di grosso ed io, che non sono che nessuno, altro non aggiungo, che m’andò bene. Ma fra tanta giornata di lutto, la giornata per lutto di perdita d’Ultimo Ignoto a paese civilissimo, non sarebbe d’istituzione gradita?

Dizzy for President

Il 6 gennaio del 1993 ci lasciava John Birks “Dizzy” Gillespie. Qualche anno prima – non ricordo quanti – l’avevo visto in concerto all’Anfiteatro Romano di Siracusa. Che delizia autentica. Era spettacolo anche quando non suonava, con quel faccione, le braccia lunghe, quel balletto accennato quando, nella dialettica della musica, lasciava spazio agli assoli degli altri musicisti. A vederlo con la sua band era chiaro cosa intendesse Winton Marsalis quando diceva che “Il jazz è un’arte collettiva e un modo di vivere che allena alla democrazia, è l’arte del timing: ti insegna il quando. Quando cominciare, quando attendere, quando farti avanti, quando prendere il proprio tempo”. Ma anche c’era il pensiero di Coltrane: “Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra”. La sua tromba piegata all’insù puntava il cielo, le gote gli si gonfiavano così tanto che pareva si sarebbe librato in volo, leggero, come una mongolfiera. Fu quasi ovvio, conseguenziale, che la signora alla mia sinistra sussurrasse, ridacchiando, “Polvere di stelle” quando, l’ennesima volta che scuoté il pistone per svuotarlo, mi beccò di rimbalzo con le sue polluzioni. Me l’ero cercata giacché, impudicamente, m’ero messo a sgomitare per raggiungere il posto più prossimo al palco proprio in quell’istante, e fu fortuna che un’altra signora, assai più compassionevole e meno sarcastica della prima, m’offrisse un kleenex. Superato rapidamente lo sgomento, l’episodio non riuscì a scalfire la mia estasi. Fu cosa memorabile, ahimé, irripetibile.

Nato a Cheraw, il 21 ottobre 1917, in una famiglia poverissima, cominciò a suonare la tromba quasi per gioco che aveva 12 anni, da autodidatta. Il padre si dilettava a picchiare lui e i suoi fratelli piuttosto spesso, ma era morto già da un paio d’anni. Lasciò casa per andare a studiare all’istituto di Laurinburg grazie ad una borsa di studio, troppo povero per potersi permettere scuole a proprie spese. Nel 1935 fece a meno pure della scuola per trasferirsi a Filadelfia. Vi trovò lavoro come musicista, suonando con Frankie Fairfax e con la band di Teddy Hill, con la quale produsse la sua prima registrazione subentrando a un mostro sacro quale Roy Eldridge. Le sue collaborazioni, in quegli anni, furono rilevantissime per costruirne l’identità musicale, suonava a fianco di gente come Cab Calloway, Lionel Hampton, Mario Bauza, Milt Hinton, Coleman Hawkins.

Appena cominciati gli anni ’40 era già a New York dove mise su un trio con Oscar Pettiford al contrabbasso e Kenny Clarke alla batteria, la formazione che possiamo considerare la prima autenticamente bop. Suonano soprattutto al Minton’s dove le jam session con Thelonious Monk, Bud Powell, Max Roach, tanti altri, sono continue. Fondamentale, in quegli anni, è il suo ingresso nell’orchestra di Earl Hines, di cui fa parte anche Charlie Parker e, l’anno dopo, in quella di Billy Eckstine. Con questa gira gli States emancipando il bebop dalla sua nicchia originaria di espressione musicale tipica dei locali notturni newyorkesi. Ma è in quelli, non nei grandi teatri con le grandi orchestre, che il bebop aveva preso forma. Il suono al Minton’s Playhouse, la casa natale del bebop, è ruvido, profondamente identitario, ha arrangiamenti semplici e diretti, senza fronzoli, poche, scarsissime concessioni allo swing, alle cose delle orchestre che facevano musica molto attenta a sofisticati arrangiamenti, quella che piaceva ai bianchi. “Io cerco di suonare la pura essenza, lasciando che tutto sia giusto come dovrebbe essere.” (Dizzy Gillespie) Il Bebop era la musica degli afro-americani che si riappropriavano dei propri spazi, della propria unicità, anche a costo di perdere ingaggi, di rimanere marginali. Fu proprio Dizzy tra i primi ad usare le due note, be, bop, a chiusura del brano. Ma quello non fu solo movimento musicale, parve più stile di vita, modalità di ribellione al consueto di quegli anni. Era roba che piaceva anche ai ragazzi della beat generation: “A quei tempi, nel 1947, il bop impazzava in tutta l’America. I ragazzi del Loop suonavano, ma con stanchezza, perché il bop era a metà strada fra il periodo del Charlie Parker di Ornithology e quello di Miles Davis.” (Jack Kerouac, On the Road, 1957)

Bird è stato lo spirito del movimento bebop, ma Dizzy ne era la testa e le mani, era lui che teneva insieme tutto”, dirà Miles Davis nella sua autobiografia. Proprio Davis lo sostituirà con la sua tromba a fianco di Charlie Parker, quando, nel 1947, Gillespie fonda la sua nuova band con il pianista John Lewis, il vibrafonista Milt “Bags”Jackson, Kenny “Klook” Clarke alla batteria e Ray Brown al contrabbasso, praticamente una prima visione del Modern Jazz Quartet.

Pure se aveva concepito le sue sperimentazioni più ardite dentro piccoli gruppi, Dizzy Gillespie amava di gran lunga esibirsi con le grandi orchestre, lì poteva esprimere tutto il suo talento istrionico, tutta la sua naturale propensione ad essere punto di riferimento sul palco, leader naturale. Dentro quelle forzava il suo bop, non riusciva a rinunciarci: “Mi ci è voluta tutta la vita per imparare cosa non suonare” diceva. Con le sue Dizzy Gillespie Big Bands, spesso effimere per durata a causa dei costi eccessivi, portò la sua musica in giro per il mondo, in particolare in Europa. Furono gli anni in cui la sua tromba rivolse la campana verso l’alto, cosa che non si era mai vista prima, frutto della natura di spettacolo pirotecnico dei suoi concerti. Una sera, prima di lui, si era esibito sul palco il duo comico Stump and Stumpy. Nella bagarre divertita i due gli fecero cadere la tromba deformandola, ma a Dizzy quella forma così particolare piacque, pure il suono che ne veniva fuori gli parve migliorato. Aveva raccontato questo episodio nella sua biografia, chiarendo un altro aspetto caratteristico del suo modo di suonare, il rigonfiamento anomalo delle gote quando soffiava nello strumento le sue sfuriate, cosa assolutamente vietata dai puristi della teoria, della tecnica. Secondo Dizzy fu un medico a spiegargli che quel fatto era, con ogni probabilità, frutto di una qualche reazione fisiologica incontrollabile, forse dovuta ad una sindrome misteriosa.

Nel 1953 partecipa al grande concerto del Massey Hall di Toronto insieme ai più grandi di quegli anni, Max Roach, Charlie Mingus, Charlie Parker, Bud Powell. Ne venne fuori uno dei più importanti dischi jazz di tutti i tempi, ma anche parve di trovarsi davanti ad una sorta di de profundis per il bebop, forse troppo ostico per i mercati discografici più convenzionali. Cominciava del resto ad affermarsi in giro l’hard bop dell’astro nascente Clifford Brown, c’erano nell’aria i prodromi del free jazz. Molti musicisti neri cominciavano a studiare seriamente, non si limitavano a invenzioni autodidatte. Sul giro classico del blues inserivano tecnicismi solistici sempre più sofisticati, pur non rinunciando mai all’improvvisazione. Horace Silver, Charles Mingus, Art Blakey, Cannonball Adderley, Thelonious Monk e Tadd Dameron scelsero di percorrere quella strada, sino agli approdi modali del jazz dei primi anni ’60.

Dizzy, invece, continuava a suonare la sua musica, rimase fedele ai suoi “ribelli” minimalismi fondativi, anche quando decideva di contaminarsi con espressioni apparentemente lontane. Brani essenziali come Manteca e Tin Tin Deo, sono il risultato perfettamente riuscito di una fusione del jazz con altre esperienze, in questo caso con la musica caraibica. La passione di Gillespie per i ritmi latini continuò per anni, la sua curiosità per quel mondo lo portò pure ad intraprendere percorsi comuni con il musicista cubano naturalizzato americano Arturo Sandoval. Sandoval era, dal canto suo, affascinato dai suoni del bebop, e fece il suo ingresso nella band di Gillespie, The United Nations Orchestra, a partire dal 1977. Molte altre furono le collaborazioni che Dizzy ebbe con artisti non propriamente jazz, Chaka Khan, Ray Charles, Aretha Franklin, solo per citarne alcuni.

Protagonista delle scene musicali di mezzo secolo, pure fuori, in un modo o nell’altro, è emersa la figura d’un uomo poliedrico, capace di stupire, divertire, indurre pensieri profondi. Aiutò Chet Baker durante l’ennesimo disastro della sua vita, quando fu pestato a sangue dai suoi creditori sì da non poter più continuare a suonare. Gillespie, segretamente, pagò gli interventi chirurgici ricostruttivi che consentirono a Baker di tornare a soffiare nella sua tromba. Alla fine, indagando, Chet Baker scoprì chi fosse il suo anonimo benefattore e sostò al freddo per tre giorni fuori del pianerottolo di Gillespie, senza dir nulla, in quel modo intendendo ringraziarlo.

Nel 1963, l’agenzia che si occupava di promuovere le cose di Dizzy, la sua immagine, sfruttando il clima di propaganda per le presidenziali dell’anno successivo, quello della candidatura Kennedy, per intenderci, aveva fatto produrre delle spillette con la scritta “Dizzy for President”. Erano anni in cui la condizione dei neri d’America era drammatica. Quella era la sua gente, anche lui aveva vissuto in povertà estrema, provato sulla sua pelle cosa significasse la discriminazione razziale e ora che godeva di grande successo non poteva far finta di niente. I discorsi con cui Kennedy promosse la sua candidatura, per quanto apparissero dirompenti in questo senso, furono interpretati dai neri d’America come poco più che retorici. Per rivendicare altro che non fossero parole, decine di migliaia di manifestanti parteciparono alla marcia organizzata a Washington da Martin Luther King, tra quelli qualcuno tirò fuori la spilletta pubblicitaria “Dizzy for President”. Come dire, il dado era tratto.

Il 21 settembre del 1963, dopo l’ennesima strage di afroamericani ad opera di razzisti del Ku Klux Klan, Dizzy, salendo sul palco del Monterey Jazz Festival, urlò al pubblico “Voglio diventare Presidente degli Stati Uniti perché ce ne serve uno!” Il cantante Jon Hendricks compose pure l’inno della campagna elettorale: “Vote Dizzy! Vote Dizzy! You want a good president who’s willing to run / You wanna make government a barrel of fun (…) Your political leaders spout a lot of hot air / But Dizzy blows trumpet so you really don’t care.”

Come al solito, Dizzy stupì il mondo. Mise insieme pure la lista dei suoi collaboratori e ministri: per Duke Ellington l’incarico doveva essere adeguato alla sua grandezza, dunque, Ministro dello Stato. Max Roach, che era uno che coi botti ci sapeva fare, sarebbe divenuto Ministro della Difesa. A Louis Armstrong doveva andare il Ministro dell’Agricoltura, e chi meglio di Charles Mingus poteva essere Ministro della Pace? Manco a dirlo c’era Malcolm X, ovviamente Procuratore Generale. Per le politiche sociali, Dizzy pensò a chi aveva lo sguardo giusto, pure la voce adatta, Ella Fitzgerald. Per Ray Charles c’era il posto di Direttore della Biblioteca del Congresso ed a Mary Lou Williams toccava di andare a fare l’Ambasciatrice in Vaticano. Incarico delicatissimo per Thelonious Monk, Ambasciatore “in viaggio”. Mancava solo un tassello per chiudere la formazione della squadra di Dizzy for President, ma anche per quello non c’erano dubbi, Miles Davis Capo della CIA!

La vela del desiderio

Fu lungo e periglioso il cammino che mi riportò lontano da casa. Periglioso pure per tal evento di cui pure giornalettume parlò, che senza di quell’evento avrei terminato il viaggio a tempo assai più breve a miracolata concessione di sollievo per la mia dolorante schiena. Tal torma di tifosame si mise a far cagnara, ed io mi ritrovai a viscera di blocco, così, per non farmi mancar nulla, per ora ed ora. Che io proporrei che foglio di via lo danno ad altri – e pure a me, per isola deserta – che tanto pare che non ci sia scampo ad ammazzo fitto – pure ragione – per girar di palla.

Siamo i creatori della musica e siamo i sognatori dei sogni. Vagando da esploratori solitari del mare, e sedendo lungo flussi desolati. Perdenti al mondo e scommettitori sul mondo, da cui la pallida luna scintilla.
Ed anche siamo gli agitatori e i motori del mondo per sempre, così pare.
” (Arthur William Edgar O’ Shaghnessy)

Che è quello che ci resta sognare i sogni, il gesto estremo di autoconservazione. È quello che ci resta desiderio d’impossibile, che ci fece folli, sconfitti, ma al contempo capaci d’andare oltre il senso stesso di chi vince, chi perde, superare categorie di putrefazione, ignorare necessità che non ci appartengono solo per farci primi fra moltitudini di ultimi. Desiderare di non partecipare, abbandonare al deserto che s’apre ad ogni veglia gli sgomiti a mors tua vita mea, lasciare che siano soli a concorrere, per la disfida finale, renderli definitivamente inutili, quelli vocati a competizione, ritrovarli a tagliare traguardi fittizi che sono tali solo per chi non ha occhi per altro, e mai s’avvide d’infinito di vertigine che nasce dalla lentezza.

Chi ha mare, invece, può pure permettersi di non partecipare, ha orizzonte libero, come chi ha vette elevatissime da cui sporgere lo sguardo e vede curvature del pianeta, vele che si sbiadiscono allo scirocco, che scivolano di lentezza vertiginosa, ché non hanno fregola d’arrivo. Ha possibilità d’incontro con un’isola che è punto d’approdo per altri infiniti approdi. Chi ha orizzonti si premura di quelli. Chi non ne ebbe e mai ne ricercò ha piatto freddo e scondito, non conosce volontà di sorpresa e sogno di deriva per scoperta, rende l’io universo di solitudine, e nemmeno se ne avvede pur se s’atteggia a compagnia sacra, nel convincimento fallace della ragione a propria immagine e somiglianza. Chi è solo ma riconosce la sfida dello sguardo oltre l’orizzonte non è tale, riconosce l’infinito, ne è parte, partecipa a costruzioni di centro d’universo.
“… E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre a follia,
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio.
È una barca che anela al mare eppure lo teme.

(E. L. Masters, George Gray)

Auguri alla polvere (che ancora ce n’è)

Che si fece fine vita pure d’anno nefasto, che fu abile solo a costruire enorme tappeto a consuetudine di archiviarsi sotto polvere che nemmeno bidone aspiratutto pare a capacità di levar di torno. E io mi faccio latore a postino preciso di auguri a fatto che diventa polvere a nascondere proprio sotto quello di trama finissima ed ampio contenuto.

Auguri, dunque, che facciamo ad inizio per donna di paese vario, che a citarne un paio come Afganistan e pure Iran, mi pare faccio sconto per difetto. Che quella donna, a massacro che non rispetta regola sacra, è a furor di popolo sano d’Occidente grande vittima di iattura integralista, ma stesso popolume a civiltà elevatissima spolvera detta donna collettiva sotto tappeto ad arrivo di prima bolletta, ch’è questione di priorità. Pure fece a grande scandalo che finì vita di povere ragazze a reato gravissimo di capelli sciolti, ma sotto il tappeto furono a più di cento donne ad anno andato di nostro paese a sommaria esecuzione di tribunale d’unico maschio ché non si fecero a comportamento adeguato.
Auguri a lavoratore d’ogni tribù, che come scarafaggio fa a nasconderello sotto tappeto, che fece grande stadio a simil fatta d’arena per gioco ad esultanza di gente civile, convincimento diffuso per spartizione a pioggia di sacco di dobloni che fecero come scopa a spazzar via ricordo di morto ammazzato a 6500 per godimento e sponsorizzazione.
Che già in altri anni pare c’è poco spazio sotto il tappeto, che quello passato è stato anno, come dissi, di grande ordito, che dunque non manca posto per altro morto ammazzato a scritto di lavoro, non di paese a medioevo per consuetudine di mostrar spettacolo come arena, ma a tiro di soffio di naso nostro, che furono quasi 700, e manco ci fu divertimento di palla che rotola. A loro augurio mi pare non serve granché, ma lo faccio a congiunti d’essi, che anno nuovo – ma pare difficile assai – venga a far giustizia. Per ora, loro, come congiunto spacciato, fanno solo granello ad affollare rifugio di tappeto.
Auguri, augurissimi, a chi scappa, a chi fugge da ogni guerra, – che pare oggi ce ne sia una sola a degno accoglimento a sgomitar per partecipazione – auguri a tutti i disertori, a chi fa di vita priorità pure a costo di stessa vita, ad imbarco per rischio d’annego, per non morir di bombarda, d’amputo testa, impicco per scarso rendimento a religione, fame e sete. A tutti quelli che ci provano, auguri, pure se quando non ci riescono sono solo polvere anch’essi, a riempir di sotto il tappeto. E se ce la fanno a farsi congiungimento a Porto Salvo, sono a pubblico ludibrio, causa d’ogni male, financo d’orticaria e fastidio per sabbia nelle mutande.


Auguri pure a quei due o tre che si diedero a razzia sotto casa mia di povera e miserabile bottega, senza ricavarne altro che danno di catenaccio logoro. Auguri che non ebbero a trovar nemmeno centesimo, ma ci fu coro collettivo ad invocar per loro taglio di mani e ghigliottina a pubblica piazza. Finiranno sotto il tappeto, a cella di galera a prestissimo, che ad ultimo tentativo di scasso a poco centesimo si scordarono cellulare a bancone di panificio. Questo è destino che a loro tocca, che non si fecero università prestigiosa a imparar a prender tangente milionaria, ma risposero con sbaglio di scasso ad altro disgraziato a diniego collettivo di ci hai ‘na sigaretta dammi cento lire. Si fecero metafora elevatissima, mentre diventavano altra polvere e a loro disgraziata insaputa capro espiatorio, di guerra d’ultimo contro ultimo a saziar la pancia di padroni del vapore.
Auguri al mio mare, che stamane mi guardava a sgomento e pareva che mi chiedesse perché c’è desiderio di far assembramento a fondale suo di poveri cristi, che lui se li prende che altro non può fare, ma dice lui che non è tappeto, non pretende polvere a gonfiarne l’onde.
Auguri a tutti quelli, tanti altri, che fanno polvere sotto il tappeto, ma anche a chi passa da qui, per caso o per volere, ed auguri pure a me, che mi saluto l’anno con poesia che mi parve giusta, e che rendo a desiderio di condivisione,

Pace non cerco, guerra non sopporto
Tranquillo e solo vo pel mondo in sogno
Pieno di canti soffocati . Agogno
La nebbia ed il silenzio in un gran porto
In un gran porto pien di vele lievi
Pronte a salpar per l’orizzonte azzurro
Dolci ondulando, mentre che il sussurro
Del vento passa con accordi brevi
E quegli accordi il vento se li porta
Lontani sopra il mare sconosciuto.
Sogno. La vita è triste ed io son solo.
O quando o quando in un mattino ardente
L’anima mia si sveglierà nel sole
Nel sole eterno, libera e fremente.

(Dino Campana, Georgia O’Keeffe “The Beyond”)