Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.
“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.
A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.
Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)
Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.
Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.
E visto che non mi fu consentito per causa di tempo tremendo di non farlo, mi piace, così, per celia, di parlarvi d’attraversamenti fotografici di paesaggio. Pure capita che il paesaggio è a presenza umana, che talune di dette presenze non mi sono ostili come tal altre. Dunque io quelle vi propongo che l’altre mi interessano assai meno. Ma vi faccio dettaglio di ciò che penso che, manco sarebbe da dire, questa è cosa che si fa a suono di musica giusta e precisa.
Quanti sono gli approdi di Ulisse? L’isola di Calipso, le Terre dei Lotofagi, i giardini di Circe? V’è stata una risposta potente e lunga millenni alla descrizione di un paesaggio fatta da un cieco, un semplice accenno tra vicende dal contesto universale per scatenare rincorse al toponimo che giustificasse una tappa fondamentale del viaggio più vertiginoso della letteratura. E vale lo stesso per certi scorci d’Oriente salgariani – come per i primi, sia pure per diversi impedimenti, mai visti – che hanno rievocato sogni e speranze di derive definitive. Più concrete appaiono certe divagazioni su tramonti indimenticabili nei taccuini di viaggio di Goethe, e poi quel ramo del Lago di Como che volge a mezzogiorno, suggestioni che fossero state immortalate da una qualsiasi pellicola o su qualche milione di pixel, non ci sarebbero giunte in fattezze così nitide e dirompenti. Poi l’invenzione della macchina fotografica ha spiazzato pletore di artisti e letterati costringendoli a cercare altre strade per delineare e trasmettere le suggestioni del paesaggio. Non si poteva più renderlo in forme perfette, più perfette di uno sviluppo almeno. In realtà, prima che la fotografia riducesse la natura descrittiva del paesaggio a pratica manichea ed estetizzante, rasserenante al punto da divenire materia utile per certe sale d’aspetto dentistiche, il volo di fantasia stampava immagini ben più profonde, giacché liberava l’energia del paesaggio, fosse anche semplicemente quello immaginato, e lo poneva in rotta di collisione – o in convergenza – con certe qualità dell’anima dell’artista, con le sue arguzie, talvolta con le sue furbizie.
Ed allora si può presumere che la fotografia abbia prodotto nell’artista l’effetto collaterale dell’insorgere necessario d’un approccio altro col paesaggio, non più meramente descrittivo, ma dialettico, un affare personale, un teté a teté allo specchio. All’artista, persino al fotografo più avveduto direi, quello cioè che non cerca patinature estetizzanti, il colpo di scena ad effetto della visione grandangolare del tutto e subito, neanche nebbioline trasognate, non rimane che interloquire col paesaggio, divenirne parte, attraversarlo per renderne l’essenza primordiale. Non può più lasciare l’impressione di conoscerlo, deve metabolizzarlo, incorniciarne il dettaglio, de-scriverlo, o meglio, re-interpretarlo, modificarlo se ne è il caso. In altre parole de-scrivere il paesaggio può voler dire scannerizzarlo nel suo invisibile, coglierne la molteplicità delle suggestioni, aggiungervene d’altre. Il paesaggio è tale poiché qualcuno l’ha attraversato e ne ha ricavato tratti della propria identità, la sua perfetta narrazione, dunque, non può esserne la sepoltura nell’istante cristallizzato da un click, piuttosto è la ricerca inversa che riporta alla luce una sequenza temporale dinamica. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le tracce del tempo che si sovrappongono, si stratificano diacronicamente; e così la traccia più recente non cancella le precedenti, le opacizza soltanto per un periodo effimero. Ma è lo stesso tempo che gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori depositati dal suo passaggio, ne scopre i precedenti, in un gioco cromatico che il de-scrittore del paesaggio disvela in un unicum narrativo che va oltre l’istante. Questa ricerca non può non consumarsi dentro un percorso di riscoperta, che parte dai luoghi del proprio vissuto anche quando il senso d’abbandono li rende ad occhi distratti prevalente e fastidioso. Effetto collaterale di questo cammino di riscoperta identitaria diventa così la messa a fuoco del dettaglio che sfugge a chi è vittima inconsapevole del gioco d’inganno del tempo, che ha scelto la disillusione dell’accelerazione parossistica come pratica quotidiana, ma che appare invece agli occhi di chi non se ne lascia irretire come irrinunciabile taumaturgia. “Vi fu sempre nel mondo assai più di quanto gli uomini potessero vedere quando andavano lenti, figuriamoci se lo potranno vedere andando veloci”, diceva John Ruskin, e la deriva nel paesaggio, in quello concreto e materiale del quotidiano così come in quello della mente, è proprio un viaggio lento, dentro quei silenzi che in una condizione “urbana” e moderna non sono previsti, appartengono, per l’immaginario collettivo distorto, solo a certe valli antiche e remote. Silenzi in cui però si avverte profondo il respiro del tempo che è passato, rotto solo da qualche richiamo lontano ed ancestrale che proviene da un luogo indefinito. “L’oscurità indietreggia davanti all’illuminazione e le stagioni davanti a stanze con l’aria condizionata: la notte e l’estate perdono il loro fascino, e l’alba sparisce. l’uomo della città pensa di allontanarsi dalla realtà cosmica e per questo non sogna più. Il motivo è evidente: il sogno nasce all’interno della realtà e si realizza in essa”. (Gilles Ivan) La reazione è la deriva nel paesaggio, lo scontro con esso, come per due enormi marmi michelangioleschi, la realtà materiale e la psiche dell’artista, che collidono liberandosi, scheggia dopo scheggia, frammento su frammento, delle sovrastrutture. Il risultato non è scontato, non appartiene ad un progetto ripetibile, si riarticola in senso dialettico ad ogni urto, rivela realtà sorprendenti ed insospettate in ciascuno dei due soggetti a specchio. L’opera finale non è perciò l’epitaffio d’un atto creativo, ad essa tocca di vagare ancora alla ricerca di nuovi orizzonti in un paesaggio di nuove menti, di nuove derive, di improbabili – e nemmeno certi – approdi. La deriva nel paesaggio, così, è alla base di tutto, diviene la rottura sistematica di ogni paradigma, d’ogni già visto, ma continua ad appartenere all’oggetto materiale che scarnifica sino all’essenza e reinterpreta come opera d’arte giacché lo circonda del vuoto. In pratica la deriva è due cose insieme, processo di esplorazione e tecnica di straniamento. “Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela” (Henry Laborit). In entrambi i casi il risultato finale è la nuova scoperta, quella che non è tracciata sulle carte di navigazione, di “rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione”. Impone che il paesaggio non sia definito secondo paradigmi assoluti, ma divenga il luogo d’esplorazione di un’atmosfera.
Nello straniamento l’oggetto paesaggio diviene un insieme di sensazioni che si riarticolano in un Kaos altro, postfondativo, unico ed irripetibile in quanto dipendente dall’osservatore. E persino il paesaggio degradato diviene contenitore di speranze, a patto che lo straniamento ne disarticoli le ragioni statutarie e lo rielabori dentro nuove consapevolezze. Lo spazio banale, evitato, de-costruttivo, viene filtrato dallo straniamento e diventa esperienza fisica, emotiva, contatto primordiale e silenzioso, la quinta scenografica su cui si depositano i presupposti della memoria. I quotidiani vissuti ed eteroposizionati creano la suggestione della trasformazione positiva e progressiva, la situazione che contrasta con l’esistente e ne muta lo stato di cose.
Il progetto di de-scrizione del paesaggio merita una premessa inevitabile in ogni caso, il paesaggio va attraversato lentamente, sia quello immaginato che si materializza in un sogno, una visione, una suggestione, sia quello vissuto, fosse anche quello che il paradigma estetico derubrica ad anonimo e degradato delle periferie di Suburbia. Eppure non può essere un attraversamento programmato, rituale, una ricerca chiavi in mano, piuttosto la situazione che si realizza poiché l’essenziale è solo contingenza. “Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente: gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare… ecco la Nausea”. (J. P. Sartre).
Manca poco alla partenza di “Le Vie dell’immaginario” a Modica (RG). Già tante le adesioni di artisti e associazionio, tra questi: Aldo Palazzolo, Alberto Refrattario, Teresa Miccichè, Galleria “Fermata d’Arte”, Giuliana Belluardo, Essegì Stefania Gagliano. Pamela Vindigni. Marco Grifola, Giuseppe Pitino, Antonella Giannone, Grazia Ferlanti. Vi ripropongo la presentazione dell’iniziativa, e se siete da quelle parti, o volete andarci, se vi perdete lo spettacolo peggio per voi.
“A che serve un libro, pensò Alice, senza dialoghi né figure?”.
Pensare di trasformare un intero, estesissimo quartiere storico, per pezzi consistenti semi abbandonato, in un gigantesco libro, le cui pagine sono rappresentazioni d’altri libri, “Alice nel paese delle Meraviglie”, il suo seguito immaginifico “Alice attraverso lo Specchio”, capolavori di Lewis Carroll, è pensiero divergente rispetto alle presunte inquietudini della lettura. I ragazzi di Immagina, quando concepiscono “Le Vie dell’Immaginario”, manifestazione annuale dedicata a grandi autori, ribaltano queste inquietudini, le trasformano in piacere autentico di scoperta, gioco, sorpresa. Immagina è già associazione atipica, ne fanno parte cinquanta ragazzi d’età compresa tra i sette ed i diciassette anni, che da qualche tempo animano il quartiere di Modica Alta, giocando a scuoterne le fondamenta, con epicentro nella Chiesa dei SS. Nicolò ed Erasmo, abbandonata, rinata. L’anno scorso celebrarono i cento anni dalla nascita di Federico Fellini, riportando i suoi film tra le strade strette, i vicoli, le ripide scalinate di quel quartiere abbarbicato su uno scosceso costone roccioso. Quest’anno la manifestazione farà la stessa cosa con Alice ed i suoi compagni d’avventura, i suoi incontri, le suggestioni di un capolavoro immortale. Ci stanno lavorando, a partire proprio dal loro quartier generale, perché tutto sia pronto per il via, il 19 luglio.
Il viaggio inizia proprio con l’ingresso alla chiesa oltre il quale sono cinque porte, quelle tra cui deve scegliere Alice, della Paura, della Rabbia, della Noia, dell’Amore, della Razionalità. Si aprono su altrettante stanze, ma solo una consentirà di iniziare il viaggio nel Paese delle Meraviglie. È viaggio che coglie il senso – o forse il non senso – del racconto di Carroll. Alice non sceglie la via breve del percorso chiavi in mano. La manichea distinzione tra bene e male le sfugge, non sembra imparare nulla, appare frastornata. Cammina attraverso un paese di contraddizioni, dove incubi e sogni non sembrano distinti, in cui le dimensioni del tempo e dello spazio si inseguono private della liturgia del consueto.
Atelier “Borgo nativo” di Aldo Palazzolo
Il viaggio è complesso, articolato, come nel Nastro di Möbius attraversa il sotto come il sopra, scopre il dentro tale e quale al fuori. Viene smarrita la stessa natura di fiaba, se ne perde la necessaria morale, si trasforma, invece, nella negazione stessa della narrazione quale strumento educativo, che induce a divenire “bravi bambini”, forse “bravi cittadini” ossequiosi, stereotipi d’infanzia “perfetta”. Si trasforma lentamente nel viaggio in una personalità intima ed esclusiva, non a caso si conclude esattamente dove ebbe inizio.
La quinta scenografica di Modica Alta, con le sue invenzioni urbane, l’imprevisto della scena, sembra costruita per questo viaggio, per un necessario monologo interiore. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le orme del tempo, che si sovrappongono, si stratificano diacronicamente; la traccia più recente non cancella le precedenti, le opacizza soltanto, per un periodo effimero. Lo stesso tempo gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori deposti al suo passaggio, ne scopre i precedenti, in un gioco cromatico che li riconduce ad un unicum narrativo che va oltre il presente. Questa ricerca non può che consumarsi dentro un percorso di riscoperta identitaria, dunque, che si riappropria dei luoghi anche quando il senso d’abbandono appare ad occhi distratti prevalente e fastidioso. Effetto sublime e collaterale di questo cammino, è la messa a fuoco del dettaglio che sfugge a chi è vittima inconsapevole del gioco d’inganno del tempo, a chi ha scelto la disillusione dell’accelerarsi quale pratica quotidiana. Appare, il dettaglio, quale irrinunciabile taumaturgia agli occhi di chi non è irretito dalla consuetudine. “Vi fu sempre nel mondo assai più di quanto gli uomini potessero vedere quando andavano lenti, figuriamoci se lo potranno vedere andando veloci” (John Ruskin), e questo impone il viaggio lento, dentro i silenzi che in una condizione “urbana” e convenzionale non sono previsti, appartengono, semmai – in un immaginario qui smentito – solo a certe valli antiche e remote, ai più fitti dei boschi. Silenzi in cui si avverte profondo il respiro del tempo che è passato, rotto solo da qualche richiamo lontano ed ancestrale che proviene da un luogo indefinito, da dietro persiane serrate su un occhio scuro che spia il transito inatteso, allarmato, forse da scalpiccii desueti, lungo scalinate labirintiche, dentro il profumo di intingoli che sanno di memoria. Si dipanano – pure compiacendosene – le attese lunghe e pazienti, sinché i raggi sghembi del sole d’una certa ora, o qualche goccia di occasionale pioggia, non vivificano le coloriture di vernici dismesse, frammenti di intonaci, infissi scorticati. Dettagli d’umanità senza presenze, che riconciliano con dimensioni perdute, alternative ed ostili al mordi e fuggi, all’unica prospettiva dell’ora e subito. E del dedalo dimenticato, non rimase che l’opera collettiva di popolo e tempo, bellezza che riesce a farsi vanto delle sue rughe più profonde, senza riguardo, invero, per l’estetista. Pure s’arricchisce dei contributi di artisti, ispirati da Carroll, negli angoli più improbabili, che siano vecchie chiese, frammenti d’archeologia dimenticata, ripide e strette salite, cortili. La via degli adulti, la via che i “grandi” hanno già predisposto e realizzato, pare dimenticata, diviene la via di Alice, una strada personalissima di riscoperta.
Puntuale come il tristo mietitore, tutti gli anni da qualcuno a questa parte, m’arriva la telefonata, che ormai si sa che fra qualche settimana sono operativo in terra d’origine. Che è telefonata d’angoscia autentica, ad aggiungersi a caldo d’asfissio, agli esami non finiscono mai. Ma poiché ne parlai già, e che la storia si ripete spesso uguale a se stessa, non ve ne riparlo quale fatto nuovo, mi limito a riciclo di ciò che già ebbi a raccontare in illo tempore. Al più vi dò musica d’aggiunta.
“Ho ricordi vividi della mia gioventù, almeno in parte. Della fine del liceo si, della pletora di progetti che m’affollavano i neuroni, come in un raccordo autostradale. Arrivai alla maturità con qualche anticipo, che allora s’usava di saltare la prima classe delle elementari, e poiché ero proscritto alla leva in Marina (per quella si partiva prima e ci si stava di più), la famigerata cartolina azzurra me l’aspettavo da un momento all’altro, tanto più che m’ero assuefatto all’idea di togliermi il dente, subito subito, e senza manco sfruttare l’università per dilazionare i tempi. Ammetto ch’ero dilaniato tra il desiderio d’una fuga disertoria e romanzesca verso un paese esotico dove si combatteva ancora qualche guerriglia rivoluzionaria, e la possibilità di sfoggiare la bella divisa bianca da ufficiale e gentiluomo al gran ballo delle debuttanti. Nonostante l’adesione convinta alla prima ipotesi, finii per optare per la seconda, che già allora l’idea di cose troppo complicate non mi sconfinferava. Il desiderio d’avventure epiche richiede, per potersi avverare, fatiche sovrumane cui già allora non ero aduso. Insomma, di quello mi ricordo, d’altri accadimenti pure, di quelli tra i banchi, con annessi compagni di viaggio, invece, nada de nada. Qualche nome non troppo abbinato ad un volto, talora un cognome di sfuggita. Ma le mie superiori mi sono passate dentro senza lasciare segno alcuno, quasi con stanchezza, senza un guizzo.
Per cui, quando il solito vecchio compagno che invece tiene ben vivido l’archivio di quegli istanti di vita vissuta – per me – inutili, periodicamente s’appresta a farsi promotore della famigerata “rimpatriata”, a me mi becca l’orticaria. Che poi a dire non ci vengo mi pare pure che faccio lo snob, che me la tiro. Qualche anno fa c’è stata la prima puntata. Mi rintracciarono tramite un cugino, che non sapevano nemmeno se fossi ancora vivo o morto. Non dissi di no e andai, con la mestizia nel cor. Che m’immaginavo adipi strabordanti, canuzie e calvizie, fallimenti esistenziali e professionali cui mi sarei imbattuto con – parziale – dolore e che riguardavano persone di cui non avevo più alcuna memoria. Ma quando mai. Pareva d’essere a Dallas. Tutti belli e ricchi, eleganti e giovanilissimi, che io, come al solito strascicavo ciabattando, pure per il caldo afoso sul promontorio, e non mi sarei sorpreso mi lasciassero una cinquemila lire avanzate da una pizza tra liceali, così, per pietà. Mi tolsi di torno appena possibile. Non senza un qualche interrogativo. Come avevano fatto? Semplice arrivò la risposta. S’erano arrabattati per tutta una vita per diventare così, avevano speso anni e anni per assomigliarsi tutti, frequentando gli stessi circoli non s’erano mai persi di vista, le stesse università prestigiose, le stesse vacanze. Per dirla tutta, s’erano fotocopiati, parevano frutto d’un vecchio Gestetner a manovella. S’erano dati obiettivi, scavando una tacca sul tronco d’una palma come certi naufraghi disperati, ogni volta che ne raggiungevano uno. Una vita così, non un guizzo, uno sghiribizzo, un colpo di testa. Tutto pianificato, nessuna sorpresa. Questo pure dai loro soddisfatti racconti. Ho capito, dunque, perché non me ne ricordavo uno che fosse uno. Loro sono l’orgoglio del paese, le creature che con il loro impegno incessante tengono alto il PIL, nostro signore e padrone – nemmeno con letterarie braghe bianche -. Ecco perché, ieri sera, la telefonata d’invito è arrivata senza avere risposta. Le mie noie me le scelgo accuratamente. Non ho mai fatto, se non per brevi e nemmeno troppo intensi periodi, quello per cui ho studiato – quello me lo porto semplicemente dentro, e non mi dispiace -; ho imparato a leggere e scrivere nelle bettole più scalcagnate del pianeta, mi sono rimasti nei ricordi d’un tempo pescatori e falegnami, artisti dimenticati, meravigliosi attori di strada, giocolieri e puttane, che certe altre rimpatriate parrebbero più ultime cene o corti dei miracoli. Ne ho fatti colpi di testa, strambate e virate, cambi di prospettiva e giri di vita per diventare finalmente Nessuno. Però mi sono divertito, che non m’annoio mai più di tanto, anche quando mi trastullo nel nulla più assoluto davanti ad un pezzo di mare all’alba o in un vicolo deserto al tramonto sino a notte fonda, né m’è parso talora di patire di ciò. Pure di fotocopie me ne sono fatte poche. Sono azzardo per il paese, che il PIL lo abbasso. Mantengo però vivide le economie dei luoghi dove ho imparato tutto, le ultime osterie in cima alle più ripide scalinate, quelle ai margini del porto, dove si perdono le luci delle lampare e dove c’è sempre un fiasco di vino e – lì si – una storia da raccontare o da ascoltare, poi, eventualmente, anche da scrivere e leggere.”
Riciclo pezzo antico, che mi pare che potevo anche scriverlo domani, che ora ho foga di non scrivere che sono a burocratume di scuola, lavoro forzato per compilo moduli a un tanto al chilo, modulo su modulo che taluno mai, m’è certo ad esperienza, leggerà. Che paio soldato di Cadorna che scava trincea poi la riempie, per tener alto morale della truppa a sfatto di rancio rancido. Al più faccio cambio di musica, che mi costa poco e dà tanto a godimento e buon ascolto, e vi sparo fotografia e levapelo, se proprio non volete a lettura sollazzarvi.
“Ogniqualvolta mi accorgo di mettere il muso; ogniqualvolta giunge sull’anima mia un umido e piovoso novembre; ogniqualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, dinanzi alle agenzie di pompe funebri o pronto a far da coda a ogni funerale che incontro; e specialmente ogniqualvolta l’umor nero mi invade a tal punto che soltanto un saldo principio morale può trattenermi dall’andare per le vie col deliberato e metodico proposito di togliere il cappello di testa alla gente – allora reputo sia giunto per me il momento di prendere al più presto il mare. Questo è il sostituto che io trovo a pistola e pallottola”. (Herman Melville, Moby Dick, incipit)
Che per mare, se c’è bufera, se l’onda scavalla lo scoglio e se la prende coi primi promontori abusivi, io so come ci si comporta, che conosco cale e ripari segreti. Che se c’è l’uragano che seppellisce di schiuma la spiaggia, che fa giardiniere di praterie di posidonia, che s’arruffa di schiuma il pelo e lancia frangiflutti alla malora, io, che di cauto ossequio sono edotto, m’evito il peggio di deriva. Pure, se del ciclone ti tremano le gambe, se la banchina ed il moletto tremano a terremoto, nemmeno, per il gorgoglio d’onda, se ne vede più la pietra lucidata di feroce risacca, m’attrezzo a resistere, ne ho mestiere. Se la spiaggia e la rena s’intorbidano, si ritraggono della marea incattivita dalle folate, l’assecondo e, rispettoso, me ne faccio paziente ragione oltre le dune, nell’attesa che se n’entri soave ponentino. Né ebbi mai paura, che so che passa, so che serve, del ribollire di Scilla e Cariddi, che restituisce discariche al mondo di sopra, nutre dell’essenze profonde le creature che affollano gli abissi, dove la calma non è che perenne, e di sopra si toglie il legno leggero di scialuppa dallo scoglio. Insomma, mal che vada mi faccio attento, drizzo le antenne, mi muovo con circospezione, m’arrangio di cautele antiche, che non c’è comunque da scherzare.
Ma se vedo doppi petti, nerofumi a bandiera funesta, legioni di contrattualizzati per bave alla bocca, se sento digrignare di denti, urlaioli a cottimo, se scorgo nella buca delle lettere la bolletta a massacro, in lontananza l’inevitabile pompa di benzina, le code a cassa e casello, lì mi si incartapecorisce a brivido di terrore il vecchio pellame. Né mai vi fu tifone che m’orripilò più d’una manovra finanziaria.
“A che serve un libro, pensò Alice, senza dialoghi né figure?”.
Pensare di trasformare un intero, estesissimo quartiere storico, per pezzi consistenti semi abbandonato, in un gigantesco libro, le cui pagine sono rappresentazioni d’altri libri, “Alice nel paese delle Meraviglie”, il suo seguito immaginifico “Alice attraverso lo Specchio”, capolavori di Lewis Carroll, è pensiero divergente rispetto alle presunte inquietudini della lettura. I ragazzi di Immagina, quando concepiscono “Le Vie dell’Immaginario”, manifestazione annuale dedicata a grandi autori, ribaltano queste inquietudini, le trasformano in piacere autentico di scoperta, gioco, sorpresa. Immagina è già associazione atipica, ne fanno parte cinquanta ragazzi d’età compresa tra i sette ed i diciassette anni, che da qualche tempo animano il quartiere di Modica Alta, giocando a scuoterne le fondamenta, con epicentro nella Chiesa dei SS. Nicolò ed Erasmo, abbandonata, rinata. L’anno scorso celebrarono i cento anni dalla nascita di Federico Fellini, riportando i suoi film tra le strade strette, i vicoli, le ripide scalinate di quel quartiere abbarbicato su uno scosceso costone roccioso. Quest’anno la manifestazione farà la stessa cosa con Alice ed i suoi compagni d’avventura, i suoi incontri, le suggestioni di un capolavoro immortale. Ci stanno lavorando, a partire proprio dal loro quartier generale, perché tutto sia pronto per il via, il 18 luglio.
Le immagini di Immagina
Il viaggio inizia proprio con l’ingresso alla chiesa oltre il quale sono cinque porte, quelle tra cui deve scegliere Alice, della Paura, della Rabbia, della Noia, dell’Amore, della Razionalità. Si aprono su altrettante stanze, ma solo una consentirà di iniziare il viaggio nel Paese delle Meraviglie. È viaggio che coglie il senso – o forse il non senso – del racconto di Carroll. Alice non sceglie la via breve del percorso chiavi in mano. La manichea distinzione tra bene e male le sfugge, non sembra imparare nulla, appare frastornata. Cammina attraverso un paese di contraddizioni, dove incubi e sogni non sembrano distinti, in cui le dimensioni del tempo e dello spazio si inseguono private della liturgia del consueto. Il viaggio è complesso, articolato, come nel Nastro di Möbius attraversa il sotto come il sopra, scopre il dentro tale e quale al fuori. Viene smarrita la stessa natura di fiaba, se ne perde la necessaria morale, si trasforma, invece, nella negazione stessa della narrazione quale strumento educativo, che induce a divenire “bravi bambini”, forse “bravi cittadini” ossequiosi, stereotipi d’infanzia “perfetta”. Si trasforma lentamente nel viaggio in una personalità intima ed esclusiva, non a caso si conclude esattamente dove ebbe inizio.
La quinta scenografica di Modica Alta, con le sue invenzioni urbane, l’imprevisto della scena, sembra costruita per questo viaggio, per un necessario monologo interiore. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le orme del tempo, che si sovrappongono, si stratificano diacronicamente; la traccia più recente non cancella le precedenti, le opacizza soltanto, per un periodo effimero. Lo stesso tempo gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori deposti al suo passaggio, ne scopre i precedenti, in un gioco cromatico che li riconduce ad un unicum narrativo che va oltre il presente. Questa ricerca non può che consumarsi dentro un percorso di riscoperta identitaria, dunque, che si riappropria dei luoghi anche quando il senso d’abbandono appare ad occhi distratti prevalente e fastidioso. Effetto sublime e collaterale di questo cammino, è la messa a fuoco del dettaglio che sfugge a chi è vittima inconsapevole del gioco d’inganno del tempo, a chi ha scelto la disillusione dell’accelerarsi quale pratica quotidiana. Appare, il dettaglio, quale irrinunciabile taumaturgia agli occhi di chi non è irretito dalla consuetudine. “Vi fu sempre nel mondo assai più di quanto gli uomini potessero vedere quando andavano lenti, figuriamoci se lo potranno vedere andando veloci” (John Ruskin), e questo impone il viaggio lento, dentro i silenzi che in una condizione “urbana” e convenzionale non sono previsti, appartengono, semmai – in un immaginario qui smentito – solo a certe valli antiche e remote, ai più fitti dei boschi. Silenzi in cui si avverte profondo il respiro del tempo che è passato, rotto solo da qualche richiamo lontano ed ancestrale che proviene da un luogo indefinito, da dietro persiane serrate su un occhio scuro che spia il transito inatteso, allarmato, forse da scalpiccii desueti, lungo scalinate labirintiche, dentro il profumo di intingoli che sanno di memoria. Si dipanano – pure compiacendosene – le attese lunghe e pazienti, sinché i raggi sghembi del sole d’una certa ora, o qualche goccia di occasionale pioggia, non vivificano le coloriture di vernici dismesse, frammenti di intonaci, infissi scorticati. Dettagli d’umanità senza presenze, che riconciliano con dimensioni perdute, alternative ed ostili al mordi e fuggi, all’unica prospettiva dell’ora e subito. E del dedalo dimenticato, non rimase che l’opera collettiva di popolo e tempo, bellezza che riesce a farsi vanto delle sue rughe più profonde, senza riguardo, invero, per l’estetista. Pure s’arricchisce dei contributi di artisti, ispirati da Carroll, negli angoli più improbabili, che siano vecchie chiese, frammenti d’archeologia dimenticata, ripide e strette salite, cortili. La via degli adulti, la via che i “grandi” hanno già predisposto e realizzato, pare dimenticata, diviene la via di Alice, una strada personalissima di riscoperta.
Gliel’ho detto a quell’altro me che così non va più bene. Che tra quarantene, lockdown et similia, pare che siamo diventati Papillon per quanto ci piacerebbe scappare da qui, portandoci dietro solo la musica.
Però, capisco lui, – o meglio, cerco di capirlo, pure se non mi riesce – ma io che c’entro? Che sono nessuno conclamato tale? Io, poi, che sono incline alla solidarietà, gli sto pure accanto, ma se è troppo stroppia. Glielo avevo detto, financo implorato, di rimanere a fare i pescatori, ma pure di frodo, s’era necessario. Ma lui niente, che pare non volesse deludere il mondo, quello stesso che lo imprigiona e butta via la chiave, che poi non solo di quarantena si tratta. C’è, pure, che la convivenza forzata tracima di dialettiche serrate, che a me non m’aggradano, m’annoiano, di più, mi irritano. E irritato io, irritato lui, finisce che chiedo la separazione, almeno pro tempore. Me ne vado, scappo di casa, mi viene l’egoismo compulsivo, che io d’anagrafica d’altri non rispondo, non ci ho mica la tessera sanitaria, a nessuno non la rilasciano. Mi faccio le valigie – sporta di pane e pomodoro, e fiasco, a lui gli lascio la parmigiana che Stefano, che ha banchino a mercato sotto casa mia, m’ha lasciato a uscio melanzane fuori stagione dignitose – e mi faccio un viaggio, dove mi pare e come mi pare, che a lui lo lascio con le sue prescrizioni, pure morali, corpo e mente. Se ha spirito lo porto con me, al guinzaglio, come si compete a chi nasce schiavo e tal vuol rimanere. Mi metto a seguire il fiume tra trote e carpe che saluto con riverenza, niente contro di loro, ma non mi fermo più di tanto.
Raggiungo il mare in fretta, mi seguo corrente, pure corrente mi faccio, talora scoglio, che di riverbero di sole e d’onda traslucido d’immenso. D’abisso mi dipingo, e prendo un caffè con sirene astemie, di cicchetti mi finisco con pirati fenici, mi scaldo al fuoco d’Argonauti, doppio Zanzibar, le Bermude le triangolo, e nel Borneo colleziono Monsoni che metto in agenda per il viaggio prossimo venturo. Spiego vele e le accartoccio, sia di bonaccia, sia di tempesta, m’approdo a deserti marini, di cristalli di sale m’adorno le barbe, telefono con le conchiglie e m’agghindo di stelle di firmamento e di fondo.
Di derive mi faccio approdo, e ogni isola che non c’è mi diventa casa che un Venerdì che m’offre una sigaretta ed un frittino di pesce ce lo trovo sicuro. E cavalco ippocampi, m’accendo un cubano, mi prescrivo rum antibiotici e strascico il cammino di Patagonia. Di ghiacciai m’acceco al tramonto, con pinguini vestiti a prima alla Scala, e ballo coi delfini, griglio con le orche, ed ogni fiera d’oceano sfido a tressette. Carambolo su tappeti verdi d’asfodelo e ruchetta, m’addormento in terra di Lotofagi, dentro caverne scavate da Lestrigoni. Con ciclopi a tre occhi canto canzoni perdute e tratteggio storie sul fondo d’un pozzo, accanto al riflesso di luna. Poi mi fermo, sull’ultimo scoglio, che non vè altra libertà se non quella di starsene a fronte d’orizzonte, che t’apre lo sguardo, pure mentre chiudi gli occhi.
Che mi scappano dieci minuti, sottratti abilmente, con furto a destrezza, al lavoro. Troppo pochi per dedicarmi a scrivere altro, da ciò desumo che mi tocca di riciclare, pratica in cui eccello, che non m’è mai di fatica, sfruttare il già fatto. Poi m’attende full immersion in altre faccende d’affaccendamento. Stavolta vi faccio pure la colonna sonora al testo, che quella, come ebbi a dire, almeno, vi rimane.
“Charles Baudelaire si scagliò con tale veemenza sulla fotografia, da far venire mossa ogni foto nel raggio di chilometri dal suo Salon. Non era ammissibile, per il poeta vergine che la fulminea attrazione dell’attimo spostasse lo sguardo dalla contemplazione elevatissima dell’arte pura, nella sua rappresentazione più autentica, come nel teatro o nella pittura. Inaccettabile il processo di massificazione e tecnologizzazione dell’arte. L’industria si sostituiva al genio creativo, lo filtrava attraverso uno strumento, poneva anche gli inetti nella condizione di potersi definire artisti. Poi si fece fotografare in poltrona dall’amico Nadar, e questi ne colse nella sua posa disincantata tutta la poetica, sublimandola nell’attimo, appunto.
Nadar aveva compiuto il miracolo, anzi no, la magia, di elevare la sua arte a livelli vertiginosi, usando l’immagine del suo più feroce – e certamente credibile – avversario, per emanciparla dal mero tecnicismo cui rischiava di essere relegata per sempre. Di più, l’invasione di campo della fotografia, capace di raccontare il reale con efficacia assai maggiore del più attento iperrealismo manierista, sospinse tutte le altre arti figurative verso orizzonti nuovi, alla ricerca di realtà parallele cui l’occhio non poteva giungere. Stessa preoccupazione di preservare la purezza dell’arte espressa da Baudelaire si ripalesò con il de profundis dei dagherrotipi e linotipie nell’eredità concessa alle prime 35 mm. Eppure, non v’è dubbio che i movimenti colti dal click di Cartier Bresson, ma anche le immagini sfocate di Robert Capa, facciano parte a pieno titolo di ambienti di massima espressione artistica. Con il digitale, come per un misterioso fenomeno carsico, riemerge l’urlo dei puristi, poi la fotografia per tutti col cellulare, credo abbia fatto venire l’orticaria persino alle ortiche. E se c’è chi invita alla riflessione prima del click, stigmatizza l’improvvisazione ottica, c’è invece chi accoglie come una vera rivoluzione democratica la possibilità che miliardi di occhi moltiplichino i propri sguardi con ogni mezzo possibile, raggiungendo l’apoteosi del numero infinito di scatti. Quanti appuntamenti all’alba dietro conventi di frati minoriti si sono consumati nella disfida finale per definire la verità che distingue lo scatto fine a se stesso – ma sarà sempre tale? – dalla foto concettuale? Ammetto che non parteciperò alla dialettica serrata tra i fautori del deposito di megapixel, non prendo parte, non sono interessato alla questione, ho deciso di far repubblica e di dichiararmi neutrale. Sguscio via, piuttosto, evito di frequentare i circoli fotografici come ho smesso di occhieggiare ai cenacoli pittorici, bazzicare simposi letterali.
Mi sono fatto una mia opinione sulla fotografia, che non appartiene alla fotografia, né alla scrittura, tanto meno alla musica o alla pittura o a cos’altro vi pare. Persuaso, infatti, che la narrazione che ci portiamo dentro – nessuno escluso – trovi modo di esprimersi in un momento qualsiasi quando incontriamo la realtà che la rappresenta, e come ad uno specchio costruiamo la magia dell’incontro tra il nostro dentro e il resto d’intorno. Basta avere occhi, certe qualità dell’anima, per guardare il nostro dentro e la sua rappresentazione lì fuori. Quando accade siamo pervasi dalla meraviglia e immortaliamo l’attimo con un’immagine, una poesia, due o tre note in fila, se ci aggrada e ne siamo capaci. Ciascuno come gli aggrada esprime la propria sorpresa nel sentirsi una parte del tutto e vuole conservare quell’istante, renderlo infinito, come il tempo che oltrepassa il frammento di se stesso dello scatto. Nella fotografia, il tempo dell’incontro dura un attimo, bisogna coglierlo prima che fugga, più lungo nella poesia e nella musica, ancora più ampio nella prosa, per il respiro profondo di tempi dilatati. Ed allora basta eliminare la variabile temporale per riprendersi l’originario progetto narrativo che è la parte razionale di quell’intimo e segreto miracolo dell’atto creativo. Del resto “il tempo della produzione, il tempo-merce, è una accumulazione infinita di intervalli equivalenti. È l’astrazione del tempo irreversibile, di cui tutti i segmenti devono provare sul cronometro la loro sola uguaglianza quantitativa. In definitiva il “tempo è, in tutta la sua realtà effettiva, ciò che esso è nel suo carattere scambiabile. È in questo dominio sociale del tempo-merce che «il tempo è tutto, l’uomo non è niente; egli è tutt’al più l’incarnazione del tempo». È il tempo svalorizzato, la completa inversione del tempo come «campo di sviluppo umano»” (Guy Debord, Miseria della filosofia). Posso dunque ascoltare un’immagine, guardare un suono, sentire l’odore intenso della poesia e della scrittura, se cancello il tempo. Ed il tempo derubricato ad un parametro “non vitale” consente di rifuggire l’orrore della specializzazione e dialogare con le forme espressive, comunque si manifestino. Se si scattano foto perché sono il nostro naturale ricongiungimento con il reale, dunque, poi è bene intrattenere rapporti con altri fotografi, ma senza codificarli nella liturgia dell’appartenenza, piuttosto val la pena leggere un libro e parlare con chi ne scrive, ascoltarsi un disco in compagnia di chi fa musica. Perché nella specializzazione si nasconde il rischio mortale dell’annullamento della dialettica concreta e progressiva delle narrazioni individuali, la cui somma è la narrazione collettiva che trascende il tempo e destruttura e annulla l’immagine-merce al cospetto dell’immaginario. In fondo Nadar non ha letto attentamente le poesie di Baudelaire prima di catturarne l’espressione “maledetta” nel volto d’un uomo in poltrona?”
Quanti sono gli approdi di Ulisse? L’isola di Calipso, le Terre dei Lotofagi, i giardini di Circe? V’è stata una risposta potente e lunga millenni alla descrizione di un paesaggio fatta da un cieco, un semplice accenno tra vicende dal contesto universale per scatenare rincorse al toponimo che giustificasse una tappa fondamentale del viaggio più vertiginoso della letteratura. E vale lo stesso per certi scorci d’Oriente salgariani – come per i primi, sia pure per diversi impedimenti, mai visti – che hanno rievocato sogni e speranze di derive definitive. Più concrete appaiono certe divagazioni su tramonti indimenticabili nei taccuini di viaggio di Goethe, e poi quel ramo del Lago di Como che volge a mezzogiorno, suggestioni che fossero state immortalate da una qualsiasi pellicola o su qualche milione di pixel, non ci sarebbero giunte in fattezze così nitide e dirompenti. Poi l’invenzione della macchina fotografica ha spiazzato pletore di artisti e letterati costringendoli a cercare altre strade per delineare e trasmettere le suggestioni del paesaggio. Non si poteva più renderlo in forme perfette, più perfette di uno sviluppo almeno. In realtà, prima che la fotografia riducesse la natura descrittiva del paesaggio a pratica manichea ed estetizzante, rasserenante al punto da divenire materia utile per certe sale d’aspetto dentistiche, il volo di fantasia stampava immagini ben più profonde, giacché liberava l’energia del paesaggio, fosse anche semplicemente quello immaginato, e lo poneva in rotta di collisione – o in convergenza – con certe qualità dell’anima dell’artista, con le sue arguzie, talvolta con le sue furbizie.
Ed allora si può presumere che la fotografia abbia prodotto nell’artista l’effetto collaterale dell’insorgere necessario d’un approccio altro col paesaggio, non più meramente descrittivo, ma dialettico, un affare personale, un teté a teté allo specchio. All’artista, persino al fotografo più avveduto direi, quello cioè che non cerca patinature estetizzanti, il colpo di scena ad effetto della visione grandangolare del tutto e subito, neanche nebbioline trasognate, non rimane che interloquire col paesaggio, divenirne parte, attraversarlo per renderne l’essenza primordiale. Non può più lasciare l’impressione di conoscerlo, deve metabolizzarlo, incorniciarne il dettaglio, de-scriverlo, o meglio, re-interpretarlo, modificarlo se ne è il caso. In altre parole de-scrivere il paesaggio può voler dire scannerizzarlo nel suo invisibile, coglierne la molteplicità delle suggestioni, aggiungervene d’altre. Il paesaggio è tale poiché qualcuno l’ha attraversato e ne ha ricavato tratti della propria identità, la sua perfetta narrazione, dunque, non può esserne la sepoltura nell’istante cristallizzato da un click, piuttosto è la ricerca inversa che riporta alla luce una sequenza temporale dinamica. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le tracce del tempo che si sovrappongono, si stratificano diacronicamente; e così la traccia più recente non cancella le precedenti, le opacizza soltanto per un periodo effimero. Ma è lo stesso tempo che gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori depositati dal suo passaggio, ne scopre i precedenti, in un gioco cromatico che il de-scrittore del paesaggio disvela in un unicum narrativo che va oltre l’istante. Questa ricerca non può non consumarsi dentro un percorso di riscoperta, che parte dai luoghi del proprio vissuto anche quando il senso d’abbandono li rende ad occhi distratti prevalente e fastidioso. Effetto collaterale di questo cammino di riscoperta identitaria diventa così la messa a fuoco del dettaglio che sfugge a chi è vittima inconsapevole del gioco d’inganno del tempo, che ha scelto la disillusione dell’accelerazione parossistica come pratica quotidiana, ma che appare invece agli occhi di chi non se ne lascia irretire come irrinunciabile taumaturgia. “Vi fu sempre nel mondo assai più di quanto gli uomini potessero vedere quando andavano lenti, figuriamoci se lo potranno vedere andando veloci”, diceva John Ruskin, e la deriva nel paesaggio, in quello concreto e materiale del quotidiano così come in quello della mente, è proprio un viaggio lento, dentro quei silenzi che in una condizione “urbana” e moderna non sono previsti, appartengono, per l’immaginario collettivo distorto, solo a certe valli antiche e remote. Silenzi in cui però si avverte profondo il respiro del tempo che è passato, rotto solo da qualche richiamo lontano ed ancestrale che proviene da un luogo indefinito. “L’oscurità indietreggia davanti all’illuminazione e le stagioni davanti a stanze con l’aria condizionata: la notte e l’estate perdono il loro fascino, e l’alba sparisce. l’uomo della città pensa di allontanarsi dalla realtà cosmica e per questo non sogna più. Il motivo è evidente: il sogno nasce all’interno della realtà e si realizza in essa”. (Gilles Ivan) La reazione è la deriva nel paesaggio, lo scontro con esso, come per due enormi marmi michelangioleschi, la realtà materiale e la psiche dell’artista, che collidono liberandosi, scheggia dopo scheggia, frammento su frammento, delle sovrastrutture. Il risultato non è scontato, non appartiene ad un progetto ripetibile, si riarticola in senso dialettico ad ogni urto, rivela realtà sorprendenti ed insospettate in ciascuno dei due soggetti a specchio. L’opera finale non è perciò l’epitaffio d’un atto creativo, ad essa tocca di vagare ancora alla ricerca di nuovi orizzonti in un paesaggio di nuove menti, di nuove derive, di improbabili – e nemmeno certi – approdi. La deriva nel paesaggio, così, è alla base di tutto, diviene la rottura sistematica di ogni paradigma, d’ogni già visto, ma continua ad appartenere all’oggetto materiale che scarnifica sino all’essenza e reinterpreta come opera d’arte giacché lo circonda del vuoto. In pratica la deriva è due cose insieme, processo di esplorazione e tecnica di straniamento. “Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela” (Henry Laborit). In entrambi i casi il risultato finale è la nuova scoperta, quella che non è tracciata sulle carte di navigazione, di “rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione”. Impone che il paesaggio non sia definito secondo paradigmi assoluti, ma divenga il luogo d’esplorazione di un’atmosfera.
Nello straniamento l’oggetto paesaggio diviene un insieme di sensazioni che si riarticolano in un Kaos altro, postfondativo, unico ed irripetibile in quanto dipendente dall’osservatore. E persino il paesaggio degradato diviene contenitore di speranze, a patto che lo straniamento ne disarticoli le ragioni statutarie e lo rielabori dentro nuove consapevolezze. Lo spazio banale, evitato, de-costruttivo, viene filtrato dallo straniamento e diventa esperienza fisica, emotiva, contatto primordiale e silenzioso, la quinta scenografica su cui si depositano i presupposti della memoria. I quotidiani vissuti ed eteroposizionati creano la suggestione della trasformazione positiva e progressiva, la situazione che contrasta con l’esistente e ne muta lo stato di cose.
Il progetto di de-scrizione del paesaggio merita una premessa inevitabile in ogni caso, il paesaggio va attraversato lentamente, sia quello immaginato che si materializza in un sogno, una visione, una suggestione, sia quello vissuto, fosse anche quello che il paradigma estetico derubrica ad anonimo e degradato delle periferie di Suburbia. Eppure non può essere un attraversamento programmato, rituale, una ricerca chiavi in mano, piuttosto la situazione che si realizza poiché l’essenziale è solo contingenza. “Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è essere lì, semplicemente: gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare… ecco la Nausea”. (J. P. Sartre).
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