Dipartenza a tempo parziale e poco (si spera)

E di cosa dovrei scrivere oggi, di quegli altri morti d’annego che ormai ad assuefazione collettiva non paiono più qualche decina ma solo trafiletto a cronaca locale, di bomba che diventa superbomba per partecipazione corale a guerra di corsa ad arma, di acqua che s’asciuga per termosifone acceso, o ad imbarazzo per sovvenzione a banca di speculo forte? Scrivo solo che fra poco smetto di scrivere per qualche giorno che c’è spiegazione precisa a questo. Pure, però, a voi vi leggo e se posso lascio commento. Ma io, adesso non posso più di tanto che altro me m’ha catturato a castigo di suo imperituro impegno tutto a fronte di tutto.

Insomma, egli – altro me dico – s’è messo su calendario cose da tremore di vene ai polsi che s’affatica a sindacato, a comizionzo e conferenzuccia a dove lo chiamano, si presenta libro suo (che almeno si paga qualche spesa per il resto che sempre fu gratis et amore dei), scribacchia per questa e quella rivista di cosa serissima, si affanna per lavoro di scuola che pare si versa tale lavoro da cornucopia degli abissi, pure se pare tela di Penelope che non v’è né fine nemmeno costrutto per scuola a similitudine d’ufficio disbrigo pratiche. Ed io, che m’ero ricavato spazio di nessunitudine definitiva per libertà conclamata a bloghettino di sassi che parlano, vengo trascinato in siffatto modo ad affanno imperituro. Ma egli pure, a girar come trottola, a mangiar panino al volo a fronte di consumo di fegato e riverso di bile, a non farsi fermo se non a semaforo per trasbordo da parte ad altra, a ricavar spazio a muraglione di tempo per caffè e sigaretta al massimo, pure non sposta virgola, al più mette punti ad esclamazione di disfatta autentica. E io, a notte che fu inoltrata, gli dissi che va bene, che mi limito a scrittura a quando passò la buriana e lo seguo, ma feci appuntino preciso preciso, che riporto qui tale a come lo concepii. A vedere bene – che mi rivolsi ad egli con tu perentorio di confidenza, crescemmo e convivemmo insieme, financo in corpo medesimo sì da che venne vagito a nascita in illo tempore – ti sbatti e ti risbatti a consapevolezza che il mondo mai cambiasti, nemmanco mi pare ce la farai di pelo appena, di più t’accollasti tale mole d’incombenza a costo esattamente zero, pure con carico di debito conto terzi che finisti quasi a far fame. Ma non t’avvedesti di fatto che c’è capitalismo brutale e cinico? E se tale energia a spreco si volge, pure a tempo determinato, ad accumulo di doblone, si può poi mollare tutto e farsi bilocale frontemare a località deserta, magari isolonza a scarsa o nulla di popolazione. E ci si va ad armo di canna, e zampirone, che a lanciar lenza con boccone amaro per sfratto di sfrattante Bernardo l’eremita c’è speranza che ci si consola con cena di cerniotto e sarago.

Che a contorno ci si pensa con armo d’orto a produzione di pomodoro che per sale di vento si fece a meno di condimento. E unico contatto con mondo fu con corriere per consegna di librino ogni tanto e per arrivo di grande nave cisterna per consegna di vino rosso. Che musica ce n’è e pure abbastanza da recar con noi e il resto fu pace, scoglio, sale e vento, infinito di sguardo, silenzio di tempesta.

Manco a dirlo, mi ignorò. E comunque, se ce la faccio torno tra qualche giorno. Fate cose buone voi che passate di qui, che io mi dimenticai come si fa.

Scorreva piano

“Dalla creazione del mondo, la barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progresso. Nel corso dei secoli, l’abbiamo soltanto ricoperta con una mano di vernice, nient’altro.” (Jack London)

Pure vi fu scoperta clamorosa che quella mano di vernice non servì solo a ricoprire la rugginosa natura dell’uomo, la sua permanente decadenza allo stadio più degenerato, era pure tossica. Ché pare, l’uomo, l’unica creatura che anela al proprio stesso sterminio ed ogni animale, dalla più screanzata delle meduse che sbeffeggia il tutto d’intorno coi suoi tentacoli urticanti, sino all’elegante zebra, guarda quella strana creatura con sospetto in permanenza, quasi vi si legge nello sguardo desiderio salvifico che faccia in fretta a condurre a termine la sua opera innata, a sospiro di sollievo di resto del creato. Me ne sovvenne certezza di detta mia sensazione ad osservazione precisa del fiume che mi scorre ai piedi e che ora non vedo più, rigagnolo putrescente lì dove un tempo fece storia di memorie dantesche, sostentamento d’interi popoli. Oggi, a consultazione precisa di corrente sua in forma di sputacchio, non condurrebbe bottiglia con messaggio al mare mio adorato. Si rifiuterebbe per stanchezza di sostenere peso ulteriore, nemmeno, credo, mi concederebbe la promessa di provarci che m’ascrisse alla specie che lo prosciugò e ridusse a vena d’infinita stanchezza. A far quattro chiacchiere non credo basterebbe a far cambio d’idea, che par rassegnato a lambire civiltà morente, e se anelito di vita vi scorre dentro è pure ad esso quello di speranza d’estinzione di massa di suddetta specie di barbara essenza.

Oggi lessi con frastornata distrazione ultime notizie, tali che mi fecero venir voglia di farmi fiume secco pure io. A guerra non c’è scampo che se taluno vuole e propone pace è a venir d’orticaria che viola patto precostituito, e a corsa ad armo di bombarda tutti si fanno a chi primo arriva che non si dica che non partecipammo a destino glorioso d’estinzione di massa, quale dinosauri goffi di ubriacatura. Altro disgraziato a fascio morì d’annego che notizia non fu tale più, a giornalettume preoccupa che non si giunga a pace e che, dunque, s’intraveda scorcio per chiacchiera su banca che quella pure affoga per mio ostinato ed incomprensibile chissenefrega. C’è promessa di salvataggio per caveau che a farla breve si riempie di provento di bomba, per morir d’annego non si fece barriera di salvataggio che liberissimi si è a non partire per morir di fame o sotto colpo di cannone. E a secco di fiume risposi che a barchetta per navigazione paciosa sostituirò infradito che bastò a sostegno di corrente.

“Al largo, cielo e mare erano saldati senza una giuntura e nello spazio luminoso le vele conciate delle barche che salivano con la marea sembravano immobili fastelli rossi di tele appuntite tra luccicori di aste verniciate. Sulle rive basse che correvano piatte a perdersi nel mare si era posata una nebbia leggera.” (Joseph Conrad) Quella, la nebbia, si fece d’improvviso pesante come cintura di piombo.

Ponti di parole

Ci appartiene quello che scriviamo? Chi lo sa? Penso che ognuno risponda per sé, decide cosa farne delle sue parole, di quelle che dice in confidenza, di quelle che urla ai quattro venti, di quelle che scrive in lettera riservata, o libera nella rete (che ossimoro vertiginoso). Io sono nessuno, dunque le mie parole sono di nessuno, chi le vuole se le prenda pure, che le scrissi liberamente, dunque sono libere, non anelano a proprietà. Vado un tantinello di musica, così, come atto liberatorio.

Scrivo per desiderio di rendere libere le parole, consentire loro di volare. Talora ne trovo già scritte, che volano da altri quaderni, e che somma soddisfazione quando paiono esattamente quelle che avrei voluto scrivere io. Capita che le trovi esatte e giuste nel momento stesso in cui concepii quello stesso pensiero, e chi se ne frega se non ne ebbi l’imprimatur, che a me “l’ho scritto io” non importa. Proprio ora m’attrezzavo a buttar giù una cosarella e la trovai d’altro. Che meraviglia le convergenze tra gente lontana nel tempo, nello spazio.

“Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l’ evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell’ omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poichè con le isole il punto è questo: sono di per sè parchi naturali e riserve dove lo “specifico” indigeno resiste più a lungo: sicchè rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale… Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benchè non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l’ Alitalia e l’ Autostrada del Sole. Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. Proprio su la Repubblica (31 agosto) Arbasino ci attribuiva una smania di staccarci dalla nazione e ce ne concedeva licenza. Obietto che, dai tempi di Salvatore Giuliano, fra le maschere sanguinose della mafia il fantasma del separatismo non è più ricomparso: e che oggi un eventuale referendum secessionista non raccoglierebbe in Sicilia più di mille o duemila suffragi… La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d’ Italia, dall’ Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d’ Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina… Con tutto ciò, come negare l’ esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’ esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l’ aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.” (Gesualdo Bufalino)

La catena

L’isola è già un ponte, ché s’è messa in mezzo tra blu e blu, si fece porto salvo per chi cerca altra sponda ed essa fa trampolino d’accoglienza, a limitar morto d’annego per viaggio di disperazione. Da una parte s’approda dall’altra si riparte, questo è destino d’isola. S’io tolgo blu da una parte, quella a quella parte dove blu venne meno appartiene e manufatto di cemento fu come catena a definire proprietà e prevalenza. Così ponte non unì, piuttosto disse è roba mia, dunque da qui non si passa. Ma di ponti già dissi, ma di quelli che reputai giusti, che tali altri mi parvero pretesto ancora di separazione.

Nazarene bianche, Nazarene nere.
Del fiume a le rive
si guardan da tanto i conventi,
si guardan con occhio di vecchia amicizia
le piccole torri, una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Due volte s’incontran, le bianche e le nere,
sul ponte, sul ponte che unisce i conventi,
li unisce da tanto per vecchia amicizia,
le piccole torri si guardan ridenti
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
Le piccole chiese al crepuscolo s’aprono,
ne sortono leste le suore ed infilano il ponte;
nel mezzo s’incontran, s’inchinano
le bianche e le nere,
si recan l’un l’altre a la piccola chiesa al saluto;
vi fanno una breve preghiera
e leste rinfilano il ponte.
Di nuovo s’incontran, s’inchinan le file,
una bianca e una nera,
le suore s’incontran la sera,
la sera al crepuscolo.
” (Aldo Palazzeschi)

I ponti li fecero generosi operai, pietra su pietra, bilichi delicati, arcate sorprendenti, manovalanze esperte di volontà a congiungimento di sponde di fiumi impetuosi, ed isole che divennero promontori. I ponti furono di progetto fatti ad unire da geniali architetti, su valichi di frontiera, sentieri di capre, terreni d’acquitrinio, paludi di creature fameliche che non fecero più paura.

Furono fatti di povere corde, di barche impilate, legni e pietre raccattati in un qualsiasi dove. Pure ce ne furono d’ingegnosi, che resistettero a millenni di barbarie, taluni si fecero immagini da cartolina, simboli, sperimentarono ardite soluzioni d’equilibrio. Tali altri furono fragili, si fecero a crollo drammatico, ma divennero metafora sorprendente di necessità di consolidamento di punti di contatto, allarme che non se ne mettesse a discussione l’esistenza, non se ne facesse per distrazione occasione d’abbattimento e rovinosa caduta. Solo nelle guerre, – allorché scorre il sangue di vinti e vincitori – come nella barbarie, s’abbattono i ponti.
Talora vi sono ponti che di progetto fecero a meno. Oceani a navigazione libera non sono forse ponti? Vette elevate non ebbero esse stesse, che d’animo impervio si tinsero, capacità di congiungere più che di far di divisione, a consentire all’occhio la curiosità dello sguardo che vaga sino all’oltre? Non furono financo i deserti nati quali ponti per essere attraversati in lungo e largo, per giungere d’oasi ad oasi, coste su coste? Non ebbero isole lontane sembianza di ponte, che fecero da ristoro per navigazioni senza precisa meta che non fosse di esclusiva scoperta?
Questa è dei ponti la natura più intima, l’unica necessaria, siano i ponti che abili manovalanze eressero dal nulla, solo armate di mani e sogno d’andare, desiderio di viaggio e sorpresa, siano anche fatti d’oro di nemico che fugge, e i ponti che non paiono ponti, come le vaste pianure, i grandi monti, le sterminate praterie, i mari infiniti. La storia degli uomini è la storia dei loro ponti, di quelli che costruirono, di quelli che elessero a tali, quelli che non ci furono. E se oggi quei ponti, come canali e fazzoletti di mare, qualcuno vuole chiudere, abbattere, doganare e seppellire, allora quel qualcuno nega volontà d’umanità di mille mila anni, di superamento di costrizione, della mente di trovare legittimo congiungimento con l’altrove. Dunque, nega se stesso quale ad appartenenza all’umana genia, se ne espulse, si mise a gattabuia e manco se ne rese conto, mentre provava ad assembrarci pure gli altri che si fecero gregge mansueto.

Isole insulari

E visto che si fa festa grande, che ponte farà a cessazione di cosa d’isola, vi riciclo cosa antica, per memoria di perduto amor di terra matria che s’appresta a diventar cosa altra, praticamente ferma a gancio, incementata che non ebbe abbastanza disgrazia, pare, che non gliene si doveva affibiare altra.

Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio”. (Manlio Sgalambro)

Mi capita tutte le volte che me ne vado da lì, a valigie non ancora pronte che strugge d’essere isola forse pure io.

Aveva voglia Nisticò a classificare i siciliani in siciliani di scoglio e di mare, gli uni abbarbicati al substrato come una cozza, un dattero, un riccio spinoso, incuranti della natura claustrofobica dell’appartenenza. Gli altri, con la valigia in mano, fermi non ci stanno, e appena la prima brezza lo consente, prendono il largo a vele gonfie. Ma tutti si portano dentro la stessa insularità, che è condanna del viaggio e nostalgia struggente per il porto di partenza. Solo che ai primi arriva subito, ci soffrono di più, basta che si mettano poco fuori l’uscio di casa, si vadano a sbrigare un documento nel capoluogo. I secondi, al più, con la lacerazione del distacco ci si sono abituati a convivere. Ma tanto tornano, prima o poi vedi se tornano e non passa minuto che con la testa non si organizzano per farlo. Mi pare che questo desiderio di ritorno sia proprio il risultato della paura atavica che l’isola non la ritrovi più, che qualcuno, mentre ti allontani giusto un attimo, se la possa portare via. Forse lo tsunami o li turchi, anche se – ed è evento inconfutabile -, qualunque cosa arriva, dopo un primo attimo di sgomento, gli si apre la porta di casa e, passati al più cinque minuti, ti scordi che è arrivata allora allora, e ti pare che sia lì da sempre, ci fai l’abitudine. Tuttavia, poiché non si sa mai ed a scanso di equivoci, metti in giro strane voci, che lì ci sono i Lestrigoni, i Lotofagi, forse Circe, che giù per lì Scilla e Cariddi hanno un brutto carattere, che quei sassi, isole essi stessi, ce li lanciano Ciclopi a basso tasso di socievolezza, e che le figlie di Kokalos avvelenano gli ospiti. Di più, se per ragioni di modernità te ne devi andare per qualche giorno, che ne so, a Poggibonsi, San Giovanni in Persiceto o a Cormano, saluti parenti e amici, fazzoletto in mano, come se stessi andando a sfidare i cannibali del Borneo.

Ad ogni buon conto, mettetela come vi pare, uno che nasce su un’isola sta già viaggiando. Perché il mare, tutto intorno, fermo non ci sta, e si muove di correnti e flutti, in definitiva, viaggia conto terzi. Non merita citare chissà chi per comprendere che il viaggio è una precisa connotazione antropologica, e pure se ha talune accezioni di ingegneria nautica, non è solo uno spostamento da e per. Alla fine “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)

Nell’insularità è connaturata la pigrizia più atavica, quella persino trascendente, che si fa connotazione definitiva ed archetipo illustrativo di genti. E del resto che ti agiti a fare se sei proprio dentro il gorgo più gorgo, il tutto che si muove permanentemente? Fatica sprecata. Per altri quella è ignavia, accidia, in realtà è saggia contemplazione del mondo che non sta fermo, dunque perché inseguirlo nell’apoteosi dell’operatività? Il mare vortica così tanto che ti fa dono ora del primato di paradiso terrestre, ora d’inferno in terra, né fu creato per compiacere chi vi si trova circondato senza scampo; inutile cercare di opporvisi. Se serve qualcosa, servissero tre secoli e più, prima o poi un’onda bislacca te la schiaffa davanti, spiaggiata a pancia rivolta al sole. Né si tratta d’un fiume che scorre in un unico verso, cosicché sai già cosa t’arriva a valle se conosci il monte. Il turbinio è pluridirezionale, dipende dalle stagioni, talora dall’umore nero della burrasca o talaltra accondiscendente d’un venticello virato a bonaccia. Sfidare quel tutto che si muove per provare a spostarsi in altra direzione è atto temerario. Ed in tutto quel bailamme agitato meglio star fermi giacché, prima o poi, da qualche parte arrivi, e se non arrivi – quella data parte, intendo – presto o tardi, t’arriva lei. Ma l’isola, quella, da dentro non te la togli nemmeno se ti metti a pizzo di montagna. Non c’è niente da fare, t’entra in valigia, col sale e tutto il resto.

Senza titolo (per vaga insofferenza)

Quando sono stanco delle solite facce,

quando non c’è il vento giusto per partire,

quando non ho voglia di ascoltare inutili parole,

cammino e me ne vado lontano,

mi siedo fra le rocce che guardano il mare…” (William Butler Yeats)

Fu fortuna che non ebbi la TV da tempo immemore che ciò mi impedisce di guardarne d’altre facce, quelle torve della brava gente, che si commuove e s’illumina d’incenso, poi digrigna gengie di rancore al tale che chiede obolo a carrello di spesa. Mi viene di pensare che non ho tregua a dove mi giro giro che non appare imbecille di saccenza rigenerato, colui o colei che tutto sa e parla senza sapere di ciò che è giusto per tal de tali che patisce ad oltranza. Trova cura medica per pandemia, si fa mediatore a far di guerra più guerra ancora e, ad indice teso che pare escrescenza fallica ad ingravidare mondo intero di seme di sublime verità, categorizza nemici ad ogni dove, che tali sono se patiscono fame e a miseria imperitura s’affratellarono. Detesto tal brave persone che s’acchitano a dolore che si fecero a perdita di glorioso conto bancario e pure svizzero, che tremolio di ginocchia s’era fatto a rilevamento di scala Richter.

Detesto schifezze che non trovano schiavo a giusto prezzo che è prezzo a tozzo di pane e detesto chi, a sommo gaudio, si fece orgoglio d’aver trovato prezzo più basso a cassa di supermercato che tale fu solo a stillar ultima goccia di sangue a disgraziato che non morì d’annego. Detesto corone di fiori e scintillii d’urgente intervento contro trafficanti e di converso si fa strada aperta a superiore necessità che sia ad assoluzione collettiva rubo a quattro ganasce e frodo stato e a disgraziato che tira fiato coi denti. Detesto chi s’affila lama d’ordine e sicurezza e abbandona città e strade a vandalica esecuzione di saccheggio a mano di decerebellato per palla che gira. Detesto faccia aulica che benedice svolta green e simposio fa da parte all’altra di globo (terracqueo?) ad aereo a reazione che consuma fossile a prezzo di sfamo dieci villaggi di sud più sud per anno intero. Detesto singolar banchetto a mille mila persone a calca disordinata e vestito a festa che parlano per non parlare e ascoltano solo se stesse che hanno orecchia a boomerang. Detesto grandi democratici che dissero a povero disgraziato ci penso io che non fecero un giorno a saltar cena e mai si preoccuparono di sentir voce di grande massa di sciagurato e consentirgli pubblica parola a dire “io vorrei questo”. Detesto che il mio scoglio sia troppo lontano che pare che feci tradimento a mia lontananza da onda di risacca. D’ultimo sono stanco pure della mia faccia che specchio non fece fine di TV, ancora giace intonso, non so fino a quando che feci precisa minaccia a non far da pappagallo ad immagine scomposta.

La guerra è finita

Ora che pure la Svizzera è a tremore, frontiera extracomunitaria s’apre pure a nord che è fatto necessario pure a fronte alpino alzare muro elevatissimo, quasi quasi pure blocco navale a bosco fitto. Comunque m’è a memoria altra cosa che scrissi, a testimonianza che di banca che scoppia, che pare sotto a bombarda di guerra, ne so cosa poca e ad altri m’affido.

Lo spettacolo è il brutto sogno della società moderna incatenata, che infine non esprime che il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il custode di questo sonno (…) Lo spettatore più contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio.” (Guy Debord)

Che vado ancora di musica, ch’è meglio.

Io, con le cose di finanza, ho poca dimestichezza, praticamente so che esiste la vil moneta, ma lei mi evita, e pure io non la cerco che non saprei dove. Poi, da che mi sono fatto prof, questo rapporto è divenuto assai più evanescente, ancorché la cosa sia a concreta spiegazione in mutui più spese varie.

Che l’ultima volta ch’ebbi a che fare con banca, mi ci trovai a sportello con direttrice una zia, donna devota, cortese e garbata che, come altre congiunte, causa mia scelleratezza riguardo alle cose del mondo, ma anche alle vicende mie di spirito, mi diseredò ad libitum. Tra le tante nefande cose da me compiute, di cui mi rendo conto e mi dolgo con desiderio di contrizione prolungata, vi fu quella che feci allora allorché la pia donna mi invitò ad accomodo nel lussuoso ufficio di cui era comandante suprema. Premetto che, a quel tempo, operando in qualità di pennivendolo, godevo di miglior fortune economiche, tanto da potermi garantire, qualora avessi insistito, ruolo su questa terra qual ricco e spietato, pari a Conte di Montecristo. Optai, com’è noto, per depilazione da pelo allo stomaco, finendo per professoreggiare in attesa di rinnovo contrattuale come deserto attende pioggia. Ma in banca c’ero per versare assegno di lauto compenso professionale per scrittura a cottimo, che Ella, la pia zia, mi richiamò all’ordine, che parevo – mi rimproverò – che avessi soldi a libretto postale, come becero pensionato a procaccio di favori di cassa mutua. Mi paventò destini aulici di arricchimenti sorprendenti con colpi d’obbligazioni, titoli e derivati. Io, irrispettoso, egoisticamente legato al tirare a campo più che a destini fulgidi, optai per chiusura di conto immediata con esito finale del risparmio a libretto postale. Poco importa se la banca, da lì a poco, si sorprese gambe all’aria, che questo è prezzo che si paga a progresso, che la pia zia, piè veloce, si sottrasse a disfatta con pensione d’anticipo. Riconosco, però, virtù di competenza d’alta finanza a taluni che non siedono ad alto scranno. Tra questi, il mite Giorgio, storico centralinista di Camera del Lavoro, lo è a spanna sopra gli altri. Che con lui, bicchier di vino e fiasco poco distante, cercai di capire se guerra fosse. Ch’egli mi disse di no, che non sarebbe stato necessario che l’obiettivo era raggiunto, la guerra già vinta ed il nemico domo. E io, già ad elmetto, mi schernii per notizia di spiazzo. Che mi spiegò che in realtà virtuale, la guerra annunciata a reti unificate, significava schizzo di prezzi, dunque casse di stato piene ad IVA ed accise d’ogni bene, a ripianar debiti da pandemia, a risalita di PIL per bonus a bandito maggiore, per sgonfio di bolla. Che mi sfuggiva chi fosse il nemico domo, ch’egli, saggiamente rispose: “non t’avvedi di colpo d’obice ad alzo uomo ricevuto a buca della lettera e a cassa di spesa?”.

La scoperta dell’acqua calda, ovvero l’alternativa a fave e vino.

E al fine venne incredibile scoperta d’acqua calda che tale mi pare fu esternazione lucidissima che dice che migrante parte causa mercenario. Eccerto che così fu, che se c’è mercenario c’è guerra, ma anche è vero che mercenario è tale che fece guerra a doblone di concessione di potentato, sia stato grande e grosso che multi iper sodalizio di caveau pienissimo per ulteriore riempimento a sfrutto popolo e terra fino ad esaurimento scorte. Pure, se pago mercenario, non paio troppo ad interesse se c’è vittima collaterale, e vittima collaterale non c’è solo se questa scappa.

Pure è vero che potentato non è uno solo, taluno altro si conosce bene ma non si dice che stimola PIL per acquisto di bomba a fabbricazione civile per milizia non proprio autorizzata e dittatore vampiresco. E poi se c’è guerra pare che gente scappa che non ha ombrello adatto a protezione di bomba che è cosa che fa stupore e pare complotto di Spectre. Dunque, se voglio che non parte prendo ad orecchio preciso potentato e gli dico ora basta che se no faccio che ti metto a far pulizia forzata a discarica di suburbia e ti sequestro bene per pagamento di mercenario.

Mercenario non si paga per ammortizzatore sociale che creo posto di lavoro.Io, se voglio che s’aggiusta rubinetto d’acqua calda non chiamo mercenario ma idraulico, anche se l’ultimo che chiamai si prese soldo che parve mercenario che va a far guerra. La prossima volta mi faccio tutorial di riparazione e sistemo da solo tubatura ad avanzato disfacimento.

Stavo facendo divagazione che, mentre banca soffre, – che non ci sia legge d’eutanasia per limitare sofferenza mi pare cosa poco civile a caso specifico – mi capitò a ricordo recente che taluni mi strinsero e mi fecero a persuasione che era ora di andare a provare ristorante di cosa tipica che fa collezione di stella di firmamento. Che ci andai a ripetuto sollecito e ad accusa di asocialità, che la prossima volta me la prendo a capo cosparso di cenere tale accusa. E mangiai per pagamento con tasso di mutuo a strozzo, cifra da capogiro da far nutrimento a profugo a centinaia. E mi venne servito piatto grande quanto portaerei che recava a colorazione di fondo ipotesi d’essenza di purea di fave quale tradizione volle chiamarsi macco. Io se la tradizione volle così non lo so, ma fu tradizione negletta ch’io non conobbi. Poi, a beveraggio, sempre per cifra di PIL di paese a disperazione, mi fu concesso disseto assai parziale con tal ipotesi di vino che colorava appena fondo di calice che a dimensione pareva betoniera. Io, asociale contro modernità e spesa social, decisi per fare concorrenza precisa a siffatta prosopopea di esaltazione del gusto e misi a mollo a giorno prima trecento grammi di fave secche. A giorno dopo, a pazienza di certosino, le sbucciai una ad una, poi, dopo soffritto di cipolla, le versai con acqua precisa a pentola per cottura lunga sino a sfaldamento che accompagnai con altrettanta acqua che non s’asciuga tutto, sale quanto basta. Poi versai a piatto ancor caldo la purea ottenuta a sfamar tribù, detta – questa si – macco di fave, con trito finissimo di prezzemolo, due foglioline esatte di menta e filo d’olio.

Aggiustai pure di peperoncino arrabbiato a guisa arma di distruzione di germe. Accanto fetta di pane su fetta di pane con olio di mistero assoluto per profumo a ritenzione. Pure mi ci bevvi sopra vino rosso che sa di sale e terra che non fu capace a farsi imbottigliare, ma che tinse budella in modo irreversibile e non solo fondo di calice. Tanto più che io non ebbi calice mai e mi feci a svuotar damigiana con secchiate di bicchierozzo preciso di cantina.

E mi venne da pensare che tali che fanno guerra e profugo a milione di milione, morto ammazzato e d’annego ad ogni dove, che pensarono a sfrutto schiavo e ad arricchir banca che esplode, mai si fermarono a farsi macco di fave con vino giusto. Che se a quello avessero teso, e non a farsi carnefici d’umanità, se taluno rischia annego lo vanno a prendere per desiderio profondo loro che è quello di condividere fave e vino.

Fluidità di salvagente.

Siamo fluidi, acqua che scorre. Ora è qui, fra un qualche po’ se ne va da altra parte che non la vedo più, quella di prima intendo. Io l’acqua l’avrei lasciata stare, ma non mi veniva altro di meglio per esprimere pensieri comunque confusi, pure, a crisi climatica, è a sottolineatura che questa cosa dell’acqua è metafora e basta. Che è così che siamo, scorriamo per gravità, ma tale cosa, la gravità, non pare va nella direzione sua giusta, nemmeno dove la porta il cuore, l’occhio o la ragione, che pare che c’è direttorio che dice “va di qua, anzi no, va di là!” Io, al massimo, vado di musica.

Insomma, siamo sempre a far discussione di salvataggio, però facciamo spesso di cosa altra, ché il morto d’annego un attimo può attendere, mica si può parlare sempre di quello. E poi, a caso ultimo, che c’entriamo se è morto d’annego che non ebbe rispetto per linea ritta che tracciammo a lapis su carta precisa di globo terracqueo, che quella parla chiaro e dice che fece morto da parte sbagliata, dunque non è a competenza che si butta salvagente?

Ma siamo fluidi, liquidi come chiare, fresche, dolci acque, e c’è ora cosa più impellente che occorre a salvataggio di subito e adesso, che quello fece a metto d’accordo tutti, i belli e i brutti, ché lì non si vide confine esatto, è cosa che dogana non è data a elevazione, nemmanco ci fu petizione a costruzione di muro elevatissimo. E si, perché banca di silicone, che è valle che rese globo terracqueo assai fluido, dunque più globacqueo, pure se a secco di cosa esatta d’accadueo, tracima da serbatoio suo e se ne va a giro di mondo che rischia che fa effetto domino. Ma qui nessuno dice vai a rovinare a casa tua che non si parte da là. Ma come, ancora, ma non s’era detto basta? Che se c’è cristoncroce a disperazione che annega si dice io che c’entro, se affoga banca c’è crisi globale e tutti a straccio di vesti. Sarà che sono scemo e non capisco. Si, lo so, c’è il mercato, l’impresa e quella dà lavoro… ma non sarà che c’è tasso d’avidità un tantino che spinge a certe operazioni che paiono da scafisti a carico di disgraziato? Che mi racconta collega che lui va in pensione ma che la liquidazione subito lo stato non gliela dà, pure se sono soldi suoi. Ma stato caritatevole dice che ha fatto accordo con banca precisissima di stupefacente solidità, che i soldi te li dà lei pure se sono soldi tuoi e tu gli paghi interesse cospicuo. Ma quelli sono soldi suoi e se se li deve pagare mi pare cosa da strozzo. Ma io di queste cose elevatissime ci capisco poco. Pure poco ci capisco che uno si fa mutuo e gli dicono questa è rata, un po’ cambia, ma si spera che è a cosa di meno e invece si fa rata da sequestro di persona. Dunque, operazioni tali e altre, pare si configurano come salvagente. E quella, banca, intendo come sistema, annega uguale. Quando verrà tempo mio dirò aspetto tempi negletti di stato democratico per liquidazione, e a banca faccio tiè, che il salvagente non glielo compro. Però poi, a vedere bene siamo a gettare salvagente sempre a codesta strana gente che non ebbe nome, o da qui o da lì. Pure ce lo gettiamo noi detto salvagente, che ce lo frugano a tasca vuota. Che è gente che trascina ad annego tanti altri a disgrazia definitiva per mondo intero. Insomma, se a scafista dico che lo becco, a questo che gli devo fare? Si, lo so, questa è gente che davanti alla giustizia soffre assai di più che povero derelitto. È che siamo fluidi, passiamo da cosa di passione ad altra che ci interessa di più, ma io, d’ultimo, è meglio che mi concentro a fluido di vino rosso, pure qua ho messo un paio di canzoncine che mi tengo ad impegno altro di mente per mezzoretta buona e mi sbuccio le fave secche.

Oltraggiosa partenza

Ondeggia, Oceano nella tua cupa
e azzurra immensità
A migliaia le navi ti percorrono invano;
L’uomo traccia sulla terra i confini,
apportatori di sventure,
Ma il suo potere ha termine sulle coste,
Sulla distesa marina
I naufragi sono tutti opera tua,
è l’uomo da te vinto,
Simile ad una goccia di pioggia,
S’inabissa con un gorgoglio lamentoso,
Senza tomba, senza bara,
senza rintocco funebre, ignoto.
Sui tuoi lidi sorsero imperi,
contesi da tutti a te solo indifferenti
Che cosa resta di Assiria, Grecia, Roma,
Cartagine?
Bagnavi le loro terre quando erano libere
e potenti.
Poi vennero parecchi tiranni stranieri,
La loro rovina ridusse i regni in deserti;
Non così avvenne, per te, immortale e
mutevole solo nel gioco selvaggio delle onde;
Il tempo non lascia traccia
sulla tua fronte azzurra.
Come ti ha visto l’alba della Creazione,
così continui a essere mosso dal vento.
E io ti ho amato, Oceano,
e la gioia dei miei svaghi giovanili,
era di farmi trasportare dalle onde
come la tua schiuma;
fin da ragazzo mi sbizzarrivo con i tuoi flutti,
una vera delizia per me.
E se il mare freddo faceva paura agli altri,
a me dava gioia,
Perché ero come un figlio suo,
E mi fidavo delle sue onde, lontane e vicine,
E giuravo sul suo nome, come ora.

(George Byron)

Quando partii fu strazio autentico, che a non farlo sarei rimasto sepolto. Eppure non partii nemmeno con bomba sulla schiena, finsi di farlo ché mi piaceva. E il distacco fu dolore lancinante, che non passò giorno che non pensai al mio scoglio, che non ebbi intenzione di chiacchiera con amico antico, che non ne passò nemmeno altro che non ebbi mancanza di posti miei e di altro che m’appartenne. Se taluno m’avesse detto non far viaggio d’assenza lunga lustro dopo lustro mi sarei nutrito di speranza a costa.

Ma dopo di me altra miriade partì che ritorno a casa per festa comandata pare a rimpatriata di scappati via. Dunque, penso che mondo ha cinquanta guerre e più, donna che non scioglie capelli, bambino ch’ebbe sorte a destino segnato di morto di fame, tra sofferenza vera ed autentica, mica scappa da umiliazione per sussidio di disoccupato e basta. E paese su paese vive a sofferenza per sfrutto di fare a funzionamento preciso per materia prima giusta PC e cellulare, pure parte d’economia green, a volerla dire tutta, e macchina che viaggia a batteria per miniera a mani nude, ed oro che luccica a collo di madama per sasso pigiato a mano nuda e cratere aperto a posto di piantagione di pomodoro e cipolla. In tal paese truppa d’ascaro spara ad aumento di PIL nostro con corollario di guadagno per primi a digrignar dente a sfregio d’umanità. Che tal paese è fatto a saccheggio per adipi nostrali, e chi parte, parte che non ce la fa più, che piacere non ebbe a lasciar affetto antico. E allora, che insieme di tal paese ha PIL che pare borgo di montagna nostro a mezzo disabito, facciamo che diciamo non ti piglio più terra, non te l’asciugo che devo far lavatrice a metano, che non ti faccio bomba a prezzo d’usura, e faccio solo che decisione di questo si prende a Nazione Unita, non a simposio di grande e potente G qualcosa con numero che segue a seconda di circostanza per importanza. E che associazione di Nazione Unita sia che non pare associazione di circolo della bocciofila che diritto umano è al massimo non pesto piede e rispetto fila per piatto di baccello e pecorino a prossima sagra. Facciamo che ad etichetta di quello che mangio metto ingrediente preciso, pure certificazione che non fu fatto a sfrutto di braccia quale schiavo di paese disgraziato, manco di armata di caporale. Facciamo che dico a dittatore “ora m’hai divertito”, ma non lo dico io, glielo faccio dire a tale associazione se è non a veto incrociato di miserabile potente ed ha finalmente egida di diritto umano per rispetto assoluto con casco blu che partecipano tutti a voce grossa ed interposizione. Mica mando truppa cammellata di mercenario a pagamento a cottimo pure ad arruolo involontario se no t’ammazzo nonna, nonno, mamma e pure zia e nipote se di fame non morirono prima? Certo, mi vien pensiero che forse psicocellulare per social poi costa quanto viaggio interplanetario, e messaggino di potente che so tutto io finisce a parcheggio di discarica. E io vi dico chissenefrega.

Rumorismi

“Quando i miei pensieri sono ansiosi, inquieti e cattivi, vado in riva al mare, e il mare li annega e li manda via con i suoi grandi suoni larghi, li purifica con il suo rumore, e impone un ritmo su tutto ciò che in me è disorientato e confuso.” (Rainer Maria Rilke) Ma c’è che mare, ora, m’appare lontano, e fatti che morto è ad annego, guerra a porta di casa e a sfascio porta d’altro disgraziato che non se la chiamò in ogni dove, tolgo a povero che ricco piange per non reperimento di schiavo, mozzico a dente affilato cosa più cosa che s’asciuga per clima di secchezza, mi strapiombano e fanno carambola imprecisa da tempia a tempia, rumoreggiano da orecchio ad orecchio senza conclusione. Ed a fragore insopportabile che fu né d’onda nemmanco di corrente di risacca s’aggiunse bailamme di so tutto io.

E mi venne a mente e ricordo cosarella che vi ridò, pure, se non ve la diedi prima, ve la do adesso, che prima me ne feci immemore e mi sfuggì. Ma fatevela con la musica sopra che è a migliore digestione.

«E giunse il tempo che desiderio di vertigine m’appare solo a sistemar chiappe a scoglio comodo, a favor di tenue brezza di ponente. Lì c’è posizione di sguardo ad altro tempo che andò via a rapidi scivolamenti. Feci collezione di pergamene e titoli a ceralacca, di timbri e pacche sulle spalle, inchiostri di stilografica raccolsi. Mi ravvidi di saggezze elevatissime di fini accademici, sagaci elucubratori di teorie d’avanzo e professori mi professarono vie salvifiche di conoscenza. Capitani coraggiosi m’imbellettarono narrazioni d’autentico infinito di profondità e preti e frati e paternostri m’illuminarono d’incenso, mi deliziarono d’omelie un tanto al chilo, pure in odore di santità mi parvero audaci pescatori di ghiozzi a tendenza d’eversione. Le madame dorè, le miti volontarie di misericordia e signori dabbene di circolo esclusivo, di fatta impeccabile doppiopettata e profumo millefiori, mi fecero di sé modello esclusivo e beato. Arguzia finanziaria mi trasmisero autentici scienziati di doblone ed a cure immaginifiche mi sottoposero per trattamento di deviazione. Che però nacqui storto e storto rimasi, pur se mi sdoppiai a far finta d’assecondo. Che ora, a fase due, non m’è dato di adeguarmi all’immane trogolo di carni e sangue di sacrificio a conforto per Marte e Atena. Che però appresi di non apprendere, pur se assorbii finale convincimento che nemmanco le dame di San Vincenzo riusciranno a far del bene, ch’esse mai seppero cos’è la vita, che imbracciano sotto coscia, ad occulto, mitra e bomba. Ch’io tutto imparai da puttane senza protettore, a quartiere miserabile dove misi dente da latte, e che, accademia autentica di bellezza, fu soffocato a rango di supermarket per saccheggio conclamato, con reparto d’onnisciente mammasantissima. Pure imparai da lambretta smarmittata di venditore di granchio per cattura a pietra celeste, da pazzo con canottiera su cappotto e camicia avvoltolata in testa, per posto a cappello in mano, a buco tappato per dammi cento lire, ci hai ‘na sigaretta. Che mi venne ad aula di lezione autentica osteria perduta, di abitanti a perenne nostalgia di bicchiere pieno, e vecchio compagno che s’accompagna a miserabile scarpa rotta, pantalone logoro e mano di calli e calce viva, curvo di schiena ma mai domo a dir di padrone peste e corna. Pure non fu capace di sopravvivenza a quello, nemmanco per saggezza di mutua a scarso d’assistenza e forse per cicatrice di manganello per protesta di contro legge. Imparai dinamiche sofisticatissime d’universo da lavandaia a tempo perso, balia asciutta e odor di varechina. Altro seppi da pescatore silenzioso a barca a puzzo di cherosene e sangue di pesce raffermo, con ruga che solca il volto quale fiume di sale e fatica di sole. Che nessuno dei secondi ebbe allora a far mai guerra a talaltro, mai tirò indietro la mano a soccorso per chi vien dopo. Pure, a gengie sfatte, non smisero a riso per bimbo che passa, ch’io mi ricordo, che a denti non m’ero provvisto ancora, di tali sdentature di pace, ora che vedo biancheggiare nobili fauci di squali.»

8 Marzo (dopo l’anteprima)

Che m’accingo a 8 Marzo che poi non m’è dato a sapere se ce la faccio. Pure ne faccio riferimento per fatto che fu lotta di donna, ma che a tramonto d’aspettativa si vide riflesso che tutto pare vano. Parto di musica, però.

E faccio a recupero d’omaggio per donna che lottò per suoi diritti, non si fece a sgomito per arrivo prima io ad imitazione esatta di maschio coatto e basta. Oggi tale donna è a farsi morto d’ammazzo e d’annego, scioglie suoi capelli come fosse atto eversivo e a chioma sciolta insegnò a tutti – soprattutto a noi maschietti – significato esatto di rivoluzione, che non fu comando io, fu non comanda nessuno.

Le donne dei “Fasci”

Fra il 1893 e il 1894 la Sicilia fece molto parlare di sé per dilagare in città e campagne di grandissima agitazione sociale senza precedenti e rapido diffondersi dei Fasci siciliani delle lavoratrici e dei lavoratori, organizzazione quale mai si era vista prima, capillarmente strutturata, dotata di efficiente coordinamento regionale, ispirata a socialismo, guidata da dirigenti per lo più giovani, intelligenti, colti e determinati. Adolfo Rossi, giornalista d’inchiesta, si reca in Sicilia per studiare il movimento. Ne intervista i protagonisti nelle campagne e coglie esterrefatto il ruolo di donne – un terzo del movimento, che per farne a metà di quelle, ora ci vuole doppia quota rosa ex legis – e della loro capacità di esprimere concetti politicamente elevati, con proprietà di linguaggio e consapevolezza di condizione e prospettive di loro lotta.

Noi non andiamo più in chiesa, ma al Fascio.

Là dobbiamo istruirci, là organizzarci per la conquista dei nostri diritti.

Vogliamo che, come lavoriamo noi, lavorino tutti, e non vi siano più né ricchi né poveri. Che tutti abbiano del pane per sé e per i figli. Dobbiamo essere eguali. Io ho cinque bambini e una sola cameretta, dove siamo costretti a mangiare, a dormire, tutto, mentre tanti signori hanno dieci o dodici camere, dei palazzi interi (…)

Vogliamo mettere in comune le terre e distribuire con giustizia quello che rendono.

Ci deve essere la fratellanza, e se qualcheduno mancasse ci sarebbe il castigo.

Gesù era un vero socialista e voleva appunto quello che chiedono i Fasci, ma i preti non lo rappresentano bene, specialmente quando fanno gli usurai. Alla fondazione del Fascio i nostri preti erano contrari e al confessionale ci dicevano che i socialisti sono scomunicati. Ma noi abbiamo risposto che sbagliavano, e in giugno, per protestare contro la guerra ch’essi facevano al Fascio, nessuno di noi andò alla processione del Corpus Dammi. Era la prima volta che avveniva un fatto simile.

I signori prima non erano religiosi e ora che c’è il Fascio hanno fatto lega coi preti e insultano noi donne socialiste come se fossimo disonorate. Il meno che dicono è che siamo tutte le sgualdrine del presidente.

Quando un reato è commesso da un ricco, nessuno se ne cura, mentre il povero che ruba un pugno di grano per sfamarsi va subito in prigione.

Vedete che per i poveri non c’è giustizia in Piana dei Greci! I signori dicono apertamente che ci vogliono ammazzare ad uno ad uno. (…) Per ora i nostri consiglieri non potranno far altro che impedire gli abusi e le prepotenze dei signori i quali finora comandavano anche nel Comune. Ma i Fasci nomineranno anche i consiglieri provinciali e i deputati, e quando alla Camera avremo maggioranza socialista….

Noi speriamo che sorgano presto anche nel continente. Voi vedete come si moltiplicano qui. Possibile che nel resto d’Italia i nostri fratelli che soffrono seguitino a dormire? Basterà che qualcheduno cominci a predicare anche là l’unione del proletariato. Anche noi fino alla primavera scorsa non sapevamo che cosa fossero i Fasci. Morivamo di fame e tacevamo. Eravamo ciechi. Non ci vedevamo.

Maria Occhipinti

Che ricordo di lei, a tempo di muscolo a palestra d’armi e doppi petti di migliori tronfi di boria maschile, è più letale d’atomica, pure se non fa morti. Che fece il Non si parte! di Ragusa, che lottò contro arruolamenti forzati a ricostituzione d’esercito di Badoglio e Bonomi. A Ragusa, il 4 gennaio del 1945, a far fuggire giovani rastrellati, si fece tappeto in strada per bloccare il mezzo delle reclute, che era al quinto mese di gravidanza. E per quel gesto fu insurrezione, per giorni quattro, con esercito patrio a sparar sulla folla, ad uccidere ragazzo e sagrestano. E Maria, cattiva maestra per odio a guerra, si fece anni da carcere in carcere. Pure prigioniera da suore rimase, per volontà imperitura di stato democratico. Il suo racconto a dramma l’ho trovato scritto da Maricla Boggio.

Ragusa Ibla ci mandò San Giorgio a incontrare il nostro San Giuanne…

San Giorgio a cavallo, terribile! armato di lancia e vittorioso contro il drago…

Lasciate i nostri figli! Per carità lasciateli! Siamo stanchi di guerre! Non vogliamo più servire i Savoia! Ridate i figli a queste madri! Per carità lasciateli andare! Mi ucciderete, ma voi non passate!

VOCI di donne – E’ incinta! Incinta di cinque mesi! Non le fate male! Per carità!

L’esercito sabaudo chiedeva di andare a combattere al nord, contro i tedeschi e i fascisti… Ma non erano già arrivati gli americani a liberarci? E quell’esercito, dei Savoia, non era ancora dei fascisti? Niente a che fare con i partigiani del nord. Ho deciso di impedire con tutte le mie forze che si parta per la guerra! E ci sono riuscita, ma a quale prezzo! Per me tanti ragazzi erano sfuggiti alla trappola e le madri e i padri mi abbracciavano… Ma nel pomeriggio si cominciò a sparare, i soldati erano armati e organizzati, Caddero molti ragazzi. Tanti i feriti, li curai come potevo, incoraggiando le madri ad aiutarmi. Il terrore durò una settimana. I nostri giovani vennero arrestati, e io con loro. Non ci fu giustizia per la povera gente. Mentre centinaia di famiglie soffrivano per i figli catturati o uccisi, i fascisti continuavano a passeggiare indisturbati per la città. Gli arrestati, quasi tutti, erano comunisti e socialisti. Fui condannata insieme al gruppo dei ribelli (…) mi mandarono al confino. Dentro di me la mia creatura si muoveva. Mi confortava il pensiero che non partivo da sola. (…)

Non ho nemmeno una camicia per questa creatura! Non c’era neanche un pannolino.

Magra, le mani trasparenti le dita fini come artigli… un piccolo rapace… In viso era bella… graziosa… ma il corpo… lo spettro della fame. Piangeva piangeva per tre giorni non fece altro che piangere… Alla fine piegò la testina da una parte e chiuse gli occhi come per morire. Venne un compagno, non so come altro definirlo… un compagno perché pativa insieme a noi, ma non l’avevo mai visto prima… Prese la bambina fra le mani, la scaldò con la forza delle braccia. A poco a poco la bambina prese vita, il colore le apparve sulle guance… aprì gli occhi, ci guardò e sorrise. Era salva.

Franca Viola

A 17 anni e basta, fu presa dal mafioso Melodia, che agì con aiuto di dodici amici, tutti di gran coraggio da maschio vero. Franca fu violentata, malmenata, lasciata a digiuno, tenuta segregata per otto giorni; poi, i parenti del fenomeno Melodia contattarono il padre di Franca per la “paciata” e matrimonio riparatore a tanto di rito per parroco dabbene. Padre e madre di Franca giocarono a finta di “che bello” e fecero arrestare la banda. Che legge di repubblica proponeva che il matrimonio era gomma a matita per stupro, altrimenti c’era il “donna svergognata”.

Il giudice Giovanni Albeggiani, per fermo immagine di Franca, fece mannaia sulla banditaglia, ma la leggiastra fu abrogata dopo sedici anni, e altri quindici ne passarono per 1996, che poi stupro è contro persona non contro morale. Eccola Franca, che pure porta per cognome fiore.

Per me quella vicenda rappresentò una vera e propria disgrazia, ho dovuto attraversare momenti tristi, di sofferenza, è stata un’esperienza decisamente negativa. Ritenni quel gesto non un atto di grande coraggio, ma una normale scelta dettata dal cuore. Feci quello che mi sentivo di fare, furono i media, in seguito, a rendere la vicenda un evento storico.

La gente parla sempre a sproposito, nel bene o nel male, dicevano che mi vendevo le interviste ai giornali per soldi, mi mortificavano con le loro false affermazioni. Ero contenta quando sentivo di altre ragazze che si erano salvate facendo la mia stessa scelta, mi faceva piacere sapere che, anche se indirettamente, ero stata io ad aiutarle. Quella legge era ingiusta e andava cambiata, c’è sempre una prima volta, e io fui quella che diede inizio al cambiamento. Mi sposai e decisi di condurre una vita dedita alla normalità, lontana dai riflettori. Abitai tre anni a Monreale, dove mio marito lavorava, per poi trasferirmi di nuovo ad Alcamo quando ottenne il trasferimento. Abbiamo due figli, uno studia Scienze naturali e l’altro lavora come commercialista. Con loro non abbiamo mai affrontato a pieno la questione, sanno già tutto dagli altri, che mi descrivono sempre come una donna molto coraggiosa.

Mi sono sempre sentita molto serena, come se non fosse mai accaduto niente. Guardo a quei giorni come se avessi seguito bene e da vicino la cronaca che ha visto coinvolta un’altra persona. Per me non è stato facile allora riprendere la vita di tutti i giorni, ma quella scelta fu decisiva. Semplicemente non volevo sposarmi con un uomo che non amavo e preferivo restare tutta la vita da sola piuttosto che farlo. Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi donna: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti; non è difficile.

E a tutte le donne che hanno orecchie, dico mi dispiace, che d’ogni uomo, almeno un poco, è colpa di patriarcato. E faccio omaggio di musica.

Radio Pirata 55 (anteprima d’8 Marzo)

Radio Pirata torna per occasione di buon 8 Marzo, e non a liturgia, per attivo sostegno a giorno di riflessione e lotta, che donna non sgancia bomba (almeno pareva così). E ad amor di vita e pianeta, anche a sostegno di donna, prometto, a solennità imperitura, che non salto fuori da torta in costume da gattopardo in locale di lustrino esagerato, che anche occhio vuole la sua parte. E do spazio a giovani collaboratrici a conduzione di puntata Cinquantacinque, a parziale ripresa di fatto già fatto. Ma prima d’immantinente vado a musica, faccio ricordo strenue per donna che perse figlia o figlio per morto d’annego (che a taluno parve di scarsa responsabilità ed intemerato egoismo), ma pure a donna d’Iran e d’Afghanistan che a memoria corta si fecero a ce ne scordammo rapidi che persero vita ed altro, rischiano di farlo ancora per solo capello sciolto.

“Da una parte, la guerra è soltanto il prolungamento di quell’altra guerra che si chiama concorrenza e che fa della produzione stessa una semplice forma di lotta per la supremazia; dall’altra, tutta la vita economica contemporanea è orientata verso una guerra futura.” (Simone Weil)

Da Simone a Simone, che il nome è lo stesso, qualche volta pure il cognome.
“Uno dei vantaggi che l’oppressione offre agli oppressori è che i più umili di loro si sentono superiori: un povero uomo bianco nel sud degli Stati Uniti ha la consolazione di dire che non è un uomo di colore sporco. I bianchi più fortunati sfruttano abilmente questo orgoglio. Allo stesso modo, il più mediocre degli uomini è considerato un semidio di fronte alle donne.” (Simone de Beauvoir)

“Qualche volta ho la sensazione di non essere un vero e proprio essere umano, ma appunto qualche uccello o un altro animale in forma di uomo; nel mio intimo mi sento molto più a casa mia in un pezzetto di giardino come qui, oppure in un campo tra i calabroni e l’erba, che non… a un congresso di partito.

A lei posso dire tutto ciò: non fiuterà subito il tradimento del socialismo. Lei lo sa, nonostante tutto io spero di morire sulla breccia: in una battaglia di strada o in carcere. Ma nella parte più intima, appartengo più alle mie cinciallegre che ai “compagni”. E non perché nella natura io trovi, come tanti politici intimamente falliti, un rifugio, un riposo. Al contrario, anche nella natura trovo ad ogni passo tanta crudeltà, che ne soffro molto.” (Rosa Luxemburg)

“Sono nata con una rivoluzione. Diciamolo. È in quel fuoco che sono nata, pronta all’impeto della rivolta fino al momento di vedere il giorno. Il giorno era cocente. Mi ha infiammato per il resto della mia vita.” (Frida Kahlo)

“La guerra si materializzava nelle cose, negli itinerari, nei divieti, nelle mancanze, era una sorta di disgrazia naturale più che un’impresa umana sulla quale si sarebbe potuto interferire. Potuto e magari dovuto? Quando mai. Quella sorta di cinismo o pigrizia che passa per italica bonomia, secoli di «tutto cambia dunque niente cambia», stringeva dovunque.” (Rossana Rossanda)

Buon 8 Marzo! Che ve lo rifaccio pure domani con riedizione di vecchia cosa.

Non ne sapevo nulla

Che questo è il paese nostro, posto magico che vive a pari di paese di lotofago, immemore e manco accorto di ciò che è a sottonaso. Neppure migliorissimi e meritevolissimi paiono ad essere capaci di fuga a tale malasorte, che a rivendicarla si fanno piuttosto fieri, per rappresentanza esatta di proprio popolo. A digrigno serrato e cattivo di mascella contro virus, pure contro malcapitato che va a morte d’annego, pare, per incoscienza ereditata, a tutti si grida No pasarán! E poi, a morto fatto, a cosa precisa di sfilza di bare, allora come ora, pare che nessuno disse nulla ed avvisò. Organizzazione d’avviso è cosa che non appartiene a nessuno, che ascolto non è cosa che è a riguardo d’alto bordo, che ad altre faccende pare capo in testa affaccendato. Ed io, invece, a memoria tengo fatto luttuoso che di fior di loto mi feci d’antidoto precisissimo e a tal uopo non dimenticai, che talora, invece, vorrei.

Salirono da tre passerelle, salirono come una fiumana sospinta dalla fede e dalla speranza del paradiso, salirono con uno scalpiccio soffice e continuo di piedi scalzi, senza una parola, senza un sospiro, senza nemmeno voltarsi indietro; e quando non furono più trattenuti e incanalati dai corrimano di legno, sciamarono in tutte le direzioni sul ponte, fluirono a poppa e a prora, si ingolfarono nelle gole buie dei boccaporti, riempirono gli interni recessi della nave, come l’acqua quando scende nelle cisterne, come l’acqua che filtra nei crepacci e nei canali di scolo, come l’acqua che giunge silenzioso fino all’orlo di un abisso.

Erano ottocento tra uomini e donne, e si erano radunati lì, con il loro carico di fede e di speranza, di affetti e di ricordi, venendo dal Nord e dal Sud e dai più lontani recessi dell’Est, dopo aver camminato per settimane e mesi lungo i sentieri della giungla, dopo aver disceso fiumi, costeggiato in praus i bassifondi del mare d’Oriente, dopo essere passati a bordo di piccole canoe da un’isola all’altra, attraverso mille sofferenze, lungo paesi stranieri, in preda ad oscuri timori, sospinti da un desiderio unico.

Venivano da solitarie capanne sperdute in zone selvagge, da popolosi kampong, da villaggi sulle rive del mare. Cedendo alla suggestione di un’idea, avevano abbandonato le loro foreste, le loro campagne, la protezione dei loro governanti, la loro ricchezza, la loro povertà, i luoghi della loro giovinezza, le tombe dei loro padri.

Arrivavano coperti di polvere, di sudore, di sudiciume, di stracci, gli uomini forti e vigorosi alla testa di ciascun gruppo familiare, i vecchi cadenti che si trascinavano senza alcuna speranza di ritorno.

E vi erano ragazzetti dagli occhi sfrontati e dallo sguardo curioso, timide fanciulle dagli ispidi capelli lunghi, donne spaurite imbacuccate dalla testa ai piedi che si stringevano al seno bimbi addormentati, avvolti in un lembo cadente del velo, inconsci pellegrini di una fede inesorabile”. (Joseph Conrad)

Un viaggio come un altro (per tutti quelli che partono, pure per Wayne)

Un giorno pure io sono partito, e fu strazio autentico pure se non dovetti affrontare fortunale e tempesta, ma quelli me li lasciai alle spalle, forse me li portai dentro. Andai con la vecchia Citroen che aveva persino mangiacassette per jazz. E m’adattai per settimane a casa di vecchi compagni, a distanza di qualche decina di chilometri prima d’una casa d’affittare. Ma era tutto più caro di quello che potevo permettermi ed ogni casa ad affitto di cui scorgevo il cartello pareva regia preziosa per prezzo, con caparra da caveau di banca svizzera. Finché non m’accorsi che quella era tariffa speciale, riservata a chi arrivava come me da quell’altrove nemmeno così distante. Mi feci a memoria di racconti d’altri ch’ebbero esperienza peggiore che lasciarono il quartiere diruto in altro tempo che il mio precedeva. E ne scrissi in un tempo andato.

“… dietro la stazione c’erano le pecore, e si sentiva lontano il motore del treno che s’era acceso. Il treno pareva che si mangiava i cristiani, poi li cacava lontano. Pareva un budello di pecora. Ma almeno la pecora mangia da una parte e caca dall’altra, il treno mangiava e cacava dalla stessa bocca. Una volta il padre di Primo il budello di pecora l’aveva portato da mangiare, l’aveva procurato forse al mattatoio. Si mise a lavarlo per bene alla fontana e ci volle un’ora buona. Ma quello ancora puzzava che Primo quell’odore se lo sentiva fisso. Sua madre lo mise a bollire con una carota e una cipolla e ci vollero altre due ore almeno. Suo padre lo mangiò di gusto, sua madre lo mangiò e basta, Primo nemmeno lo toccò che il puzzo lo faceva vomitare…. ci fu rumore lontano di sferragliamento, uno sbuffo stanco ed ansimante che diceva che binario non era morto, pure che bene non stava. Si sedettero sui blocchi delle mura robuste, aspettarono che l’evento ci fosse. Rumore di motore e lamiera a sobbalzo si faceva sempre più forte fino a che il treno non apparve. Era lungo, lunghissimo, nero, procedeva lento da far venire i nervi. I finestrini erano tutti aperti, dentro si vedeva che manco passava l’aria, che non c’era scomparto che non fosse a tutto pieno, bagagli su persone, persone su bagagli. Uomini e donne, solo i bimbi affacciati a finestrini da dove veniva veniva, che gli altri fuori non guardavano, a sguardo perso dentro, come se non volessero vedere luogo di distacco, così che distacco non doveva sembrare se non vedo da dove vado via.

Primo: “Questo arriva fino alla Germania, che lo prende una volta l’anno anche mio zio.”

Secondo (a Primo): “E quando ci arriva alla Germania questo?”

Primo (a Secondo): “Vero, assai ci sta.”

Figlia s’era spostato lo sguardo da parte opposta, s’era attaccata agli occhi d’un ramarro che prendeva caldo al sangue, era verde di smeraldo. Pure lei non volle guardare, forse che era terrore puro solo idea appena affiorata di salire un giorno lì, a far boccheggio come pesce fuori d’acqua, a bollore tremendo, ad ansia di partenza per sempre. Nemmeno guardava gli altri suoi compagni, che invece non staccavano gli occhi dal serpente di ferro che s’era mangiato tutta quella gente, che taluni pure conoscevano. Sollevò gli occhi e vide i cubi, grigi, pure quelli non consentivano respiro d’aria buona. Pareva scelta tra soffocamento e soffocamento, ch’ebbe a farne esorcismo che disse: “E con quel coso dobbiamo farcelo il viaggio?”

Terzo (risponde a Figlia): “Questo c’è.”

Figlia (ancora con sguardo a ramarro, risponde a Terzo ma parla a tutti): “Lì non ci salgo, meglio la barca, che almeno là sopra respiri se ti metti sul ponte.”

Non ebbe risposta che solo aspettarono che il binario si facesse di nuovo morto, finisse quel rumore ch’era ora a fastidio, tornasse solo quello del vento e dell’onda a frangersi sullo scoglio di sotto. E ce ne volle che passasse tutto. Ma quello, il treno, passò, che parve suo cammino sotto i loro occhi eterno. Passò che lasciò odore acre di bruciato, ch’essi non sapevano se fosse a sfrego di sassi lanciati a suo passaggio, o forse era bruciato d’anime che v’erano stipate. Sperarono in cuor loro che ci fosse un momento d’accelerazione brutale, che quel tormento fosse a finire, pure se anche loro di velocità non erano a conoscenza esatta. Che viaggiasse veloce il treno, facevano invece a speranza, che dai finestrini aperti ululasse vento di frescura, che mitigasse sofferenza di cottura che si leggeva a volto di passeggero. Speravano che questo s’avverasse a timore ch’essi stessi avrebbero dovuto patire tormento d’uguale brutalità, un giorno forse, forse più in là. Ravvidero in quello discreta certezza, che quello dov’erano nati era posto che non voleva più nessuno, forse nemmeno loro che parevano bravi ad ossequiarlo per sua bellezza sepolta. Era posto che girava sguardo altrove, che non voleva ch’esso incontrasse quello di suoi figli, che diedero ad egli sofferenza di trasformazione brutale, che non ne ebbero cura ad assicurargli altro che abbandono definitivo. O forse non voleva vedere sorte negletta di suoi stessi figli, a sbranarsi come lupi l’uno con l’altro, o non voleva vedere lo sguardo loro per senso di colpa ad inadeguatezza che non diede, oltre a natali, altro che miserabile prospettiva d’esistenza. Ma passò il treno, con quel suo puzzo di gasolio e terra bruciata, con quel rumore ottuso di catena e ferraglia, sbuffò ridicolo di non ritorno. E tornò silenzio, silenzio come quello che fecero loro. Figlia vide, infine, coda di ramarro farsi a sparizione dietro a sasso, dietro sterpi spinose, che la bestiolina parve non più a riparo di fragore di mostro d’acciaio e amianto, che pensava che con chiasso simile nessuno si fosse accorto di sua verde livrea, lasciandola al sole a quiete di predatore vorace. Essa stessa non si sentì più a riparo, a minaccia incombente di certo futuro incerto, e guardò i suoi compagni, in ordine d’apparizione, Primo, Secondo, Terzo. Che si riempì suo cuore di pietas anche per loro, che d’apparenza parevano, dentro quei quattro cenci addosso su pelle e ossa, disarmati quanto lei d’avvenimento certo. Poi guardò davanti, oltre il binario tornato morto, verso quella linea scura d’orizzonte che pareva tingersi ancora più scura per Libecciata imminente, sabbia sottile e rossa di deserto d’altro pianeta, che però s’accomunò al loro, in un tutt’uno di sottile disperazione.”

Per risopraggiunta di nausee

Riposto pari pari ciò che già feci a post, ché nausea non si spense nemmeno a magnesia ad ingurgito con imbuto. Nemmeno mi venne scrittura fluida a descrizione di disturbo che fece a me guerra a tutto tondo ad ogni umano che fu ultimo. Morto d’annego ebbe colpa d’esser tale e morto di bombarda si trovò a far scudo con cranio suo per gloria suprema di vendo sparo a grappolo. Pure sul resto che mi fece nausea devo far a silenzio autoimposto che altrimenti mi vien da scrivere elenco che par di telefono a parlar con linguaggio poco dabbene.

Tutto era pieno, tutto era in atto, non c’era intervallo, tutto, perfino il più impercettibile sussulto, era fatto con un po’ d’esistenza. E tutti questi esistenti che si affaccendavano attorno all’albero non venivano da nessun posto e non andavano in nessun posto. Di colpo esistevano, e poi, di colpo non esistevano più: l’esistenza è senza memoria; di ciò che scompare non conserva nulla — nemmeno un ricordo”. (Jean Paul Sartre, La nausea)

Non mi veniva di scrivere d’altro, manco ora che sta arrivando la bufera e non ho che ombrelli a telai dismessi. Che quell’altro me invece ne aveva voglia, lui che, quand’era giovane, pareva ch’era già vecchio, che i suoi amori glieli sceneggiava Resnais e li cantava Jaques Brel. Che gli dicevano ch’era sbarcato da nave d’Argonauta, da secolo ignoto, che s’apprestava su uno scoglio ogni mattina, vestito come veniva, sino alle ciabatte, che pareva che lì c’era nato, cosa che poi era. Pure – gli dicevano – che il mondo d’intorno se ne andava da un’altra parte, che l’avevano lasciato lì, sempre su quello scoglio, come istantanea cotta al sole, ultimo Mohicano, su quella Rive Gauche ch’apparteneva a lui ed a quattro signore che s’ammestieravano d’antico.

Che pure s’ammetteva social ante litteram, di dita unte al tetraetile di Gestetner, di cui – per caso puro – non c’è morto per impronte digitali su uova sode, manco per il tracannare di zibibbi all’arsenico e gazzosa. Che con fogli e colla in mano aveva conosciuto stampella a mesi, formato economy – che quello passava la mutua –, per ginocchia a grattugia, nell’incontro con ferri di cappucci neri arditi d’ignoto, persi nel tempo, irrispettosi di titolazioni quotidiane che ne danno natali recenti e morti antiche. Che non vollero affratellarsi con mammoni e mannari nelle novelle della nonna. Di destino crudele patì le spire, in giovane età già vecchia, ma pure le pene del disarmo nucleare d’un Settimo, in fila poi per sussidio di disoccupazione. Che avrei dovuto scrivere per sussiego alla sua ineluttabile pulsione primordiale all’angoscia sotto pelle? Per assecondare l’arrovello, l’intorciniarsi di budella? Che pare non s’avveda, né da mo’, nemmeno da poi, che la prospettiva sghemba la rende ancor più tale? E mai si fece lucido per lo scivolo del tutto che è viscido e d’intorno. Impara, ancora, pur da vecchio immemore, che tale fu prima del primo dente da latte, per perseverare nella sua senescenza definitiva. Al di più, che non l’assecondo che rare volte, nell’ipotesi redentiva del cosmo, lo invito al desco, al chiaro dello scuro del rosso, alla saxata di Coltrane, urlo di vertigine, a parlare dell’ultimo Ray Sugar, alle geometrie di Cifalà, a sogni sotto zampe d’elefante, di Nico e la Redgrave, mica di cose serie, a contorno della frittatina con cipolle, che stasera, tanto, non è cosa di mettersi a relazionare, e tra noi l’alito pesante s’ammette.

Pure io annegai un giorno

“Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri.” (Lorenzo Milani)

Tanto decina più, decina meno, pare di sentire la eco di chi disse ch’è finita la pacchia. Ora si muore pacifici e spiaggiati, come foglie di posidonia stese al sole, a speranza vana che la risacca non ne renda abbastanza, che occhio non vede, cuore non duole.

Arrabbattati tutti a dir no a una guerra – solo una, che le altre non è cosa che riguardi – ma questa pare cessa solo se faccio sparo più grosso e ne ammazzo di più d’altro dirimpetto, non ci avvedemmo mai abbastanza di guerra sotto costa che si combatte ogni giorno. È guerra alla vita, come ogni guerra, e vince chi volta lo sguardo altrove, chi spezza il timone d’una salvezza giocata d’azzardo. E poi viviamo dimentichi che quelli lì che sono morti ieri d’appunto, siamo noi pure, che tutti fummo migranti per frammento di DNA e ci fosse stato un muro o un blocco non saremmo qui a farne menzione. Ed io sono migrante da sempre, dunque a crepare furono sorelle e fratelli miei.

“Migranti si è per forza, solo che si nasca in cima a un monte, oppure sullo scoglio più basso che d’alghe e sonno si riempie con la marea. Solo che ti affacci da una finestra e gli occhi se ne vanno fin dove possono – loro – per istinto, e non dove gli viene detto che possono andare. Migranti si nasce, dunque, non ci diventi solo se ti devi mettere a camminare. Se hai mare davanti, per forza sei migrante, anche se non ti piace, perché qualcuno o un’onda, che s’è contrariata di vento o bufera, lì ti ci ha portato, pure prima che tu nascessi. Hai voglia di metterti a costruire frangiflutti, tanto l’onda arriva comunque, come sorge il sole e cala la notte. Perché l’onda è ignorante, mica le puoi dire “questa è casa mia”. Non capisce, s’arrabbata un poco lì per d’intorno, prima senza dare nell’occhio, poi – se le prendono i cinque minuti – si schianta col tonfo e la schiuma sullo scoglio. Forse ti dà il tempo di scansarti, ma certe volte pure t’acchiappa di risacca. E lì è deriva, e dove ti porta lo sa il Cielo. Questa è la storia dell’uomo. Si gioca su un’onda che scavalchi, come argonauta, sfiorando la cresta di Scilla, ballando un tanghettino stonato con Cariddi, tanto, più che un tanghero non sei, così diranno, se te ne stai su uno scoglio ad aspettare l’onda giusta. Che poi ci sta che quella non arriva mai. E pari Penelope che ricama la tela, la cuce e la riscuce, sotto sotto, è mia opinione, poi compiacendosi del reiterarsi del gesto. Magari pensa ad Ulisse che torna, e le viene da pensare “ma che gli dico a questo, dopo tutto questo tempo, se mi s’appresenta d’improvviso?”. Il fatto è che l’attesa, tanto più su uno scoglio, non è più attesa, diventa condizione dell’esistere, t’allunga pure la vita. Vedi Argo, che quando smette d’aspettare si fa il volo del Grande Tacchino nel giorno del ringraziamento e pure dopo ch’è campato quanto mai altri, praticamente tutta un’Iliade ed un’Odissea. Quindi, l’onda, quella giusta intendo, forse arriva, forse no. Ma se non arriva che ci fa? Basta che lo scoglio su cui ti sei seduto ad aspettare sia bello comodo, non di quelli unghiosi che non trovi mai la posizione. Ma che non ci sarà uno scoglio comodo davanti a tutta quell’acqua? Che poi anche tutta quell’acqua, pure salata, che ci pensi e ci ripensi, a che ti serve tutta quell’acqua salata? Di bere non si beve e ti tocca portarti un fiasco di vino rosso che è fatto con l’uva là dietro, che s’è innaffiata di salmastro, così sa di terra e pure di mare. E te ne puoi stare là tutta una vita a spiare l’orizzonte, per capire se laggiù qualcosa si muove, visto che non ti puoi muovere tu che l’onda giusta ancora non l’hai vista. Però sempre migrante resti, che t’è partita già l’anima oltre l’orizzonte, s’è fatta più d’un giro e poi è tornata. Che soddisfazione starsene fermi sullo scoglio, t’allunga la vita, mi pare l’ho detto questo”.

Radio Pirata 54 (per puntata esplosiva)

Radio Pirata è ad appuntamento di numero Cinquantaquattro che a tutti dichiara magnifico weekend di serena tempesta, pure saluta manifestanti di cui faccio parte anch’io che vuole pace, dunque trasmissione di detta puntata è a differita che per ora non ci sono in casa, avendo seguito altro me a borbottio confuso di pacifismo ottuso che s’arruola a zar senza ritegno, che non ebbe nessuna a danneggiare sacralità di mercato di bomba che rilancia PIL e supremazia morale di grande occidente.

M’è facile supporre che proposta di pace non è ad accettazione, né se viene da piazza manco se viene da concorrenza d’oriente di mercato liberissimo.

Quella poi contiene clausole vessatorie, sopra tutte quella di nessuna bomba atomica, che è già prescrittivo l’uso di tale ordigno a grosso spavento di molti e sommo godimento di taluni che non aspetta altro che sgancio fortuito che poi è stata colpa di quell’altro o di quell’altro ancora, a seconda di chi fa sgancio più lesto.

E mentre ministrissimo meritevolissimo dice che non c’è paura di sopravvenire di dittatura a vaga spuntatura di nero, e strale lancia d’indigno a dirigente ch’ella fu d’assai poca solerzia per richiamo a vigilanza d’obsoleta democrazia, pure a valori d’attenzione a fatto sancito da vecchia carta straccia a nome e d’uopo detta Costituzione, io feci caso che detta cosa mi parve di pratica modernissima di democrazia che a dettato preciso fece taci tu che non è compito tuo che parli.

Ma d’indigno che fu a risposta corale, mi preme per sottolineo esatto ch’ebbi imbarazzo a far da supporto a ragazzo sotto manganello, a dirigente ecc., poiché mi ci ritrovai con cotali e cotante figure che non capii bene che ci fecero accanto a me, che se sono a sbraito per censura di meritevolissimo, perché, poi, si fanno a sbraccio insieme a quello che dipingono di nero ed ostile a valore di democrazia per far di guerra pesante partecipazione globale, pure, a stretto giro di stanza segreta, fanno ad accordo su differenziazione d’autonomia? E tale differenziazione, ad unanimità pretesa, mi pare colpo finale di primo contro ultimo, che tal mi sembra filosofia da altro ventennio mutuata. Manca solo battaglia di grano per quadrare la cerchia.

E mi son persuaso che tanto di digrigno feroce di gengia, contratto per bava alla bocca di giornalettume, è, a mio parere di miserabile ed ignoto, fatto che mai si misero cotali poveracci a botteguccia a farsi bicchier di vino di contadino con bruschettina e pomodoro, a far canto di vecchia canzone tra amici, che ancora faccio a riproposizione di detto scritto di mio giovane collega: “È indispensabile che tutti gli esseri e tutti i popoli saggi della terra capiscano che pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale dell’alimentazione umana. Piatto peccaminoso per eccellenza perché comprende e semplifica il peccato rendendolo accessibile a chiunque. Piatto peccaminoso in quanto può significare un’alternativa a tutto ciò che è trascendente, a tutto ciò che è pericolosamente trascendente, se diventa cultura della negazione. Non fate la guerra ma pane e pomodoro. Non votate per la destra ma mangiate pane e pomodoro. No alla NATO e sì al pane e pomodoro. Ovunque e sempre. Pane. Pomodoro. Olio. Sale. E dopo l’amore, pane e pomodoro e un po’ di salame”. (Manuel Vasquez Montalban)

Le formiche

S’appresta grande armata d’Occidente a partecipare a gusto di bomba, e popolujme è ignaro circa suoi destini trascritti in segrete stanze, a leccarsi ferite per strabolletta a non arrivo nemmeno a metà mese.

Ma che siamo noi, che siamo?… Formicole che s’ammazzano di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo. In fila avant’arriere senza sosta sopra quest’aia tonda che si chiama mondo, carichi di grani, paglie, pùliche, a pro’ di uno, due più fortunati. E poi? Il tempo passa, ammassa fango, terra sopra un gran frantumo d’ossa. E resta, come segno della vita scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra, qualche scena o figura.” (Vincenzo Consolo)

Che a festa finita, questo ci resta, che è condizione di formica, ad accumulare cose conto terzi, manco per regina però, che, ricca e spietata, almeno pare ha istinto materno, financo progetto di conservazione della specie. Peggio di formiche, a finire sotto al tallone, non per fine d’occasione di passeggiata distratta d’altro grande e grosso, ma tallone sempre è in testa che manco lo senti più a consapevolezza, però fa male uguale, e padrone di tallone fece suo il progetto di estinzione di massa di sua stessa specie per puro godimento di conto in banca di taluni sempre meno. Che per quello pare che lavoro di moltitudine sia a sfrutto e basta, con contrattualizzazione per bava alla bocca ed insofferenza in permanenza. Che mai fu colpa d’alto rango, sempre d’ultimo peggio che noi che è a maggior patimento. Che c’è tanti che sperano per rientri a routine che di vite spente fanno a riempimento di fatica che svuota idee. E non s’avvede moltitudine di propria fatica per riempir granai che alta sfera gaudente usa sfrutto di braccia e di mente, pure magazzino stracolmo, per far guerra a cottimo, per far distruzione di natura a manca e destra, per decidere di destino di massa deforme e claudicante di pensiero a che viene peggio, che se c’è peggio quella più si piega a schiaccio di tallone per assuefazione definitiva. Ch’ebbe sensazione di consapevolezza solo a fatto di pubblico memoria di vacanza d’io con sfondo di meraviglia d’uno sopra l’altro su pagina di faccia libro e affini, quale surrogato di libero pensiero.

Rivolta sarebbe dire, so cosa sto facendo, so cosa mi fate fare, dire che pure per lavoro divento merce un tanto al chilo, ma ora lo so. Che se so, vertice di piramide è alto assai, ma si scordò di fare forte fondamenta di base per crollo tra un istante. Rivolta è dire che ultimo è con ultimo e più ultimo assieme qual fratello, e far da piedistallo ci venne un po’ a noia, che c’è a scostamento improvviso di tutti a medesimo tempo per crollo di piramide, di busto impomatato.

Per strategia elevatissima

Ormai è fatto chiaro e conclamato che guerra di tutti contro tutti è a porta spalancata. Ce ne fu premessa ad esercizio di sparo, con infallibile mira a precisione millimetrica, per abbattimento di palloncino colorato, che fa a simulazione di botto esatto per nemico giurato, A render edotto popolo di mondo a suo malgrado, s’aprì processione – che pare pellegrinaggio a Madonna per chiesta di grazia suprema di fedelissimi – a cospetto di grande ed eroico difensore di frontiere benedette di valore d’occidente. Pure grandissimo sacerdote partì, ad oscurar presenza di sacerdotessa, – che sgarbo – a giurar fedeltà a nuovo Leonida a capo di truppa di valorisissimi con a cuore democrazia.

E qui ci siamo, che tempistica – anche quella – pare di precisione qual bomba intelligente, che se massacra povero disgraziato civile è colpa di lui che si espose troppo.

Tutto movimento d’accelerazione ad armiamoci e partite parve a domani esatto di presa di posizione di impero di hard discount che disse faccio proposta di pace che nemmeno zar può opporre lo gran rifiuto. Che detto impero assai poco s’espone a dire tale cosa se poi non ha carta giusta. Insomma, era a porre scongiuro d’evenienza di tale terribile portata che tutti si fece a corsa. Che poi, a guerra evasa, c’era rischio che un po’ di svuotamento d’arsenale andava a colpo a salve, si doveva pure tornare a far chiacchiera di cosa futile come Po che non c’è più e cambia destinazione d’uso suo a uadi, ma senza bonus, che migrante muore a fasci d’annego, che morto sul lavoro non s’accenna a diminuire, che c’è rischio che si fa logaritmo di gente miserabile. Pure Ciccio Bombaman d’oriente fa a lancio di missile che gioia armata trabocca d’ogni poro, meglio ogni foro con un colpo di cannone. Ma c’è maestria autentica di giornalettume a fatto locale nostro, santa stampa patria, che eviscera contenuto di messaggino di mammasantissima, con dovizia di particolare scabroso, pure si spulcia stanza di covo a dire che ha biblioteca e dvd a cavallo tra bimbominkia e professoressa progressista ed inquieta, dose massiccia di pillolone blu a far di suo armamento grande efficacia. Sfugge a trovar con chi fece affari ma, a sincronia perfettissima con eventi bellici galoppanti, si fa a scappo d’intercetto ch’egli si schiera a fianco di zar e pare pacifista. Detto ciò, per strategia sul campo di guerra di giornalistume nostrale d’elevatissimo pensiero, – Machiavelli, a tal cospetto, si fece studente fuori corso di facoltà di scienze confuse – se faccio a canto “mettete dei fiori nei vostri cannoni”, per equazione esatta mai a smentirsi che matematica non è opinione, vuol dire che o mi diedi a bunga bunga o m’apprestai ad affiliazione a mammasantissima per ampliamento di corte di zar.

Ma visto che mi sa che finirò comunque ad arruolo d’ufficio di tal masnada, per ritrovamento di libro a covo che è probabile ch’io pure lessi, con frase d’uno che lo scrisse chiudo.

Guerra, guerra, guerra il mostro giallo, la divoratrice di anime e corpi. Guerra l’indescrivibile, il piacere del folle, l’ultimo argomento a disposizione degli uomini non cresciuti. Deve esistere per forza? E noi? E intanto ci avviciniamo all’ultimo lampo, all’ultima chance che ci resta. Resta soltanto un fiore, un solo istante per respirare così.” (Charles Bukowski)

Il suono, la melodia

Ripubblico, ed ancora lo farò, che vale poco la pena riscrivere che detto che dissi pare uguale a se stesso. “Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro, dove il mare è mare.” (Stefano D’Arrigo, Horcynus orca)

Ero ragazzo, molto giovane, e sentivo storie da vecchi, quelli che avevano pelli bruciate di sole, rughe che parevano cave d’altopiano, dentro cui c’erano fiumi di sale a venir giù copiosi. Che tutti avevano barbe bianche che a me pareva che erano tali ché quei fiumi si buttavano in un lago d’intrecci. Erano storie di suoni e canti, di creature che non ci sono più, ma che allora pareva aspettassero barchette scalcagnate, spinte da motori a sbuffo e singhiozzo, o a semplice remo, per farsi gioco a paura d’orrido di quei disgraziati.

Che quelli però mai se ne lagnavano di tali fugaci apparizioni tra onda e scoglio, di voci strane, talora lamenti di strazio, tali altre melodie di vertigine. C’è chi disse d’aver visto qualcosa che non doveva stare lì, tra scogli d’aurora e chiaro di luna, che disse d’aver visto fere brontolare d’abisso, figure emergere a canzone soave.

Che ora nessuno ha barchette così, se non a favore di turista, che il mare si svuota a palamitare lunghe chilometri, e nasse di lampare sono cose di folklore e basta, che pure fossero abisso pare vuoto d’ogni creatura per chi ha lenze corte. Nessuno ci camperebbe più, meglio stipendio fisso di peschereccio che pare portaerei che congelo banchi di tonno e sardina direttamente a stiva. Lì c’è frastuono, che se c’è creatura che vuole lasciare ricordo di suono e vocalizio di delizia, sparisce e non torna più, che pare ninfa di fiume a metamorfosi in alga, Cola Pesce preferisce sostegno di terra per fatica sovrumana a brontolio di diesel, puzza di nafta, strage d’ogni fratello suo. Ch’era ancora notte e mi capitò che quei suoni li sentii anch’io, che forse fu più per fatto che a spiaggia arrivai a sangue che si fece vino la sera prima. Pure quei vecchi si facevano fiaschi a cacciar pellagra, tra calo di nassa e rete a parallelismo di promontorio, che quello, poi, era vino di vigna a radice sulla sabbia, a cercar acqua salmastra per sopravvivenza comunque, e che talora pareva distillato di forza e corpo, mentre virava a spuntatura per sciabordio d’onda. E che importa se ascoltarono solo ululato di vento a zufolo di scoglio, o corrente ed onda a caverna e scoglio, s’erano storie immaginifiche e vertiginose da raccontare. Pure, allora, tra quelle quattro barcacce sgretolate dalle onde, qualcuna se ne tornavano a casa un pezzo per volta, senza nocchiero. Me ne ricordo di nomi di quei nocchieri, non tutti certo, ma qualcuno ancora, che il fortunale avevano d’affrontare comunque, perché scadenza di cambiale di banca per acquisto di gozzo di mastro d’ascia, non aveva gran cura di meteo per vento ed onda. Poi era lancio di fiori da scogli, a speranza esausta, per ornare tombe d’abisso. Follia d’altri tempi, che ora è a gioia collettiva di natante che affonda a carico completo di disperazione per orizzonte di vita differente, mancato porto salvo. Pure è a digrignar gengie sfatte di bava rabbiosa se taluno allunga mano a salvezza di disgraziato, ed urla a crucifige, in attesa dell’ora di sgranar rosario, della domenica per battersi petto a favore di santo o Madonna. Si sceglie di fare a rimpinguare quella pletora genuflessa, o lanciare un fiore tra le onde, che quello sa dove deve andare, la corrente l’accompagna giusto.

Ca’ pummarola ‘ncoppa

C’è cosa che vi propongo in versi che ancora – ancora – non fu ad indice! Non prima di musichetta assai lunga, però.

Sì. Detta così l’ispirazione:

la mia libera fantasia s’appiglia

sempre a quei luoghi dov’è umiliazione,

dov’è sporcizia e tenebra e indigenza.

Laggiù, laggiù, con più umiltà, più in basso, –

di là si scorge meglio un altro mondo…

Hai mai visto i bambini a Parigi

o sul ponte i poveri d’inverno?

Dischiudi gli occhi, schiudili al più presto

sul fittissimo orrore della vita,

prima che un grande nubifragio spazzi

tutto quello che c’è nella tua patria, –

lascia maturare il giusto sdegno,

prepara al lavoro le braccia…

E se non puoi, fa sì che in te si accumuli

e divampi il fastidio e la mestizia…

Ma di questo vivere mendace

cancella l’untuoso rossetto

e, come talpa timida, nasconditi

sotto terra alla luce ed impietrisci,

tutta la vita odiando con ferocia

e tenendo in dispregio questo mondo,

e, anche se tu non veda l’avvenire,

dicendo no alle cose del presente!” (Aleksandr Aleksandrovic Blok)

Mercoledì c’è questa cosa strana che si chiama Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, che s’afferma quale agenzia dell’ONU, che dice che al largo della Libia c’è terribile naufragio e che undici sono cadaveri a preciso ritrovamento, pure sessantadue dispersi, che vuol dire che son cadaveri ma non a ritrovamento. Stesso giorno son diciotto che viaggiano a nasconderello dentro camion di legna in verso la Bulgaria che muoiono tutti. E questa pare tutta gente che si diverte a far morto ammazzato ora di freddo ora d’annego, pure di fame e sete. Che scappa per farsi cadavere a ritrovo non sempre facile. E a me a dire salviamoli non mi viene più, che tanto c’è ascolto uguale a meno di zero, che la colpa è di questo e pure di quello, e la verità è che fu solo colpa loro che partono, che se non partono farebbero buonissima cosa, così si fanno a morto d’ammazzo da parte altra e a casa che non ebbero, che occhio non vede cuore non duole. Ma taluno arriva e si fa nascostissimo e financo clandestino, e mi viene da pensare che fa questo che arriva, così mi faccio conto della serva a precisissimo bancone di supermercato a prezzo di hard per prodotto mirabilmente 100% di cosa nostra. Fatto salvo che non dico quale è detto punto vendita, che a dirne uno si fa torto ad altri altrettanti, mi faccio acquisto di magnifica bottigliozza di profumatissima pommarola nostrale a prezzo di 0,80 Euro per circa 700 gr. Faccio salva buona fede e dico che è nostrale, pure se ad apertura fa stesso profumo di passata d’acqua. Ma continuo che faccio di conto giusto. Mi ritrovo a prezzo di sola bottiglia a privazione di etichettatura ad andar bene tra venti e trenta centesimi, poi c’è passaggio da produttore a grossista e distributore con relativa spesa di trasporto più IVA varia di qua e di là, tassettina ad oltre qualcosa in più ecc., guadagnetto di passaggio per filiera lunghissima, e mi sono perso sicuro talune cose di certa rilevanza. Ma a fine di conto mi pare che a far passata di quella portata ci vuole almeno – e vado ad esperienza diretta – due chili di pomodoro a far onesto il produttore. Ma mettiamo che non è precisissimo di onestà integerrima ed allunga d’acqua, così facciamo un chilo e mezzo. A conto fatto finale c’è cosa che mi salta strano, quanto si paga schiavo – e chi sarà mai tale schiavo? – per raccolta di pomodoro che mi pare avanzò nulla o qualcosa meno di tale? Dunque, a bolletta di 400 Euro che mi arriva di gas per mia stanzetta, a constatazione che per grande e glorioso banchierissimo sostituto di migliorissimo non è salutare aumento di stipendio a fronte di caro prezzo, a considerazione che a pezzo di popolo a consistenza elevata di numero non venne sdegno l’annego facile, mi sovviene che chi non si fa morto d’ammazzo per fuga da scappo da triste vicenda di paese suo, fa da ammortizzatore sociale meglio che previdenza di stato mio, che almeno mi mette a tavola piatto di spaghetti co’ pummaroru di sovranità d’alimento.

Disordine e indisciplina cosmici

“Che mai sarebbe il mare e il cielo,

e le isole e le stelle,

e quanto all’occhio umano si offre,

che mai sarebbe questo spento suono di cetra

se io non gli infondessi suono e anima e parola?”

(Friedrich Hölderlin, Empedocle)

Mai fu bastevole starsene a contemplare l’infinito, coi trabocchi d’altro che si frappongono tra esso e lo sguardo, se non si intrattenesse col tutto d’intorno amabile conversazione. Se non si cogliesse che in quello ci sono suoni e parole che scivolano lente, tali altre s’agitano di moti compulsivi che fremono di desiderio di racconto. Pure non valse la pena d’annoiarsi su una sedia volta all’indecifrato se non vi fu volontà d’ascolto per la nuova narrazione che si ricompone nei meandri antichi delle solitudini definitive. Dette solitudini, però, s’ebbe a concretezza d’osservazione, mai furono davvero tali, piuttosto si prefigurarono come brulichio permanente, quale onda di marea che s’alterna a risacca di rimbalzo, tempesta e bufera che si fanno a soverchianti forze a scontro finale con bonaccia e calma piatta. Davvero ci si fonde con l’infinito e con tutto ciò che fu strada verso d’esso quando sapori e suoni, colori e profumi non paiono più darsi confine preciso, s’impelagano a fusione perfetta, piuttosto, paiono ragazzini che scivolano verso la palla che rotola all’unisono, ad un tutto insieme che non prevede geometria di gioco, precisa programmazione. Ma che meraviglia farsi strada nel kaos della percezione, nel quel che viene viene. E se comincio a metter punto qua e là, non fu tale per definire l’accapo del ricomincio, ma solo momento di fermata a godimento, che me ne feci concessione con bicchiere pieno e musica che mai si fece così giusta nel rilasciare effluvio potente.

Vabbè, a scanso d’equivoco, “imitazione di Empedocle. Troveranno sull’Etna, a tre metri dal cratere, una scarpa Varese numero 42…” (Gesualdo Bufalino)

Le storie nella storia (Allonsanfàn parte ventunesima: “Era di giugno” di Mario Di Sorte)

Raro che parli di libri da queste pagine, non mi risulta d’averlo mai fatto se non in riferimenti di sgambescio, obliqui, qualche citazione rubata all’uopo. E ve n’è ragione precisa nel fatto che mi è raro di rimanerne preso a tal punto da non poterne fare a meno se escludo cose di lettura antica, volumi e volumetti che s’affollano – o prendono polvere – sui miei comodini, compagni d’un viaggio non invidiabile. C’è poi quell’altra cosa che mi crea indugio nel farlo, quell’altra cosa che riguarda me, anzi, ad essere onesti quell’altro me, da cui in queste pagine decisi di divorziare unilateralmente. Poiché egli di libri ne scrive, non parlando dei suoi mi pareva che potrebbe aversene a male ch’io parli di quelli d’altri.

Per una volta faccio finta di niente, stimando che forse non se ne accorge, seppure prima di procedere fui frenato anche da altro che m’accorsi essere invidia. E già, ché io mai ebbi capacità di farmi capire ad immediatezza di lettura, nemmanco forse ci provai. Ed invece il libro di cui voglio parlare è chiaro e limpido, scritto da un amico carissimo e fraterno (e pure questo mi frenò un attimo, ch’è facile essere additato qual preda di piaggeria) che sa dare peso alle parole, ne conosce il senso profondo, ne soppesa l’esatto valore. Ma finii per superare residui di pruderie, dunque procedo.

Era di Giugno (Effigi Edizioni) di Mario Di Sorte è un libro che esplora la storia, ce ne rende un’immagine composta di frammenti e vissuti drammatici, ma non convenzionali. Lo fa attraverso le vicende umane di tre ragazzi, Bobby, Alfred e Tonino, diversi, com’è necessario che siano gli sguardi che si volgono alla comprensione della complessità che regola i fatti degli uomini, l’irrazionalità della guerra, in questo caso, la costruzione di relazioni che pure fanno degli uomini ancora una volta uomini. Di Sorte usa uno strumento narrativo singolare, originalissimo, crea l’ordito d’una trama fitta con eleganza ma mai indugia in trovate ed orpelli estetizzanti.

Pare lo scienziato che osserva il vetrino ad occhio nudo prima di posizionarlo con perizia sotto le ottiche potentissime d’un microscopio. Aumenta progressivamente l’ingrandimento e crea un passaggio di testimone nel ruolo di protagonisti del libro di cui non ci si avvede subito. La storia, la gigantesca mobilitazione internazionale, i fermenti di liberazione e resistenza, la follia della barbarie della guerra sono fatti anche di luoghi, personaggi che attraversano il tempo, che paiono navi alla deriva. Nella prima parte del romanzo è tutt’altro che quinta scenografica per il racconto di precise vicende umane, è essa stessa protagonista e la coinvolgente narrativa di Di Sorte ce la rende in dettagli precisi, atmosfere convulse e rapidi cambi di scena. Interni di navi inseguono porti brulicanti, immense distese d’oceano, deserti e campi di guerra si alternano, e pare di sentire dentro le pagine del libro un vociare sconnesso, i boati terrificanti che disvelano orrore e speranze. Poi il microscopio della narrazione cambia oculare, coglie presenze umane sempre più precise, delineate, prima camei di grande potenza letteraria, apparizioni fugaci (il comandante d’una nave che trasporta prigionieri è figura sorprendente, come certe magnifiche presenze nei libri di Conrad). L’Italia prende posizione, lentamente, si lascia attraversare, ci mette se stessa, i suoi boschi, i suoi borghi, le campagne, ogni dettaglio è descritto con precisissima attenzione. Nulla pare lasciato al caso nelle descrizioni di Di Sorte, tutto concorre a costruire l’unicum narrativo della complessità degli eventi da cui emergono poderose presenze d’umanità varia, quelle che, senza rendercene quasi conto, ritroviamo adesso protagoniste, come avessero ricevuto un immaginario testimone dal tutto d’intorno. Le donne, gli uomini si esprimono con i loro rancori, le violenze, gli amori, la solidarietà, e fanno di questo libro un romanzo non catalogabile, che si muove oltre il genere. È libro storico, certo, insieme romanzo d’amore e di guerra, di sogni e nostalgie, di struggente desiderio di mondi altri, di speranze, di utopie che emergono dalle macerie e cui pare non importa molto di epiloghi sempre e comunque mai scontati.

Al cospetto del grande tramonto

“Il sole già cade a piombo; tutto ora è sospeso e turbato, ogni moto coperto, ogni rumore soffocato. Non è un’ora d’ombra, né un’ora di luce. È l’ora della monotonia estrema. Questa è l’ora cieca; questa è l’ora di notte del deserto. Non si distinguono più le rocce tarlate, tigna biancastra fra la sabbia… Non c’è più né cielo né terra” (Giuseppe Ungaretti)

Pare che finì infinita kermesse che elevò il dibattito delle patrie armate sponde, che fu di grandissimo stimolo per riflessioni d’altro livello che non si videro a quotidiano.

Che ora ci tocca di tornare a cose futili come guerra – che parve una sola che altra non conta pure se a numero e vittima di peso diverso – e spaventoso cataclisma, che fu fortuna ch’ebbimo giornalistume illuminatissimo che relega a trafiletto argomentucci ancora più terra terra quali muoio di freddo per senza casa, m’ammazzo a lavoro per non arrivo a fine mese e, mi dice grande governatore di gioco a parallelismo con stato democratico, ch’è cosa assai disdicevole che alzo stipendio. C’è certezza che taluno meritevolissimo dà ascolto a consiglio di grande e raffinatissimo acume.

E c’è finalmente presa di posizione che ricchissimo trema più di disgraziato davanti a giustizia feroce che è a rimprovero che fece solo ciò cui fu avvezzo e educato che è rubo a quattro ganasce. Povero, del resto, se è ad arresto, si fece vitto e alloggio ad hotel cinque stelle a spesa di stato democratico, mi pare di capire. Pure, in fondo in fondo a giornalettume, tra necrologio ed annuncio d’asta per immobile un tanto al chilo causa fallimento, ci trovo cosa come disastro d’ambiente per cambio di clima, siccitosa campagna al freddo e al gelo. Fa spicco a buona notizia e somma letizia a ripresa di rimbalzo d’ogni prima pagina che mammasantissima si fa buono buono che cattivone fu ad arresto inaspettato, e pure si deve a sottolineo per digrigno di dente fatto che avviene sbarco di miliardo più, miliardo meno di clandestino per colpa di barcavendola di ong. Insomma, io, quasi quasi, pure se non ne vidi nota nemmeno notarella, mi auspico grande kermesse a durata illimitata, che tanto notizia a come si deve è e rimase a ricerca d’ago in pagliaio.

“Lo spettacolo è il brutto sogno della società moderna incatenata, che infine non esprime che il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il custode di questo sonno.” (Guy Debord)

Bussole perse

“Per arrivare all’infinito, e credo vi si possa arrivare, abbiamo bisogno di un porto, di uno soltanto, sicuro, e da lì partire verso l’Indefinito.” (Fernando Pessoa)

Così è il viaggio di scoperta, pure che tu lo faccia standotene fermo. Quello si consuma solo se non hai meta, il progetto è trasformazione, l’itinerario si sorprende di non essere tale, si spiazza da sé, si pasce d’indeterminazione. Ma il porto, quello è necessario, qual punto di partenza, certezza irrinunciabile, quello d’arrivo vattelapesca dov’è, che fu fortuna che non si conobbe. Il porto sicuro non è mai meta finale, si fa tappa intermedia per forza, il luogo del tirar fiato, ritemprarsi alla banchina che si camuffa da trampolino per l’infinito, per un nuovo salto incognito.

Porti salvi e sicuri solo si perdono nei vicoli diradati dell’attesa d’una nuova partenza, nel tempo che non esiste, che mai fu perso per la certezza dell’altro viaggio. Quello che arriverà sarà di vertigine pura se il porto che hai dietro comprendi ch’è solo ennesimo approdo, e te ne propone altro pari a sé stesso in un altrove che non sa di esistere se non al confine dell’immaginazione, in una mappa sbiadita e cangiante dove la rotta si è persa nel rivolo delle mille e mille derive, tra altrettanti sbarchi fortunati. Un porto c’è sempre, ché dove finisce il mare il mare ricomincia. C’è chi arriva, chi va via, tutti hanno una storia che raccontano, che ti dice che c’è anche altro. Quella, l’immaginazione, si veste d’abito scarlatto, come certe vele al tramonto, si fa porpora di murice, blu cobalto d’abisso, ed ogni altro colore si troverà financo in tutte le sfumature raffinatissime di grigi, dentro le linee d’ombra.
“A quel punto mi ero accorto che cercare era il mio destino, l’emblema di coloro che escono la notte senza alcuna precisa intenzione, lo scopo degli assassini di bussole.” (Julio Cortázar)

La calce ed il cotto (parte seconda)

Pare che la natura s’attrezza a ripigliarsi il suo, che fece di terra che trema e vento di scirocco furibondo sue armi letali, a dispetto d’onnipotenza umana. Mi giunge voce, che son lontano assai in questo momento, che la fornace si sgretola malamente, a forza di bufera che non s’arresta. Mi sovviene che è poca cosa che pure anime migranti si misero a condizione d’inghiottimento per onda alta metri e metri. Ma è sempre cosa di miei ricordi che sparisce, e infonde tristezza di vertigine.

“Lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus orca) E a sommo di mestizia riprendo cosa antica.

“Mi dicono, taluni, ch’io vivo a nostalgia, che è cosa non rispondente al vero, poiché del bel tempo andato non ho affezione particolare, che fu tempo di travagli. Ma v’erano, tuttavia, marasmi di dettagli di solluchero allora, dunque – saggio di filosofia quale Epicuro – me li serbo ancora, che non sono più apparentati solo con quel tempo, rimangono nell’oggi, lontani, dunque, dall’essere esclusive rimembranze, come certe musiche che suonano ancora.

Talune di quelle cose si perdono, me ne dolgo e a quelle si, rivolgo rimpianto. Ozio e lentezze mi sono ancora cari, quali cenni di svago, pure cose di densità palpabile ancora m’appartengono. Preciso, invero, che mai mi rivolsi più di tanto ad affezionarmi alle cose di stretta proprietà, le tratto con svogliatezza, se escludo dal novero dischi e libri. Ma cose di legame ne conservo, che non sono mie, nemmeno mi sconvolge l’idea possano essere d’altri, che la bellezza rifiuta l’appartenenza, rifugge del concetto proprietario. Sempre, nella valutazione che non è bello ciò che è bello, che principio di bellezza, forse, non è fatto assoluto. Che di certe bettole che mi furono aule di scuola, sentii disquisire malissimo, in contrappunto non cantante con certe tavole apparecchiate a lusso. Di tali personaggi di cui m’innamorai, e che fecero storia contorta di sé, mi pare di ricordarne censura. Pure per certi vini, che sapevano di terra e sale, e mi vennero a conforto – financo d’economie approssimative – ricordo espressioni di disgusto.

La fornace, vecchia cattedrale che dalla punta si sdraia sulle onde, ghermisce di camino il cielo, e s’apparecchia al tramonto come quinta estatica sul tutto d’intorno, è una di quelle siffatte idee concrete che mi convive di simbiosi.

Seppure non me la godo quanto mi parrebbe, me ne faccio racconto, memoria presente, e il reincontro attendo con le ansie vaghe di chi ha caduca certezza delle cose. Consunta nelle malte incendiate, lei, s’è retta – capolavoro d’architetti che non pensarono alla storia – un secolo e più, d’equilibri precari di pietre, sottese a leggerezza, a sorreggersi l’un con l’altra, pare, a dispetto di leggi newtoniane, pure di convenzioni socio(il)logiche nelle contraddizioni dell’oggi. Ma ogni anno, il rinnovato afflato, mi pare che s’abbandoni al desiderio di sparire e, mentre mi rendo ancora nessuno al suo cospetto, lei adesso smunge, si compenetra con la sabbia generatrice, s’affolla di salsedini e si concede al vento, pietra su pietra. Mi dice, or ora, il maestro sulla punta del corvo, di pennelli e scalpelli assai edotto, che s’amputò un’ala, che quella mai rivedrò se non in cocci. Un po’ più monca, piano piano, la fornace pare s’arrende, forse al desiderio di divenire nostalgia, ricordo d’ozi e lentezze, sigarette rubate, in bilico di falesia. O forse issa bandiera bianca di calce e cotti sul comignolo più alto, per sopraggiunta noia e stanchezza di irruzioni cash & carry.

Radio Pirata 53 (perché Radio Pirata è Radio Pirata, pure festival, all’uopo)

Radio Pirata si fa a numero Cinquantatre che lancia il suo Festivalissimo, cosa assai promessa e che è manifestazione a vanto di mille mila tentativi di imitazione. Che qui ci abbiamo ospiti di livello internazionalissimo, portatori di pace, signori di istituzioni a somma cima, intellettuali di spessore indiscutibile e sempre più presenti sulle scene. Diamo subito inizio a danza in presenza che facciamo tutto dal Teatro Porto Salvo della città di Sambudello, centro nevralgico di coltivazioni orticole della nostra sacra patria, la Libera Repubblica di Milleforme. E musica sia immantinente.

Subito si procede con grande intervento di illustrissimo e prestigioso affabulatore, che si prestò a cosa gradita di parlare di spettacolare Costituzione e Carta Fondamentale della nostra amata patria, Libera Repubblica di Milleforme. Ma mi comunicano ora che ci fu difetto di comunicazione ch’egli, il predetto elevatissimo, si presentò non pronto all’uopo ma con certificato di sana e robusta costituzione redatto da un medico senza frontiera. Ma strappammo uguale frase di prestigio a valorizzare santa kermesse. “La legge è fatta esclusivamente per lo sfruttamento di coloro che non la capiscono, o ai quali la brutale necessità non consente di rispettarla.” (Bertolt Brecht)

E, previa dissociazione da quanto sopra che è pensiero suo nel senso di chi lo disse, andiamo subito con nuovo brano inedito a concorso che c’è televoto a fremere d’impazienza.

Prima di continuare ci preme di ringraziare nostro amatissimo main sponsor, la cantineria Sfiringeri e Cucuzza, da anni immemori fornitore di pregiatissimo vino pista e ‘ammutta a tutto quanto territorio di Milleforme. Un vino delicato come l’asfalto appena steso nella litoranea d’un mezzogiorno d’agosto, che s’imbudella di traverso e ti dona allegria anche al funerale dell’ultimo dei Mohicani. Il vino per tutti i giorni, quello che ti fa vedere la luce in fondo al tunnel, pure altro, all’occorrenza, rigorosamente rosso sangue. E via di musica, che fate attenzione al pezzaccio e preparate a scegliere il preferito assoluto.

Ma come Festival che si rispetta, pure a noi ci tocca grande, gloriosa e giusta valletta che, causa piccolo infortunio, un poco claudica (questa abbiamo trovato), ma che ancora a presentar cose buone è adusa assai, che le facciamo dire cosarella pure a lei che questa è manifestazione di libera espressione. “Qualche volta ho la sensazione di non essere un vero e proprio essere umano, ma appunto qualche uccello o un altro animale in forma di uomo; nel mio intimo mi sento molto più a casa mia in un pezzetto di giardino come qui, oppure in un campo tra i calabroni e l’erba, che non… a un congresso di partito. A lei posso dire tutto ciò: non fiuterà subito il tradimento del socialismo. Lei lo sa, nonostante tutto io spero di morire sulla breccia: in una battaglia di strada o in carcere. Ma nella parte più intima, appartengo più alle mie cinciallegre che ai “compagni”. E non perché nella natura io trovi, come tanti politici intimamente falliti, un rifugio, un riposo. Al contrario, anche nella natura trovo ad ogni passo tanta crudeltà, che ne soffro molto.” (Rosa Luxemburg)

E mentre ci dissociamo da questo pensiero della nostra valletta ch’è pensiero suo, proseguiamo a musica a tutto tondo.

Come fu dato a sapere da rimbalzo su ogni organo di stampa a livello d’ogni angolo del mondo, Radio Pirata doveva fare ospitata di grande capo politico di stato estero, ma inutili e pretestuose polemiche hanno costretto intero staff a rivedere posizione specifica. Tal capo estero non sarà presente in persona nemmeno personalmente a organizzazione di differita e streaming, ma mandò accenno di discorso da cui ci siamo dissociati pubblicamente e in forma precauzionale ed anticipata a scanso d’equivoco. Ve lo spiattelliamo a come c’è giunto uguale. “L’ambientalismo senza lotta di classe è solo giardinaggio.” (Chico Mendes)

E mentre televoto restringe campo di vincitori, che da parte altra di pianeta si restringe per terra che trema possibilità di scampo a sconfitti per sempre, noi andiamo a subito per scanso d’arrovello con comicità sorprendente d’allegrissimo ospite. “Sembra che gli uomini provino più sensi di colpa per i terremoti che per le guerre che essi stessi fomentano.” (Elias Canetti) E che risate che ci siamo fatti, manco pare vero che ci fanno male pure i fianchi, applauso, ma con cautela che mi dissocio un attimo. E via ancora di musica per subitanea votazione di rete e telefono a costo di cambiale in bianco a chiamata.

E così si va a conclusione di grandissima puntatona di Festival di Radio Pirata che ci furono colpi di scena imprevedibili, grandissimo divertimento e pure momento di possibilità per mi dissocio che prima invito e poi non condivido proprio tutto, ma questa è la democrazia, ed a Libera Repubblica di Milleforme c’è pratica quotidiana di democrazia, per consulto costante di tutti abitanti del territorio che votano ad alzata di mano a chi fa legge e per chi si fa legge. Democrazia assembleare che, ad abitante unico che son io, funziona perfettamente che nessuno è in disaccordo su decisione presa, e se pure è in disaccordo la cambia a senza colpo ferire. Ed ancora vado a ringrazio per vino di bettolone a mescita prestigiosissima, e chissà chi vinse prestigiosa nostra kermesse. S’accettano consigli che io mi consulto con me stesso e mi mando un messaggio sms con mia preferenza.

La terra trema

I giornalisti sono impermeabili a tutto. Arrivano sul cadavere caldo, sulla partita, a teatro, sul villaggio terremotato, e hanno già il pezzo incorporato. Il mondo frana sotto i loro piedi, s’inabissa davanti ai loro taccuini, e tutto quanto per loro è intercambiabile letame da tradurre in un preconfezionato compulsare di cavolate sulla tastiera. Cinici? No frigidi.” (Carmelo Bene)

Io glielo dissi a tal vecchio conoscente che mi disse che patria sua si chiamava Kurdistan, glielo dissi chiaro e tondo che patria sua non era ad esistere. Ch’egli e suoi fratelli e sue sorelle nacquero a posto sbagliato e idea distorta ch’era difficile costruire a vestito loro narrazione di ferocia. Ch’essi avevano donne a pari di uomini, pure poi si misero a far pratica di democrazia e quella, con desiderio di casa propria a diritto manifesto di libertà, difesero coi denti senza manco possedere terra propria a farne pratica. Non ci fu per essi dichiarazione quale esempio di nuovo rinascimento da politicume a soldo, nemmeno solidarietà di grande occidente di valore di libertà. Già che c’erano difesero pure casa nostra da tagliagole, se ne fecero muraglia a vittima sacrificale. Ma si fecero arroganti che chiesero armi che non fossero mitragliette ad inceppo automatico, mica mega missile balistico e carrarmato per difesa di maledetta frontiera che non fu mai tale. Dunque finirono a silenzio globale a farsi vittima di bomba di questo o quel califfo, taluno a tanto petrolio talaltro ad alleanza militar-sacra con occidente inviolabile e muro di difesa elevatissimo. Ed ora che terra ebbe a tremare con grande spavento e ammazzati ne ebbe a fasci di migliaia, c’è pianto commosso, ma non azzardatevi a fuggir via per fame e lutto, che ci sarà blocco navale pure a cima di Carpazi e disperazione di oblio vi sarà concessa come altre volte si riservò a voi e ad altri mille mila miliardi a disperazione. Noi abbiamo cose serie cui far fede, che non si sa ancora qual canzoncina sarà ad alloro di primato.

Tra le tende dopo il terremoto
i bambini giocano a palla avvelenata,
al mondo, ai quattro cantoni,
a guardie e ladri, la vita rimbalza
elastica, non vuole
altro che vivere.

(Gianni Rodari)

Per difetto di comprendonio

In detti tempi grami che a morto d’ammazzo si risponde con ne ammazzo abbastanza di più io, con bomba e con quel che ci pare, che fummo sotto assedio da torme di barbari di ferocia inaudita ch’è meglio si faccia annego di tutti loro in un sol boccone di Scilla e apoteosi di vendicative fauci di Cariddi. Pure c’è morto ad ogni dove ed io non capii bene se oggetto del contendere è vero quello, oppure ve ne fu altro assai più sottile.

Che data sottigliezza mi sfugge, che a dibattito elevatissimo io non potei prender parte nemmeno a ruolo di sgambescio per dir la mia sottovento che nessuno m’ascolta. Per quello occorre vocazione d’ingegno autentico ch’io non ebbi a nessun fatto, che fui d’intelletto munito a far concorso a ribasso per numero di neuroni con cozza attaccata a scoglio ad aspirar salsedine e basta a marea più bassa. D’altro che non fosse sale non mi feci abitudine d’aspirare, che lì, proprio a confine di terra malferma d’isolata insularità con continente blu, mi feci natale a mio malgrado, che se avessi scelto mi sarei pasciuto di salotti buoni ed intellighentie superiori.

Ciò non mi fu dato d’anagrafica precisa e scarsa propensione a brigo d’azzardo e sgomito per esser altro a diversità di tal nessuno che non fu altro che tale. E, dunque, non mi fu facile comprendere livello sottilissimo d’analisi e scontro, ad arma bianca e ventaglio di nero munizionamento, tra strateghi di destino del mondo, che mi parve altro oggetto del contendere. Che se morto è d’ammazzo preciso a sparo autentico, o d’annego, a finir sotto ruspa selvaggia, o d’esposizione a freddo o caldo, fame e sete, io che sono semplice di pensiero, mi vien da pensare che a causa di tutto c’è che faccio scelta a quanto conviene a doblone di pagar salvezza di vita piuttosto che mezzo di sfruttamento, fabbrica d’inquino a soccombere di pianeta, bomba a faccio pulita la piazza. Insomma, fu che m’accorsi che non ci arrivo a ragionamento preciso, che mio intendere è di profilo basso e chiacchiera ispiratissima mi parve, ad obnubilazione mia per ignoranza capitale, – e di capitali – rapimento di vil secchia. E se riscontraste in parole lette riferimenti a cosa e persona varia di reale esistenza, si sappia che fu solo ché mi scappò così, giammai ci arriverei da solo.

Vorrei cantar quel memorando sdegno
Ch’infiammò già ne’ fieri petti umani
Un’infelice e vil secchia di legno,
Che tolsero ai Petroni i Gemignani.
Febo che mi raggiri entro lo ’ngegno
L’orribil guerra e gli accidenti strani,
Tu che sai poetar, servimi d’aio,
E tiemmi per le maniche del saio.

E tu, nipote del rettor del mondo,
Del generoso Carlo ultimo figlio,
Ch’in giovinetta guancia e ’n capel biondo
Copri canuto senno, alto consiglio;
Se dagli studi tuoi di maggior pondo
Volgi talor per ricrearti il ciglio,
Vedrai, s’al cantar mio porgi l’orecchia,
Elena trasformarsi in una secchia.

(Alessandro Tassoni)

Conosco delle barche

La traversata era cominciata e la nave, come un frammento staccato dalla terra, correva solitaria e rapida come un piccolo pianeta. Intorno ad essa gli abissi del cielo e del mare si univano in una irraggiungibile barriera. Una grande solitudine sembrava avanzare tutt’intorno con la nave, sempre mutevole e sempre eguale ed eternamente monotona ed imponente. Di tanto in tanto un’altra vela bianca errante carica di vite umane appariva lontano e spariva diretta verso il suo destino.
(Joseph Conrad)

Ora sono solo numeri, numeri sparsi, oltre i necrologi, mentre è discussione accesa sul nulla che avvolge l’ultimo naufragio, solo ieri. Quello, il naufragio, non c’è più, forse non c’è mai stato, non se ne sente il bisogno, non v’è necessità se non a dimensione di trafiletto scordato.

Pure, il porto salvo, era lì, che ci sono tali che a forza di braccia fanno tratti più lunghi, roba da applausi, record e medaglie. Il corpo sfinito dalla fuga infinita non regge. Sei uomini, tre donne, una è incinta, un’altra è giovane, ha perso i sensi per fame, sete, freddo, teneva tra le braccia il suo bambino, scivolato via, finito inghiottito dalle onde. Questi sono quelli che non ce l’hanno fatta per ultimi, ed il racconto dei sopravvissuti si fa cosa che non si descrive con semplice strazio. Altre anime vedranno quanto è profondo il mare, Altre bare le attendono, ci sarà legno per farne ancora, useremo i relitti spiaggiati poi passeremo alla plastica, ricicleremo, che ci piacciono le economie circolari, il vuoto a rendere. Chissà chi vince il festival.

Conosco delle barche
che restano nel porto per paura
che le correnti le trascinino via con troppa violenza.
Conosco delle barche che arrugginiscono in porto
per non aver mai rischiato una vela fuori.
Conosco delle barche che si dimenticano di partire
hanno paura del mare a furia di invecchiare
e le onde non le hanno mai portate altrove,
il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.

(Jacques Brel)

Radio Pirata 52 (Contromanifestazione canora)

Radio Pirata si fa Cinquantadue tondi tondi, pure a contromanifestazione che diventa tale di grandezza e forma che altra pare ella contromanifestazione. Qui e ora facciamo a meno di comici, che tutti scelsero altra platea, pure quelli a distacco ad altra mansione che se non fosse che fanno piangere farebbero ridere a bomba. Qui a Radio si fa cosa seria che si scelgono migliori promesse musicali e si esaltano grandi virtù di giovani musicisti che si faranno ossa proprio a questa prestigiosissima kermesse che ancora una volta risulta prima negli ascolti a casa mia. Per non far delusione a nessuno cominciamo subito con ascolto sensato e breve dichiarazione di detto autore.

La morte non è la più grande perdita nella vita. La perdita più grande è quello che muore dentro di noi, mentre viviamo, quando rifiutiamo di affrontare i nostri demoni. Quando costruiamo muri invece che ponti, ci alieniamo, diventiamo estranei” (Chet …)

Che ponte pare quello che toglie isola dall’essere isola, ma mai ci fu pensiero di più grande distanza da ponte che unisce, ponte è a concezione di cosa che distrugge e basta, pure se non crolla non affratella, si fece a maggiore segregazione che ciò non fu possibile nemmeno ad immaginazione contorta e deviata.

E dopo assaggio di nuovissima ed intensa cosa di giovane talento a batter tasti in bianco e nero, discernendo il suono dell’uno da quello dell’altro per farne fusione perfetta, mi piglia schiribizzo di darvi notiziona in anteprima assoluta: a me non mi viene da ridere, pure se c’è cose che farebbero scompisciar dal ridere fossero film dei Monty Python, ma ebbi idea che talune sono vere.

Fu fortuna che, con atto di scaltrezza, m’assicurai nuova ed intonsa bottiglia d’Oro Pilla ad accompagno di note di Radio Pirata Controfestival che comincia, a parer mio, ad essere cosa di spessore importante. Forse non rido, ma almeno non piango e vado di cose preferite.

“La creatività consiste nel rendere meravigliosamente semplice ciò che è complicato.” (Charlie…) Qui in Radio Pirata facciamo solo cose semplici, ché quelle complicate non sappiamo bene come sono fatte, sono cose che appartengono a gente illuminatissima, gente meritevole e migliorissima, gente che sa come sparacchiare bombe e che fa festival di grandissima audience. È roba per persone che muovono PIL, che affogano nel rendiconto bancario, che sanno bene chi fare affogare a lontananza prescrittiva da porto salvo.

“Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra.” (John…) Che, anche se sono giovani e non si conoscono così bene, a noi ci piace che certi musicisti dicono queste cose, che ci facciamo per benino a curatori loro, certo confusi, ma quando mai a Radio Pirata abbiamo aspirato ad ordine e cose così?

Sguardo fisso

Pace non cerco, guerra non sopporto

Tranquillo e solo vo pel mondo in sogno

Pieno di canti soffocati. Agogno

La nebbia ed il silenzio in un gran porto.”

(Dino Campana)

M’ero dato, ch’ero poco più che un bambino, un rigore di vita preciso, a scoglio tra i più solitari sin dall’alba, al più, per scavalco abusivo, ed ancora a scarse frequentazioni, mi concedevo resa d’omaggio alla tomba del poeta tedesco e negletto di cui mai lessi un solo verso. Non ci fu giorno che non facessi del mio tempo occasione di sguardo sotteso sull’onda, a sgamo di barca che fa capolino ad oltre orizzonte, nemmeno pensai un attimo a far di me cosa che tanti dissero, che parevo strano a buttar pezzo di mia gioventù ad apparenza di gianfanniente. Mai considerai perso quel tempo di scarsa presenza umana. Che quel poco era gioco di cime, pure io mi trovai a reggerne taluna, per dar mano d’aiuto a barcarella che s’apprestava a moletto con onda che si faceva ostacolo a preciso riparo. Altre e tante volte tirai – a far cosa d’istinto – a secco di rena o scoglio puntuto nuotatore non provetto. Altri vidi fecero uguale, che a star fronte mare s’apprende cosa semplicissima, che è a tendere braccia a chi nuota a fatto di difficoltà. Pure l’onda pare t’aiuta a presa di quella decisione. Che non mi feci mai abbastanza edotto di come si può dire non tendere braccia a braccia che affonda. Forse che la cosa più semplice è proprio così tale da risultare di difficoltà manifesta a chi rinunciò ad avere pensiero suo che non fosse d’automa a radiocomando.

Che uomini sono quelli che preferiscono la monotonia del mare? Mi sembra che siano di quelli che hanno scrutato troppo a lungo, troppo profondamente nel groviglio delle cose interiori, per non cercare in quelle esteriori una cosa sola, la semplicità…” (Thomas Mann)

Giornata della dimenticanza

D’ultimi tempi quell’altro me che s’affanna di quotidiani furibondi, mi tiene assai lontano dal gradito passatempo della mia bloghettola (sintesi di cosa di rete e bettola per quattro chiacchiere tra amici con bicchier di vino). Che cerco pure di leggere tutto, pure se tempo per risposte me ne rimane assai poco. Stamane, mi capita, costretto a poco movimento causa parainfluenzal declino, di buttar occhio ad un paio di cosarelle che gradii, d’un paio di blog che seguo con interesse: eccovele qui e qui. Poi vado un tanto di musica.

Insomma, che s’avvedono di cose luttuose ad idem sentire che d’altri tempi pure io parlai di fatti analoghi. Ma faccio mia parte che aggiungo un tantino a riflessioni già pregiatissime e la prendo alla larga. Mi feci, ad età scolastica, soprattutto a periodo di media, partecipazione ad attività educativa con metodologia che pareva un tantino segregazionista. Era d’uopo costruzione di classi su basi non proprio pedagogissime, ma erano altri tempi pure se non più medioevo da qualche frammento di secolo. Nella classe mia c’eravamo quelli messi male in arnese. Non me li ricordo tutti, qualcuno si, non di nome ché a certi ambiti non val la pena sottolineatura anagrafica e io, nessuno per scelta consapevole, ne trassi allora pieno convincimento. Il mio compagno di banco – figlio di tal contadino che era a pestaggio istituzionale per manifestazione non gradita a spesso e per protesta di condizione di morto di fame a schiena china e artrosi precoce – parlava a balbuzie e pareva che aveva manciata di ceci in bocca. Allorché interrogato sbiascicava sillaba confusa e compito suo si faceva carta straccia a tempo niente. Tale altro, a banco attiguo, era a soglia di servizio alla patria e di lui poco si sapeva giacché svolgeva a ristorante fuori porta servizio di lavapiatti sino alle tre del mattino e poi, dopo attraverso campagna su campagna con motobecane a sganghero di scarburo, convolava a giusto sonno su banco d’obbligo scolastico per intera mattina.

C’era poi la fila, ch’era novità recente per incedere di modernità, di ragazze a grembiule nero, a precisa distinzione a classe mista ma non troppo. Una di tali, di cui ho memoria solo per capigliatura rossa e silenzio imperscrutabile, era a padre ignoto e madre di mestiere antico. I miei insegnanti – e nemmeno di loro ho memoria di nome alcuno – erano assai poco a propensione a strategia pedagogica d’alto profilo e lettura di lettera a professoressa, piuttosto a righellate su nocca. Pure erano d’età avanzata a pensionamento precoce e dietro l’angolo, che ne cambiavamo a blocco d’anno parecchi in coro. C’era volontà di sorta d’appartheid non codificato. Ma, a far due di conto, che poi divenni coso, per legge di contrappasso, che fa matematica a creatura, tale attività, a faccio elenco separato di buoni e cattivi, mi parve che continuò a mentite spoglie. E allora eccovelo il conto per l’anno che se n’è andato, che ogni anno si ripete, semmai s’amplifica: morti in carcere 203 di cui 84 per m’ammazzo da volontario; sono a morto di lavoro circa un migliaio; circa 1.500 è il migrante che s’è fatto un nome anonimo d’annegato e cibo per pesce; 120 sono le donne femminicidiate; 367 morti senza tetto; sono 4.400 all’anno quelle che si sono sniffate un bel po’ d’amianto a ciclo produttivo preciso ed antico per mancata bonifica, e tutti parvero senza nome che d’altra categoria ce ne sarebbe da raccontare. A tirar le somme pare selezione bancaria che crea scompenso cimiteriale, roba che Darwin si sbagliò di grosso ed io, che non sono che nessuno, altro non aggiungo, che m’andò bene. Ma fra tanta giornata di lutto, la giornata per lutto di perdita d’Ultimo Ignoto a paese civilissimo, non sarebbe d’istituzione gradita?

Minoranze

Non è che uno sceglie di essere minoranza, semmai anela il contrario. Ci credo poco – ma ne ammetto pure l’esistenza – che c’è un taluno che sceglie di essere sempre e comunque minoranza. È cosa degli uomini affratellarsi con milioni di altre creature, pure lontane e diverse. Ma l’evidenza dell’essere minoranza mi sopraffà sinché sono stato investito dall’età della ragione, cosa peraltro non richiesta. Che poi essere nell’età della ragione non per questo impone d’avere “ragione”. Si può dissimulare il proprio torto, nel profilo basso del parziale fraintendimento, nella diplomatica accettazione del volere altrui, nel mugugno a bassi decibel. Ma sempre dentro la riserva indiana, poi, ci si ritrova, senza se e senza ma, spesso con un solito irrisolto perché.

C’è che uno non se lo sceglie da che parte stare, mi sono persuaso che gli tocca. Si può cambiare il corso degli eventi, ammettere che esiste il libero arbitrio, comunque ci si porta dietro la propria ineluttabile condizione esistenziale. Almeno penso, che non ne sono manco così sicuro, pasciuto nel dubbio, forse nel sonno della stessa ragione. Così, predestinato, per origini e censo, a rapinare le vecchiette davanti alla posta, mai m’avvidi di come ciò possa non essere successo, spiattellato a fare un profino qualsiasi, financo a godermi certe smanie piccolo borghesi, talora pure a montare librerie Ikea. Però ho passato tutta la vita nel desiderio d’omologazione maggioritaria, d’adesione agli immaginari collettivi, che sono convinto che ti toglie pensieri, il contrario t’arrovella. E ciò m’è accaduto in ogni frangente che vissi, cosa di cui non vi terrò edotti né nel dettaglio, nemmeno nelle sue linee generali, poiché è cosa di poco conto.

Il punto è che, seppure t’asciuga i criticismi, dunque ti solleva di certi gravami d’insonnia, l’essere maggioranza non è a costo zero, richiede tributi che taluni pagano con nonchalance, per altri è compito delicato, che impone fatiche e ti induce a scegliere di quali fatiche puoi fare a meno, quali altre sei in grado di sopportare. A me, lo dico francamente, dell’essere maggioranza mi preoccupa l’essere rapido e preciso. Eppure ci avevo sperato, come montagna inamovibile, in attesa del profeta, che la triste reclusione dei distanziamenti sociali, potesse stravolgere il senso delle cose, stralciare paradigmi, ridurre davvero le distanze. Invece!

È dai tempi della scuola, da quando la frequentavo dall’altra parte della barricata, intendo, che mi sento ripetere, se non esplicitamente almeno nelle indicazioni generali, che occorre essere rapidi, puntuali, efficienti, efficaci, in definitiva, meritevoli. Poi l’università, il lavoro, la musica non cambia, inno imperituro, richiamo costante alla mitica perfezione dell’agire, del produrre. Bisogna apparire decisi, vincenti, volitivi, esprimersi in modo sintetico ed esaustivo, non indugiare, accelerare, non tergiversare, perfezionarsi sino all’eccellenza, dimostrare volontà ferree, strategie definitive, risultare impeccabili, al di sopra d’ogni sospetto di lassismo, rinnegare il dubbio, compiacersi delle proprie granitiche certezze. Eleganti, ma senza pacchianerie – questo, invero, anche alla maggioranza, non è che proprio… -, in forma scultorea, frequentare i luoghi giusti, le giuste compagnie. Rapidi, dunque fast food, apericene, sushi, musiche con ritmi definiti, bum bum senza sorprese, rime baciate, brevi, che si ricordino, niente dissonanze e asimmetrie; il jazz è morto, l’improvvisazione sepolta. E io, se mi guardo intorno, se mi affaccio dai miei anni con lo sguardo indietro, la storia che vedo è un’altra.

Quanti progetti, quante cose iniziate e lasciate lì, in attesa di chissà cosa. Quante incompiute, quante risoluzioni fallite, quante approssimazioni. Non ho mai avuto una visione circolare del tempo come gli orientali, mi sono crogiolato di memorie, facendo in modo che il futuro si muovesse con “lentezza” sino a toccarsi col presente, ed insieme si mettano ad aspettare il passato per un tamponamento a catena che li faccia coincidere in un unico punto temporale indefinito ed infinito. Poi, col tempo, continuerò ad esplorare lo “spazio breve che suggerisce l’infinito” (Jean Grenier), e sceglierò in un viaggio sghangherato la mia “Itaca, la terra fedele, il pensiero audace e frugale, l’azione lucida, la generosità dell’uomo che sa” (Albert Camus). Perché quante approssimazioni, per fortuna, possono restituirci almeno uno scorcio di quella bellezza infinita che è nella nostra irredimibile natura umana di creature lente, di strateghi della lentezza, in competizione con le più ostinate lumache nel contemplare i dettagli più insignificanti di questa terra, per cogliervi dentro la suadente poesia. Di converso, quante brucianti accelerazioni, pragmatismi risolutivi, decisionismi improcrastinabili, precisioni burocratiche, successi epocali, ci hanno lasciato l’eredità d’un condono edilizio…!

Palla al centro

Sul far della sera tornarono in paese, aprirono il circolo e si misero a giocare a carte. Dìaz rimase tutta la sera senza parlare, gettando all’indietro i capelli bianchi e duri finché dopo mangiato s’infilò lo stuzzicadenti in bocca e disse:

– Constante li tira a destra.

– Sempre, – disse il presidente della squadra.

– Ma lui sa che io so.

– Allora siamo fottuti.

– Sì, ma io so che lui sa, – disse el Gato.

– Allora buttati subito a sinistra, – disse uno di quelli che erano seduti a tavola.

– No. Lui sa che io so che lui sa, – disse el Gato Dìaz e si alzò per andare a dormire”. (Osvaldo Soriano)

Che io con le cose di Soriano mi ci ritrovo, ché c’è autentica passione d’accalorarsi a tavolo d’osteria, sino a sfinimento di parziale ubriacatura senza desiderio di menar le mani. Io, lì, a osteria e bettola consunta, in genere a retroporto, crebbi ed imparai tanto. A slamare pesce grosso, per esempio, a dov’è spiaggia di delizia anche, ad attenzione e guardia alta per evito rosso allungato causa spuntatura a devianza verso aceto. Detta gente che tali luoghi affolla e di cui feci parte, poco capisce che taluno a piani molto alti ha chiaramente a disprezzo che esista umanità varia che non s’appassiona a volere guerra, che già piange per disgrazia sua e magari si fa briscola pazza a gioco d’azzardo per in palio bicchierino. Anela, al più, di farsi il secondo e poi due o tre passi a vedere se Pilu Rais tirò a secco una rete con pesce giusto per la matalotta della sera. Ma mondo civile non funzionava a volere di popolo, che così si disse? E chi chiese, a sondaggio preciso, che detto popolo abbia tal desiderio di partecipazione di grande tenzone universale a bombarda definitiva che grandi e civilissimi governi fanno a rincorsa a dire io ci sto? Non sono sicuro, che forse a fatto di detto sondaggio passò qualcuno meritevolissimo a chiedere, e a me sfuggì di dar risposta ch’ero già a fronte mare dopo terzo o quarto bicchiere. E si sa che chi non partecipa fa suo il torto. Ma mi venne pensiero che quella che si fa a gioco pare partita di pallone a porta serrata da ottomiliarducci di portieri scadenti, che cannoniere a tirar rigore non sgancia grande pallonata a destra o a manca, ma fa far botto a tutti insieme con petardo robusto. E l’arbitro, di grande illuminazione, tirò fuori cartellino rosso ad espulsione di squadra numerosa ad intero, che quella ebbe a scarso senso di sport di sporcar terreno di gioco. E poi palla al centro che campionato ebbe fine.

La luna, o giù di lì

Che c’è a più di ieri gioco di risiko che ho carrarmato tanto grosso che tuo trema di brutto, che pare gioco d’i studentato’adolescente a chi ha orpello a sovradimensione di miglior dotazione. E c’è corsa a chi spara la cosa più grossa che si spende tanto che a metà basta a sfamare intero creato. Ma quale dio è a prima di menzione di patria e famiglia – che poi a parlar di famiglia a mammasantissima a caduta di rete pare cosa strana – che non capisco? Pure si spende tanto di quella cassa di doblone a far morto d’ammazzo, a far che non ti curo, nemmeno che ti sfamo e disseto, pure a cercar vita – questa la lessi, me ne approprio impropriamente – ad altra parte di universo, mentre qua si fa a decremento demografico coatto. Ch’io spero sempre che viene ad emozione guardar la luna, che ci si dimentica d’altro nefasto intendimento. Così rifaccio questa cosa, che a me piace assai.

“I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare senz’aver finito d’estrarre le tante casse di zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar la calcara. Cacciagallina, il soprastante, s’affierò contr’essi, con la rivoltella in pugno, davanti la buca della Cace, per impedire che ne uscissero.

– Corpo di… sangue di… indietro tutti, giù tutti di nuovo alle cave, a buttar sangue fino all’alba, o faccio fuoco!

– Bum! – fece uno dal fondo della buca. – Bum! – echeggiarono parecchi altri; e con risa e bestemmie e urli di scherno fecero impeto, e chi dando una gomitata, chi una spallata, passarono tutti, meno uno.

Chi? Zi’ Scarda, si sa, quel povero cieco d’un occhio, sul quale Cacciagallina poteva fare bene il gradasso. Gesù, che spavento! Gli si scagliò addosso, che neanche un leone; lo agguantò per il petto e, quasi avesse in pugno anche gli altri, gli urlò in faccia, scrollandolo furiosamente:

– Indietro tutti, vi dico, canaglia! Giù tutti alle cave, o faccio un macello!

Zi’ Scarda si lasciò scrollare pacificamente. Doveva pur prendersi uno sfogo, quel povero galantuomo, ed era naturale se lo prendesse su lui che, vecchio com’era, poteva offrirglielo senza ribellarsi. Del resto, aveva anche lui, a sua volta, sotto di sé qualcuno più debole, sul quale rifarsi più tardi: Ciàula, il suo caruso.

Quegli altri… eccoli là, s’allontanavano giù per la stradetta che conduceva a Comitini; ridevano e gridavano:

– Ecco, sì! tiènti forte codesto, Cacciagallì! Te lo riempirà lui il calcherone per domani!

– Gioventù! sospirò con uno squallido sorriso d’indulgenza zi’ Scarda a Cacciagallina.

E, ancora agguantato per il petto, piegò la testa da un lato, stiracchiò verso il lato opposto il labbro inferiore, e rimase così per un pezzo, come in attesa.

Era una smorfia a Cacciagallina? o si burlava della gioventù di quei compagni là?

Veramente, tra gli aspetti di quei luoghi, strideva quella loro allegria, quella velleità di baldanza giovanile. Nelle dure facce quasi spente dal bujo crudo delle cave sotterranee, nel corpo sfiancato dalla fatica quotidiana, nelle vesti strappate, avevano il livido squallore di quelle terre senza un filo d’erba, sforacchiate dalle zolfare, come da tanti enormi formicai.

Ma no: zi’ Scarda, fisso in quel suo strano atteggiamento, non si burlava di loro, né faceva una smorfia a Cacciagallina. Quello era il versaccio solito, con cui, non senza stento, si deduceva pian piano in bocca la grossa lagrima, che di tratto in tratto gli colava dall’altro occhio, da quello buono.

Aveva preso gusto a quel saporino di sale, e non se ne lasciava scappar via neppur una.

Poco: una goccia, di tanto in tanto; ma buttato dalla mattina alla sera laggiù, duecento e più metri sottoterra, col piccone in mano, a ogni colpo gli strappava come un ruglio di rabbia dal petto, zi’ Scarda aveva sempre la bocca arsa: e quella lagrima, per la sua bocca, era quel che per il naso sarebbe stato un pizzico di rapè.

Un gusto e un riposo.

Quando si sentiva l’occhio pieno, posava per un poco il piccone e, guardando la rossa fiammella fumosa, della lanterna confitta nella roccia, che alluciava nella tenebra dell’antro infernale qualche scaglietta di zolfo qua e là, o l’acciajo del paolo o della piccozza, piegava la testa da un lato, stiracchiava il labbro inferiore e stava ad aspettar che la lagrima gli colasse giù, lenta, per il solco scavato dalle precedenti.

Gli altri, chi il vizio del fumo, chi quello del vino; lui aveva il vizio della sua lagrima.

Era del sacco lacrimale malato e non di pianto, quella lagrima; ma si era bevute anche quelle di pianto, zi’ Scarda, quando, quattr’anni addietro, gli era morto l’unico figliolo, per lo scoppio d’una mina, lasciandogli sette orfanelli e la nuora da mantenere. Tuttora gliene veniva giù qualcuna più salata delle altre; ed egli la riconosceva subito: scoteva il capo, allora, e mormorava un nome:

– Calicchio.

In considerazione di Calicchio morto, e anche dell’occhio perduto per lo scoppio della stessa mina, lo tenevano ancora lì a lavorare. Lavorava più e meglio di un giovane; ma ogni sabato sera, la paga gli era data, e per dir la verità lui stesso se la prendeva, come una carità che gli facessero: tanto che, intascandola, diceva sottovoce, quasi con vergogna:

– Dio gliene renda merito.

Perché, di regola, doveva presumersi che uno della sua età non poteva più lavorar bene.

Quando Cacciagallina alla fine lo lasciò per correre dietro agli altri e indurre con le buone maniere qualcuno a far nottata, zi’ Scarda lo pregò di mandare almeno a casa uno di quelli che ritornavano al paese, ad avvertire che egli rimaneva alla zolfara e che perciò non lo aspettassero e non stessero in pensiero per lui; poi si volse attorno a chiamare il suo caruso, che aveva più di trent’anni (e poteva averne anche sette o settanta, scemo com’era); e lo chiamò col verso con cui si chiamava le cornacchie ammaestrate:

– Tè, pà! tè, pà!

Ciàula stava a rivestirsi per ritornare al paese.

Rivestirsi per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quella che un tempo era stata forse una camicia: l’unico indumento che, per modo di dire, lo coprisse durante il lavoro. Toltasi la camicia, indossava sul torace nudo, in cui si potevano contare a una a una tutte le costole, un panciotto bello largo e lungo, avuto in elemosina, che doveva essere stato un tempo elegantissimo e sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia, che a posarlo per terra stava ritto). Con somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei quali ciondolavano, e poi se lo mirava addosso, passandoci sopra le mani, perché veramente ancora lo stimava superiore a’ suoi meriti: una galanteria. Le gambe nude, misere e sbilenche, durante quell’ammirazione, gli si accapponavano, illividite dal freddo. Se qualcuno dei compagni gli dava uno spintone e gli allungava un calcio, gridandogli: – Quanto sei bello! – egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un riso di soddisfazione, poi infilava i calzoni, che avevano più d’una finestra aperta sulle natiche e sui ginocchi: s’avvolgeva in un cappottello d’albagio tutto rappezzato, e, scalzo, imitando meravigliosamente a ogni passo il verso della cornacchia – cràh! cràh! – (per cui lo avevano soprannominato Ciàula), s’avviava al paese.

– Cràh! cràh! – rispose anche quella sera al richiamo del suo padrone; e gli si presentò tutto nudo, con la sola galanteria di quel panciotto debitamente abbottonato.

– Va’, va’ a rispogliarti, – gli disse zi’ Scarda. – Rimettiti il sacco e la camicia. Oggi per noi il Signore fa notte.

Ciàula non fiatò; restò un pezzo a guardarlo a bocca aperta, con occhi da ebete; poi si poggiò le mani sulle reni e, raggrinzando in su il naso, per lo spasimo, si stirò e disse:

– Gna bonu! (Va bene).

E andò a levarsi il panciotto.

Se non fosse stato per la stanchezza e per il bisogno del sonno, lavorare anche di notte non sarebbe stato niente, perché laggiù, tanto, era sempre notte lo stesso. Ma questo, per zi’ Scarda.

Per Ciàula, no. Ciàula, con la lumierina a olio nella rimboccatura del sacco su la fronte, e schiacciata la nuca sotto il carico, andava su e giù per la lubrica scala sotterranea, erta, a scalini rotti, e su, su, affievolendo a mano a mano, con fiato mòzzo, quel suo crocchiare a ogni scalino, quasi un gemito di strozzato, rivedeva a ogni salita la luce del sole. Dapprima ne rimaneva abbagliato; poi col respiro che traeva nel liberarsi del carico, gli aspetti noti delle cose circostanti gli balzavano davanti; restava, ancora ansimante, a guardarli un poco e, senza che n’avesse chiara coscienza, se ne sentiva confortare.

Cosa strana: della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava in agguato la morte, Ciàula non aveva paura, né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in uno stagno d’acqua sulfurea: sapeva sempre dov’era; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno.

Aveva paura, invece, del bujo vano della notte.

Conosceva quello del giorno, laggiù, intramezzato da sospiri di luce, di là dall’imbuto della scala, per cui saliva tante volte al giorno, con quel suo specioso arrangolio di cornacchia strozzata. Ma il bujo della notte non lo conosceva.

Ogni sera, terminato il lavoro, ritornava al paese con zi’ Scarda; e là, appena finito d’ingozzare i resti della minestra, si buttava a dormire sul saccone di paglia per terra, come un cane; e invano i ragazzi, quei sette nipoti orfani del suo padrone, lo pestavano per tenerlo desto e ridere della sua sciocchezza; cadeva subito in un sonno di piombo, dal quale, ogni mattina, alla punta dell’alba, soleva riscuoterlo un noto piede.

La paura che egli aveva del bujo della notte gli proveniva da quella volta che il figlio di zi’ Scarda, già suo padrone, aveva avuto il ventre e il petto squarciato dallo scoppio della mina, e zi’ Scarda stesso era stato preso in un occhio.

Giù nei varii posti a zolfo, si stava per levar mano, essendo già sera, quando s’era sentito il rimbombo tremendo di quella mina scoppiata. Tutti i picconieri e i carusi erano accorsi sul luogo dello scoppio; egli solo, Ciàula, atterrito, era scappato a ripararsi in un antro noto soltanto a lui.

Nella furia di cacciarsi là, gli s’era infranta contro la roccia la lumierina di terracotta, e quando alla fine, dopo un tempo che non aveva potuto calcolare, era uscito dall’antro nel silenzio delle caverne tenebrose e deserte, aveva stentato a trovare a tentoni la galleria che lo conducesse alla scala; ma pure non aveva avuto paura. La paura lo aveva assalito, invece, nell’uscir dalla buca nella notte nera, vana.

S’era messo a tremare, sperduto, con un brivido per ogni vago alito indistinto nel silenzio arcano che riempiva la sterminata vacuità, ove un brulichio infinito di stelle fitte, piccolissime, non riusciva a diffondere alcuna luce.

Il bujo, ove doveva essere lume, la solitudine delle cose che restavan lì con un loro aspetto cangiato e quasi irriconoscibile, quando più nessuno le vedeva, gli avevano messo in tale subbuglio l’anima smarrita, che Ciàula s’era all’improvviso lanciato in una corsa pazza, come se qualcuno lo avesse inseguito.

Ora, ritornato giù nella buca con zi’ Scarda, mentre stava ad aspettare che il carico fosse pronto, egli sentiva a mano a mano crescersi lo sgomento per quel bujo che avrebbe trovato, sbucando dalla zolfara. E più per quello, che per questo delle gallerie e della scala, rigovernava attentamente la lumierina di terracotta.

Giungevano da lontano gli stridori e i tonfi cadenzati della pompa, che non posava mai, né giorno né notte. E nella cadenza di quegli stridori e di quei tonfi s’intercalava il ruglio sordo di zi’ Scarda, come se il vecchio si facesse ajutare a muovere le braccia dalla forza della macchina lontana.

Alla fine il carico fu pronto, e zi’ Scarda ajutò Ciàula a disporlo e rammontarlo sul sacco attorto dietro la nuca.

A mano a mano che zi’ Scarda caricava, Ciàula sentiva piegarsi, sotto, le gambe. Una, a un certo punto, prese a tremargli convulsamente così forte che, temendo di non più reggere al peso, con quel tremitìo, Ciàula gridò:

– Basta! basta!

– Che basta, carogna! – gli rispose zi’ Scarda.

E seguitò a caricare.

Per un momento la paura del bujo della notte fu vinta dalla costernazione che, così caricato, e con la stanchezza che si sentiva addosso, forse non avrebbe potuto arrampicarsi fin lassù. Aveva lavorato senza pietà tutto il giorno. Non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora; ma sentiva che, proprio, non ne poteva più.

Si mosse sotto il carico enorme, che richiedeva anche uno sforzo d’equilibrio. Sì, ecco, sì, poteva muoversi, almeno finché andava in piano. Ma come sollevar quel peso, quando sarebbe cominciata la salita?

Per fortuna, quando la salita cominciò, Ciàula fu ripreso dalla paura del bujo della notte, a cui tra poco si sarebbe affacciato.

Attraversando le gallerie, quella sera, non gli era venuto il solito verso della cornacchia, ma un gemito raschiato, protratto. Ora, su per la scala, anche questo gemito gli venne meno, arrestato dallo sgomento del silenzio nero che avrebbe trovato nella impalpabile vacuità di fuori.

La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all’ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto.

Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava di sopra, e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva su, su, su, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassù lassù si apriva come un occhio chiaro, d’una deliziosa chiarità d’argento.

Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.

Possibile?

Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.

Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.

Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?

Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.

Estatico cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna… C’era la Luna! la Luna!

E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.” (Ciàula scopre la luna, Luigi Pirandello)

Radio Pirata 51 (largo ai giovani)

Radio Pirata ad ultimo sondaggio pare prima radio d’ascolto a casa mia, che il resto invece pare relativo quando si fa giro di boa. E a vista di successo epocale, che io ho fiducia in giovani, a loro concedo spazio, pure mi raccomando che stavolta gli do tema, che il fuori di quello non viene concesso nemmeno per mai. Anzi, mi faccio duplice e, per selezione a meritocrazia, di temi gliene rifilo a doppia quota, che primo è che musica è a cover, e testo sia, per solluchero mio che detengo imperio di trasmissione, dunque ne ho facoltà, mare. E do via a giro di musica che non è giro di do.

Quando si spiaggiano o qualcuno le tira a secco perché pensa che d’acqua non ce n’è più bisogno, quelle guardano ancora verso l’orizzonte, finisce pure che ti ci portano, se gli concedi un po’ di credito ancora, se ti fidi di loro, perché “una nave in darsena, circondata dalle banchine e dai muri, ha l’apparenza di una prigioniera che medita sulla libertà, con la tristezza di uno spirito libero, messo a freno”. (Joseph Conrad)

Che a mare mai finisce viaggio, si arriva solo per ripartire. Si fa d’oltre la meta definitiva, che l’oltre non scopri mai dov’è, pure se sai che lì ci dev’essere sicuro un approdo, un’Itaca felice che t’aspetta, ma che non è Itaca per sempre. Decide d’esserlo appena il tempo che tu ti conceda il riposo giusto a carico d’energia per la ripartenza.

Sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto ‘più in là’”. (Eugenio Montale)