Pare crivello irrisolvibile la quadratura del cerchio, che vi fu paesano mio di cui non frequentai medesime scuole per sfalsamento d’anagrafica, tale Archimede d’aggettivazione pitagorica, che disse che tale cosa non è possibile. Quale assioma derivato c’è ovvietà che chi nasce torto dritto non diventa, che è come dire che se sei tondo non ti fai quadrato nemmanco a smoccolare in aramaico. Ad evidenza di fatto mi faccio persuaso – che è cosa ormai ovvia financo a me che faccio d’arrivo a deliberazione cosa di ritardo – ch’ebbi torto sempre e comunque. Dunque, qualunque cosa io scriva o dica è sbagliata per definizione di dogma.
Che seppure immaginassi d’aver ragione, e mi capita a presupposto di narcisistica presunzione, io sarei a destino individuato quale pazzo. E cos’è la pazzia? Forse solo deviazione standard da comportamenti normali, quelli che tengono i più, che accettano codifiche, quali che siano le consegne. Il pazzo, il dago, il reietto, il miserabile, meglio non guardarlo, non vederlo, lasciarlo nell’ombra è meglio, che i suoi connotati rimangano indefiniti, solo un’ombra sullo sfondo colorato e rutilante della “moda” (concetto statistico.matematico, come da definizione “la moda (o norma) di una distribuzione di frequenza X è la modalità (o la classe di modalità) caratterizzata dalla massima frequenza. In altre parole, è il valore che compare più frequentemente”).
Il pazzo va posto a luogo di delirio contrassegnato a precisione, che non vi siano possibilità di contatto col mondo normale. In definitiva io sono pazzo, mi ci ritrovo ad esserlo non da solo, pare che altri ve ne siano in giro, pochi ma brutti, talune volte criminali.
È pazzo chi dice che se c’è alluvione che sommerge lo mondo e vento a tempesta è cosa da clima che cambia, cemento fin sopra capello. Ma norma, sanità di mente a decreto e legge d’istituzione sacra ed inviolabile è che non che non se ne può più d’ambientalismo che insozza e blocca traffico. Pure grandi tra grandi dicono che per far pace bisogna far grande guerra e se uno dice facciamo fermo immagine che parlarsi è meglio che spararsi, fosse anche papa in persona, è pazzo. Ma allora, facciamo precisione a mondo dei pazzi, riapriamo i manicomi e mettiamoci dentro pacifisti, ambientalisti, creature solidali. Meglio, facciamo sostituzione etnica d’Africa che ce li mandiamo tutti coi barconi a fatto di foglio di via, rilancio di posta.
“…la nave dei folli non era, poi, totalmente un parto della fantasia. Al contrario, era piuttosto comune la prassi di allontanare i matti dalla comunità dei normali, eventualmente proprio affidandoli a gente di mare. Accadeva spesso che venissero affidati a battellieri, a Francoforte, nel 1399, alcuni marinai vengono incaricati di sbarazzare la città di un folle che passeggiava nudo. Le città europee hanno spesso dovuto veder approdare queste navi di folli”. (Michel Foucault)
E visto che si fa festa grande, che ponte farà a cessazione di cosa d’isola, vi riciclo cosa antica, per memoria di perduto amor di terra matria che s’appresta a diventar cosa altra, praticamente ferma a gancio, incementata che non ebbe abbastanza disgrazia, pare, che non gliene si doveva affibiare altra.
“Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio”. (Manlio Sgalambro)
Mi capita tutte le volte che me ne vado da lì, a valigie non ancora pronte che strugge d’essere isola forse pure io.
Aveva voglia Nisticò a classificare i siciliani in siciliani di scoglio e di mare, gli uni abbarbicati al substrato come una cozza, un dattero, un riccio spinoso, incuranti della natura claustrofobica dell’appartenenza. Gli altri, con la valigia in mano, fermi non ci stanno, e appena la prima brezza lo consente, prendono il largo a vele gonfie. Ma tutti si portano dentro la stessa insularità, che è condanna del viaggio e nostalgia struggente per il porto di partenza. Solo che ai primi arriva subito, ci soffrono di più, basta che si mettano poco fuori l’uscio di casa, si vadano a sbrigare un documento nel capoluogo. I secondi, al più, con la lacerazione del distacco ci si sono abituati a convivere. Ma tanto tornano, prima o poi vedi se tornano e non passa minuto che con la testa non si organizzano per farlo. Mi pare che questo desiderio di ritorno sia proprio il risultato della paura atavica che l’isola non la ritrovi più, che qualcuno, mentre ti allontani giusto un attimo, se la possa portare via. Forse lo tsunami o li turchi, anche se – ed è evento inconfutabile -, qualunque cosa arriva, dopo un primo attimo di sgomento, gli si apre la porta di casa e, passati al più cinque minuti, ti scordi che è arrivata allora allora, e ti pare che sia lì da sempre, ci fai l’abitudine. Tuttavia, poiché non si sa mai ed a scanso di equivoci, metti in giro strane voci, che lì ci sono i Lestrigoni, i Lotofagi, forse Circe, che giù per lì Scilla e Cariddi hanno un brutto carattere, che quei sassi, isole essi stessi, ce li lanciano Ciclopi a basso tasso di socievolezza, e che le figlie di Kokalos avvelenano gli ospiti. Di più, se per ragioni di modernità te ne devi andare per qualche giorno, che ne so, a Poggibonsi, San Giovanni in Persiceto o a Cormano, saluti parenti e amici, fazzoletto in mano, come se stessi andando a sfidare i cannibali del Borneo.
Ad ogni buon conto, mettetela come vi pare, uno che nasce su un’isola sta già viaggiando. Perché il mare, tutto intorno, fermo non ci sta, e si muove di correnti e flutti, in definitiva, viaggia conto terzi. Non merita citare chissà chi per comprendere che il viaggio è una precisa connotazione antropologica, e pure se ha talune accezioni di ingegneria nautica, non è solo uno spostamento da e per. Alla fine “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)
Nell’insularità è connaturata la pigrizia più atavica, quella persino trascendente, che si fa connotazione definitiva ed archetipo illustrativo di genti. E del resto che ti agiti a fare se sei proprio dentro il gorgo più gorgo, il tutto che si muove permanentemente? Fatica sprecata. Per altri quella è ignavia, accidia, in realtà è saggia contemplazione del mondo che non sta fermo, dunque perché inseguirlo nell’apoteosi dell’operatività? Il mare vortica così tanto che ti fa dono ora del primato di paradiso terrestre, ora d’inferno in terra, né fu creato per compiacere chi vi si trova circondato senza scampo; inutile cercare di opporvisi. Se serve qualcosa, servissero tre secoli e più, prima o poi un’onda bislacca te la schiaffa davanti, spiaggiata a pancia rivolta al sole. Né si tratta d’un fiume che scorre in un unico verso, cosicché sai già cosa t’arriva a valle se conosci il monte. Il turbinio è pluridirezionale, dipende dalle stagioni, talora dall’umore nero della burrasca o talaltra accondiscendente d’un venticello virato a bonaccia. Sfidare quel tutto che si muove per provare a spostarsi in altra direzione è atto temerario. Ed in tutto quel bailamme agitato meglio star fermi giacché, prima o poi, da qualche parte arrivi, e se non arrivi – quella data parte, intendo – presto o tardi, t’arriva lei. Ma l’isola, quella, da dentro non te la togli nemmeno se ti metti a pizzo di montagna. Non c’è niente da fare, t’entra in valigia, col sale e tutto il resto.
Riposto pari pari ciò che già feci a post, ché nausea non si spense nemmeno a magnesia ad ingurgito con imbuto. Nemmeno mi venne scrittura fluida a descrizione di disturbo che fece a me guerra a tutto tondo ad ogni umano che fu ultimo. Morto d’annego ebbe colpa d’esser tale e morto di bombarda si trovò a far scudo con cranio suo per gloria suprema di vendo sparo a grappolo. Pure sul resto che mi fece nausea devo far a silenzio autoimposto che altrimenti mi vien da scrivere elenco che par di telefono a parlar con linguaggio poco dabbene.
“Tutto era pieno, tutto era in atto, non c’era intervallo, tutto, perfino il più impercettibile sussulto, era fatto con un po’ d’esistenza. E tutti questi esistenti che si affaccendavano attorno all’albero non venivano da nessun posto e non andavano in nessun posto. Di colpo esistevano, e poi, di colpo non esistevano più: l’esistenza è senza memoria; di ciò che scompare non conserva nulla — nemmeno un ricordo”. (Jean Paul Sartre, La nausea)
Non mi veniva di scrivere d’altro, manco ora che sta arrivando la bufera e non ho che ombrelli a telai dismessi. Che quell’altro me invece ne aveva voglia, lui che, quand’era giovane, pareva ch’era già vecchio, che i suoi amori glieli sceneggiava Resnais e li cantava Jaques Brel. Che gli dicevano ch’era sbarcato da nave d’Argonauta, da secolo ignoto, che s’apprestava su uno scoglio ogni mattina, vestito come veniva, sino alle ciabatte, che pareva che lì c’era nato, cosa che poi era. Pure – gli dicevano – che il mondo d’intorno se ne andava da un’altra parte, che l’avevano lasciato lì, sempre su quello scoglio, come istantanea cotta al sole, ultimo Mohicano, su quella Rive Gauche ch’apparteneva a lui ed a quattro signore che s’ammestieravano d’antico.
Che pure s’ammetteva social ante litteram, di dita unte al tetraetile di Gestetner, di cui – per caso puro – non c’è morto per impronte digitali su uova sode, manco per il tracannare di zibibbi all’arsenico e gazzosa. Che con fogli e colla in mano aveva conosciuto stampella a mesi, formato economy – che quello passava la mutua –, per ginocchia a grattugia, nell’incontro con ferri di cappucci neri arditi d’ignoto, persi nel tempo, irrispettosi di titolazioni quotidiane che ne danno natali recenti e morti antiche. Che non vollero affratellarsi con mammoni e mannari nelle novelle della nonna. Di destino crudele patì le spire, in giovane età già vecchia, ma pure le pene del disarmo nucleare d’un Settimo, in fila poi per sussidio di disoccupazione. Che avrei dovuto scrivere per sussiego alla sua ineluttabile pulsione primordiale all’angoscia sotto pelle? Per assecondare l’arrovello, l’intorciniarsi di budella? Che pare non s’avveda, né da mo’, nemmeno da poi, che la prospettiva sghemba la rende ancor più tale? E mai si fece lucido per lo scivolo del tutto che è viscido e d’intorno. Impara, ancora, pur da vecchio immemore, che tale fu prima del primo dente da latte, per perseverare nella sua senescenza definitiva. Al di più, che non l’assecondo che rare volte, nell’ipotesi redentiva del cosmo, lo invito al desco, al chiaro dello scuro del rosso, alla saxata di Coltrane, urlo di vertigine, a parlare dell’ultimo Ray Sugar, alle geometrie di Cifalà, a sogni sotto zampe d’elefante, di Nico e la Redgrave, mica di cose serie, a contorno della frittatina con cipolle, che stasera, tanto, non è cosa di mettersi a relazionare, e tra noi l’alito pesante s’ammette.
Radio Pirata si fa Cinquantadue tondi tondi, pure a contromanifestazione che diventa tale di grandezza e forma che altra pare ella contromanifestazione. Qui e ora facciamo a meno di comici, che tutti scelsero altra platea, pure quelli a distacco ad altra mansione che se non fosse che fanno piangere farebbero ridere a bomba. Qui a Radio si fa cosa seria che si scelgono migliori promesse musicali e si esaltano grandi virtù di giovani musicisti che si faranno ossa proprio a questa prestigiosissima kermesse che ancora una volta risulta prima negli ascolti a casa mia. Per non far delusione a nessuno cominciamo subito con ascolto sensato e breve dichiarazione di detto autore.
“La morte non è la più grande perdita nella vita. La perdita più grande è quello che muore dentro di noi, mentre viviamo, quando rifiutiamo di affrontare i nostri demoni. Quando costruiamo muri invece che ponti, ci alieniamo, diventiamo estranei” (Chet …)
Che ponte pare quello che toglie isola dall’essere isola, ma mai ci fu pensiero di più grande distanza da ponte che unisce, ponte è a concezione di cosa che distrugge e basta, pure se non crolla non affratella, si fece a maggiore segregazione che ciò non fu possibile nemmeno ad immaginazione contorta e deviata.
E dopo assaggio di nuovissima ed intensa cosa di giovane talento a batter tasti in bianco e nero, discernendo il suono dell’uno da quello dell’altro per farne fusione perfetta, mi piglia schiribizzo di darvi notiziona in anteprima assoluta: a me non mi viene da ridere, pure se c’è cose che farebbero scompisciar dal ridere fossero film dei Monty Python, ma ebbi idea che talune sono vere.
Fu fortuna che, con atto di scaltrezza, m’assicurai nuova ed intonsa bottiglia d’Oro Pilla ad accompagno di note di Radio Pirata Controfestival che comincia, a parer mio, ad essere cosa di spessore importante. Forse non rido, ma almeno non piango e vado di cose preferite.
“La creatività consiste nel rendere meravigliosamente semplice ciò che è complicato.” (Charlie…) Qui in Radio Pirata facciamo solo cose semplici, ché quelle complicate non sappiamo bene come sono fatte, sono cose che appartengono a gente illuminatissima, gente meritevole e migliorissima, gente che sa come sparacchiare bombe e che fa festival di grandissima audience. È roba per persone che muovono PIL, che affogano nel rendiconto bancario, che sanno bene chi fare affogare a lontananza prescrittiva da porto salvo.
“Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra.” (John…) Che, anche se sono giovani e non si conoscono così bene, a noi ci piace che certi musicisti dicono queste cose, che ci facciamo per benino a curatori loro, certo confusi, ma quando mai a Radio Pirata abbiamo aspirato ad ordine e cose così?
Il 6 gennaio del 1993 ci lasciava John Birks “Dizzy” Gillespie. Qualche anno prima – non ricordo quanti – l’avevo visto in concerto all’Anfiteatro Romano di Siracusa. Che delizia autentica. Era spettacolo anche quando non suonava, con quel faccione, le braccia lunghe, quel balletto accennato quando, nella dialettica della musica, lasciava spazio agli assoli degli altri musicisti. A vederlo con la sua band era chiaro cosa intendesse Winton Marsalis quando diceva che “Il jazz è un’arte collettiva e un modo di vivere che allena alla democrazia, è l’arte del timing: ti insegna il quando. Quando cominciare, quando attendere, quando farti avanti, quando prendere il proprio tempo”. Ma anche c’era il pensiero di Coltrane: “Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra”. La sua tromba piegata all’insù puntava il cielo, le gote gli si gonfiavano così tanto che pareva si sarebbe librato in volo, leggero, come una mongolfiera. Fu quasi ovvio, conseguenziale, che la signora alla mia sinistra sussurrasse, ridacchiando, “Polvere di stelle” quando, l’ennesima volta che scuoté il pistone per svuotarlo, mi beccò di rimbalzo con le sue polluzioni. Me l’ero cercata giacché, impudicamente, m’ero messo a sgomitare per raggiungere il posto più prossimo al palco proprio in quell’istante, e fu fortuna che un’altra signora, assai più compassionevole e meno sarcastica della prima, m’offrisse un kleenex. Superato rapidamente lo sgomento, l’episodio non riuscì a scalfire la mia estasi. Fu cosa memorabile, ahimé, irripetibile.
Nato a Cheraw, il 21 ottobre 1917, in una famiglia poverissima, cominciò a suonare la tromba quasi per gioco che aveva 12 anni, da autodidatta. Il padre si dilettava a picchiare lui e i suoi fratelli piuttosto spesso, ma era morto già da un paio d’anni. Lasciò casa per andare a studiare all’istituto di Laurinburg grazie ad una borsa di studio, troppo povero per potersi permettere scuole a proprie spese. Nel 1935 fece a meno pure della scuola per trasferirsi a Filadelfia. Vi trovò lavoro come musicista, suonando con Frankie Fairfax e con la band di Teddy Hill, con la quale produsse la sua prima registrazione subentrando a un mostro sacro quale Roy Eldridge. Le sue collaborazioni, in quegli anni, furono rilevantissime per costruirne l’identità musicale, suonava a fianco di gente come Cab Calloway, Lionel Hampton, Mario Bauza, Milt Hinton, Coleman Hawkins.
Appena cominciati gli anni ’40 era già a New York dove mise su un trio con Oscar Pettiford al contrabbasso e Kenny Clarke alla batteria, la formazione che possiamo considerare la prima autenticamente bop. Suonano soprattutto al Minton’s dove le jam session con Thelonious Monk, Bud Powell, Max Roach, tanti altri, sono continue. Fondamentale, in quegli anni, è il suo ingresso nell’orchestra di Earl Hines, di cui fa parte anche Charlie Parker e, l’anno dopo, in quella di Billy Eckstine. Con questa gira gli States emancipando il bebop dalla sua nicchia originaria di espressione musicale tipica dei locali notturni newyorkesi. Ma è in quelli, non nei grandi teatri con le grandi orchestre, che il bebop aveva preso forma. Il suono al Minton’s Playhouse, la casa natale del bebop, è ruvido, profondamente identitario, ha arrangiamenti semplici e diretti, senza fronzoli, poche, scarsissime concessioni allo swing, alle cose delle orchestre che facevano musica molto attenta a sofisticati arrangiamenti, quella che piaceva ai bianchi. “Io cerco di suonare la pura essenza, lasciando che tutto sia giusto come dovrebbe essere.” (Dizzy Gillespie) Il Bebop era la musica degli afro-americani che si riappropriavano dei propri spazi, della propria unicità, anche a costo di perdere ingaggi, di rimanere marginali. Fu proprio Dizzy tra i primi ad usare le due note, be, bop, a chiusura del brano. Ma quello non fu solo movimento musicale, parve più stile di vita, modalità di ribellione al consueto di quegli anni. Era roba che piaceva anche ai ragazzi della beat generation: “A quei tempi, nel 1947, il bop impazzava in tutta l’America. I ragazzi del Loop suonavano, ma con stanchezza, perché il bop era a metà strada fra il periodo del Charlie Parker di Ornithology e quello di Miles Davis.” (Jack Kerouac, On the Road, 1957)
“Bird è stato lo spirito del movimento bebop, ma Dizzy ne era la testa e le mani, era lui che teneva insieme tutto”, dirà Miles Davis nella sua autobiografia. Proprio Davis lo sostituirà con la sua tromba a fianco di Charlie Parker, quando, nel 1947, Gillespie fonda la sua nuova band con il pianista John Lewis, il vibrafonista Milt “Bags”Jackson, Kenny “Klook” Clarke alla batteria e Ray Brown al contrabbasso, praticamente una prima visione del Modern Jazz Quartet.
Pure se aveva concepito le sue sperimentazioni più ardite dentro piccoli gruppi, Dizzy Gillespie amava di gran lunga esibirsi con le grandi orchestre, lì poteva esprimere tutto il suo talento istrionico, tutta la sua naturale propensione ad essere punto di riferimento sul palco, leader naturale. Dentro quelle forzava il suo bop, non riusciva a rinunciarci: “Mi ci è voluta tutta la vita per imparare cosa non suonare” diceva. Con le sue Dizzy Gillespie Big Bands, spesso effimere per durata a causa dei costi eccessivi, portò la sua musica in giro per il mondo, in particolare in Europa. Furono gli anni in cui la sua tromba rivolse la campana verso l’alto, cosa che non si era mai vista prima, frutto della natura di spettacolo pirotecnico dei suoi concerti. Una sera, prima di lui, si era esibito sul palco il duo comico Stump and Stumpy. Nella bagarre divertita i due gli fecero cadere la tromba deformandola, ma a Dizzy quella forma così particolare piacque, pure il suono che ne veniva fuori gli parve migliorato. Aveva raccontato questo episodio nella sua biografia, chiarendo un altro aspetto caratteristico del suo modo di suonare, il rigonfiamento anomalo delle gote quando soffiava nello strumento le sue sfuriate, cosa assolutamente vietata dai puristi della teoria, della tecnica. Secondo Dizzy fu un medico a spiegargli che quel fatto era, con ogni probabilità, frutto di una qualche reazione fisiologica incontrollabile, forse dovuta ad una sindrome misteriosa.
Nel 1953 partecipa al grande concerto del Massey Hall di Toronto insieme ai più grandi di quegli anni, Max Roach, Charlie Mingus, Charlie Parker, Bud Powell. Ne venne fuori uno dei più importanti dischi jazz di tutti i tempi, ma anche parve di trovarsi davanti ad una sorta di de profundis per il bebop, forse troppo ostico per i mercati discografici più convenzionali. Cominciava del resto ad affermarsi in giro l’hard bop dell’astro nascente Clifford Brown, c’erano nell’aria i prodromi del free jazz. Molti musicisti neri cominciavano a studiare seriamente, non si limitavano a invenzioni autodidatte. Sul giro classico del blues inserivano tecnicismi solistici sempre più sofisticati, pur non rinunciando mai all’improvvisazione. Horace Silver, Charles Mingus, Art Blakey, Cannonball Adderley, Thelonious Monk e Tadd Dameron scelsero di percorrere quella strada, sino agli approdi modali del jazz dei primi anni ’60.
Dizzy, invece, continuava a suonare la sua musica, rimase fedele ai suoi “ribelli” minimalismi fondativi, anche quando decideva di contaminarsi con espressioni apparentemente lontane. Brani essenziali come Manteca e Tin Tin Deo, sono il risultato perfettamente riuscito di una fusione del jazz con altre esperienze, in questo caso con la musica caraibica. La passione di Gillespie per i ritmi latini continuò per anni, la sua curiosità per quel mondo lo portò pure ad intraprendere percorsi comuni con il musicista cubano naturalizzato americano Arturo Sandoval. Sandoval era, dal canto suo, affascinato dai suoni del bebop, e fece il suo ingresso nella band di Gillespie, The United Nations Orchestra, a partire dal 1977. Molte altre furono le collaborazioni che Dizzy ebbe con artisti non propriamente jazz, Chaka Khan, Ray Charles, Aretha Franklin, solo per citarne alcuni.
Protagonista delle scene musicali di mezzo secolo, pure fuori, in un modo o nell’altro, è emersa la figura d’un uomo poliedrico, capace di stupire, divertire, indurre pensieri profondi. Aiutò Chet Baker durante l’ennesimo disastro della sua vita, quando fu pestato a sangue dai suoi creditori sì da non poter più continuare a suonare. Gillespie, segretamente, pagò gli interventi chirurgici ricostruttivi che consentirono a Baker di tornare a soffiare nella sua tromba. Alla fine, indagando, Chet Baker scoprì chi fosse il suo anonimo benefattore e sostò al freddo per tre giorni fuori del pianerottolo di Gillespie, senza dir nulla, in quel modo intendendo ringraziarlo.
Nel 1963, l’agenzia che si occupava di promuovere le cose di Dizzy, la sua immagine, sfruttando il clima di propaganda per le presidenziali dell’anno successivo, quello della candidatura Kennedy, per intenderci, aveva fatto produrre delle spillette con la scritta “Dizzy for President”. Erano anni in cui la condizione dei neri d’America era drammatica. Quella era la sua gente, anche lui aveva vissuto in povertà estrema, provato sulla sua pelle cosa significasse la discriminazione razziale e ora che godeva di grande successo non poteva far finta di niente. I discorsi con cui Kennedy promosse la sua candidatura, per quanto apparissero dirompenti in questo senso, furono interpretati dai neri d’America come poco più che retorici. Per rivendicare altro che non fossero parole, decine di migliaia di manifestanti parteciparono alla marcia organizzata a Washington da Martin Luther King, tra quelli qualcuno tirò fuori la spilletta pubblicitaria “Dizzy for President”. Come dire, il dado era tratto.
Il 21 settembre del 1963, dopo l’ennesima strage di afroamericani ad opera di razzisti del Ku Klux Klan, Dizzy, salendo sul palco del Monterey Jazz Festival, urlò al pubblico “Voglio diventare Presidente degli Stati Uniti perché ce ne serve uno!” Il cantante Jon Hendricks compose pure l’inno della campagna elettorale: “Vote Dizzy! Vote Dizzy! You want a good president who’s willing to run / You wanna make government a barrel of fun (…) Your political leaders spout a lot of hot air / But Dizzy blows trumpet so you really don’t care.”
Come al solito, Dizzy stupì il mondo. Mise insieme pure la lista dei suoi collaboratori e ministri: per Duke Ellington l’incarico doveva essere adeguato alla sua grandezza, dunque, Ministro dello Stato. Max Roach, che era uno che coi botti ci sapeva fare, sarebbe divenuto Ministro della Difesa. A Louis Armstrong doveva andare il Ministro dell’Agricoltura, e chi meglio di Charles Mingus poteva essere Ministro della Pace? Manco a dirlo c’era Malcolm X, ovviamente Procuratore Generale. Per le politiche sociali, Dizzy pensò a chi aveva lo sguardo giusto, pure la voce adatta, Ella Fitzgerald. Per Ray Charles c’era il posto di Direttore della Biblioteca del Congresso ed a Mary Lou Williams toccava di andare a fare l’Ambasciatrice in Vaticano. Incarico delicatissimo per Thelonious Monk, Ambasciatore “in viaggio”. Mancava solo un tassello per chiudere la formazione della squadra di Dizzy for President, ma anche per quello non c’erano dubbi, Miles Davis Capo della CIA!
Radio Pirata assurge a quota Quarantanove che mica è pizza e fichi, nemmeno si frigge con l’acqua da queste parti che pare ormai quasi telenovela brasiliana di mille e più mila puntata. Ed anche questa s’appresta a puntatona che c’è cosa che bolle in pentola di livello elevatissimo e redazione di radio pare impazzita a poter dare dettaglio improrogabile a fedele schiera di lettorascoltatore. Per il momento si fa lettore a parte che si parte di musica a razzo spedito che pare armato di testata nucleare prima di quella ad autentico botto per effetto speciale prossima ventura.
Che cominciamo speditamente a cronaca esatta di sacco di soldo che viaggia in terra di confine per esaltazione di grande evento di campionissimi a mutanda ad inseguire sfera rotolante. E ad apologia di sport tra gli sport s’aggiunge proclama d’alto profilo istituzionale di grandezza imprenditoriale per illuminato sovrano d’oriente che produce arena per reziario moderno con contenuto spargimento di sangue a poca roba che manco arriva a diecimila morto ammazzato per lavoro a sfrutto. Che c’è terra di rinascimento vero e mai presunto a fronte di deserto a colapasta per fuoriuscita d”oro nero, che vi fu in illo luogo rispetto autentico di diritto a stimolare rovescio per diversa tendenza sessuale, donna e lavoro di migrante coatto per miseria. Che mi dissi, così, per celia, che se sacco di soldi lo davo proprio a quelli impiegati a schiena rotta, forse che non c’era morto, ma poco importa a diritto televisivo che invece preferisce palla a rotolo.
Che paese nostro è altro che non quello, ma a quello c’è tendenza. Per ora si presume che carico di pullman di donna a mestiere antico sia di comprovata fede nostrale che così non turba sonno di calciatore a cui promessa di tale omaggio sublime venne fatto a carico di vittoria per calcio meglio ad incrocio di pali. Altra donna, bambino vecchio e quant’altro, con pedigree ben definito noi non si sfrutta, al massimo si concede annego libero a mare di tempesta. E se si sfrutta di fa a pudore autentico che non si vede, dentro serra a far leccornia per pranzo di festa a prezzo calmierato.
E c’è pure grande e dolorosa contrizione per donna e ragazzo, a rischio di vita per protesta a speranza di cambio di cose a terra che fu di Scià e che ora ad altro dice sciò. E a detta compagnia disgraziata di ribellione audace, ricordo che grande plauso generalizzato di perfettissimo per rispetto di democrazia coacervo di paese occidentale, dura a spazio di memoria di tal divenuto famoso a Collegno in tempo andato, e che scanna e ammazza fa specie fino a prossima puntata di indecenza. A testimonio rimembro come parve rito di commozione generale donna afgana tornata a medioevo, che indignazione durò tempo esatto di sbadiglio e poi mi volto d’altra parte che non è fatto mio.
Mi dò a carrellata di foto che è a spiaggia mia deserta e desolata, senza manco un barettino, un lidotello nemmanco un bagnomaria, che è cosa assai opinabile per fautori meritevoli di grande merito. In detta spiaggia, che è cosa da brivido e fastidiosa sabbia nelle mutande, non c’è olivetta annegata a shortino, non c’è spa, nemmeno sdraio ad ombrellone a prezzo di superattico, non c’è ombra di ristorantino di tropicalprodotto sovrano, ed incomprensibilmente pure accesso è gratis, che non c’è che vista ad infinito e basta.
Mi venne però dubbio – anche per sciogliere quesito di mia identità, ch’io sostenni erroneamente d’essere nessuno, smentito da elevatissimo intelletto – se risultai ascrivibile, in quanto frequentatore assiduo di detta spiaggia a godimento gratuito di libera solitudine, a categoria di tossicodipendente, rifiuto, o ad entrambe.
E a proposito di tossici e rifiuti, ne ho trovato uno una volta, proprio su una spiaggia libera, straparlava, poveretto. Lo registrai, così vi dico che disse. “
Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa – non importa ch’io vi dica quanti – avendo poco o punto denaro in tasca e niente che particolarmente m’interessasse a terra, pensai di mettermi a navigare per un po’, e di vedere così la parte acquea del mondo. Faccio in questo modo, io, per cacciar la malinconia e regolare la circolazione.
Ogniqualvolta mi accorgo di mettere il muso; ogniqualvolta giunge sull’anima mia un umido e piovoso novembre; ogniqualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, dinanzi alle agenzie di pompe funebri o pronto a far da coda a ogni funerale che incontro; e specialmente ogniqualvolta l’umor nero mi invade a tal punto che soltanto un saldo principio morale può trattenermi dall’andare per le vie col deliberato e metodico proposito di togliere il cappello di testa alla gente – allora reputo sia giunto per me il momento di prendere al più presto il mare. Questo è il sostituto che io trovo a pistola e pallottola.
Con un ghirigoro filosofico Catone si getta sulla spada; io, quietamente, mi imbarco. Non c’è niente di straordinario in questo. Basterebbe che lo conoscessero appena un poco, e quasi tutti gli uomini, una volta o l’altra, ciascuno a suo modo, si accorgerebbero di nutrire per l’oceano su per giù gli stessi sentimenti miei.” (Herman Melville)
“Tutto era pieno, tutto era in atto, non c’era intervallo, tutto, perfino il più impercettibile sussulto, era fatto con un po’ d’esistenza. E tutti questi esistenti che si affaccendavano attorno all’albero non venivano da nessun posto e non andavano in nessun posto. Di colpo esistevano, e poi, di colpo non esistevano più: l’esistenza è senza memoria; di ciò che scompare non conserva nulla — nemmeno un ricordo”. (Jean Paul Sartre, La nausea)
Non mi veniva di scrivere d’altro, manco ora che sta arrivando la bufera e non ho che ombrelli a telai dismessi. Che quell’altro me invece ne aveva voglia, lui che, quand’era giovane, pareva ch’era già vecchio, che i suoi amori glieli sceneggiava Resnais e li cantava Jaques Brel. Che gli dicevano ch’era sbarcato da nave d’Argonauta, da secolo ignoto, che s’apprestava su uno scoglio ogni mattina, vestito come veniva, sino alle ciabatte, che pareva che lì c’era nato, cosa che poi era. Pure – gli dicevano – che il mondo d’intorno se ne andava da un’altra parte, che l’avevano lasciato lì, sempre su quello scoglio, come istantanea cotta al sole, ultimo Mohicano, su quella Rive Gauche ch’apparteneva a lui ed a quattro signore che s’ammestieravano d’antico.
Che pure s’ammetteva social ante litteram, di dita unte al tetraetile di Gestetner, di cui – per caso puro – non c’è morto per impronte digitali su uova sode, manco per il tracannare di zibibbi all’arsenico e gazzosa. Che con fogli e colla in mano aveva conosciuto stampella a mesi, formato economy – che quello passava la mutua –, per ginocchia a grattugia, nell’incontro con ferri di cappucci neri arditi d’ignoto, persi nel tempo, irrispettosi di titolazioni quotidiane che ne danno natali recenti e morti antiche. Che non vollero affratellarsi con mammoni e mannari nelle novelle della nonna. Di destino crudele patì le spire, in giovane età già vecchia, ma pure le pene del disarmo nucleare d’un Settimo, in fila poi per sussidio di disoccupazione. Che avrei dovuto scrivere per sussiego alla sua ineluttabile pulsione primordiale all’angoscia sotto pelle? Per assecondare l’arrovello, l’intorciniarsi di budella? Che pare non s’avveda, né da mo’, nemmeno da poi, che la prospettiva sghemba la rende ancor più tale? E mai si fece lucido per lo scivolo del tutto che è viscido e d’intorno. Impara, ancora, pur da vecchio immemore, che tale fu prima del primo dente da latte, per perseverare nella sua senescenza definitiva. Al di più, che non l’assecondo che rare volte, nell’ipotesi redentiva del cosmo, lo invito al desco, al chiaro dello scuro del rosso, alla saxata di Coltrane, urlo di vertigine, a parlare dell’ultimo Ray Sugar, alle geometrie di Cifalà, a sogni sotto zampe d’elefante, di Nico e la Redgrave, mica di cose serie, a contorno della frittatina con cipolle, che stasera, tanto, non è cosa di mettersi a relazionare, e tra noi l’alito pesante s’ammette.
“La dittatura perfetta avrà sembianza di democrazia. Una Prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno di fuggire. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù” (Forse Aldous Leonard Huxley)
Che a manco d’aria mi spinge desiderio di fuga, che non fu fuga dietro l’angolo quella che mi venne a mente, piuttosto ricerca d’orizzonti per infinito desiderio che non ebbero mura di prigione, deserti innevati o caldi a macero, rose di Atacama, oceani di fiere, isole selvagge, sentieri di capra. Mi farei volentieri Argonauta per investire velli d’oro in buoni fruttiferi a far falò di carta a risparmio d’energia, cercare cere per ali d’Icaro, scendere a patti con unicorni da autostop su nuvole basse che soffro di vertigini. Mi venne desiderio improvviso ed irrefrenabile di fuga di cervello, a lasciar porte aperte al mio non esiterei, che vaghi pure. Ma forse mi farei, a contentezza, solo miserabile fuga a bettola da sganghero a porto perduto, per non centellinarmi vino, nemmeno mi dispiacerebbe spiaggia o scoglio di altra isola qual che sia, purché non vi sia altro che l’isola stessa.
Mi venne desiderio inesausto di farmi vacanze in permanenza, lasciare che le flotte avverse s’incrocino da sole, per conquista di potere che io non ne feci richiesta. Che non v’è conquista in annullo di competizione, c’è solo arrovello di competizione con nulla, che io non volli, fortissimamente non volli, esser parte di quel nulla, ma me ne scelsi altro, proprio a desiderio d’alterità, a desiderio di scusate non partecipo, ho fuga da fare che mi parve di maggior impellenza. Mi venne, altresì, desiderio d’argomento futile, di scherzo a celia, di sasso a stagno, di spilucco d’uva e cacio a scaglia, bicchiere sempiterno, sigaretta accesa a distrazione meccanica a fronte d’un sole che tramonta, poesia da lettura, pure un verso si, altro aspetta, che non se ne fece cruccio d’attesa. Mi venne voglia d’una canzone, che a non ricordarmi quale non mi fu d’angoscia che di tante ne ho a memoria che non mi mancò piacere d’ascolto. Tutto ciò mi venne a desiderio, pure altro. Ma prima vi regalo versi:
“Il poeta è un operaio
Gridano al poeta: “Davanti a un tornio ti vorremmo vedere! Cosa sono i versi? Parole inutili! Certo che per lavorare fai il sordo”. A noi, forse, il lavoro più d’ogni altra occupazione sta a cuore. Sono anch’io una fabbrica. E se mi mancano le ciminiere, forse, senza di esse, ci vuole ancor più coraggio. Lo so: voi non amate le frasi oziose. Quando tagliate del legno, è per farne dei ciocchi. E noi, non siamo forse degli ebanisti? Il legno delle teste dure noi intagliamo. Certo, la pesca è cosa rispettabile. Tirare le reti, e nelle reti storioni, forse! Ma il lavoro del poeta non è da meno: è pesca d’uomini, non di pesci. Fatica enorme è bruciare agli altiforni, temprare i metalli sibilanti. Ma chi oserà chiamarci pigri? Noi limiamo i cervelli con la nostra lingua affilata. Chi è superiore: il poeta o il tecnico che porta gli uomini a vantaggi pratici? Sono uguali. I cuori sono anche motori. L’anima è un’abile forza motrice. Siamo uguali. Compagni d’una massa operaia. Proletari di corpo e di spirito. Soltanto uniti abbelliremo l’universo, l’avvieremo a tempo di marcia. Contro la marea di parole innalziamo una diga. All’opera! Al lavoro nuovo e vivo! E gli oziosi oratori, al mulino! Ai mugnai! Che l’acqua dei loro discorsi faccia girare le macine.” (Vladimir Majakovskij)
Unica e Pamela Vindigni, in mostra dal 24 settembre allo spazio L’Altelier di Modica Alta, paiono artiste diverse, hanno storie e linguaggi differenti, biografie ed origini lontane, eppure, attraverso le loro opere, concepiscono un dialogo di convergenze, sorprendentemente affine.
Usano la materia in modo personale, riconoscibilissimo, la plasmano per consentirsi una profonda esplorazione d’un universo di genere – quello femminile – ce lo rendono, entrambe, in una prospettiva liberata. Partono, dunque, da sponde antipodiche, approdano insieme, al di là delle costrizioni dell’apparire, del metodo, compiono lo stesso viaggio di ri-scoperta.
Leonie Adler (Unica) è artista contemporanea, nata a Pune, in India, con radici irlandesi, è cresciuta e vive in Svizzera. La sua anagrafica non è, come appare dalle sue realizzazioni, un dato neutro, un timbro su un passaporto, è elemento pregnante della sua formazione artistica. Infatti, le sue forme geometriche esatte, disegni ad ago e filo, esprimono un’attrazione fatale per l’ambiente, lo interpretano quale contenitore di culture, ella stessa è consapevolmente scrigno di diversità che si uniscono ad ogni passaggio d’ordito. Il contrasto cromatico tra le sue forme ne evidenzia il desiderio di riscoperta, induce alla ricerca d’un viaggio intimo nello spazio e nel tempo attraverso traiettorie spiazzanti, un susseguirsi di cambiamenti repentini di direzione, quasi a voler significare la ricerca precisa del dettaglio, il non volersi precludere nulla che le appartiene, che appartiene al tutto d’intorno.
Ma è anche desiderio di fuga da quotidiani standardizzati e labirintici, il rifiuto di direzioni preconfezionate, della banalità prêt-à-porter. Nonostante la scelta del filo, dell’ago, dunque, Unica non rassomiglia affatto alla più celebre delle tessitrici, non è Penelope, i suoi complessi intrecci non sono trame che si sfilacciano, si scuciono, ma memoria di una direzione precisa ancorché mai scontata, flusso di informazioni che non si esaurisce ma che fa d’ogni passaggio condizione essenziale per l’esistenza del successivo. Rassomiglia ad Arianna, invece, i suoi orditi indicano percorsi salvifici di liberazione, includono la possibilità del ritorno. In quel tornare a casa, alle sue radici, come nelle articolazioni più complesse dell’intimo, non v’è mai ricerca appagante di staticità, d’un passato che invecchiato si trasforma in presente, ma la prospettiva d’un nuovo viaggio, di nuove esperienze che, a paradosso di apparenza d’accumulo, lo rendano ogni volta più leggero, più agile. Pare che Unica si ricerchi, si ritrovi, infine, nelle sue origini, nelle sue infinite discendenze, e su quelle può contare – paesaggi della memoria d’un vissuto – come intensa scarica emozionale per una nuova ripartenza. In buona parte autodidatta, ha tuttavia assorbito perfettamente le prospettive artistiche di Louise Bourgeoise e dell’artista tessile svizzera Lissy Funk. È anche membro dell’associazione artistica GAAL.
Pamela Vindigni, siciliana di Modica (RG), è artista di tecnica raffinata, frutto di studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze e di una vasta attività esperienziale. Ha partecipato a diverse mostre collettive e personali, esplorando, oltre alla pittura ed alla scultura, altri linguaggi espressivi ed esibendosi quale attrice e performer. La sua visione dell’arte è sociale, solidaristica, non prescinde mai dal rapporto dialettico con altre forme del linguaggio e della comunicazione. Questi tratti fondanti la sua pratica l’hanno indotta a fondare, nel 2017, il gruppo “Artisti Associati – Matt’Officina”, impegnato nella riqualificazione dell’ex mattatoio comunale di Modica e divenuto un laboratorio artistico polivalente, un luogo di produzione collettiva e creativa oltre che di accoglienza d’esperienze.
Le sue sculture riscoprono la natura primigenia del corpo, lo denudano delle sovrastrutture, lo spogliano dell’effimero, lasciano che si esprima quale strumento di comunicazione essenziale. Alcuni suoi volti, scarni d’espressione, pare leggano negli accadimenti una sostanziale disumanizzazione. Pamela Vindigni, quando si concentra sulle forme delle donne, le libera da costrizioni, da stereotipi arcaici. Rappresenta la maternità con ironia, sottolineando al contempo una specificità di genere e smantellando la subcultura patriarcale che relega le donne al ruolo esclusivo e subalterno di madre e moglie. La leggerezza con cui ci rende la gravidanza non è, dunque, solo la rappresentazione prossima del parto quale passaggio funzionale alla procreazione, alla conservazione della specie, cui deve seguire la gabbia totalizzante della cura parentale, ma diviene, anche e soprattutto, metafora di concepimenti, elaborazioni, pratiche creative ed irrinunciabili, di idee, progetti, riscritture sociali e politiche. L’opera di Pamela è, in effetti, “politica”, non nel senso deteriore che oramai s’attribuisce al termine, ma in quello che ne recupera il significato etimologicamente più puro e profondo, dal concetto di Polis, il contenitore per eccellenza del desiderio di partecipazione. È pratica che aderisce ai processi sociali, alle vicende comuni, li legge, intende rideterminarli anche, con consapevolezza d’analisi, abilità d’usare strumenti espressivi plurimi e mai scontati, volontà di esserci con la propria identità di genere, di persona, d’artista.
“La rapidità dello sviluppo materiale del mondo è aumentata. Esso sta accumulando costantemente sempre più poteri virtuali mentre gli specialisti che governano le società sono costretti, proprio in virtù del loro ruolo di guardiani della passività, a trascurare di farne uso. Questo sviluppo produce nello stesso tempo un’insoddisfazione generalizzata ed un oggettivo pericolo mortale, nessuno dei quali può essere controllato in maniera durevole dai leader specializzati.” (Guy Debord, I Situazionisti e le nuove forme dell’arte e della politica)
Le arti non si parlano, non comunicano, si muovono in due direzioni precise, la narcisistica pretesa della propria superiorità l’una sull’altra, si trasformano pure, con protervia efficacissima, in manifestazioni elitarie. Pochissimi poeti ritengono di costruire dialoghi con pittori o scultori, il viceversa vale in misura eguale; rari fotografi immaginano un confronto alla pari con musicisti, e l’opposta direzione si realizza in medesima maniera, inquietante resistenza al confronto. Quando l’assioma della specializzazione ad ogni costo, del narcisismo patologico pare viene meno, è assai comune che finga solo sia così, ché il rapporto artistico non è orizzontale, frutto di dialettica, condivisione, progetto comune, diventa convincimento sacro ed inviolabile che “l’altro” abbia – si merita, meglio – una condizione didascalica, ruolo di insalatina intorno al piatto forte. Dunque, non nasce movimento transartistico, non esiste avanguardia fondata su idem sentire. Il confronto regredisce al nulla, rimane relegato a sacche resistenti ubicate forzosamente nell’oblio del no-social. Di più, l’arte diviene merce, l’artista è mercante che rimuove l’atto creativo per produrre serialità, salvo cambiarne l’identità in funzione del desiderio palesato del consumatore. Critici, gallerie, curatori non s’adeguano semplicemente, divengono artefici del declino, complici – inconsapevoli? – della regola ferrea dell’incomunicabilità, condizione fondante della specializzazione. Più l’osmosi artistica si impoverisce, più la qualità dell’arte regredisce a tratti di mera spazzatura, costruisce per sé la condizione di disperato germoglio su terre aride. Non esiste oggi possibilità alcuna che un Asger Jorn sorseggi vino in una bettola d’i ‘un paese di frontiera con Peggy Guggenheim in dialettica serrata con Debord, i Velvet Underground non vedranno più immagini warholiane sui loro dischi. Nessuno scriverà manifesti per nuove forme d’arte ché questa sarà progressivamente appannaggio di classi sociali che, al contempo, ne detengono il controllo e ne decretano la morte per asfissia da specializzazione. Nemmeno l’arte pare più espressione del tutto d’intorno, punto d’osservazione privilegiato su quello, lo evita anzi, perché se ne pretende, pure quando appare provocatoria ed eretica, una natura rassicurante un tanto al chilo. Questo credo, pure se v’è testimonianza di sacche di resistenza, tentativi di ribaltare lo stato di cose. Ce n’è di tali che portano arte nei non luoghi dell’arte, s’aprono frontiere d’emancipazione e di riscoperta d’umanità dove convenzioni non scritte non ne prevedono, che costruiscono le condizioni proprie della dialettica orizzontale tra le forme espressive, riportano l’arte ad altezza d’ogni individuo, senza pretesa di conoscerne il budget a disposizione. Che se ne parli, che ognuno lo faccia come può e quando può, ne racconti l’esistenza, ne produca l’incontro che si fa anti-rete (virtuale), filo robusto di legame autentico, che sottrae spazio a squallidi mercanti del click, del mega-evento devastatore, della prebenda familistica. L’ho fatto in due occasioni (qui e qui), per lo stesso luogo (lo conosco meglio, altre ne intravidi di interesse notevole ma non ne ho dettaglio esiziale).
Faccio tre con L’Altelier di Modica Alta, uno spazio espositivo dove non dovrebbe esserci, semplicemente anticamera d’una abitazione trasformata ad un uso condiviso, per ospitare arte, al centro d’un quartiere che non v’è preposto, popolare e vecchio, intriso di tradizione ma non abbastanza vicino a fasti da cartolina come quello più in basso. Vi si fermano rari turisti, quelli che sono adusi a esplorazioni faticose a percorrenza di vicoli stretti, dedali di stradine e scalinate erte, silenzi profondi, scarpinanti che s’attrezzano allo stupore dell’improvvisa apertura sul presepe di case. È quartiere dove la domenica presto puoi fare colazione con vino e bollito, dove puoi trascorrere serate sotto le scale d’una chiesa sempre con qualcosa da bere che non necessita di mutui a tasso d’usura a conto fatto. Basta mettere tre sedie fuori da quel posto e può fermarsi qualcuno ad occasionale passaggio, alla ricerca del belvedere con paesaggio mozzafiato, centro metri più avanti, che s’appassiona all’esposizione, si mette a discutere con lo sfondo del jazz di Miles o The Goldberg Variations di Bach suonata da Glenn Gould. Ma pure si ferma Peppe, custode dell’imponente chiesa prossima, birra e sigaretta in mano, oppure il vecchio don Angelo, un tempo abilissimo “mastro” di muri a secco, che s’accomoda con libro in mano o grappolo d’uva della sua vigna. Se capitate da quelle parti c’è ancora la mostra di cui ho parlato qui. La prossima è quella sotto (ne parlerò nei prossimi giorni delle due artiste coinvolte).
Ed a chiusura dello spazio, le convergenze evolutive, il progetto che pretende trasformazione, prosegue più giù, al fresco dello slargo, a tavola, incontro di sensibilità diverse, anche solo di chi semplicemente si trova attratto da conversazioni altre. È esperienza di sanità mentale, è progetto ricostruttivo, atto di resistenza estrema alla barbarie delle elité che pretendono pure di controllare e di guidare il senso, financo la percezione, della bellezza. Altre esperienze ci sono senz’altro, se cominciano a sentirsi, parteciparsi, creano discontinuità, la potentissima – e terribilmente fragile – società dello spettacolo non se lo può permettere.
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