Codicillo in forma di paese

Pure a disagio di dover fare cose s’aggiunge l’orrenda febbriciattola sfiancante che non mi concesse tregua. Vi rilancio una cosa vecchia che le cose nuove pare me le hanno messe all’ergastolo ostativo. Cosa vecchia che rinverdii di frequentazione a tempo recentissimo eppure già vira a nostalgia struggente.

Non ho nostalgie ricorrenti per i bei tempi andati, giustappunto perché v’era da far fatica e della fatica me ne intendo, tant’è che, qualora se ne presenti l’occasione, desisto dal frequentarla. Ma di certe cose m’avvedo come di tesori perduti, che il tempo s’è portato via senza chiedere il permesso. Le pescosità marine, per buttarla lì, mi perdurano dentro, certe coste intonse e disperate d’approdi a falesia a strabocco sul blu. Pure, indugio a struggermi del ricordo del quartiere, storico e ben piantato sulle fondamenta antiche. Certe ricorrenze di memoria mi paiono messe lì a bella posta per indispettirmi della loro assenza. Ma vi è una sorta di destino ineluttabile nei centri storici. Mi sa che è per questo, ovunque vada e nel mio pellegrinaggio a destra, pure a manca (in senso geografico, che per altre nature ho fatto radici), da nord a sud e viceversa, che ho deciso di non rinunciare ad abitarvi. Ma la scelta, ch’è, immagino – un tantino sperandolo -, definitiva, cade sempre su una delle due possibili evoluzioni che ci è dato di conoscerne, pur con qualche eccezione in quanto tale straordinaria. O diventano supermercati/eventifici, per la gioia ed il solluchero di certi boiardi non di vedute amplissime, popolosi di signore contesse leopardate e marchesi merlettati di coppale e coccodrilli, con monolocali che costano quanto castelli sulla Loira, e ristostelle ad ogni piè sospinto; oppure, piano piano, s’abbandonano a se stessi, che chi li ha animati nei secoli è fuggito necessitato nel farlo (gli casca il tetto in testa e le muffe lo aggrediscono fisicamente, così s’accordano per la deportazione nei cubi cementifici 30×30 della Suburbia), o perché il quinto piano termoascensorato semplicemente più li aggrada. Pur nella dolorosa nostalgia di odori di fritto, bimbi più o meno calzati che strapiombavano per le stradine scoscese, mercanti a bandezzo, donne vestite di salsedine, abbondanti d’esposizione di preziose merci d’antiche artigiane, adoro il silenzio della decadenza di quelli diruti e spopolati. Me ne approprio, talora, come fosse respirazione d’ossigeno puro, e li attraverso ferocemente gaudente, pronto a sguainare l’obiettivo, non per cristallizzare l’istante, renderne permanente la narrazione, piuttosto per la ricerca inversa, che riporta alla luce una sequenza temporale dinamica. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le orme del tempo, che si sovrappongono, si stratificano diacronicamente; e così la traccia più recente non cancella le precedenti, le opacizza soltanto, per un periodo effimero. Lo stesso tempo gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori deposti al suo passaggio, ne scopre i precedenti, in un gioco cromatico che l’obiettivo disvela in un unicum narrativo che va oltre l’istante dello scatto. Questa ricerca non può che consumarsi dentro un percorso di riscoperta identitaria, dunque, che non rinuncia a ripartire da qualcosa che, profittando dell’estinzione di massa, si riprende i suoi colori anche quando il senso d’abbandono appare ad occhi distratti prevalente e fastidioso. Effetto sublime e collaterale di questo cammino, è la messa a fuoco del dettaglio che sfugge a chi è vittima inconsapevole del gioco d’inganno del tempo, a chi ha scelto la disillusione dell’accelerarsi quale pratica quotidiana.

Appare, invece, quale irrinunciabile taumaturgia agli occhi di chi non venne irretito dalla consuetudine. “Vi fu sempre nel mondo assai più di quanto gli uomini potessero vedere quando andavano lenti, figuriamoci se lo potranno vedere andando veloci” (John Ruskin), e questo impone il viaggio lento, dentro i silenzi che in una condizione “urbana” e convenzionale non sono previsti, appartengono, semmai e nell’immaginario, solo a certe valli antiche e remote, ai più profondi dei boschi. Silenzi in cui però si avverte profondo il respiro del tempo che è passato, rotto solo da qualche richiamo lontano ed ancestrale che proviene da un luogo indefinito, da dietro persiane serrate dietro un occhio scuro che spia il transito inatteso, allarmato forse dallo scalpiccio, ormai desueto, lungo scalinate labirintiche, dentro il profumo di intingoli che sanno di memoria. Si dipanano – pure compiacendosene – le attese lunghe e pazienti, sinché i raggi sghembi del sole d’una certa ora, o qualche goccia di occasionale pioggia, non vivificano le coloriture di vernici dismesse, frammenti di intonaci, infissi scorticati. Dettagli d’umanità senza presenze, che riconciliano con certe dimensioni perdute, alternative ed ostili al mordi e fuggi, all’unica prospettiva dell’ora e subito. E del dedalo dimenticato, non rimase che l’opera collettiva di popolo e tempo, bellezza che riesce a farsi vanto delle sue rughe più profonde, senza riguardo, invero, per l’estetista.

In un altrove

Gettato sull’erba vergine, in faccia alle strane costellazioni io mi andavo abbandonando tutto ai misteriosi giochi dei loro arabeschi, cullato deliziosamente dai rumori attutiti del bivacco. I miei pensieri fluttuavano: si susseguivano i miei ricordi: che deliziosamente sembravano sommergersi per riapparire a tratti trasumanati in lontananza, come per un’eco profonda e misteriosa, dentro l’infinità maestà della natura…” (Canti Orfici, Dino Campana)

Qualche volta bisogna fare rotta altrove, oltre la cittadella presa d’assalto che si fece altro ad attendere tempi migliori. L’altopiano sulle guide non c’è, non c’è bagordo che l’accompagna. Mi sono fatto decine di chilometri e non incontrai nessuno, che presenza umana invece è dappertutto, in dedalo infinito di muro a secco, pietra su pietra strappata alla terra resa fertile.

Quadrati, rombi, trapezi, cerchi ed ovali, che raccontano storie d’antiche enfiteusi, maggesi, di padri che lasciarono un fazzoletto di terra ai figli che lo lasciarono ai loro. Antichi abituri che non smisero mai d’essere abitati, che di destinazione d’uso fecero gioco bislacco, financo sepoltura di vassallo d’Eblon divenne chiesa di Bisanzio, tombe si fecero magazzini, ovili, abitazioni di chissà quante genti da mille mila anni per bagaglio d’ampia fantasia a necessità impellente. L’intarsio è roba di ordito intricatissimo, d’eleganza somma, sguardo di vertigine si spinge sinché ce n’è. E poi, d’improvviso dicchi e pieghe della crosta, per irrequietezza di mantelli incandescenti, di sommovimenti terribili, pure strapiombi infiniti, dove le acque gelide di fiumi si fecero e si fanno strada a scavare tane per trote, volpi, ghiandaie e biacchi iridescenti. C’è comanda di silenzio e pure il sole picchia con cautela, da leggera brezza si fece persuadere a non farsi calor bianco, che il maestoso carrubo, l’ulivo saraceno secolare, un gelso di frutti maturi, comunque, vigilano che creature abbiano ombra a sufficienza. Financo il Pino d’Aleppo, spilungo e sghembo, s’affaccia a bastione calcareo, fa capolino oltre il sughero di quercia, tra cento anfratti che nascosero velli d’oro e trovature in fondo ad arcobaleno. L’asfodelo richiama avi a perdersi di memoria, che pare tutto ingresso a terra di Lotofagi, che smarrisci tema di ritorno. Quella è terra delle fiabe, terra d’apparenza sola, che di colori si fece tavolozza densa, e non si curò che di chi ne seppe cogliere l’indispensabilità d’ogni cromatismo.

La luna, o giù di lì

Che c’è a più di ieri gioco di risiko che ho carrarmato tanto grosso che tuo trema di brutto, che pare gioco d’i studentato’adolescente a chi ha orpello a sovradimensione di miglior dotazione. E c’è corsa a chi spara la cosa più grossa che si spende tanto che a metà basta a sfamare intero creato. Ma quale dio è a prima di menzione di patria e famiglia – che poi a parlar di famiglia a mammasantissima a caduta di rete pare cosa strana – che non capisco? Pure si spende tanto di quella cassa di doblone a far morto d’ammazzo, a far che non ti curo, nemmeno che ti sfamo e disseto, pure a cercar vita – questa la lessi, me ne approprio impropriamente – ad altra parte di universo, mentre qua si fa a decremento demografico coatto. Ch’io spero sempre che viene ad emozione guardar la luna, che ci si dimentica d’altro nefasto intendimento. Così rifaccio questa cosa, che a me piace assai.

“I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare senz’aver finito d’estrarre le tante casse di zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar la calcara. Cacciagallina, il soprastante, s’affierò contr’essi, con la rivoltella in pugno, davanti la buca della Cace, per impedire che ne uscissero.

– Corpo di… sangue di… indietro tutti, giù tutti di nuovo alle cave, a buttar sangue fino all’alba, o faccio fuoco!

– Bum! – fece uno dal fondo della buca. – Bum! – echeggiarono parecchi altri; e con risa e bestemmie e urli di scherno fecero impeto, e chi dando una gomitata, chi una spallata, passarono tutti, meno uno.

Chi? Zi’ Scarda, si sa, quel povero cieco d’un occhio, sul quale Cacciagallina poteva fare bene il gradasso. Gesù, che spavento! Gli si scagliò addosso, che neanche un leone; lo agguantò per il petto e, quasi avesse in pugno anche gli altri, gli urlò in faccia, scrollandolo furiosamente:

– Indietro tutti, vi dico, canaglia! Giù tutti alle cave, o faccio un macello!

Zi’ Scarda si lasciò scrollare pacificamente. Doveva pur prendersi uno sfogo, quel povero galantuomo, ed era naturale se lo prendesse su lui che, vecchio com’era, poteva offrirglielo senza ribellarsi. Del resto, aveva anche lui, a sua volta, sotto di sé qualcuno più debole, sul quale rifarsi più tardi: Ciàula, il suo caruso.

Quegli altri… eccoli là, s’allontanavano giù per la stradetta che conduceva a Comitini; ridevano e gridavano:

– Ecco, sì! tiènti forte codesto, Cacciagallì! Te lo riempirà lui il calcherone per domani!

– Gioventù! sospirò con uno squallido sorriso d’indulgenza zi’ Scarda a Cacciagallina.

E, ancora agguantato per il petto, piegò la testa da un lato, stiracchiò verso il lato opposto il labbro inferiore, e rimase così per un pezzo, come in attesa.

Era una smorfia a Cacciagallina? o si burlava della gioventù di quei compagni là?

Veramente, tra gli aspetti di quei luoghi, strideva quella loro allegria, quella velleità di baldanza giovanile. Nelle dure facce quasi spente dal bujo crudo delle cave sotterranee, nel corpo sfiancato dalla fatica quotidiana, nelle vesti strappate, avevano il livido squallore di quelle terre senza un filo d’erba, sforacchiate dalle zolfare, come da tanti enormi formicai.

Ma no: zi’ Scarda, fisso in quel suo strano atteggiamento, non si burlava di loro, né faceva una smorfia a Cacciagallina. Quello era il versaccio solito, con cui, non senza stento, si deduceva pian piano in bocca la grossa lagrima, che di tratto in tratto gli colava dall’altro occhio, da quello buono.

Aveva preso gusto a quel saporino di sale, e non se ne lasciava scappar via neppur una.

Poco: una goccia, di tanto in tanto; ma buttato dalla mattina alla sera laggiù, duecento e più metri sottoterra, col piccone in mano, a ogni colpo gli strappava come un ruglio di rabbia dal petto, zi’ Scarda aveva sempre la bocca arsa: e quella lagrima, per la sua bocca, era quel che per il naso sarebbe stato un pizzico di rapè.

Un gusto e un riposo.

Quando si sentiva l’occhio pieno, posava per un poco il piccone e, guardando la rossa fiammella fumosa, della lanterna confitta nella roccia, che alluciava nella tenebra dell’antro infernale qualche scaglietta di zolfo qua e là, o l’acciajo del paolo o della piccozza, piegava la testa da un lato, stiracchiava il labbro inferiore e stava ad aspettar che la lagrima gli colasse giù, lenta, per il solco scavato dalle precedenti.

Gli altri, chi il vizio del fumo, chi quello del vino; lui aveva il vizio della sua lagrima.

Era del sacco lacrimale malato e non di pianto, quella lagrima; ma si era bevute anche quelle di pianto, zi’ Scarda, quando, quattr’anni addietro, gli era morto l’unico figliolo, per lo scoppio d’una mina, lasciandogli sette orfanelli e la nuora da mantenere. Tuttora gliene veniva giù qualcuna più salata delle altre; ed egli la riconosceva subito: scoteva il capo, allora, e mormorava un nome:

– Calicchio.

In considerazione di Calicchio morto, e anche dell’occhio perduto per lo scoppio della stessa mina, lo tenevano ancora lì a lavorare. Lavorava più e meglio di un giovane; ma ogni sabato sera, la paga gli era data, e per dir la verità lui stesso se la prendeva, come una carità che gli facessero: tanto che, intascandola, diceva sottovoce, quasi con vergogna:

– Dio gliene renda merito.

Perché, di regola, doveva presumersi che uno della sua età non poteva più lavorar bene.

Quando Cacciagallina alla fine lo lasciò per correre dietro agli altri e indurre con le buone maniere qualcuno a far nottata, zi’ Scarda lo pregò di mandare almeno a casa uno di quelli che ritornavano al paese, ad avvertire che egli rimaneva alla zolfara e che perciò non lo aspettassero e non stessero in pensiero per lui; poi si volse attorno a chiamare il suo caruso, che aveva più di trent’anni (e poteva averne anche sette o settanta, scemo com’era); e lo chiamò col verso con cui si chiamava le cornacchie ammaestrate:

– Tè, pà! tè, pà!

Ciàula stava a rivestirsi per ritornare al paese.

Rivestirsi per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quella che un tempo era stata forse una camicia: l’unico indumento che, per modo di dire, lo coprisse durante il lavoro. Toltasi la camicia, indossava sul torace nudo, in cui si potevano contare a una a una tutte le costole, un panciotto bello largo e lungo, avuto in elemosina, che doveva essere stato un tempo elegantissimo e sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia, che a posarlo per terra stava ritto). Con somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei quali ciondolavano, e poi se lo mirava addosso, passandoci sopra le mani, perché veramente ancora lo stimava superiore a’ suoi meriti: una galanteria. Le gambe nude, misere e sbilenche, durante quell’ammirazione, gli si accapponavano, illividite dal freddo. Se qualcuno dei compagni gli dava uno spintone e gli allungava un calcio, gridandogli: – Quanto sei bello! – egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un riso di soddisfazione, poi infilava i calzoni, che avevano più d’una finestra aperta sulle natiche e sui ginocchi: s’avvolgeva in un cappottello d’albagio tutto rappezzato, e, scalzo, imitando meravigliosamente a ogni passo il verso della cornacchia – cràh! cràh! – (per cui lo avevano soprannominato Ciàula), s’avviava al paese.

– Cràh! cràh! – rispose anche quella sera al richiamo del suo padrone; e gli si presentò tutto nudo, con la sola galanteria di quel panciotto debitamente abbottonato.

– Va’, va’ a rispogliarti, – gli disse zi’ Scarda. – Rimettiti il sacco e la camicia. Oggi per noi il Signore fa notte.

Ciàula non fiatò; restò un pezzo a guardarlo a bocca aperta, con occhi da ebete; poi si poggiò le mani sulle reni e, raggrinzando in su il naso, per lo spasimo, si stirò e disse:

– Gna bonu! (Va bene).

E andò a levarsi il panciotto.

Se non fosse stato per la stanchezza e per il bisogno del sonno, lavorare anche di notte non sarebbe stato niente, perché laggiù, tanto, era sempre notte lo stesso. Ma questo, per zi’ Scarda.

Per Ciàula, no. Ciàula, con la lumierina a olio nella rimboccatura del sacco su la fronte, e schiacciata la nuca sotto il carico, andava su e giù per la lubrica scala sotterranea, erta, a scalini rotti, e su, su, affievolendo a mano a mano, con fiato mòzzo, quel suo crocchiare a ogni scalino, quasi un gemito di strozzato, rivedeva a ogni salita la luce del sole. Dapprima ne rimaneva abbagliato; poi col respiro che traeva nel liberarsi del carico, gli aspetti noti delle cose circostanti gli balzavano davanti; restava, ancora ansimante, a guardarli un poco e, senza che n’avesse chiara coscienza, se ne sentiva confortare.

Cosa strana: della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava in agguato la morte, Ciàula non aveva paura, né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in uno stagno d’acqua sulfurea: sapeva sempre dov’era; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno.

Aveva paura, invece, del bujo vano della notte.

Conosceva quello del giorno, laggiù, intramezzato da sospiri di luce, di là dall’imbuto della scala, per cui saliva tante volte al giorno, con quel suo specioso arrangolio di cornacchia strozzata. Ma il bujo della notte non lo conosceva.

Ogni sera, terminato il lavoro, ritornava al paese con zi’ Scarda; e là, appena finito d’ingozzare i resti della minestra, si buttava a dormire sul saccone di paglia per terra, come un cane; e invano i ragazzi, quei sette nipoti orfani del suo padrone, lo pestavano per tenerlo desto e ridere della sua sciocchezza; cadeva subito in un sonno di piombo, dal quale, ogni mattina, alla punta dell’alba, soleva riscuoterlo un noto piede.

La paura che egli aveva del bujo della notte gli proveniva da quella volta che il figlio di zi’ Scarda, già suo padrone, aveva avuto il ventre e il petto squarciato dallo scoppio della mina, e zi’ Scarda stesso era stato preso in un occhio.

Giù nei varii posti a zolfo, si stava per levar mano, essendo già sera, quando s’era sentito il rimbombo tremendo di quella mina scoppiata. Tutti i picconieri e i carusi erano accorsi sul luogo dello scoppio; egli solo, Ciàula, atterrito, era scappato a ripararsi in un antro noto soltanto a lui.

Nella furia di cacciarsi là, gli s’era infranta contro la roccia la lumierina di terracotta, e quando alla fine, dopo un tempo che non aveva potuto calcolare, era uscito dall’antro nel silenzio delle caverne tenebrose e deserte, aveva stentato a trovare a tentoni la galleria che lo conducesse alla scala; ma pure non aveva avuto paura. La paura lo aveva assalito, invece, nell’uscir dalla buca nella notte nera, vana.

S’era messo a tremare, sperduto, con un brivido per ogni vago alito indistinto nel silenzio arcano che riempiva la sterminata vacuità, ove un brulichio infinito di stelle fitte, piccolissime, non riusciva a diffondere alcuna luce.

Il bujo, ove doveva essere lume, la solitudine delle cose che restavan lì con un loro aspetto cangiato e quasi irriconoscibile, quando più nessuno le vedeva, gli avevano messo in tale subbuglio l’anima smarrita, che Ciàula s’era all’improvviso lanciato in una corsa pazza, come se qualcuno lo avesse inseguito.

Ora, ritornato giù nella buca con zi’ Scarda, mentre stava ad aspettare che il carico fosse pronto, egli sentiva a mano a mano crescersi lo sgomento per quel bujo che avrebbe trovato, sbucando dalla zolfara. E più per quello, che per questo delle gallerie e della scala, rigovernava attentamente la lumierina di terracotta.

Giungevano da lontano gli stridori e i tonfi cadenzati della pompa, che non posava mai, né giorno né notte. E nella cadenza di quegli stridori e di quei tonfi s’intercalava il ruglio sordo di zi’ Scarda, come se il vecchio si facesse ajutare a muovere le braccia dalla forza della macchina lontana.

Alla fine il carico fu pronto, e zi’ Scarda ajutò Ciàula a disporlo e rammontarlo sul sacco attorto dietro la nuca.

A mano a mano che zi’ Scarda caricava, Ciàula sentiva piegarsi, sotto, le gambe. Una, a un certo punto, prese a tremargli convulsamente così forte che, temendo di non più reggere al peso, con quel tremitìo, Ciàula gridò:

– Basta! basta!

– Che basta, carogna! – gli rispose zi’ Scarda.

E seguitò a caricare.

Per un momento la paura del bujo della notte fu vinta dalla costernazione che, così caricato, e con la stanchezza che si sentiva addosso, forse non avrebbe potuto arrampicarsi fin lassù. Aveva lavorato senza pietà tutto il giorno. Non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora; ma sentiva che, proprio, non ne poteva più.

Si mosse sotto il carico enorme, che richiedeva anche uno sforzo d’equilibrio. Sì, ecco, sì, poteva muoversi, almeno finché andava in piano. Ma come sollevar quel peso, quando sarebbe cominciata la salita?

Per fortuna, quando la salita cominciò, Ciàula fu ripreso dalla paura del bujo della notte, a cui tra poco si sarebbe affacciato.

Attraversando le gallerie, quella sera, non gli era venuto il solito verso della cornacchia, ma un gemito raschiato, protratto. Ora, su per la scala, anche questo gemito gli venne meno, arrestato dallo sgomento del silenzio nero che avrebbe trovato nella impalpabile vacuità di fuori.

La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all’ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto.

Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava di sopra, e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva su, su, su, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassù lassù si apriva come un occhio chiaro, d’una deliziosa chiarità d’argento.

Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.

Possibile?

Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.

Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.

Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?

Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.

Estatico cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna… C’era la Luna! la Luna!

E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.” (Ciàula scopre la luna, Luigi Pirandello)

Escapologia

È una bella soddisfazione sapere che da una finestra posso procedere per libri per birre per vecchi amori e da questi raccogliere sogni sufficienti per filarmela attraverso la porta di servizio.” (Gregory Corso)

Che da quando mi annessunai e lasciai l’altro me a farsi barchetta a sganghero nel mare in tempesta di quotidiani, mi crebbe, ad ogni onda d’asperità ch’ella affronta, desiderio infinito di ricerca di fuga, anelito di oltre mare, forse solo d’altro mare. M’aggrada sempre più farmi a parte esatta d’opposto, che resto del mondo fa a resistenza di bufera a stazza esausta ed io invece propendo per derive con accompagnamento di sacco leggero a poche cose necessarie, condotte per sopravvivenza. Poche cose esatte che furono di libro mai letto, pure lapis e moleskine per quello che desiderai scrivere ma non me ne fu dato tempo, forse neppure specifica volontà, fiasco a colmo di rosso che pare cornucopia che non s’esaurisce, fetta di pane ad olio nuovo e pomodoro, tabacco per quanto basta. Mi avventurerei a latitanza perfettissima, permanenza di clandestinità, che non vi fu verso d’essere rintracciato a cattura di carcere a fine pena mai, che mio nascondiglio fu tale che nessuno ne fece a localizzazione, essendo ch’esso s’ubicò a mondo intero, pure non vi fu smania collettiva di cattura di tal nessuno che non lasciò segnale di niente a suo passaggio. Lascerei mio altro solo a far specchietto per allodola, a carico supremo di pare Titano, a farsi rodere fegato qual Prometeo incatenato, ch’io, al più, mi faria mozzicare da zanzara impavida.

Mi farei tal viaggio, pure da fermo e fronte mare, che Ulisse parrebbe creatura sedentaria, vil cozza ad aggrappo di scoglio, Né mi feci passione altra che non sia prospettiva d’orizzonte, desiderio che sia tale a sé stesso pure ad oltre curva di mappa infinita, e che nell’oltre dove sarò troverò un altrove che pare altro che si ripete ad libitum, come suono che ci piace e che non si scrosta da testa a canticchio in perennità. E più sarà bufera più le mie vele di carta straccia e mosaico di cicche spente si gonfieranno per spinta di tal velocità ch’apparirò fermo, Meglio guarderò lontano più l’occhio indugerà su meraviglia di vicino. E più il mare dinnanzi sarà bufera, più si farà piatto a lastra, così fermo che mi darà l’idea che qualunque cosa ci si possa lanciare sopra poi rimbalza. Mi sfiorerà l’idea che posso mettermi a camminare sulla sabbia per contare quante orme riesco a fare. Mi sfiorerà, appunto, soltanto, prima di vedere dove potrò fermarmi e che basteranno per quello solo pochi passi. Il tempo non ci sarà lì. Non serve di misurarlo. Solo ne preserverò espressione intima, memoria, anzi, memorie. Scandirò e declinerò quelle passate sopra quelle dell’ora, forse persino le future, le leggerò meglio, eventualmente, nel diario del viaggio che sarà. Solo le memorie restano, la mia, con cui non m’avvedrò più di aver giocato, girandola e rigirandola tra le mani, per ore, come con un murex svuotato da un Bernardo eremita che ha cambiato casa. Quelle d’altri, di mercanti fenici e pirati saraceni, di torme di Ulissi e precipitose fughe tra le mura di castellacci sgretolati dalle onde. Quelle di avanzate improvvise di lenze ed ami alla prima bonaccia, d’urla di tonnare, di vele strappate, di cercatori di fortuna, di disperati che aspettano approdo per l’essenza del desiderio. È allora che tornerò a casa, ma senza saperlo sarò partito e non tornerò, poiché, che lo voglia o meno, il mare m’ha inghiottito dentro, m’ha fatto approdo e deriva al contempo. E non se n’abbiano a male altre creature che a mio cospetto quotidiano s’avvedranno di me in fatta finta, come serioso ed ossequioso niente che fece fuggire il sé nessuno in direzione opposta e contraria a desiderio d’immaginario a senza immaginazione.

L’insostenibile insipienza dell’essere (a ribattenza)

Ribatto, che non è mai troppo!

Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie funebri e di andare dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in strada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi metto in mare. Non c’è nulla di sorprendente in questo.” (Herman Melville, Moby Dick)

Non v’è sorpresa nel desiderare di prendere il largo, pure se non c’è meta, che è desiderio d’avventura appagante attingere a quella enorme vasca da bagno che talora s’inquieta. Anzi, se meta c’è, questa non presuppone la deriva, richiede tratte precise, che sono quelle scritte con sapiente crudeltà certosina a definizione di rotte di grandi carghi, che caricarono merci che si fecero dentro di noi varco inesorabile cacciando il resto. Lasciando recluso ad angolo infimo il desiderio di vertigine che c’è nella scoperta, nell’accettare la deriva quale opzione plausibile, financo irrinunciabile. Ché in fondo ad ogni deriva c’è una terra nuova che si fa sorpresa, ed assai più sorpresa è sapere che oltre quella terra è ancora possibile una deriva al senso dell’arrivo, per un’altra terra, poi un’altra.

Perché è possibile immaginare esistenze altre fuori dal preordinato che rende torvi e assenti, intrisi di pensiero preconfezionato, a conservazione di sotto vuoto spinto ed accumulo in testa. È possibile riprendersi l’esatto contrario del far come convenuto, prima della follia dell’annichilimento, del pensiero che muore, del sogno spento. È possibile far grandi pulizie d’inutile fardello accumulato un tanto al chilo, per esigenza d’altro che non si curò della natura d’uomo, la ridusse a cloaca massima di rifiuto a spaccio d’occasione imperdibile. Non è ancora tardi per la prua rivolta vento alle spalle, che sarà quello e l’onda a convincere di svuotare le stive che appesantiscono navigazione spigliata, scivolamenti agili e perfetti su scogli che, invece, non concessero visto di sorpresa a chi muove se stesso con carico infinito. “Getta via il ciarpame, amico! Che la tua barchetta sia leggera, e porti soltanto ciò di cui hai bisogno.” (Jerome Kapla Jerome). Al massimo qualche bottiglia di vino in più.

Del tempo che fu ce ne rimase

Nostalgia del tempo che fu? Non so, non credo, non so rispondere. Certo ci penso, poi non trovo risposte. Ché fu tempo di miseria autentica, mica quella si può rimpiangere. Ma a scanso d’equivoco, anche per correttezza nei confronti di chi si troverà qui, per scelta o per sbaglio, a leggiucchiare miei sproloqui, dirò che non so se sarò breve. Vi prometto, qualora decideste di rimanere, che mi farò più lieve di musica, pure di qualche immagine.

Saranno passati vent’anni e mio padre se n’era appena andato. M’ero rimesso in auto per tornare in lidi di Mar d’Africa per una breve vacanza. Mia sorella mi chiamò, mi disse che dovevo andare da quel tal notaio per una firma, una cosa che riguardava parenti del paese d’origine di mio padre, parenti che a stento conoscevo, con cui i rapporti erano sporadici, diluiti, meglio, inesistenti. Non ebbi tempo di sapere altro, la comunicazione s’interruppe e non vi fu verso di chiarire l’inghippo oltre al fatto che lei aveva già provveduto. Tirai il collo alla vecchia Citroen che già da tempo sbuffava di stanchezza, chiedeva l’eutanasia della meritata rottamazione, ma arrivai ad orario tale che mi resi conto di farcela a sbrigare la faccenda di famiglia. Mi toglievo il pensiero, ché l’indomani era destino di mare e pesce fresco che mi volevo garantire. Sfatto da quindici ore di guida mi presentai allo studio che stava quasi per smobilitare per la cena. Mi fecero accomodare ed il notaio mi parve simpatico. L’avrei ritrovato quindici anni dopo per firmare l’acquisto della mia casa di giù, la prima in vita che potevo permettermi, pure se ancora mi tocca di pagare. Era di proprietà di 46 persone, eredi tutti ultra ottuagenari del vecchio proprietario. All’atto ce n’erano diciassette, ciascuno con la delega di qualcun altro. Il vecchio notaio, smilzo e sorridente, pareva divertito per quel vociare scomposto. “Che lavoro faccio? – disse – Non è granché metter bolli e ceralacche, ma certe scene mi ripagano.” Nell’occasione precedente, invece, tirò fuori un librone d’atti e mi chiese se volevo che me lo leggesse. In realtà m’andava un bicchier di vino ed una scaccia, poi di andare a letto, dunque dissi che già era passata mia sorella per quanto di sua pertinenza e che avrei firmato quel che c’era da firmare, mi fidavo. Così feci, poi mi chiese se avessi due Euro. Gliele diedi distrattamente, pensando ad una qualche parcella. Quello me ne rese cinquanta tirati fuori da una busta. “L’eredità – aggiunse – fa quarantotto Euro, lei è l’ultimo”. A quel punto, perplesso, chiesi lumi, più per curiosità che per interesse autentico. Per farla breve, tal architetto del settentrione aveva notato certi vani aggrottati e diruti, lì, da quelle parti, e ci voleva far qualcosa. Per cui aveva incaricato di cercare eredi di quell’abituro e, dopo complesse ricerche ed opportune valutazioni catastali, se n’erano reperiti in numero di quasi duecento, nessuno dei quali consapevole d’essere possessore d’un rifugio neolitico. Mi misi a ridere, la stessa cosa fece lui, salutandomi con un “non li spenda tutti insieme, mi raccomando.” Ci lasciammo così. Tornai a casa e pensai a fatti di dopo guerra, roba che leggi e che, a spizzichi e bocconi, qualcuno ti racconta. Lì molti vivevano nelle grotte, pure parenti miei se ne stavano come le bestie, e non nel medioevo o nella preistoria, in un’Italia già repubblicana. S’erano assommati gli abbandoni fascisti di borghi poveri e antichi, le macerie delle battaglie del grano, i bombardamenti d’acqua sul bagnato degli alleati. Ma ci fu movimento di grandi intellettuali, da Brancati a Guttuso, Pasolini, pure Quasimodo e Vittorini, financo Montale e la Morante, mi pare, ci fossero che si diedero convegno lì, a denunciare al mondo intero che a Scicli – così si chiama il paese, oggi una cartolina illustrata a favore di Montalbano – la gente viveva nelle grotte. E fu cosa che indusse a rapide ricostruzioni, come accadde anche a Matera per illuminata volontà d’Adriano Olivetti.

Perché vi racconto questa cosa? Perché mi sovviene a mente un fatto di cronaca, proprio d’un paio di giorni fa. Una giovane donna, gravemente malata, muore di freddo dentro una canadese sotto un ponte di Firenze, Si chiamava Rossella, aveva quarant’anni, soffriva ai reni, entrava ed usciva dall’ospedale per dialisi sempre più frequenti. Dormiva lì col suo fidanzato, un senegalese più giovane di lei. Morta lì, di stenti, di malattia, non d’altro, circondata da un tappeto degli unici farmaci che potevano darle un qualche sollievo, i pacchetti di sigarette, i cartoni di vino. Morta d’indifferenza. Non m’aspetto molto da politicume che pare assai attento a farsi social, a cercar sgambetto al prossimo proprio, ma nemmeno c’è pletora di intellettuali a dichiarare che, nel 2022, quasi 2023, ancora c’è chi vive e muore in una tenda sotto un ponte. Parecchi, piuttosto, s’affermano tali a far cagnara in certe baraccopoli tirate su abusive in salotti TV.

Sacche resistenti (Allonsanfàn parte quindicesima: L’Altelier)

La rapidità dello sviluppo materiale del mondo è aumentata. Esso sta accumulando costantemente sempre più poteri virtuali mentre gli specialisti che governano le società sono costretti, proprio in virtù del loro ruolo di guardiani della passività, a trascurare di farne uso. Questo sviluppo produce nello stesso tempo un’insoddisfazione generalizzata ed un oggettivo pericolo mortale, nessuno dei quali può essere controllato in maniera durevole dai leader specializzati.” (Guy Debord, I Situazionisti e le nuove forme dell’arte e della politica)

Le arti non si parlano, non comunicano, si muovono in due direzioni precise, la narcisistica pretesa della propria superiorità l’una sull’altra, si trasformano pure, con protervia efficacissima, in manifestazioni elitarie. Pochissimi poeti ritengono di costruire dialoghi con pittori o scultori, il viceversa vale in misura eguale; rari fotografi immaginano un confronto alla pari con musicisti, e l’opposta direzione si realizza in medesima maniera, inquietante resistenza al confronto. Quando l’assioma della specializzazione ad ogni costo, del narcisismo patologico pare viene meno, è assai comune che finga solo sia così, ché il rapporto artistico non è orizzontale, frutto di dialettica, condivisione, progetto comune, diventa convincimento sacro ed inviolabile che “l’altro” abbia – si merita, meglio – una condizione didascalica, ruolo di insalatina intorno al piatto forte. Dunque, non nasce movimento transartistico, non esiste avanguardia fondata su idem sentire. Il confronto regredisce al nulla, rimane relegato a sacche resistenti ubicate forzosamente nell’oblio del no-social. Di più, l’arte diviene merce, l’artista è mercante che rimuove l’atto creativo per produrre serialità, salvo cambiarne l’identità in funzione del desiderio palesato del consumatore. Critici, gallerie, curatori non s’adeguano semplicemente, divengono artefici del declino, complici – inconsapevoli? – della regola ferrea dell’incomunicabilità, condizione fondante della specializzazione. Più l’osmosi artistica si impoverisce, più la qualità dell’arte regredisce a tratti di mera spazzatura, costruisce per sé la condizione di disperato germoglio su terre aride. Non esiste oggi possibilità alcuna che un Asger Jorn sorseggi vino in una bettola d’i ‘un paese di frontiera con Peggy Guggenheim in dialettica serrata con Debord, i Velvet Underground non vedranno più immagini warholiane sui loro dischi. Nessuno scriverà manifesti per nuove forme d’arte ché questa sarà progressivamente appannaggio di classi sociali che, al contempo, ne detengono il controllo e ne decretano la morte per asfissia da specializzazione. Nemmeno l’arte pare più espressione del tutto d’intorno, punto d’osservazione privilegiato su quello, lo evita anzi, perché se ne pretende, pure quando appare provocatoria ed eretica, una natura rassicurante un tanto al chilo. Questo credo, pure se v’è testimonianza di sacche di resistenza, tentativi di ribaltare lo stato di cose. Ce n’è di tali che portano arte nei non luoghi dell’arte, s’aprono frontiere d’emancipazione e di riscoperta d’umanità dove convenzioni non scritte non ne prevedono, che costruiscono le condizioni proprie della dialettica orizzontale tra le forme espressive, riportano l’arte ad altezza d’ogni individuo, senza pretesa di conoscerne il budget a disposizione. Che se ne parli, che ognuno lo faccia come può e quando può, ne racconti l’esistenza, ne produca l’incontro che si fa anti-rete (virtuale), filo robusto di legame autentico, che sottrae spazio a squallidi mercanti del click, del mega-evento devastatore, della prebenda familistica. L’ho fatto in due occasioni (qui e qui), per lo stesso luogo (lo conosco meglio, altre ne intravidi di interesse notevole ma non ne ho dettaglio esiziale).

Faccio tre con L’Altelier di Modica Alta, uno spazio espositivo dove non dovrebbe esserci, semplicemente anticamera d’una abitazione trasformata ad un uso condiviso, per ospitare arte, al centro d’un quartiere che non v’è preposto, popolare e vecchio, intriso di tradizione ma non abbastanza vicino a fasti da cartolina come quello più in basso. Vi si fermano rari turisti, quelli che sono adusi a esplorazioni faticose a percorrenza di vicoli stretti, dedali di stradine e scalinate erte, silenzi profondi, scarpinanti che s’attrezzano allo stupore dell’improvvisa apertura sul presepe di case. È quartiere dove la domenica presto puoi fare colazione con vino e bollito, dove puoi trascorrere serate sotto le scale d’una chiesa sempre con qualcosa da bere che non necessita di mutui a tasso d’usura a conto fatto. Basta mettere tre sedie fuori da quel posto e può fermarsi qualcuno ad occasionale passaggio, alla ricerca del belvedere con paesaggio mozzafiato, centro metri più avanti, che s’appassiona all’esposizione, si mette a discutere con lo sfondo del jazz di Miles o The Goldberg Variations di Bach suonata da Glenn Gould. Ma pure si ferma Peppe, custode dell’imponente chiesa prossima, birra e sigaretta in mano, oppure il vecchio don Angelo, un tempo abilissimo “mastro” di muri a secco, che s’accomoda con libro in mano o grappolo d’uva della sua vigna. Se capitate da quelle parti c’è ancora la mostra di cui ho parlato qui. La prossima è quella sotto (ne parlerò nei prossimi giorni delle due artiste coinvolte).

Ed a chiusura dello spazio, le convergenze evolutive, il progetto che pretende trasformazione, prosegue più giù, al fresco dello slargo, a tavola, incontro di sensibilità diverse, anche solo di chi semplicemente si trova attratto da conversazioni altre. È esperienza di sanità mentale, è progetto ricostruttivo, atto di resistenza estrema alla barbarie delle elité che pretendono pure di controllare e di guidare il senso, financo la percezione, della bellezza. Altre esperienze ci sono senz’altro, se cominciano a sentirsi, parteciparsi, creano discontinuità, la potentissima – e terribilmente fragile – società dello spettacolo non se lo può permettere.

L’insostenibile insipienza dell’essere

Alcuni anni fa – non importa quanti esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie funebri e di andare dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in strada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi metto in mare. Non c’è nulla di sorprendente in questo.” (Herman Melville, Moby Dick)

Non v’è sorpresa nel desiderare di prendere il largo, pure se non c’è meta, che è desiderio d’avventura appagante attingere a quella enorme vasca da bagno che talora s’inquieta. Anzi, se meta c’è, questa non presuppone la deriva, richiede tratte precise, che sono quelle scritte con sapiente crudeltà certosina a definizione di rotte di grandi carghi, che caricarono merci che si fecero dentro di noi varco inesorabile cacciando il resto. Lasciando recluso ad angolo infimo il desiderio di vertigine che c’è nella scoperta, nell’accettare la deriva quale opzione plausibile, financo irrinunciabile. Ché in fondo ad ogni deriva c’è una terra nuova che si fa sorpresa, ed assai più sorpresa è sapere che oltre quella terra è ancora possibile una deriva al senso dell’arrivo, per un’altra terra, poi un’altra.

Perché è possibile immaginare esistenze altre fuori dal preordinato che rende torvi e assenti, intrisi di pensiero preconfezionato, a conservazione di sotto vuoto spinto ed accumulo in testa. È possibile riprendersi l’esatto contrario del far come convenuto, prima della follia dell’annichilimento, del pensiero che muore, del sogno spento. È possibile far grandi pulizie d’inutile fardello accumulato un tanto al chilo, per esigenza d’altro che non si curò della natura d’uomo, la ridusse a cloaca massima di rifiuto a spaccio d’occasione imperdibile. Non è ancora tardi per la prua rivolta vento alle spalle, che sarà quello e l’onda a convincere di svuotare le stive che appesantiscono navigazione spigliata, scivolamenti agili e perfetti su scogli che, invece, non concessero visto di sorpresa a chi muove se stesso con carico infinito. “Getta via il ciarpame, amico! Che la tua barchetta sia leggera, e porti soltanto ciò di cui hai bisogno.” (Jerome Kapla Jerome). Al massimo qualche bottiglia di vino in più.

Rotta altrove

Gettato sull’erba vergine, in faccia alle strane costellazioni io mi andavo abbandonando tutto ai misteriosi giochi dei loro arabeschi, cullato deliziosamente dai rumori attutiti del bivacco. I miei pensieri fluttuavano: si susseguivano i miei ricordi: che deliziosamente sembravano sommergersi per riapparire a tratti trasumanati in lontananza, come per un’eco profonda e misteriosa, dentro l’infinità maestà della natura…” (Canti Orfici, Dino Campana)

Qualche volta bisogna fare rotta altrove, che un sabato d’agosto il mare non è tale, pare cittadella presa d’assalto e si fece altro ad attendere tempi migliori. L’altopiano, invece, sulle guide non c’è, non c’è bagordo che l’accompagna. Mi sono fatto decine di chilometri e non incontrai nessuno, che presenza umana invece è dappertutto, in dedalo infinito di muro a secco, pietra su pietra strappata alla terra resa fertile.

Quadrati, rombi, trapezi, cerchi ed ovali, che raccontano storie d’antiche enfiteusi, maggesi, di padri che lasciarono un fazzoletto di terra ai figli che lo lasciarono ai loro. Antichi abituri che non smisero mai d’essere abitati, che di destinazione d’uso fecero gioco bislacco, financo sepoltura di vassallo d’Eblon divenne chiesa di Bisanzio, tombe si fecero magazzini, ovili, abitazioni di chissà quante genti da mille mila anni per bagaglio d’ampia fantasia a necessità impellente. L’intarsio è roba di ordito intricatissimo, d’eleganza somma, sguardo di vertigine si spinge sinché ce n’è. E poi, d’improvviso dicchi e pieghe della crosta, per irrequietezza di mantelli incandescenti, di sommovimenti terribili, pure strapiombi infiniti, dove le acque gelide di fiumi si fecero e si fanno strada a scavare tane per trote, volpi, ghiandaie e biacchi iridescenti. C’è comanda di silenzio e pure il sole picchia con cautela, da leggera brezza si fece persuadere a non farsi calor bianco, che il maestoso carrubo, l’ulivo saraceno secolare, un gelso di frutti maturi, comunque, vigilano che creature abbiano ombra a sufficienza. Financo il Pino d’Aleppo, spilungo e sghembo, s’affaccia a bastione calcareo, fa capolino oltre il sughero di quercia, tra cento anfratti che nascosero velli d’oro e trovature in fondo ad arcobaleno. L’asfodelo richiama avi a perdersi di memoria, che pare tutto ingresso a terra di Lotofagi, che smarrisci tema di ritorno. Quella è terra delle fiabe, terra d’apparenza sola, che di colori si fece tavolozza densa, e non si curò che di chi ne seppe cogliere l’indispensabilità d’ogni cromatismo.

Senza titolo, per scelta indotta

L’uomo non è granché vicino ai grandi uccelli e alle bestie. Vorrei proprio essere quella bestia laggiù nel buio del mare.” (Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare)

C’è mare, pure c’è altro mare, che quello sempre lo stesso non pare. Sfugge allo sguardo che lo distoglie e si contorce d’abbandono e ad esule e migrante fa strada in salita, di vertigine si tinge con l’onda che si schianta a fragore e grido di disperazione. C’appartiene alle genti di terre che toccano il mare, a favore di sguardo, destino preciso di farsi a trasporto di bonaccia che mai rimanemmo ferme, nascemmo con schiuma di sale a scorrimento d’arteria. Che ci affratelliamo per forza a compiacenza con genti simili, che c’è ancora altra sponda da lambire a chiglia di barca sgangherata, a vela di strappo, a sforzo di braccia e rete lacera. Pur a star fermi siamo di movimento a mare aperto che quello non s’accheta solo d’attesa.

Gli altri migravano: per mari
celesti, supini, su navi solari
migravano nella eternità.
I siciliani emigravano invece.
Alle marine, nel fragore illune
delle onde, per nuvole e dune
a spirale di pallide ceneri
di vulcani, alla radice del sale,
discesi dall’alto al basso
mondo, figurati sul piede
dell’imbarco come per simbolo
della meridionale specie,
spatriavano, il passo di pece
avanzato a più nere sponde,
al tenebroso, oceanico
oltremare, al loro antico
avverso futuro di vivi.

(Stefano D’Arrigo)