Quanto son belle le elezioni

Quando mai ce la ricordiamo una campagna elettorale che ci diverte? Pare sempre la stessa recita a soggetto, al più c’è che all’apertura del libro dei sogni s’aggiunge lo sfogliare quello degli incubi. Non pare più manco singolar tenzone, scontro di prospettiva, è la calma piatta che si traveste di digrigno di denti, poltroncine semoventi, gioco delle parti. Sullo sfondo c’è martirio tremendo di interi popoli che paiono lontani. Ed a quelli c’è scarsa attenzione, manco votano, come si permettono. Eppure d’una campagna memorabile ho memoria trasmessa, e che rimpianto non essermela goduta se non di rimbalzo.

Il candidato Presidente, quello cui pare siano legate le sorti di pacificazione dell’intero pianeta, si rivolge alle folle, le arringa con un discorso memorabile. È il 1963, un alluvione d’anni sono passati. Pure, Kennedy, si rivolge a quegli ultimi che sono tali nel cuore stesso della superpotenza. Ma parvero parole cariche di retorica, povere di fatti, chiacchiere. Martin Luther King si fa aprifila della grande marcia, lui un sogno ce l’ha, lo dice, lo fa presente, lo rende sogno di tutti. Ma c’è qualcuno che pensa che quella folla non rispetti canoni estetici adeguati a rappresentare compiutamente società evolute e democratiche. S’ammazza, si continua in logiche di ghetto. La risposta non arriva, il sogno è inesausto. Eppure la risposta c’è. «Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra». (John Coltrane)

La fratellanza, è questo il punto, la fratellanza.

Il 21 settembre del 1963, dopo l’ennesima strage di afroamericani ad opera di razzisti del Ku Klux Klan, Dizzy (Gillespie), sale sul palco del Monterey Jazz Festival, ed urla al pubblico «Voglio diventare Presidente degli Stati Uniti perché ce ne serve uno!» Il cantante Jon Hendricks gli scrive pure l’inno: «Vote Dizzy! Vote Dizzy! You want a good president who’s willing to run / You wanna make government a barrel of fun (…) Your political leaders spout a lot of hot air / But Dizzy blows trumpet so you really don’t care.»

Ma senza lista di collaboratori né ministri non puoi fare il presidente. Così Dizzy si mette al lavoro per stilarla per bene: per Duke Ellington l’incarico deve essere adeguato alla sua grandezza, dunque, Ministro dello Stato. Max Roach, che coi botti ci sa fare, è Ministro della Difesa. Per Louis Armstrong c’è il Ministro dell’Agricoltura, e chi meglio di Charles Mingus può fare il Ministro della Pace?

Manco a dirlo c’è Malcolm X, ovviamente Procuratore Generale. Per le politiche sociali ci vuole qualcuno con lo sguardo giusto, la voce adatta, dunque Ella Fitzgerald. A Ray Charles tocca il posto di Direttore della Biblioteca del Congresso e Mary Lou Williams fa l’Ambasciatrice in Vaticano. Incarico delicatissimo per Thelonious Monk, Ambasciatore “in viaggio”. Manca solo un tassello per chiudere la formazione della squadra di Dizzy for President, ma anche per quello non ci sono dubbi, Miles Davis Capo della CIA!

E quando ci ricapita?

Radio Pirata 65 (settimana cruciale che viene, settimana cruciale che va)

Torna a furor di popolo Radio Pirata, che s’è fatta numero Sessantacinque, traguardo d’invidia autentica per chi non fa giro di boa nemmeno a sessantaquattro. E torna con convincimento ch’è di necessità assoluta far musica e notiziola in qua ed in là, per scovar talento dove talento c’è, a dar possibilità d’emergere a giovane che ha penna facile e vuole darlo a vedere al mondo intero. Che Radio ha volontà di talent scout e si da vetrina a giovane che vuol far di sua scrittura affermazione ad applauso. Ma andiamo subito con musica giusta che settimana comincia di lunedì e detto lunedì è di tali nebbie che ad allietarlo in nota non si fa etto di danno.

Che c’è settimana che si chiuse che odora di zolfo e piombo, per escalescione di guerra a parte del mondo che fu tutta. Che guerra fa a bombarda anche a chi non s’avvede che bomba casca su testa sua perché non sentì botto chiaro e si fece domenica a mangiar pizza tranquillo per scontrino da ecatombe. Che detta guerra è ‘ndo cojo cojo, ma sempre fa centro precisissimo a tale che ebbe a disgrazia di nascere di manto disgraziato, e se s’è fatto malato poi non trova cura che medico ed infermiere, pure medicina facile facile, non c’è per acquisto mancato a sottrazione di finanza, che quella, finanza, serve a far cosa buona e giusta che fu smercio di boma per guerra a dritta e manca.

Ambasciator non porta pena, si disse a saggezza antica, ma antica saggezza è superata e si bombarda ambasciata con tanto di morto e ferito, che se poi taluno che si vide recapitar ambasciator a modo di Attilio Regolo s’altera, – che già era ad alterazione permanente – fa a lancio di ogni cosa a modo pure lui per far morto e ferito. Ma che sia ora spazio a giovane virgulto di penna, ch’egli ritiene interessante messaggio suo, a speranza nostra che non faccia crollo di esagerata audience di Radio Pirata. «Quando i ricchi si fanno la guerra, sono i poveri a morire.» (Jean Paul Sartre) E meno male che fu sintetico, che se continuava a dirla lunga a fatto d’accumulazione di baggianata c’era rischio che audience di Radio Pirata si faceva colo a picco in un tempo di niente.

E quella che se ne andò fu anche settimana di strage che pare coazione a ripetere, in luogo di lavoro dove per sicurezza di risparmio non s’aggiunse troppa altra sicurezza. Che pare cosa non troppo a fatto occasionale che uno se ne va a lavoro, saluta a casa affetti o solitudini, a seconda dei casi, si accomoda a far fatica, poi non torna. E se affetti furono colti d’improvvisa devastazione, pure solitudini, che per cosa conclamata paiono d’anime migranti, pare urlino cose di disperazione. «Attraverso fitte di dolore, ore, squadre e livelle, il job diventava una realtà familiare, una sensazione nuova, brivido di uomini e pietre ed acciaio. Era un gioco, una corsa, una partita, in cui tutti erano attori muscolari, dal fischio del mattino a quello della sera, ed egli era uno di loro. Era giorno di paga e fra poche ore la busta avrebbe segnato un breve armistizio. Era la guerra per la vita, e Paolino era un soldato. Non era come al gioco delle biglie, dove giocava per divertirsi; era un vero assedio, un assedio condotto da uomini maturi e accaniti contro una fame sempre in agguato, contro il nemico ereditario.» (Cristo fra i muratori, Pietro Di Donato) E pure noi abbiamo dato l’obolo d’apparizione a quest’altro che anela a fama imperitura, ma se continua a scriver ad affondare successo di Radio Pirata con insopportabile retorica pauperista, più che fama si becca fame. Che noi, ad altra sorte adusi, mandiamo musica ch’è meglio assai.

E c’è grande isola che si fece matrigna di tenutario di direzione artistica di Radio, che pare essere a secco come piscio di cammello in deserto. E c’è ovvietà in questo che temporalone si ferma, che a traghettamento lento ed infingardo ci vuole tempo indefinito, così rinuncia ad attesa e scarica acqua ad un altrove a bidonata che fa danno, pure a chicco di grandine a strigliar tetto di decappottabile a lusso precisissimo. E prima che isola a forma di tre – che di perfezione fece a meno per esclusiva modestia – si boccheggia di sete, c’è fortuna che s’ebbe direttorio illuminatissimo di levatura cosmica che disse ponte sia, che tutto si sveltisce, pure tasca si piena assai e rapida e a pienare serbatoio poi ci si pensa, se me lo ricordo. E prima di cedere la parola ad altro giovane cercatore si sorti buone per minchiate scritte a cottimo, per non bombardare l’ultima speranza d’un qualche ascoltatore di Radio, andiamo di musica.

«Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l’ evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell’ omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poichè con le isole il punto è questo: sono di per sè parchi naturali e riserve dove lo “specifico” indigeno resiste più a lungo: sicchè rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale… Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benchè non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l’ Alitalia e l’ Autostrada del Sole. Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. Proprio su la Repubblica (31 agosto) Arbasino ci attribuiva una smania di staccarci dalla nazione e ce ne concedeva licenza. Obietto che, dai tempi di Salvatore Giuliano, fra le maschere sanguinose della mafia il fantasma del separatismo non è più ricomparso: e che oggi un eventuale referendum secessionista non raccoglierebbe in Sicilia più di mille o duemila suffragi… La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d’ Italia, dall’ Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d’ Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina… Con tutto ciò, come negare l’ esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’ esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l’ aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.» (Gesualdo Bufalino, su La Repubblica, 19 settembre 1985 su la Repubblica)

Mercanti d’anime

«Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.» (Conversazione in Sicilia, Elio Vittorini)

Vorrei non parlarne, mi piacerebbe. Ma sono un vecchio delegato sindacale, uno di quelli che lo fa da vent’anni senza mai aver preso una lira. Mi occupo di sicurezza come rappresentante dei lavoratori. So cose, si direbbe. Mi formo e mi informo, ne ho la responsabilità, me la sono presa, non me l’ha ordinato il dottore. Sono pure uno che rompe abbastanza. Quello che è successo a Bologna mi crea faticosissima voglia di parlare. Ci sono le cose che i giornali riportano, il giochino del cordoglio, chiudere le stalle mentre i buoi già corrono per i campi. C’è la logica del subappalto, vite vendute a cottimo, un tanto al chilo per gran risparmio, lavoratori che si dicono «esterni». Corpi alieni nel ventre putrefatto della balena.

L’ho già raccontato, tempo fa, non troppo, proprio a vista di casa mia, un tale che conoscevo appena, giusto un ciao al bar per le sigarette ed il caffè la mattina, è finito in una tramoggia, ha lasciato famiglia, un ragazzino complicato. Ho sentito le ambulanze, un certo frastuono, l’elicottero che lo portava via quando non c’era nulla di più da fare. Dopo un paio di giorni la notizia è sparita, pure se già era solo roba da trafiletto. Come sparirà quella di Bologna, è sparita la strage di Firenze, come sono spariti gli altri mille trafiletti dell’ultimo anno. Ogni tanto il morto ci scappa, finisce nella tramoggia anche quella notizia. Non succederà niente oltre la retorica della commozione dell’istante, il cordoglio unanime, il parliamone. Ma cosa ci sia da parlare non mi è mai stato chiaro, o meglio, mi è chiaro l’oggetto del contendere, non capisco perché bisogna parlare di certe ovvietà. Lo scontro è ideologico, non c’è vittima che tenga. Si dirà che ci vuole più formazione, più informazione. Si investirà tre centesimi in più su quello, il resto, si dirà, non c’entra.
Ma questa tragedia di Bologna ha qualcosa che non è più particolare, non solo per il numero delle vittime. I templi della merce vanno costruiti, non ce n’è mai abbastanza per deificare il consumo. Ancora ci tocca guardare l’anagrafe delle vittime. Vengono da un altrove dove non torneranno, Non torneranno più a casa, per le festività, le vacanze estive, a salutare vecchi amici, i parenti. In certi luoghi d’opulenza gente così, ben disposta per una vita dignitosa a fatiche incerte, stipiendi così così, non se ne trovano.
Sotto le macerie ancora le anime degli ultimi, quelli attaccati alla ricerca disperata d’una vita dignitosa con le unghie e coi denti, che non hanno nome, quelli che non saranno mai in copertina se non come numeri, non vinceranno slam. Domani è un altro giorno, la fila alla cassa non si esaurisce, in attesa delle rovine del prossimo tempio, delle nuove vittime sacrificali immolate al nostro shopping domenicale.

I giorni della lupa

«Lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.» (Horcinus orca, Stefano D’Arrigo)

Avviene che faccio lavare la macchina un paio di volte a decennio, e c’è ragione precisa in questa scelta di disimpegno igienico: quando prendo la decisione viene su lo Scirocco, si porta dietro una coltre di sabbia rossa e bollente. Dunque, l’operazione di nettezza viene vanificata. Detto questo, a brevi giorni di feria, a mare ci sono andato che c’era la lupa, una foschia densa che l’orizzonte s’immagina appena. In un tempo di scarsa tecnologia, le navi grosse facevano ululare le sirene, erano quelle che parevano lupe. Ma a certi pareva di sentire canti di sirena, bastava tendere orecchie d’immaginazione. Pescatori di piccolo cabotaggio in giro non ce n’è, quelli se ne stanno al riparo dei porticcioli. Il mare è calmo, ma non sai come se la pensa il vento. Non gli va di rischiare proprio sotto Pasqua di essere inghiottiti da quella coperta densa, nemmeno ci tengono che a certi motori – già arrancano per grazia ricevuta – la sabbia intasi il filtro dell’aria lasciandoli invisibili in mezzo al nulla infinito. Ed io il pesce lo prendo solo da loro. Pilu non c’è, mi dicono che non sta bene e spero non sia niente, solo male di stagione. Vuol dire che per un attimo Nettuno, di cui è sacerdote a tempo pieno, si scordò di garantirgli giusta protezione. Raffaele, che sacerdote non è, lui c’è almeno a rango di chierichetto, e s’è fatto un giro rapido. Ha tirato su seppie e sgombri, a me va bene. Le seppie se le acchiappano subito, è roba che serve per le feste, quelle assai benestanti, va a far ripieno di certe procaci scacce. Per gli sgombri non faccio fatica ad assicuramene abbastanza, è pesce con le «spine», si fa fatica a perder tempo per toglierle, non c’è pazienza. Io, invece, tempo ne ho, pure pazienza. Per chi non gode di risorse spietate ma ha ad occasione sporadica del tempo, c’è il presagio di poter fare la differenza. Che già per comprare pesce buono di tempo ne occorre, ci vuole conoscenza giusta di luoghi e distinzione delle rughe che fece il mare salato. Avere tempo è un lusso che ci si deve concedere, che certe categorie nemmeno sanno cosa sia il tempo. Il tempo è buono per lamentarsi, per preparare «macco di fave», avendo cura – e, ovvio, tempo – di farle seccare, sgusciarle per bene una una, lasciare che «spanzino» in ammollo e cuocerle sinché non si fanno sfaldo e basta, crema precisa. Serve tempo per pensare a rivoluzioni, immaginare d’attuarle, magari per fiducia mal riposta in chi tempo non ne ha. Che gran lusso il tempo, pure se appartiene più ai disgraziati, tempo che fu ed è spazio mentale, tempo per soggiacere ai padroni senza tempo del vapore, o sperare d’emanciparsi da quelli stessi. Persino la morte pare cosa diversa per chi mezzi non ne ha e, dunque, possiede tempo: può essere oscena iattura, ma anche elegante prospettiva.

Della morte di certi disgraziati bisogna parlarne, che non sempre pare cosa elegante e non se ne capisce la ragione d’un anticipo, buonuscita per vita goduta malamente, a suono di bomba, per catastrofe o per qualche naufragio di barca sgangherata, traghetto di misere anime. Per quella dello sgombro bisogna essere preparati, invece, con precisione, avere mani buone, dose di tempo e pazienza per lordarsele a sufficienza, aspettando meritati appagamenti. Premio giusto ce n’è per sé, pure per gli altri, ché cucinare per gli altri non è dono da poco, è cosa che non serve solo a sfamare, detto a chi capisce cos’intendo. Tralascio di parlare di valore nutrizionale, quello che fa dello sgombro il re senz’altri a pretenderne il trono. Mi soffermo, invece, su certe sue proprietà estetiche, che a giocar di parola si fa a parlare di sembianze estatiche. Quello, lo sgombro, è da prima di copertina, per livrea iridescente, il portamento a perfetta affusolatura, campione d’idrodinamica, al tempo d’elegante, raffinatissima argentatura. Per cucinarlo si impiega il tempo d’uno sbadiglio, al forno con sale e olio e basta più, tutt’intorno rondelle di patate, quelle, al più, con salvia e rosmarino, una quindicina di minuti in tutto. E se volete ci si fa con ancor meno, se si tolgono testa e lisca centrale, s’apre a libro, si passa in farina da una parte e l’altra e basteranno un paio di minuti per lato, in olio bollente. Credo che la Convenzione di Ginevra proibisca altro olio che non sia d’oliva. Se la creatura lascia il suo nuoto libero, allora val la pena abbia sepoltura degnissima, che la morte sempre va santificata. E se la rapidità di cottura pare contraddire il prendersi tempo, è nel trovar pazienza per spinarlo che se ne recupera quanto basta la sacralità. Vien sete per quei piccoli morsi di mare salato, a bere rossi giusti non si fa male, lo sgombro ha personalità tale da resistere senza affanni all’innaffiata, non teme d’esser passato per gusto in sordina. Dopo ci si sente liberi, perché quello – sempre lo sgombro intendo – trasmette libertà di movimento, non pascola a fondali limacciosi, ama la corrente, non si tira indietro se s’alzano libeccio o scirocco, neppure se soffiano grecale o tramonta. Lui cammina, cammina, sfiora l’orizzonte perché si presenta sempre oltre quello, con pinne che ne cercano uno nuovo. Per questo i borghesi lo evitano, dicono ch’è pesce povero, con disprezzo, e lo rifiutano pure allo sguardo. Come rifiutano con analogo disgusto lo sguardo a chiunque abbia la stessa aggettivazione, se non per misericordiosi oboli a distanza, conto terzi, che non si perda tempo manco per la carità. Ma che tristezza quei bistrot sul lungomare, più avanti, c’erano sui tavoli – giuro, li ho visti – cocktail di gamberi, qualcuno li ha ordinati.

Nel buio, guardo!

«E io credo in questo: che la mente libera ed esplorativa del singolo essere umano sia la cosa più preziosa al mondo.

E per questo mi batterei: la libertà della mente di prendere qualsiasi direzione desideri, senza direzione. E contro questo devo lottare: ogni idea, religione o governo che limiti o distrugga l’individuo.

Questo è quello che sono e quello che faccio.» (La valle dell’Eden, John Steinbeck)

Quando vengo qui, scrivo quello che mi passa per la testa nell’esatto istante in cui lo scrivo. Mi siedo dinnanzi alla tastiera e butto giù quel momento, le parole esclusive di quel momento. Sono parole che viaggiano in un istante, nemmeno sono certo di averle davvero interiorizzate, che siano quelle in cui credo ciecamente. Sono soltanto un frammento di pensiero che c’è ora e adesso. Dopo, quelle stesse parole fanno spazio ad altre suggestioni, forse persino distanti dalle prime. Posso concedermi questa libertà, posso usare le parole che voglio, come voglio, non ho limiti se non quelli che mi sono stati inculcati da un me atavico, che forse non è mai esistito o forse c’è sempre stato senza dirmi niente, s’è presentato senza invito ed è rimasto seduto nel tinello. Questa cosa mi ha riservato sorprese, perché consentirsi l’insano lusso di vaneggiare, se mi va di farlo, è come guardare dritti nel buio, scorgervi ciò che c’è, pure quello che non c’è, tanto non v’è tema di smentita su questo. È come lanciare lo sguardo oltre la curvatura dell’oceano quando sei sul promontorio che ci si tuffa dentro. Le parole possono volare sul pelo d’acqua ed assecondare quella curva, scivolarvi sopra come un relitto alla deriva, o possono inabissarsi e studiare i dettagli d’un canyon sommerso, sono escrescenze ectoplasmiche di sguardi, occhi, d’un qualche io.

S’articolano come pare loro, o come pare a me, in quel momento, poi se ne vanno, fanno spazio ad altre frasi, per altre esplorazioni d’infinito. Questo è quello che faccio, che mi va di fare. Nemmeno chiedo di più, salvo qualche bene di conforto. Capisco che questo può creare qualche disordine relazionale. Me ne farò – con pudore antico, forse – una ragione. «È nel buio che devi guardare, con disobbedienza, ottimismo e avventatezza.» (Marguerite Yourcenar)

La bitta

D’estate pesce ce n’è di meno, pare che se ne va in ferie. D’inverno la pesca è migliore ma i ristoranti a quei tempi erano vuoti, non c’erano turisti e quelli che stavano lì, compreso me – che ero a tempi di scuola – non è che ci avessero di che andarsi a sfamare su tovaglie a quadri. Saro si faceva la notte su quella barca a sganghero ed arrivava la mattina al molo che era giorno fatto, si metteva a togliere le anime d’argento che guizzavano ancora nella rete, caricava quello che c’era nel retro della macchina vecchia e si metteva a pulire tutto.

Dalla rete toglieva pure ogni filo d’alga impigliata, che quella, la rete, costa assai e non se ne deve rompere niente. A rammendarla si fa gran fatica d’occhi e tempo e Saro tanto bene non ci vedeva, tempo pure gliene restava poco. Ci passavo davanti con la canna quando scuola non ce n’era e la stagione non era buona. Sul molo c’era giusto lui, faceva il freddo che t’entra nelle ossa, ma se non si usciva non c’era scampo. Si muoveva che pareva una vela stropicciata che s’asciuga a sole tiepido della mattina dalla tempesta della notte, su quella bonaccia indeterminata del porticciolo. Nell’acqua stagna c’era odore dolciastro d’alghe a putrefare, i gabbiani facevano festa un po’ più in là, troppo non si fidavano ad avvicinarsi, c’era il rischio di prendersi pedate a prendere di mira la cassetta che si faceva inghiottire dal portabagagli.

A quel tanfo s’aggiungeva puzzo di nafta, della riverniciatura impermeabile della barca. Saro armeggiava e se non era tutto a posto non smetteva. Non avevo mai capito perché, tutto finito, non avesse desiderio di scappare, di andarsene a farsi una doccia, togliersi quel puzzo di dosso, farsi un goccio di vino ed una zuppa di pescato fresco. Non mi pareva logico mentre scivolavo sui frangiflutti a cercare un pezzo di mare aperto dove lanciare la lenza. Lui si sedeva sulla bitta e s’accendeva una sigaretta, e manco scostava gli occhi d’un grado dalla bocca di porto. Era un rituale che si consumava sempre così, pareva esatto la messa del prete. Mi veniva da gridarglielo «vattene a casa», che mi pareva un povero pazzo. D’estate pesce non ce n’è tanto, ma ce chi se lo compra, e a mare ci si deve stare di più. La rete si tira ancora e ancora, fino a quando non ce n’è abbastanza. E Saro aveva rughe antiche, canyon scavati dal sale, dal sole, dal vento. Farmi paghetta extra a scuola sospesa mi parve cosa buona, e dissi che l’accompagnavo quando da solo non ce la fece più, a stagione bella. Andai anch’io, poi tornavo, e la rete la piegavo palmo a palmo come lui, che non facesse pieghe pronte a strappo. Finita la notte, col giorno bollente, mi veniva d’andarmene a casa, a farmi una doccia, a togliermi quel puzzo di dosso. Ma le gambe tremavano e decidevano loro che mi sarei seduto sull’altra bitta lì a seguire, senza scostare occhi d’un grado dalla bocca di porto, e Saro aveva la forza appena di passarmi una sigaretta. Io maledicevo che le bitte fossero lontane così, più di due metri, che ad allungare il braccio per abbrancare la cicca mi pareva fatica d’Ercole. E pure io ora parevo pazzo, a guardarmi l’infinito davanti.

I libri tornano con le storie

«L’assessore legge un verbale, e chiede a Mr. Murdin se Geremia lavorava per lui.
“Si, era uno dei lavoranti.”
Paolino alza la mano e grida: “Non è vero!”.
Tutti si voltano.
“Mio padre era capomastro!”
L’assessore sorride indulgente e ordina a Paolino di sedere.
“Era capomastro, signor Murdin?”
“Può darsi… Chi se li ricorda, questi maledetti nomi italiani?”
» (Cristo fra i muratori, Pietro Di Donato)


Ci sono libri che ci appartengono per strani giochi del destino, sono con noi da sempre. «Cristo fra i muratori» di Pietro Donato è uno di quelli per me. È sempre stato lì, su uno scaffale, da che ho una libreria mia, nemmeno ricordo di averlo mai comprato, che me l’abbiano regalato. È lì e basta. Di Donato era figlio di immigrati abruzzesi in America, l’ha pubblicato nel 1939. Racconta un’America di migrazioni, quella degli ultimi, dei senza nome, sulla scia delle cose di Faulkner. Vinse un Pulitzer, divenne caso letterario. Un paio d’anni dopo il regime non se lo lasciò sfuggire per rivendicare la grandezza di un italiano e venne pubblicato pure qui, da noi. La biografia di Di Donato fu resa oscura, il libro fu ampiamente rimaneggiato dalla censura. Era pur sempre il successo letterario di un comunista obiettore di coscienza. E noi eravamo in guerra. Il 1939, dunque, per una vicenda che aveva già una ventina d’anni quando fu scritto. Andrebbe letto nelle scuole questo libro, ma renderebbe troppo meno aspri certi comportamenti, e le contraddizioni, le paure, la diffidenze, sono utili ai padroni del vapore. Un estratto di quel libro ve lo rendo, e provate a vedere se le cose sono cambiate da quegli anni bui, se gli ultimi hanno ora patria e, se avete pazienza di leggerlo, se vi ricorda qualcosa, se avete tempo un piccolo spazio d’ulteriore sgomento dinnanzi anche a ad una torre che pende male.

«Geremio aspirò dalla pipa spenta e sorrise con accondiscendenza. Gli uomini intorno a lui si muovevano in silenzio, portando a termine i loro compiti, stanchi ma assorbiti dagli stessi pensieri di Grugno. Il rumore del Lavoro sembrava non essere nemmeno più un rumore, e mentre Geremio si guardava attorno, la vita si posava su di lui come un grigio concerto, composto di atmosfere grigie e note grigie. Eppure, quel mondo scolorito gli suonava vicino e familiare.
«Cinque minuti alle due», sibilò Grugno attraverso i baffi folti.
Senza nemmeno pensarci, Geremio estrasse l’orologio dalla tasca, lo ricaricò e lo rimise a posto. Lazarene aveva finito con i cavi. Il tono e i movimenti della scena parevano a Geremio strani, diversi, eppure erano come un sogno conosciuto da un tempo imprecisato. Sollevò la mano verso Julio. La pietra fusa gorgogliava piano, e poi con un rumore crescente e rauco. I suoi occhi seguirono la miscela di pietra e cemento, e le sue orecchie non udivano altro suono che quel mescolio. Da qualche parte sopra i tetti, giungevano le note metalliche di Barney Google che si facevano strada attraverso la radio, e gli entravano nella testa, fermandosi lì come un disco nella sua calotta cranica.
Ah, sì, Barney Google, la bellissima radio di mio figlio… Il mio meraviglioso Paul. Il filo dei suoi pensieri corse rapidamente alla famiglia, alla sua casa e alle sue speranze. E insieme alle speranze, giunse la paura. Qualcosa dentro di lui si domandava: Sarà mai possibile respirare l’aria di Dio senza che venga inquinata dall’ombra della disoccupazione? E di dover fare guadagnare il padrone? La paura del Lavoro e del Padrone? Ribellarsi significa solo perdere tutto di quel pochissimo che si possiede. Obbedire significa soffocare. O caro Signore, indicami tu la strada.
Proprio in quel momento, il pavimento sussultò e ondeggiò sotto i suoi piedi. I sostegni slittavano e della base sottostante facevano vibrare gli impiantiti ancora instabili dell’edificio. Era svenuto o stava avendo le vertigini? Era solo una sensazione dovuta a quel pomeriggio irreale? Allungò le mani davanti a sé, indietreggiò e sollevò lo sguardo in preda al panico. «No! No!»
Gli uomini rimasero in bilico. Le loro gole avrebbero voluto gridare e urlare, ma non osavano. Per un momento furono come un corteo pietrificato e teso. Poi la base del loro mondo cedette. Un fremito violento percorse l’intero Edificio, i sostegni esplosero con il crepitio di una foresta in fiamme. L’impiantito venne ingoiato. Geremio si aggrappò all’aria, strillando agonizzante: «Fratelli, cosa abbiamo fatto? Ahhh-h, i nostri figli!». In un battito di ciglia, ogni equilibrio saltò, gli uomini come paralizzati si ritrovarono scaraventati nel cielo. L’edificio crollava sopra di loro trascinandoli in un folle baratro. Pareti, pavimenti, travi divennero onde vorticose, spezzate, solide che si infrangevano con detonazioni assordanti trascinando con sé uomini e materia in un connubio di morte.
Lo Smilzo non aveva tradito alcuna emozione. Quando le mura crollarono, restò fermo. Si limitò ad abbassare la testa. Un minuto dopo era sospeso a mezz’aria, il mento sul petto, gli occhi che gli uscivano dalle orbite, una schiuma verde che gorgogliava dalla bocca e il corpo in preda agli spasmi, tenuto sospeso dai brandelli rimasti delle sue braccia schiacciate, inchiodato tra un muro e una trave.
Una trave cinque per dieci colpì Tomas il piccoletto sotto la schiena e lo fece ruotare in cerchio fino a sbattere contro una trave che stava roteando. Nel lampo in cui sollevò il suo viso pietrificato da cherubino, il bordo della trave gli tagliò la sommità del cranio.
Quando Grugno gridò implorante: «San Michele!», l’oscurità lo avvolse. Rinvenne in un mondo di orrore. Un getto costante, caldo, denso e nauseante come vino caldo, gli bagnava il viso e gli ostruiva naso, bocca e occhi. Quella specie di sciroppo nauseabondo che gli ricopriva la faccia gli macchiava i baffi di rosso e gli gocciolava in bocca. Deglutiva in cerca d’aria e ingoiava il sangue. Mentre si sforzava di respirare, il dolore lo rese quasi incosciente. L’aria brulicava di grida, urla, gemiti e polvere, e il suo petto schiacciato bruciava di mille fuochi. Non riusciva a vedere, né a respirare abbastanza da poter piangere. Si portò la mano destra al viso e si asciugò quella sostanza gelatinosa, ma continuava a colare, e udì un gemito straziante vicino a lui, non molto lontano. Si asciugò gli occhi con un gesto meccanico disperato. Dov’era? Che sogno stava facendo? Che cosa sarebbe successo se non si fosse svegliato in tempo per andare al lavoro? Ma che strano; lo stomaco che pulsava, il petto in fiamme, e non vedeva altro che rosso opaco, solo una mano che si muoveva e quel gemito che pareva levarsi davanti al suo viso!
Il rumore e il clamore delle squadre di soccorso gli giunsero da lontano.
Ah, sì, stava sognando a letto, doveva essere così, dovevano essere i pompieri che stavano andando a spegnere un incendio. Oh, poveri diavoli! E se era la sua la casa in fiamme? Con i bambini sparsi nelle varie stanze, chissà dove! Doveva fare del proprio meglio per uscire da quel sogno! Stava nuotando sott’acqua e non era in grado di sollevare la testa e riemergere. Doveva riprendere coscienza per salvare i suoi figli!
Nuotò freneticamente con una mano,
e poi tastò la forma di un viso. Una faccia! C’è Angelina al suo fianco! Grazie a Dio, è sveglia! Le toccò il viso. Si mosse. Era freddo, ispido e umido. «Si muove. Che cos’è?». Le sue dita scivolavano sulle ossa macilente e appuntite, in una massa collosa, fibrosa e cava, cedevole come maccheroni bolliti. Poi una luce grigia rischiarò un po’ la sua visione e il suo cuore fu preso da un attacco di isteria. Una trave era posata sul suo petto e la sua mano destra stringeva una grottesca maschera umana. Sospeso quasi sopra di lui c’era il corpo contorto e senza volto di Tomas. Julio svenne di colpo, con un sospiro inarticolato. Le sue dita mollarono la presa e il viso senza corpo e testa gli cadde accanto, vicino alla sua faccia, mentre il gocciolamento sopra di lui si faceva sempre più lento.
I soccorritori si muovevano cupi con piccone e ascia.
Geremio si riprese con un sussulto, distante dai loro sforzi. Subito intuì cosa era successo e dove si trovava. Gridò selvaggiamente. «Salvatemi! Salvatemi! Sono qui sotto!»
Si fermò esausto. Sentì un dolore lancinante ai genitali. La fredda barra d’acciaio su cui erano impalati gli paralizzava la spina dorsale. Gridò sempre più forte. «Salvatemi! Sono gravemente ferito! Potete salvarmi! Potete salvarmi prima che sia troppo tardi!». Ma le sue grida non andavano al di là delle sue stesse orecchie. Il cemento freddo e umido gli arrivava al mento. Si sentì trasalire. Tra pochi secondi sarò sepolto. Se riesco almeno a respirare, mi raggiungeranno. Sì, ce la faranno! Il suo viso fu subito coperto, sprofondando fra le pietre taglienti. «Aria! Aria!», urlavano i suoi polmoni mentre veniva murato vivo. Morse selvaggiamente l’asse di legno premuta contro la sua bocca. Ne strappò via un pezzo grosso meno di mezzo centimetro. Oh, se solo fosse riuscito a resistere abbastanza a lungo da aprirsi anche il più piccolo buco con i denti e respirare! Doveva farlo! Non c’era altro modo! Doveva! Non c’era altro modo! Era responsabile per la sua famiglia! Non poteva lasciarli così! Non voleva morire! Non poteva finire in quel modo! Aveva morso metà del legno quando i suoi denti si spezzarono e si staccarono dalle gengive a causa di quel conflitto impari. La pressione del cemento era tale e così intensa che le schegge di legno, i monconi dei denti e il sangue non riuscivano a uscirgli dalla bocca soffocata.
Perché non gli era concesso di andare ancora un po’ più in là?
Aria! Presto! Affondò la mandibola nel piccolo spazio vuoto e strinse le labbra in una furia agonizzante cercando di non soffocare. Perché non cede! Madre di Dio, perché non cede? Magari c’è una tacca o un chiodo dietro? Cristo santo! No! No! Fai che ceda… Aria! Aria!
Spinse come un pazzo la mascella sdentata; si scheggiò, si spezzò e un angolo ormai privo di pelle perforò l’asse, aprendo un piccolo varco per l’aria. In uno scoppio disperato, l’ossigeno prigioniero dei polmoni gli uscì dalla bocca lacerata cercando avidamente di ingoiare un soffio d’aria fresca. Provò a respirare, ma era impossibile,
perché la colata si andava indurendo sempre di più. La malta carica di cemento gli scorreva sul viso ferito. I suoi polmoni non riuscivano a gonfiarsi, l’impasto che si rapprendeva li stringeva come in una morsa.» (Cristo fra i muratori, Pietro Di Donato)

Protezione navale

C’è stata stragettina, qualche giorno fa, una decina, forse più, si fecero cogliere da tormenta di mare e la barchetta non resse. Taluno fu superstite e raccontò i fatti. Non è dato a sapere a chi, c’era grande interesse d’altro, televoto a contestazione multipla, polemica su quale fa canzone che suona meglio. Nemmeno si parla del suicidio di Ousmane Sylla, di bimba che chiede aiuto per bomba in testa. E nemmeno io voglia di parlarne ne ho, pensate se ne ho di scrivere. E prendo cosa vecchia, a dedica di chi fugge, a dedica di chi non esiste se non per propria esclusiva consapevolezza di disperazione.

C’è non si sa quale soave mistero in questo mare, le cui movenze delicatamente tremende paiono dir d’una qualche anima che là sotto si celi… Ed è appropriato che sopra questi pascoli marini, sopra il vasto rollio di quest’acquee praterie, sopra questi campi del vasaio dei quattro continenti, le onde s’alzino e s’abbassino e fluiscano e rifluiscano incessantemente, poiché qui milioni d’ombre e di parvenze si mescolano, sogni annegati, sonnambulismi, fantasticherie e tutto ciò che chiamiamo vite e anime qui giacciono sognando, sognando, sempre…” (Herman Melville)

Pare che si faccia contraddizione autentica quella lastra piatta piatta che ho davanti stamattina. Non sono ancora le otto, qui, coi piedi a mollo sulla rena, mi guardo intorno e non vedo nessuno. Non soffia niente, non c’è un alito di niente. Pare tutto fermo.

Non c’è un suono che sia uno, nemmeno di risacca, corrente di marea. Fermo, tutto pare fermo. C’è solo quella piatta superficie che arriva all’infinito, e laggiù un’ombra che copre l’orizzonte, per tutta la sua lunghezza. Forse è libeccio che cerca uno spiraglio per passare, per tirare per aria sabbia rossa, farsi bufera e farla finita con tutto sto stare fermo, immobile.

Sto zitto, e con chi devo parlare che non c’è nessuno. Lontano c’è una nave, una di quelle grosse, s’è confusa con la macchia scura in fondo. Forse è una portacontainer, una di quelle cariche ad uovo, che non affondano mai tanto sono grosse, nemmeno se il fortunale la prende a sberle. Quella porta merce e la merce è sacra. Per quella si spende a metterla al sicuro, deve arrivarci dentro, farsi respiro, entrarci nel sangue e nei polmoni. Per quella c’è rigore, un tanto al chilo per protezione, e se il fortunale non intende ragioni, rema contro ché non conosce vizi obbligati, c’è qualche assicurazione che paga per un altro sbarco, a distanza breve dal previsto precedente. Che la merce mai ci deve mancare, quella la paghiamo a debito di sangue e sudore, che chi ce la vende non abbia a patirne assenza. La merce sempre ci arriva. E se non sei merce, e provi ad arrivare non ce la fai, pure se sei un bimbo da niente, che quella lastra piatta sempre così non è, ti rovescia la barca a colpo di tempesta, che quella manco a brezzolina leggera regge. C’è il caso che manco parti, che c’è ad impedimento di ultimo viaggio accordissimo di potenti, che a mare non s’annega, semmai crepa a sete e fame di deserto. E se ti scappa lo schiribizzo che arrivi, allora non sfuggi a destino esatto che diventasti merce pure tu, a far da schiavo fuori da occhio indiscreto.
Poi arrivò gente, fecero rumore di parlottio. Me ne vado.

“Il dramma è finito. Perché allora qualcuno si fa avanti?… Perché uno scampò al naufragio.
Capitò che dopo la sparizione del Parsi, io fui quello che i Fati destinarono a prendere il posto del prodiere di Achab, quando questo prodiere assunse il posto vacante; e io fui quello che, quando l’ultimo giorno i tre furono sbalzati in acqua dall’urto, cadde a poppa.

Così, galleggiando sul margine della scena che seguì, e dominandola tutta, quando il risucchio semispento della nave affondata mi prese, fui allora tirato, ma lentamente, verso il vortice che si chiudeva. Quando ci arrivai, s’era placato in un pantano di spuma. Torno torno, allora, e sempre attratto dal nero bottone della bolla, all’asse di quel cerchio che roteava lento, girai come un altro Issione. Finché, nel toccare quel centro vitale, la bolla nera esplose; e ora, sganciata dalla sua molla ingegnosa, e saltando a galla con forza per essere così leggera, la
cassa da morto-salvagente balzò quant’era lunga dal mare, ricadde, e mi galleggiò accanto. Sostenuto da quella bara, per quasi tutto un giorno e una notte, galleggiai su un mare morbido e funereo. Senza toccarmi, i pescicani mi guizzavano accanto come avessero lucchetti alle bocche; i falchi selvaggi del mare passavano coi becchi inguainati. Il secondo.210
giorno, una vela mi venne vicina, sempre più vicina, e mi raccolse alla fine. Era la Rachele che andava bordeggiando, e che nel rifare la sua rotta in cerca dei figli perduti, trovò solo un altro orfano.” (Herman Melville)

San Lento

San Quello Lì io non lo vedo. Nulla contro a chi invece se ne pasce e d’allegria si sollazza. Non penso che a casco di bomba, a crisi di sistema, a fatto che clima pare a pazzia pura si risponda con ascesi spirituale e collettiva prostrazione. Talora cenno di svago è cosa di legittimissima aspirazione e non me ne dolgo con asprezza di distacco. È che non lo capisco, non me ne viene gana di farmelo piacere. Non mi sconfinfera la canzonetta, pur se ammetto che taluna possa essere cosa ben fatta e pensata ad adeguato artistico valore. La verità è che mi subentra noia a dodici secondi, son cose che m’assonnano, m’irritano, mi angustiano a prime due note. E vivaddio che durano un paio di minuti o poco più. Ch’io adoro cose che durano una pestilenzialità di tempo e pure se finiscono ad libitum d’infinito, mi pare che durarono poco. E ve n’offro carrellata, che se avete pazienza di mettervi lì ve le ascoltate a mo’ di «che m’importa se ho da fare, ora mi faccio questo.»

Ché io ci ho vizio autentico, da che sono bambino, d’evitar di far cosa mordi & fuggi, anelo al bisogno di prendermela comoda, e se c’è suonata che dura impedimento d’ogni cosa altra, io ci vado a nozze pure se ci son solo fichi secchi, basta c’è da bere. Poi mi capita che se sento musica ci ho pure bisogno d’avvertire che taluno la suona e la suona con rispetto di tal altro che deve poi dar cambio a far nota a divergenza di quanto s’aspetta. E non mi manca desiderio che ad ascolto viene altro ancora che pare come primo che mi spiana la strada e mi fa cogliere sfumature che ad ascolto precedente non s’erano palesate. Ancora procedo a lunghezza, che con brani a numero ch’entrano a mano singola ci faccio durata di musica di tutto San Cosarello.

Sarà che c’è dipendenza di tale cosa mia dall’esser fatto a risma esatta di pescatore di scoglio, che fece d’attesa d’abbocco ragion d’essere propria, e che mette in detta attesa la prassi consueta della contemplazione. Senza contemplazione non s’apre orizzonte e nemmeno fu detta scelta di preferenza cosa di metafisica, ma proprio d’appagamento preciso di piacere estremamente materiale che materia, a mio dire, non pare cosa sgarbata e d’impraticabilità per costumanza morale.

Viceversa mi pare che attesa e contemplazione facciano far pace a sensi e natura senza impedimenti ed asprezze, procedano a dilatar pupille pure ad occhio serrato, pure a sturar narici per essenza di perfezione. Quello avviene senza distrazione di lustrino, si fa invece a sotto traccia e diventa percettibile sotto pelle per brivido intensissimo.

Ch’io non ci ho fretta che finisca certa cosa, sia che sia musica od altro, pure libro se è a finir presto mi abbandona a troppo niente, pure se niente è interessante. E mi capita di leggere recensione di libro che dice che è agile e si legge facilmente. E perché mai dovrei leggere facilmente un libro o quant’altro farmelo piacere a minutino pure ad ascolto? Che se non c’è neurone che si mobilita a lettura d’interstizi tanto vale che faccio parole crociate a sottofondo di ticchettio di sveglia, che tanto è uguale e non fa sorpresa. A me la sorpresa m’aggrada, pure se non anelo a fatti roboanti, ma a dettagli che si palesano uno ad uno, a far fittissima rete d’armonie cangianti, di parole spese bene a costruire orditi imperscrutabili, foreste di sensazioni che s’accompagnano a magnificenza con certi fiaschi di vini contadineschi il cui fondo rutila di percezioni fruttate e salmastre intuizioni.

Ed io non sono a pretesa d’esser condiviso a pensiero mio, non me ne faccio cruccio se c’è preferenza di grande kermesse armata a miliardo e presenza multipla rutilante. Ma mi vien da pensare che pare pensiero delegato, attrezzatura per anestetico di massa, arena di gladiatorume. Non ho critica radicale, è solo cosa che mi balugina in meningi forse sfatte, forse in procinto d’esser tali a breve.

Detto questo non faccio proselitismo, mai mi riuscì nemmanco ci provai, ma a sommesso consiglio fate partir la musica. Ch’io un poco ve l’ho offerta, che altra ce n’è in giro che insegna a guardar lontano, magari non a tutti, che forse altri lo sguardo ce l’hanno già altrove tanto son avanti. Io sono indietro, ho bisogno di tempo, pure d’un bicchier di vino.

Campionismi (non issimi)

Faccio subito premessa debita, a scanso d’equivoco: che il ragazzone rosso delle Alpi abbia compiuto l’impresa fa piacere pure a me, non sono così snob. Certo che non mi venne celia di festeggiamento, il tutto d’intorno di quotidiani drammi non me ne diede l’aire. Ammetto però che, per lo sport in genere, nutro vaga idiosincrasia e tralascio valutazioni circa l’uso milionario che se ne fa, quale oppio per popoli e cose così. Tanto, in tal senso, si scrisse e disse ch’io, adesso, non aggiungo. Non è che me ne disinteressai di sport da sempre e comunque.

Ci fu un tempo in cui anch’io ne praticavo, se tale si vuol chiamare giocare a palla nelle stradine di quel centro disastrato ed in abbandono, prima che diventasse capitale di lustrino e cacciasse via la sua gente a favor di ricco e spietato. Si inseguiva la palla tra urla belluine, e quella, la palla, se ne andava sempre e comunque dove le pareva. Era forse la sua natura di globoide irregolare, la sua costituzione di plastiche malferme, l’acciottolato che deviava imprevedibilmente traiettorie desiderate. C’era pure una certa imperizia balistica nei piedi miei e di quegli altri selvaggi affastellati a rincorrerla scalciando alla rinfusa senza cura di caviglie e stinchi altrui. Talora la protosfera deviava a bussare con boato tremendo al portone rugginoso di Teresa, signora d’antica professione all’atto di ricevere clientela. La minaccia di vederci squarciare la palla era immediata, ce la dava dall’uscio ancora non troppo vestita. Si dava il caso che il cliente di turno poteva, da quel tonfo sordo, ricavare una certa apprensiva distrazione, un’inquietudine d’impedimento ad una rapida evoluzione della prestazione richiesta.

Così era una gran ricerca di cortili di magazzini dismessi, aree desertiche di periferia trasformate in stadi. Ma di questo ne feci cenno in un antico post. Da più grande, quando gli accadimenti della vita m’allontanarono per tempo negletto dalle pratiche sportive, non ne trascuravo alcune. In assembramento di studente c’era vezzo di mettersi la sveglia per vedersi le dirette degli incontri di Ray Leonard. Mi colpiva che, a dispetto dell’essere afroamericano, pure a far professione da deviazione di setto, manteneva il nasino alla francese. E vederlo sul ring, più simile a Rudol’f Nureev che a un boxeur, a danzare straniando l’avversario senza farsi sfiorare per pezzi consistenti dell’incontro, mi estasiava. D’ogni movimento poteva scriversi un racconto, d’ogni finta, d’ogni agitarsi delle gambe poteva ricavarsi senza infingimenti una pièce di coreografia eccelsa. Una volta vidi pure una partita di biliardo di Cifalà, si sbarazzò d’un giovane tecnomodernissimo astro nascente della stecca con una serie di carambole che parevano contraddire dogmi della dinamica, s’aggiudicò il mondiale a dispetto di Newton e Galilei. Poesia, mi parve poesia, verso di rintocco. Da quelle parti, trovandomi a Firenze, un amico mi propose di andare allo stadio. Con garbo feci notare una certa ritrosia verso la pratica in sé, mi rispose «non si va mica a vedere la partita, si va a vedere Socrates». Quello, sottile come un’acciuga, portamento d’airone, testa alta, se ne stava in mezzo al campo come se la partita non lo interessasse, trotterellava appena. Praticamente fece solo un paio di giocate per tutto l’incontro, quelle che gli toccarono perché la palla, per la legge dei grandi numeri, gli finì addosso. Stop di petto, dribbling con finta per un paio di metri, poi lancio a distanza stratosferica, preciso, improbabile, definitivo, vertiginoso. Ai limiti della commozione avevo visto una pennellata alla Mirò in presa diretta, nel silenzio stupefatto, prima della ovazione. E chissenefrega se l’economia del gioco non se ne faceva niente, avevo assistito all’epica rappresentazione del genio.
Per il resto, però, ammetto, la vera narrazione dello sport per me rimane quella di praterie sconfinate e deserte, periferie dimenticate, suburbie d’abbandono, polvere che si solleva come per il passaggio di mandrie di bufali, la torma scomposta ed urlante ad inseguire protosfere.
«… Erano lenti come somari e pesanti come armadi ma marcavano a uomo e gridavano come maiali quando non avevano la palla. L’allenatore, uno vestito di nero, con baffetti sottili, un neo sulla fronte e mozzicone spento tra le labbra, correva lungo la linea laterale e li incitava con una verga di vimini quando gli passavano vicino. Il pubblico ci si divertiva e noi, che giocavamo di sabato perché eravamo più piccoli, non riuscivamo a spiegarci come potessero vincere se giocavano così male. Davano e ricevevano colpi con tale lealtà e con tale entusiasmo che dovevano appoggiarsi gli uni agli altri per uscire dal campo mentre la gente li applaudiva per l’uno a zero e porgeva loro bottiglie di vino rinfrescate sotto la terra umida. La sera facevano festa nel postribolo di Santa Ana e la Gorda Zulema si lamentava perché mangiavano le poche cose che conservava nella ghiacciaia.» (Osvaldo Soriano)