A favor di vento, come frangiflutti

«Nella vita odierna, il mondo appartiene agli stupidi, agli insensibili e agli agitati. Il diritto di vivere e trionfare si conquista oggi praticamente con gli stessi procedimenti con cui si conquista il ricovero in manicomio: l’incapacità di pensare, l’amoralità e l’ipereccitazione.» (Fernando Pessoa)
C’è un tripudio di denti che digrignano, abnegazione vorace al risultato, qualunque sia, opprimente fardello d’inutile conquista. Primeggiare su cosa, su chi? Quando ancora non siamo stati capaci di occupare le nostre stesse coscienze, renderle qualcosa che somigli ad umanità desuete, farle semplicemente coscienze. Vanno così le cose, sfuggono tra le dita con la rapidità della folgore. Quella, almeno, illumina per un attimo il cielo di piombo del temporale, pure non si preoccupa del dopo, che sia fragore prossimo, brontolio lontano. Sollazzarsi del desiderio di conquista è dunque ciò che ci resta per chiamarci ancora vivi.

Eppure vissi il tempo di caccia a gettone, per telefonata improrogabile, o ci hai cento lire per ipotesi avveniristiche di contatto a tempo breve, comunicazione fugace. Ci hai na sigaretta, per una pausa sull’ultima panchina. E furibondi amori di gioventù ebbero necessità di appostamenti lunghi, quali se n’ebbero solo da pescatori di passo per lampughe e agugliate settembrine. Pure mischie di piazza, a suon di carica e livido conseguente, si fecero a chiamata collettiva per rotazione di manovella di antico ciclostile per sigillo di proclama a marchio di piombo tetraetile. Lettere ve ne furono, vergate a nero di Pelikan su carte di improbabile pregio, e si fece attesa fremente di risposta ad affrancatura per seguito ad imbuco di postino a divisa e pedale. Ve ne furono riparazioni di musicassette, rullino a sviluppo in puzzo d’acido a scantinato, roteare di vinili. Lettera 22, ad apposita fedele valigetta, fu compagna di viaggi lunghi, financo a mezzo di pollice in su. Che i tempi cambiano, non se ne stanno fermi, neppure paiono carichi di sofferenze per nostalgie d’occhi volti indietro, a sguardo a quelli che furono.

La notte provo a prendere sonno immaginando di svegliarmi ad oriente, più a sud ancora, a fare altro che non ebbe destino di rapida ascesa. Lo sguardo dentro, fisso ad un infinito che è l’ultimo viaggio, quello impossibile e necessario, l’unico che valga la pena di fare..

Grandi fortune

Mastro Don Gesualdo Bufalino aveva a dire «questo luttuoso lusso di essere siciliani» se ci azzecco a memoria. Ma egli si sbagliava di grosso, che pure io pensavo fosse così, fatto di lutto, ancorché condito da quella nostalgica devianza d’un lusso sepolto da polverosa coltre di storia. E invero si trattava di fortuna che quella polvere crebbe ad essere raffinatissima fortuna, secca ed arida come un tormento che appartiene a pochi eletti, quelli ch’ebbero, appunto, fortunata sorte di nascere a furor di sole.

Ed a gradimento di detta fortuna che vi rigiro una cosarella che già ebbi a pubblicare tempo addietro, non senza prima sollecitarvi fantasie con un’immagine che invece la precedette di poco tempo per fantasia di com’eravamo e più non siamo, semmai verrà giorno che risaremo.

«Qualche volta dispongo la prua verso l’interno, non per distacco verso il mare, piuttosto per desideri di riscoperta. L’altopiano è luogo dell’anima, con i suoi silenzi e i maestosi carrubi che paiono vigilare sul viandante, cheti, ombrosi, antichi. Immensi monoliti di roccia bianca solcati da rughe, talune talmente profonde che le chiamano cave, percorse sul fondo da torrenti che talora ancora sopravvivono, e s’aprono strade turchesi riparate dal sole, tra il verde smeraldo d’ogni essenza. Sono fiumi che hanno nomi da divinità antiche, forse sono davvero quelle divinità, tramutate in lacrime per il fallimento d’ogni loro progetto planetario, soverchiato dal dio più feroce che s’alberga tra noi. M’intrattengo spesso sulle rive di quelle lacrime, che i profumi s’inseguono ai colori, ed i sensi si confondono gli uni con gli altri, in una sorta di stupefacente percezione psichedelica. Quando il tramonto rende il rosso alle pietre, ed i sassi cominciano a far sentire la loro intonazione, la predica definitiva d’una storia che ha dimenticato il tempo, m’intrattengo ad ascoltarli che c’è da imparare da quel racconto. Lunga narrazione, del tempo quando non c’era il tempo, terra di Lestrigoni e d’ombre, di ninfe e semidei. Cacciatori cortesi d’avventure, si scavano nascondigli per pudore d’esser sgamati nella loro più intima essenza. Il silenzio è capace di rimbalzare ogni dettaglio di quella storia senza levare un sopracciglio, solo che s’abbia voglia di percepirne il bisbiglio di vertigine.

Ed il pascolo è d’oro e le mucche, che non amano assembramenti, a distanze di sicurezza l’un dall’altra, s’accostano all’erba sopravvissuta all’afa del giorno. Lassù pare che si trovino a loro agio sopra ogni cosa, pur se m’avvedo di qualcosa che non funziona, che quel pascolo, che sa d’Arcadia, lì non c’entra. Dall’alto mi spingo con lo sguardo oltre il punto di vista della mucca, che ancora mi pare avere dignità, che non intendo sottovalutare. Sinché non m’avvedo delle ragioni dello stridio, che quello spettacolo, in altro contesto, m’avrebbe illuminato d’immenso ed ora m’inquieta. Che quel pascolo lì non doveva esserci, poiché, sino a qualche settimana fa, lì, c’era il lago che porta il nome della Santa. Pure lei – mi sa – non deve avere lavorato granché bene. Accetto, si l’accetto, il punto di vista felice della mucca e delle sue consorelle, ma tinche e trote? Evaporate anch’esse.

Qualcosa che non va c’è. Che poi se la cerco la trovo pure, che d’acqua da certe parti si muore, d’altre, per sua assenza, si crepa.»

Nostalgie fuori rotta

Parlar di cose che passano per quotidiana abiezione mi venne a noia. Pure prima ne avevo noia ma non frenai dita sui tasti a dir qualcosa. Che ad istante in cui lo feci ne ebbi quasi pentimento ché a struggersi per destini infami d’umanità sepolte, si finisce a scavar tombe insieme ad altri. Pratica che non mi fece mai troppo bene, ch’ebbi desiderio, piuttosto, d’altro che non fu altro che infinito e basta. Così, a rievocar altro mi faccio musica buona, tale che mi trascino da giovane età, pure dopo come conseguenza di lancio pregresso, musica altra rispetto al consueto mio che è a mono tema di jazz, ma che non si fece mai troppo in disparte nei miei pensieri. E l’accompagno con un pezzettino preso da qui, forse pezzo d’autobiografia, forse no. Ma che importa che lo sia o no, giacché è sempre perduto il tempo per scrivere autobiografie di nessuno.


«E giunse il tempo che desiderio di vertigine m’appare solo a sistemar chiappe a scoglio comodo, a favor di tenue brezza di ponente. Lì c’è posizione di sguardo ad altro tempo che andò via a rapidi scivolamenti. Feci collezione di pergamene e titoli a ceralacca, di timbri e pacche sulle spalle, inchiostri di stilografica raccolsi.

Mi ravvidi di saggezze elevatissime di fini accademici, sagaci elucubratori di teorie d’avanzo e professori mi professarono vie salvifiche di conoscenza.

Capitani coraggiosi m’imbellettarono narrazioni d’autentico infinito di profondità e preti e frati e paternostri m’illuminarono d’incenso, mi deliziarono d’omelie un tanto al chilo, pure in odore di santità mi parvero audaci pescatori di ghiozzi a tendenza d’eversione. Le madame dorè, le miti volontarie di misericordia e signori dabbene di circolo esclusivo, di fatta impeccabile doppiopettata e profumo millefiori, mi fecero di sé modello esclusivo e beato. Arguzia finanziaria mi trasmisero autentici scienziati di doblone ed a cure immaginifiche mi sottoposero per trattamento di deviazione.

Che però nacqui storto e storto rimasi, pur se mi sdoppiai a far finta d’assecondo. Che ora, a fase due, non m’è dato di adeguarmi all’immane trogolo di carni e sangue di sacrificio a conforto per Marte e Atena. Che però appresi di non apprendere, pur se assorbii finale convincimento che nemmanco le dame di San Vincenzo riusciranno a far del bene, ch’esse mai seppero cos’è la vita, che imbracciano sotto coscia, ad occulto, mitra e bomba.

Ch’io tutto imparai da puttane senza protettore, a quartiere miserabile dove misi dente da latte, e che, accademia autentica di bellezza, fu soffocato a rango di supermarket per saccheggio conclamato, con reparto d’onnisciente mammasantissima. Pure imparai da lambretta smarmittata di venditore di granchio per cattura a pietra celeste, da pazzo con canottiera su cappotto e camicia avvoltolata in testa, per posto a cappello in mano, a buco tappato per dammi cento lire, ci hai ‘na sigaretta.

Che mi venne ad aula di lezione autentica osteria perduta, di abitanti a perenne nostalgia di bicchiere pieno, e vecchio compagno che s’accompagna a miserabile scarpa rotta, pantalone logoro e mano di calli e calce viva, curvo di schiena ma mai domo a dir di padrone peste e corna. Pure non fu capace di sopravvivenza a quello, nemmanco per saggezza di mutua a scarso d’assistenza e forse per cicatrice di manganello per protesta di contro legge. Imparai dinamiche sofisticatissime d’universo da lavandaia a tempo perso, balia asciutta e odor di varechina. Altro seppi da pescatore silenzioso a barca a puzzo di cherosene e sangue di pesce raffermo, con ruga che solca il volto quale fiume di sale e fatica di sole.

Che nessuno dei secondi ebbe allora a far mai guerra a talaltro, mai tirò indietro la mano a soccorso per chi vien dopo. Pure, a gengie sfatte, non smisero a riso per bimbo che passa, ch’io mi ricordo, che a denti non m’ero provvisto ancora, di tali sdentature di pace, ora che vedo biancheggiare nobili fauci di squali.»

Recinti e paletti

«Direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l’intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese.

In queste persone la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D’Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo di imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l’imbecillità appare – e in un certo senso e fino a un certo punto è – fantasia.

In una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica di “impiegati d’ordine”; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati – non resistendo alla competizione con gli intelligenti – come poveri “cavalieri d’industria”; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia». (Leonardo Sciascia)

Io due o tre paletti per i miei sistemi di relazione li metto. Mica me ne sto a tirar su muraglie alte e fitte, che un po’ di ecumenismo m’è rimasto. Nemmeno mi faccio o Savonarola o Torquemada, a seconda dei casi, mettendomi a fissare limiti comportamentali ai prossimi più prossimi. Un recintino alto il giusto, che da lì non si passa, ma basta avere le chiavi e c’entri facile, appunto, schivando quei due o tre paletti che misi all’uopo. Certo, se ti piace far cagnara, urlare e sbraitare, parlare di mala maniera, lì non c’entri. Se ti sollazzi di bum bum, di cucine molecolari, se sei astemio per convincimento ideologico, non è che ti tratto male, ma te ne fai una ragione a star dall’altra parte del labile confine. Se sei uno che si mette a saccheggiarti casa, dipende, se sei Fra Dulcino, ti dico dove ho messo i preziosi (questa mi viene facile che di preziosi non ne ho, se non taluni da frigorifero), per il resto portati pure quello che ti pare, foss’anche solo virtuale, che alle cose m’affeziono poco, e anche con le idee ho rapporti conflittuali. Ma se sei entrato a casa mia sei pure ben consapevole di quello che ci trovi, se no cosa ci sei venuto a fare?

Posto questo, il recintuccio, con tanto di paletti agli angoli, mi si è sempre mostrato trasparente, e di là di quell’invisibile barriera, talora, pure solo di sgambescio, qualcuno ti s’avvicina, per un istante o due, che più di tanto non gli è concesso, né credo si ponga interesse particolare a starsene in quella specie di ghetto. È cosa che capita a chi vive sotto questo cielo, però, che non può negarsi l’affratellamento collettivo, non dico con tutte le 7 miliardi e più di creature umane che ci vivono, ma con una parte pur esigua di esse. Capita, dunque, che poi li leggi sul giornale, che hanno rubato a sette ganasce, che si sono spartiti posti e prebende, frodato e truffato, per carità, fino a prova contraria. E ti fa sempre specie, ché non ti abitui. Che rubare, l’ho detto, non è cosa gradita, ma anche lì dipende. Che poi, di primo acchito, mi verrebbe pure di fare i nomi, financo i cognomi, che tanto li hanno fatti pure i TG, con tanto di fototessera che pareva scattata da Lombroso in persona. Ma se li facessi punterei l’occhio sul caso, non sul fatto che del caso è assai più diffuso. Ch’è quello, il fatto intendo, la malattia. Che non si cura solo col carcere degli scemi del villaggio globale che sono incappati nelle tenaglie strette della giustizia (che ci vadano, senza passare dal via, si spera). Ma con una bella quantità di sedute psichiatriche collettive che spieghi al resto non ancora beccato – ed ho ragione di credere che sia resto assai cospicuo – che quella di passare pezzi consistenti della propria miserabile esistenza a cercare di capire come fregare il prossimo tuo (e non come te stesso) è malattia, che pure è patologia anelare il potere assoluto, che anche si fa sindrome grave il sottrarsi a starsene quieti, che ne so, a godersi una pensioncina bevendo un bicchiere con gli amici al bar, che ti fa anche buon sangue e non ti viene l’ansia d’accumulazione compulsiva di dobloni e poteri. Che se poi te ne stai buono e tranquillo, mi sa pure che non t’angosci, anche se, capisco benissimo, che se ti sei strafogato qualche milione fregando e frodando, il tutto di tutti, non t’avvedi di certo che non ti sei rubacchiato la collanina nuova di madama la marchesa, o il rolexino di mister Pippone, ma ti sei rubato l’equivalente d’una partita di chemioterapici, il buono mensa per qualche bambino della materna, la pulizia del parco giochi… E lo so che tu non te ne rendi conto, che la cosa il sonno non te lo toglie, che sei un tossico e pure dipendente, ma allora fatti curare, ma da uno bravo, se nel frattempo non gli hanno chiuso il reparto per mancanza di fondi, che quelli se li sono intascati i fenomeni come te.

Tintinnii banditeschi

Ode al crucifige, al tintinnar di manette, pure al son garantista (per taluno, per altri m’aspetto impiccagione a pennone altissimo per doppia, tripla, quadrupla e multipla morale). L’urlo per giudice ad orologerie o con pendolo stonato. Il tintinnio di manette non m’affascina, non me ne frega niente che a dirla tutta conobbi masnade di farabutti che finiron ceppi ai piedi per rubar di sussistenza. Altri non conosceranno che raramente i grigi cancelli della non libertà. Il potente non merita di finir lì, non c’è abituato, tale ebbe a dire che soffre di più. S’abitua a sfarzo e non s’abituo ad altro.

Ma non auguro ad avversario di provar privazione di libertà, pur s’egli la volle fortissimamente volle per disgraziato ch’affoga e non rubò al collettivo cosmo. Non auguro prigione ch’egli non fu avversario mio ché avversario è colui che gioca sullo stesso campo ed io a terreni di palude mefitica mi sottrassi in illo tempore, non per pregiudizio, ma per post giudizio di prova comprovata come si fa a taglio di cocomero. Io ho condanna esatta per tal malfattore che non ebbe mai sazio d’aver potere, più potere, soldi oltre i soldi, con asticella di salto in alto che rimbalza un metro ed oltre, oltre il metro e più ancora. Mai si ferma come bestia vorace che non conobbe sazietà a pretender ed ottenere a gozzovigliare sul capo d’altri, financo a far privato il libero mare, la libera rena, il sommo scoglio che libero e porto salvo fu sempre d’ogni navigante colto dalla tramonta a bufera. Io ho la pena che non fu privazione di libertà, che quella non fu da uomini, io darei condanna definitiva di far vivere resto di giorni contati a lavoro con busta paga d’ultimo morto a lavoro precario, in attesa d’una pensione ch’ente di previdenza fissa a data di comune mortale e con dicitura precisa a «fine pena mai».

«È divertente ascoltarli, i ricchi, i giudici, i magistrati, divertente vederli predicare la virtù; é difficile, oh sì, proteggersi dal furto quando si possiede tre volte più di quanto può servire per vivere…..Ma noi Sophie… visti con disprezzo perché poveri, noi umiliati perché deboli, noi che infine sulla faccia della terra raccogliamo solo fiele e spine, come vuoi che ci asteniamo dal crimine, l’unica mano che ci apra la porta della vita, ci mantenga, ci conservi o ci impedisca di perderla! come vuoi che per noi eternamente sottomessi e umiliati mentre una classe di gente spadroneggia e ha per sé tutti i favori della fortuna…» (François de Sade, Le sventure della virtù)

La liturgia spenta

Si poteva evitare, la liturgia però. Quel «si poteva evitare» non si regge più. Aria fritta per commozione pro tempore, domani è tutto finito, meno del solito. È accadimento tremendo che è pure capitato troppo a sud, non c’è necessità di ravvedimento. A stretto giro di posta di chi dà dello stupido a chi mette piede in fallo, ecco altri cinque che non sapevano, non vedevano. Uno dietro l’altro, come tessere di domino, se ne vanno, ciascuno perché provò a tirar fuori il suo compagno dalla camera a gas.

La liturgia ha stancato, e questi cinque hanno labile diritto di cronaca perché si fecero vittime a sodalizio. Quegli altri, quelli d’un due o tre a giorno, hanno preferito le solitudini che si competono a chi fa il volo del grande tacchino, per arricchimento del padrone del vapore. Ma quello, il padrone del vapore, è illuminatissimo, fa grana senza scanso di vittima. Ha ottima rappresentazione istituzionale, contrita di dolore per l’eccidio ultimo, pure per il venturo. A protezione di sacro interesse nazzzzionale, che lavoratore a cottimo non è tale tra tante zeta, nemmeno raccattagas a tombino di fogna. A far statistica vien da vomitare. A sperare in un batter di colpo si rischia asfissia generalizzata. Ma tant’è che chi lavora non protesta, mai lo fa abbastanza. A calci in culo va fuori, che non c’è nemmeno più un articolo 18 a tutela di ingiusto licenziamento.

E se protesto che ci tengo a vita faccio sporco gioco antiaziendale, sono fuori e faccio fame, che se son dentro è uguale fame ma sono un po’ meno. A tener lontana sicurezza si fa gran risparmio, economia ne gode, come a fabbricar bombe che non son confetti, nemmeno campi di geranio. Ed allora almeno una cosa, visto che d’ignavia si crepa nel Bel Paese del va tutto a gonfie vele, del si fan soldi a sbafo per taluni, bello assai sarebbe che, anziché liturgia d’un minuto che recita lascia moglie e figli, era ad età così giovane per perfettissimo necrologio, nota al mondo dovrebbe essere miserabile busta paga, almeno mondo stesso sa quanto costa a rata di mese vita d’un lavoratore. Ma quello sarebbe paese delle meraviglie.

Trattativa a perdere

Diceva giusto Mastro Don Gesualdo Bufalino: «Si firmerebbero poche dichiarazioni di guerra se chi le dichiara dovesse per legge firmarle col proprio sangue.» Ma è tempo che si tratta, e quando si tratta c’era quel dire che tacciono le armi. Invero ciò appariva di autentica verità quando gli uomini apparivano barbari, incolti, spregiudicati per violenza e propensione all’assassinio. Ora, in tempi civilissimi, con sguardo che si volge con scarsa clemenza alla lontananza degli albori di società, quando si amava o si ammazzava il nemico, la trattativa non si fece mai con dita staccate dal grilletto.

Ché la via diplomatica, si parla – e in taluni casi si straparla – essere quella maestra, che evita dolori infiniti, eccidio senza fine, morte di pietas umana. Che tale dovrebbe essere a concezione antica e desueta. Ma forse ancora è così, solo che c’è stato un errore precisissimo nel chi conduce la trattativa.

Questo o quello che tratta, se ne sta beato a lungi dall’essere egli stesso vittima di sparo, non si fece target quando dichiarò morte per altri. Se ne guardò bene di farsi soldato di trincea, mito spartano dell’ammazzo tutti io che addiverrò onor d’Olimpo quale semidio o tutto tale. E quante guerre non sarebbero più tali, a ribaltar paradigma di Mastro Don Gesualdo, se la trattativa non la conducesse più potentissimo di bombarda facile e salotto blindato, ma disgraziato che sta sotto tiro ed anela solo a pace per se e famiglia sua, pure un po’ di vita dignitosa e talora pure solo vita? la trattativa, mi sono fatto persuaso, avrebbe esito diverso assai. Ed alla fine della storia, ve ne sarebbe uno solo plausibile d’esito: che guerra manco parte.

Quanto son belle le elezioni

Quando mai ce la ricordiamo una campagna elettorale che ci diverte? Pare sempre la stessa recita a soggetto, al più c’è che all’apertura del libro dei sogni s’aggiunge lo sfogliare quello degli incubi. Non pare più manco singolar tenzone, scontro di prospettiva, è la calma piatta che si traveste di digrigno di denti, poltroncine semoventi, gioco delle parti. Sullo sfondo c’è martirio tremendo di interi popoli che paiono lontani. Ed a quelli c’è scarsa attenzione, manco votano, come si permettono. Eppure d’una campagna memorabile ho memoria trasmessa, e che rimpianto non essermela goduta se non di rimbalzo.

Il candidato Presidente, quello cui pare siano legate le sorti di pacificazione dell’intero pianeta, si rivolge alle folle, le arringa con un discorso memorabile. È il 1963, un alluvione d’anni sono passati. Pure, Kennedy, si rivolge a quegli ultimi che sono tali nel cuore stesso della superpotenza. Ma parvero parole cariche di retorica, povere di fatti, chiacchiere. Martin Luther King si fa aprifila della grande marcia, lui un sogno ce l’ha, lo dice, lo fa presente, lo rende sogno di tutti. Ma c’è qualcuno che pensa che quella folla non rispetti canoni estetici adeguati a rappresentare compiutamente società evolute e democratiche. S’ammazza, si continua in logiche di ghetto. La risposta non arriva, il sogno è inesausto. Eppure la risposta c’è. «Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra». (John Coltrane)

La fratellanza, è questo il punto, la fratellanza.

Il 21 settembre del 1963, dopo l’ennesima strage di afroamericani ad opera di razzisti del Ku Klux Klan, Dizzy (Gillespie), sale sul palco del Monterey Jazz Festival, ed urla al pubblico «Voglio diventare Presidente degli Stati Uniti perché ce ne serve uno!» Il cantante Jon Hendricks gli scrive pure l’inno: «Vote Dizzy! Vote Dizzy! You want a good president who’s willing to run / You wanna make government a barrel of fun (…) Your political leaders spout a lot of hot air / But Dizzy blows trumpet so you really don’t care.»

Ma senza lista di collaboratori né ministri non puoi fare il presidente. Così Dizzy si mette al lavoro per stilarla per bene: per Duke Ellington l’incarico deve essere adeguato alla sua grandezza, dunque, Ministro dello Stato. Max Roach, che coi botti ci sa fare, è Ministro della Difesa. Per Louis Armstrong c’è il Ministro dell’Agricoltura, e chi meglio di Charles Mingus può fare il Ministro della Pace?

Manco a dirlo c’è Malcolm X, ovviamente Procuratore Generale. Per le politiche sociali ci vuole qualcuno con lo sguardo giusto, la voce adatta, dunque Ella Fitzgerald. A Ray Charles tocca il posto di Direttore della Biblioteca del Congresso e Mary Lou Williams fa l’Ambasciatrice in Vaticano. Incarico delicatissimo per Thelonious Monk, Ambasciatore “in viaggio”. Manca solo un tassello per chiudere la formazione della squadra di Dizzy for President, ma anche per quello non ci sono dubbi, Miles Davis Capo della CIA!

E quando ci ricapita?

Piccoli, reiterati messaggi nella bottiglia

Mi sono accorto che WP concede un piccolo dato che prima non avevo notato: riporta il numero dei download – si dice così – di file dal blog. Ecco, qualche tempo fa, avevo messo un file scaricabile, una cosa della cui natura avevo parlato qui, dunque non mi ripeto. Ce ne sono stati diversi centinaia, che è cosa che mi dà una certa soddisfazione, e non per ragioni numeriche, nemmeno so se chi ha scaricato il file poi l’ha letto, gli è piaciuto, se ne è stizzito già al primo rigo o poco oltre. È proprio nell’indeterminatezza dell’esito finale di quello scritto che provo gusto, ché in quello sta il messaggio nella bottiglia. Chi lo lancia in mare non saprà mai se qualcuno lo troverà, se lo leggerà in preda a stupore, oppure un’onda dispettosa di risacca non schianterà il vetro sugli scogli, lasciando la carta a macerarsi lenta in acqua e sale.

“Le finestre, talvolta, sono copertine di libri aperti, le porte finestre lo sono di grossi tomi che s’aprono sulle distese di pagine di terrazzi e balconi. Libri di memorie, diari di viaggio, appunti per una fuga. Pagine ancora intonse, da riempire di parole. Mi sono convinto che il Borneo di Salgari deve essere stato scritto su quelle pagine. C’è un momento migliore degli altri per scriverci sopra, quando s’apre la copertina rigida e fuori è appena l’alba. Fa ancora freddo, e l’aria t’entra sotto la pelle, cerca riparo, s’apre varchi e risveglia le curiosità della notte. La luce non mostra ancora la consuetudine, ma fa della penombra l’anticamera della scoperta, come se alla sua esplosione il già visto dovesse trasformarsi nell’inattesa sortita della sorpresa.

Stamane era fresco su quelle pagine, ed il fiume di sotto pareva una striscia dorata rimarcata da piogge abbondanti. Poi i raggi più impertinenti, come un re Mida al contrario che ha cambiato fornitore di stupore, lo trasforma in un budello color rame. E mi viene di lanciargli una bottiglia – ho avuto tempo a sufficienza per procurarmene una vuota, pure con tanto di tappo a tenuta – perché la consegni al mare con un messaggio, un pizzino da niente su cui ho buttato uno scarabocchio, giusto tre parole in fila. Ma mi viene, così per scherzo, l’idea di anticipare la bottiglia. E allora mi precipito su un tronco, una zattera, una canoa, pure un canottino gonfiabile va bene, a favore di corrente sino al mare. Lì c’è bisogno d’altri mezzi, roba cui cazzare la randa e il fiocco per cogliere tutto il vento necessario a strappare nodi alle onde, schivare la fiera famelica, le cannoniere portoghesi, i brigantini di sua Maestà, appena una sosta per un bicchiere buttato giù d’un fiato con i pirati, e poi ancora verso Sud. Sino all’approdo su una Ferdinandea che non c’è sulle carte, naufrago su una spiaggia di vetro, con la mia scorta di prugne secche, cucunci e vino.

La speranza è che un’eruzione improvvisa non mi cancelli con lo scoglio, sprovveduto emulo d’Empedocle, per di più pigro poiché per nulla propenso ad accettare la sfida dell’ascesa vertiginosa al grande vulcano, solo oziosamente sdraiato ad un passo dalla risacca. Ma se proprio deve succedere, almeno fammi ritrovare prima la bottiglia, il messaggio che mi sono mandato per vedere se sono più veloce di me stesso. Eccola là, la bottiglia, mentre si sente il brontolio sottomarino della bestia che risorge. Tra la pomice del bagnasciuga strappo il tappo, e sul postit, che con le cartolerie chiuse di meglio non ho trovato, le tre parole in fila : Appena posso arrivo.”

Quasi mi dimenticavo “il lungo viaggio”

Radio Pirata 66 (concertone da lavoro per separazione chimica di classe)

Riecco Radio Piratissima che torna a sfarzo di concertone per festeggiamento di ricorrenza di articolo guida di Costituzione che fu cassato per improbabilità di esplicita applicazione. E si fa puntata di grande e solida kermesse musical-argomentativa come si compete a trasmissione che gode di favori indiscussi di pubblico innumerevolissimo e benevola accondiscendenza di critica. Ma a non far da meno con altra roba seria, redazione fa subito presente che molti ospiti previsti brillarono per assenza a detta puntata, che è numero Sessantasei, per sopraggiunta censura. Per cui non ve ne sarà traccia. Ma si va subito di musica di grande spessore.

Che lavoro è a dignitosissima rappresentazione a membro permanente di consesso di nazioni civili a suon di bombarda, che si fece lavoro nero a campo di nuovo cotone per conserva a prezzo convenientissimo di super mega impianto di smercio di prodotto a consenso di massa claudicante per arrivo a fine mese. Che morto ammazzato di lavoro, dice statistica – che la fa cervello asettico di matematica -, è a due al giorno da inizio d’anno.

Che è solo storia di distratto a distrazione mosso, che muore a metto piede in fallo mentre passa betoniera o caterpillar, pure scivola d’ascensore, inciampa da impalcatura, precipita da palazzo e ciminiera, non collaborò col dire son morto per destino cinico e baro. Che di tanti morti d’ammazzo pare guerra guerreggiata, ma è roba disfattista se oggi a bandiera colorata si dice basta con tale guerra, pure con altra che tuona di bomba. E io vado di suono giusto, che faccio colonna sonora

Che c’è polemica superlativa su esternazione per classe separata, ma io spezzo lancia, che pure io voglio classe separata, che a ricco con super monolito a sgaso per cambio climatico per costo di palazzina popolare a tre piani, tocchi – ora e per sempre in esclusiva – ristorantino a selezione di chef a stella plurima di firmamento. Ma ci fu improvvida segnalazione di tale illuminatissimo che disse che povero paradossalmente mangia meglio – che paradossalmente è dire esplicito che pure mangia – per cui ci fu assalto a bettola negletta che bettolaio ed oste per moribondi si fecero furbi e levarono prezzi al cielo per nuova avventura di business. Che da Franco il bollito ch’era a sette eurini ora si fece a centoventi che tale padrone del vapore per meno di duecento non si muove. E c’è povero chef di cui sopra che fu costretto a rinnovare arredo con acquisto ad Emmaus di piatto e mobilia ed importazione di muffa autentica per star a passo col tempo. Aridatece la separazione di classe.

E quanto tremai d’adorazione per Annette Peacock, che fu mio furibondo amore giovanile a dispetto di generazione. Ma tale ero, catturato a fascino di dette signore senza tempo che miei coetanei d’allora, molto «le freak, c’est chic» attribuivano certe mie pulsioni ad uso disinvolto di combustione di materiali di scarto orientale di produzioni vegetali. Ma detti fuochi aprirono finestre, e pur se smisi in tempi rapidi di godermene benefici, certo le finestre rimasero aperte su orizzonti d’utopia. Ora v’è invece ricorso a chimica pura ed allopatica per farsi fenomeno a sculettamento a destra e a manca, da mane a mane, e iniezione di coraggio per proferire a iosa minkiata a cottimo manco richiesta.

E chiudo col dire che buon lavoro pare ossimoro e, a cautela, faccio spiegare detta cosa da collaboratore subordinato con contratto di apprendistato, prima che faccio pure di lui censura che nacque in posto strano: “Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendere dalla sua schiena.” (Lev Tolstoj) Buon 1° Maggio a tutti, i belli e i brutti, di più a questi ultimi se in piazze deserte furono pure sporchi e cattivi.

Per chi… ancora!

Mi viene a sollecito di memoria cosa che ebbi a buttar giù ad impeto di stordimento, che tale stordimento ora pare tale e quale a quello d’allora, che c’è anche certa coincidenza di stagione e tempo bislacco che di vento porta via. E tale vento porta aria di mare lontano che, mare intendo, a non averlo accanto o dirimpetto, pare faccia amplificatore d’infinita stanchezza. Pure le perturbazioni che oggi lasciano posto a presunta primavera mi fecero salire temperatura, che adesso paio in pieno cambio climatico anch’io.

“C’è un tempo in cui devi lasciare i vestiti, quelli che hanno già la forma abituale del tuo corpo, e dimenticare il solito cammino, che sempre ci porta negli stessi luoghi. È l’ora del passaggio: e se noi non osiamo farlo, resteremo sempre lontani da noi stessi.” (Fernando Pessoa)

Quel tempo arriva nelle forme che vuole, quando desidera di farlo, mai si presenta a richiesta, finge di non essere stato invitato, pure se ad evocarlo è stata ogni stilla di sangue e sudore che puoi buttar fuori. Ci hai pensato a quel tempo, in un lasso di tempo infinito, indeterminato, non te ne serve altro. È roba che si consuma a gambe ferme, non quando ti muovi, nemmeno quando ti si muovono le consapevolezze doverose del quotidiano, quando l’abito da lavoro che t’è toccato pare così logoro che non c’è più spazio per immaginare il colore della carne che prova a nascondere. Che è dato a stupirsi pure per la scoperta d’essere colorato in qualche modo, non d’amorfo grigio, che era cosa che desumevi da stanchezze definitive. Si realizza di forme concrete un tempo ancora d’orizzonte, ch’è perso nel chiaro d’una luna, forse nelle cappe del sole di scirocco, nel rosso della sabbia del deserto che s’avvicina a trasporto di libeccio. C’è ancora quel profumo strano, acre, di vita vissuta come viene, pure dovrebbe non esserci, che non c’è distesa di posidonia nelle aule vuote, nemmeno nelle stanze a vista di terminale. Lo specchio pare gioca ogni giorno ad implacabile riflesso d’autore, non fornisce manipolazioni sghembe d’immagine, che non si riconosce mai d’acchito, non fa come riverbero azzurro di mare, che di distorsione fece solo virtù sua.

In quotidiano di lavorio indefesso c’è urlo ovunque, sgraziato e d’artificiosa perfetta fattura, che a natura è altro che frastuono, quando è tuono a spavento pare invece rimbrotto benevolo, strappa sorriso, fa regalo di libertà che non è d’acquisto a svendita. Risorsa da lavoro, si dice, pare compenso per acquisto di libertà, ma quella non è cosa d’un tanto a chilo, non merita che la fatica d’essere vissuta a pieno, che vuol dire avere occhi per compiacersene, non polmoni per respirare la merce che ne è surrogato. Ed è vero, poi, ed alla fine, che il lavoro rende liberi, liberi dal desiderio d’esser liberi, quando te ne sei assuefatto e quel tempo, quando arriva, ci sta che si palesa e non te ne accorgi, che hai dimenticato in fondo ad un cassetto di inutili memorie l’orologio che suona al suo passaggio.

Un giorno che è tutto l’anno

Di memoria ne ho che va a zonzo, pure ad antico, che ancora serba cose d’interesse. Ciascuna di quelle dette cose, come se ebbe a dotazione filtro di precisissimo brevetto, mi dice che oggi non c’è discussione, che detto giorno – a nomina precisa di Liberazione – che fu primo è a merito che è tale solo se è inizio.

C’era che, poco più che bimbo, calavo volantino a mosca nel fosso di parte esterna d’i’un molo, e mi tirai su ope e scorfani in un certo numero, buoni per brodetto. Dentro il porto salvo, che il mare pareva stirato a raso, don Angelo, a cima legata di lampara, sbrogliava la rete sua. Che il silenzio era tale da sobbalzo al mondo intero per motoscafo feroce di cavalli. Ch’io mi rivolsi al vecchio, e, giovane creatura, m’espressi di stupore per tale roboante manifestazione di potenza, che con quello ci poteva andare pure lui, senza perdere notte intera, alla secca del miracolo. Il vecchio nemmeno sollevò il capo per il suo “cu minchia si ni futti?” Forse per affezione alla barca di sussistenza, che più di tale non era. Poi mi invitò a far giro per cambiare darsena a bordo, pure rapido, mi disse che l’altro approdo, a borbottio di motore vetusto, si disponeva a mezz’ora almeno, e l’orizzonte, che il mare era calmo a piatto, presagiva cambio repentino per libecciata. Saltai a bordo, e non si fece che un chilometro o poco più, che il furibondo fuoribordo che scosse il mare, se ne giaceva a panne, che lassù, padre notabile e figlio, coetaneo mio, si sbracciavano che non c’era domani, neppure, dissero, il walkie talkie gli funzionava, e razzo a segnale, pareva petardino a santa patrona. Il vecchio si contrasse in sforzo di lancio di cima e, sbuffando col motore a scarburo di lampara, trainò a riparo certo, e a rinuncia di viaggio proprio, la belva pluricavallata mentre l’increspo, a previsione esatta, si fece cattivo. Appena in tempo toccammo porto salvo, che il tale del fulmineo scafo, a gratitudine, tirò fuori la grossa banconota per conferirla al vecchio salvatore.

Ma quello rifiutò a sdegno, manco alzò occhio, che la gente a mare si aiuta e non per compenso. Il ragazzo come me s’era allagrimato di paura, e io pure, a momenti, mi appellavo a preghiera per improvviso stravolgimento d’onde. Che sono passati anni, che quello coetaneo mio pure diventò notabile come l’avo, ed è ragione che io mi feci asociale, che mi dicono invoca cannoneggiamenti quotidiani per chi arriva da lido lontano a disperazione, che se annega, a dispetto d’età, è sempre buon cibo di pescecane.

E questo è fatto preciso che storiellina ebbe morale, appunto, che di 25 Aprile si ebbe a necessità di farne giorno lungo quanto anno in totale, pure se c’è taluno o talaltro che anche per giorno uno come rimase, pare di far passeggiata a piede nudo su scoglio puntuto, sabbia nelle mutande e ortica sotto le ascelle.

Dis(s)ertando

Ritirarsi non è scappare, e restare non è un’azione saggia, quando c’è più ragione di temere che di sperare. Non c’è saggezza nell’attesa quando il pericolo è più grande della speranza ed è compito del saggio conservare le proprie forze per il domani e non rischiare tutto in un giorno.” (Miguel De Cervantes) Fuggire non è solo disertare dalle armi, è andare oltre lo scontro contro un potere che non comprende altra parola se non quella della guerra, del silenziare la voce degli ultimi, ad ogni costo.

Quando lo strapotere delle forze in campo è tale da non ammettere che esista altro vincitore se non chi detiene gli strumenti della sopraffazione, la diserzione è necessità di vita, la resa a quella s’accompagna. Innalzo sul pennone più alto d’albero maestro la mia bandiera bianca, a segnalare la presa di posizione definitiva ed inderogabile, e che sventoli, perbacco, che sventoli. Mi decido sì per resa, che d’apparenza è a scanso di condizione, ma nasconde ritirata strategica, attacco pure su tutti i fronti. Se non partecipi al gioco, il giocatore che resta è già sconfitto, si ritrova senza trastullo. Il mondo dei padroni del vapore ha necessità di nemici ed io mi sottraggo al ruolo di parte, mi faccio a lato che è decisione spontanea, dunque odora di trionfo. La ritirata, così, non fu mai solo tale e basta, piuttosto attrezzo a vita altra che non guarda per vedere, che vede senza guardare con occhi di dentro, e fu disegno di ri-scoperta, di dimensione e-versiva del vivere. Conquisto, avanzo, in ritirata, m’approprio di non appropriazione, esproprio l’inappropriato, riprendo posizione in orizzonte aperto, in dettaglio sfuggito, che di quelli v’è traccia a campo di battaglia a devastazione, che parevano conquistati ed invece, liberati d’assillo di conquista, appaiono fioriture d’uomo libero.

Mi riprendo scogli dorati, colori spumeggianti d’abbandono, le diacronie del tempo, le note andate ed il respiro profondo della memoria fervida ed ininterrotta dei ricordi. Questi tamponano il presente ad ingorgo, sfrecciano come saetta spuntata e non di guerra oltre il presente, si fanno futuro di prospettiva. Ed il nemico che avanza è già fuggito in disfatta, ch’è schiavo di sua stessa guerra quotidiana, di libertà negata a prigionia autoinflitta per fila alla cassa, di direzione mai a linea sghemba. Procede a linea dritta, il nemico, che solo quella conosce, non ambisce a percorso lungo e panoramico, alla lentezza che vede tutto. Corre illimitato a velocità di logaritmo, che non v’è dettaglio nell’accelerazione a parossismo che narra di storia, spera solo a stazione celata da muro, in benedizione d’assoluzione, di conforto in sacre stanze di corruzione. La resa non è prevista, nessuno s’arrende, dunque sono finalmente nessuno, ho isola per diserzione ch’è sorta dal mare e nessuno vede, che l’uno qualunque non ne conosce esistenza nemmanco a binocolo o telescopio portentoso che occhi non ha, nemmeno prospettiva di deriva e approdo.

E allora:

«In piena facoltà egregio presidente
le scrivo la presente che spero leggerà
la cartolina qui mi dice terra terra
di andare a far la guerra quest’altro Lunedì

Ma io non sono qui egregio presidente
per ammazzar la gente più o meno come me
io non ce l’ho con lei sia detto per inciso
ma sento che ho deciso e che diserterò

Ho avuto solo guai da quando sono nato
e i figli che ho allevato han pianto insieme a me
mia mamma e mio papà ormai son sotto terra
e a loro della guerra non gliene fregherà

Quand’ero in prigionia qualcuno mi ha rubato
mia moglie, il mio passato la mia migliore età
domani mi alzerò e chiuderò la porta
sulla stagione morta e mi incamminerò

Vivrò di carità sulle strade di Spagna,
di Francia e di Bretagna e a tutti griderò
di non partire più e di non obbedire
per andare a morire per non importa chi

Per cui se servirà del sangue ad ogni costo
andate a dare il vostro se vi divertirà
e dica pure ai suoi se vengono a cercarmi
che possono spararmi io armi non ne ho» (Il disertore, di Boris Vian, trad. G. Calabrese, nell’album di Ivano Fossati Lindberg)

Rilanciate, se potete e volete, il testo di questa canzone. È un messaggio universale di pace.

La notte porta consiglio?

Tocca riflettere ogni tanto, fermarsi un attimo. Lo faccio quasi controvoglia, ancora sulla censura. Poiché c’è stata una spettacolare risposta corale allo stop al monologo di Scurati. Anche qui, su WP, tantissimi l’hanno rilanciato, sui social mi dicono pure, la mia messaggistica era intasata, quelle quattro chat tecniche a cui sono – ob torto collo – iscritto straboccavano. Mi viene da pensare che se non ci fosse stata quella censura, quella paginetta densa, quel discorso di un minuto, non avrebbe avuto la stessa risonanza. Non ho pensato di rilanciarlo anch’io, non per disaffezione a quei contenuti, solo perché avevo già scritto il mio post precedente, ne avevo parlato di sgambescio. Più di uno al giorno non mi riesce.

Di quella risposta dal basso, ripeto, mi sono compiaciuto. Nell’istante in cui ho avuto la percezione della sua portata, mi sono sentito meglio. La risposta c’è stata, il boomerang è tornato indietro, per quello è fatto. Poi la notte porta consiglio, e il destino del giorno s’è fatto altro nella mia testa, nelle forme d’un paio di rammarichi, forse qualcuno in più. Il primo è che Scurati è un personaggio di chiara fama, ha già palcoscenici e vetrine importanti, ancorché meritati. Non pare silenziato del tutto se non partecipa ad una trasmissione televisiva, continuerà a parlare in altre, a scrivere, a pubblicare ed a vendere – sottolineo, meritatamente – i suoi libri, sarà invitato a partecipare ad eventi con pubblico numeroso. Fa parte a pieno titolo dell’intellighenzia di questo paese. Non è un gatto in autostrada. Ma c’è una censura sottile, trasversale, pesante ed opprimente che si esercita sul resto del mondo che urla, persino a due passi da casa di ognuno di noi. Non avrà diritto di parola pubblica l’operaio della GKN che perde il suo posto di lavoro, e che in una piazza di ventimila persone lega la sua lotta con la strage dei migranti, dei Palestinesi. Quelle piazze piene spariscono da ogni riferimento, se ne parla solo se i manganelli picchiano. Sono le piazze per la pace, per il lavoro, per i diritti, ma non esistono se non per chi le popola. Solo la settimana scorsa ancora due ragazzi giovanissimi sono crepati sul lavoro, vite ridotte in trafiletti, piccoli necrologi. Le loro vite sono state censurate ancora, non avevano diritto di parola prima, non l’avranno mai più. Sono censurate le storie di chi annega nei mari del mondo, quelli che si aggrappano disperatamente ad un relitto come fosse una vita che abbia un senso, e per questo la perdono. Questa è censura, questo è già fascismo, ma non facciamoci illusioni, c’è da un pezzo. C’è un’aria mefitica che opprime la cosa pubblica, la cultura di questo paese, pure quella è trasversale. Mi inquieta pure che quella risposta così bella e – sottolineo – dal basso, abbia potuto godere degli stessi strumenti che oscurano le piazze, che stritolano sino all’asfissia, come boa constrictor virtuali, il sangue, il sudore, le lacrime che si respirano in ogni anfratto di protesta, di sofferenza concreta. Pulsioni censurate, con collusione estrema. Ed ogni click, pure di indignazione legittima, necessaria, fa più ricchi i più ricchi, quelli che da soli hanno redditi di una decina di paesi condannati all’ecatombe. Ed è così da un pezzo. Da questa cosa mi piacerebbe disertare, che dalle armi non ne ho più necessità, non ne ho mai avute, nemmeno rischio d’averne. Così, per celia – ma non troppo – con Almerighi ed Henry, nei commenti in un post del primo, ci si è dati un appuntamento per il 24 aprile, vigilia d’una Liberazione che pare lontanissima, per pubblicare un post, a mo’ d’auspicio, che contenga il testo de «Il disertore», di Boris Vian, magari con una delle tante versioni con cui è stata cantata. Contro la guerra, contro un destino di censure d’umanità. Se vi va d’unirvi, ora sapete la data, per quello che può servire… Nel frattempo ho trovato una cosarella che oggi non passerebbe da nessuna parte. Qualcuno direbbe che è vecchia e desueta, fate voi se è davvero così.


«Il Fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità. Il fascismo è demagogico ma padronale, retorico, xenofobo, odiatore di cultura, spregiatore della libertà e della giustizia, oppressore dei deboli, servo dei forti, sempre pronto a indicare negli “altri” le cause della sua impotenza o sconfitta. Il fascismo è lirico, gerontofobo, teppista se occorre, stupido sempre, ma alacre, plagiatore, manierista. Non ama la natura, perché identifica la natura nella vita di campagna, cioè nella vita dei servi; ma è cafone, cioè ha le spocchie del servo arricchito. Odia gli animali, non ha senso dell’arte, non ama la solitudine, né rispetta il vicino, il quale d’altronde non rispetta lui. Non ama l’amore, ma il possesso. Non ha senso religioso, ma vede nella religione il baluardo per impedire agli altri l’ascesa al potere. Intimamente crede in Dio, ma come ente col quale ha stabilito un concordato, do ut des. È superstizioso, vuole essere libero di fare quel che gli pare, specialmente se a danno o a fastidio degli altri.» (Ennio Flaiano, Don’t Forget, 1976)

In morte del grillo

«Bada, Grillaccio di malaugurio!… se mi monta la bizza, guai a te!…».
«Povero Pinocchio! Mi fai proprio compassione!…».
«Perché ti faccio compassione?».
«Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno».
A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutto infuriato e preso di sul banco un martello di legno, lo scagliò contro il Grillo parlante.
Forse non credeva nemmeno di colpirlo; ma disgraziatamente lo colse per l’appunto nel capo, tanto che il povero Grillo ebbe appena il fiato di fare crì-crì-crì, e poi rimase lì stecchito e appiccicato alla parete.
” (Le avventure di Pinocchio, Collodi)

Se ne vede di gente spiaccicata alle pareti, a destra e manca, poveri scemi che non vollero far di sé burattini obbedienti. Di manganelli e fermi a ragazzetti ce n’è a iosa, pure a rango più elevato si cheta con il «non parli», che il momento è greve. E tutt’intorno è stessa solfa, se persino al greco illustre si tolse parola a patria di welfare, e cugini d’oltralpe fanno uguale, che è proibito si menzioni strage continua. Termini per massacro non sono cosa di società civile, gli affari sono affari e se c’è crisi, massacro, invece, quello diventa di persona dabbene, che massacro fa levitar vendite di bomba, economia si risana così. Se non c’è virus malvagio e con occhio a mandorla, si faccia almeno repulisti sinché ce n’è di tal questo e tal altro a suon di bombarda a saldo di vendita. Quelli, i cattivi, fanno di censura loro arma pregiatissima.

E noi rispondiamo con arma assai più potente, che non venga messaggio che civilissima civiltà sia da meno a far che d’aggressione tremenda si taccia, per non guardare, non vedere, che ebbe tradizione d’espletamento grande e divertente di gioco delle tre scimmiette. La piazza affollata per pace non esiste, se non ha follower e mi piace di sufficiente numero non fece tempo a costituirsi parte civile che venne sciolta. Ma fu colpa di cinici e spietati, oppure i burattini che non s’avvidero che bomba e strage è a un passo preciso da loro, non ebbero occhi per vedere e plaudirono a pallon che rotola o a racchetta a cacciar mosche? Povera itaglia, povero mondo, che non c’è più acqua da bere, ma tanta ne viene giù precisa, ad annaffiar albero di legno giusto per fabbrica di burattino.
«La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché ha in sé l’eterna rinuncia del “dare a Cesare” e perché i suoi princìpi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che “‘Sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura.» (E. Vittorini, Il Politecnico n. 1, 29 settembre 1945)

Rim-Bomba

“Come più volte ho avuto occasione di dichiarare, considero i moderni residui di patriottismo un sentimento deleterio, incosciente, inattuale, nonché la causa diretta della maggior parte dei guai che affliggono l’umanità; un sentimento da annientare una volta per tutte, con ogni mezzo, con la collaborazione di ogni persona ragionevole. L’esercito, il denaro, la scuola, la religione, la stampa, tutto si trova nelle mani delle classi dirigenti: A scuola accendono l’amor di patria nei bambini, mediante storie nelle quali il proprio popolo è invariabilmente il migliore, da adulti questo sentimento viene confermato da spettacoli, festività, monumenti e, inutile dirlo, dalla stampa” (Lev Tolstoj)

A me sarebbe venuta a noia tutta sta sfilata muscolare, ancor più ché a me sfilare mi riesce male. Preferisco posture statiche ed assai poco propense a fatti d’azione con lancia in resta. Anche perché a bersi un bicchier di vino e farsi una fumatina è cosa che sottintende a starsene quieti e tranquilli, altrimenti, l’uno e l’altra, se ne vanno di traverso con venir meno di sommo gaudio. Comunque, a far competizione pure mi venne a rigurgito. Mi traggo vantaggio d’arrivare ultimo, che a scanso di annotazione m’acquatto preciso a scoglio. Del resto non mi feci mai Don Chisciotte, per cui nutro ammirazione autentica per gesta memorabili che follia è ad apparenza cosa più umana e divergente che sanguinaria normalità. A costo di sembrar pavido a me piacque sempre Sancho, pur se manco troppo m’attrezzo a servitore, ma a perla di saggezza non mi sottraggo nemmeno.

«– Perdonami, amico, di averti messo nella condizione di sembrar pazzo come me, facendoti cadere nell’errore in cui ero caduto io, che vi siano stati o che vi siano al mondo cavalieri erranti.

– Ah! – disse Sancho -. Non muoia la signoria vostra, signore; senta il consiglio mio, e viva molti anni; perché la pazzia più grande che può fare un uomo in questa vita è quella di lasciarsi morire, così, di punto in bianco, senza che nessuno lo ammazzi, e che non lo faccia perire nessun’altra mano fuorché quella della malinconia. Cerchi di non essere pigro, e si alzi da questo letto, e andiamocene in campagna a fare i pastori, come abbiamo combinato: chissà che dietro qualche cespuglio non troviamo la signora Dulcinea già disincantata, che non si potrebbe vedere nulla di più bello.» (Miguel de Cervantes Saavedra – Don Quijote de la Mancha – Capitolo LXXIV)

Radio Pirata 65 (settimana cruciale che viene, settimana cruciale che va)

Torna a furor di popolo Radio Pirata, che s’è fatta numero Sessantacinque, traguardo d’invidia autentica per chi non fa giro di boa nemmeno a sessantaquattro. E torna con convincimento ch’è di necessità assoluta far musica e notiziola in qua ed in là, per scovar talento dove talento c’è, a dar possibilità d’emergere a giovane che ha penna facile e vuole darlo a vedere al mondo intero. Che Radio ha volontà di talent scout e si da vetrina a giovane che vuol far di sua scrittura affermazione ad applauso. Ma andiamo subito con musica giusta che settimana comincia di lunedì e detto lunedì è di tali nebbie che ad allietarlo in nota non si fa etto di danno.

Che c’è settimana che si chiuse che odora di zolfo e piombo, per escalescione di guerra a parte del mondo che fu tutta. Che guerra fa a bombarda anche a chi non s’avvede che bomba casca su testa sua perché non sentì botto chiaro e si fece domenica a mangiar pizza tranquillo per scontrino da ecatombe. Che detta guerra è ‘ndo cojo cojo, ma sempre fa centro precisissimo a tale che ebbe a disgrazia di nascere di manto disgraziato, e se s’è fatto malato poi non trova cura che medico ed infermiere, pure medicina facile facile, non c’è per acquisto mancato a sottrazione di finanza, che quella, finanza, serve a far cosa buona e giusta che fu smercio di boma per guerra a dritta e manca.

Ambasciator non porta pena, si disse a saggezza antica, ma antica saggezza è superata e si bombarda ambasciata con tanto di morto e ferito, che se poi taluno che si vide recapitar ambasciator a modo di Attilio Regolo s’altera, – che già era ad alterazione permanente – fa a lancio di ogni cosa a modo pure lui per far morto e ferito. Ma che sia ora spazio a giovane virgulto di penna, ch’egli ritiene interessante messaggio suo, a speranza nostra che non faccia crollo di esagerata audience di Radio Pirata. «Quando i ricchi si fanno la guerra, sono i poveri a morire.» (Jean Paul Sartre) E meno male che fu sintetico, che se continuava a dirla lunga a fatto d’accumulazione di baggianata c’era rischio che audience di Radio Pirata si faceva colo a picco in un tempo di niente.

E quella che se ne andò fu anche settimana di strage che pare coazione a ripetere, in luogo di lavoro dove per sicurezza di risparmio non s’aggiunse troppa altra sicurezza. Che pare cosa non troppo a fatto occasionale che uno se ne va a lavoro, saluta a casa affetti o solitudini, a seconda dei casi, si accomoda a far fatica, poi non torna. E se affetti furono colti d’improvvisa devastazione, pure solitudini, che per cosa conclamata paiono d’anime migranti, pare urlino cose di disperazione. «Attraverso fitte di dolore, ore, squadre e livelle, il job diventava una realtà familiare, una sensazione nuova, brivido di uomini e pietre ed acciaio. Era un gioco, una corsa, una partita, in cui tutti erano attori muscolari, dal fischio del mattino a quello della sera, ed egli era uno di loro. Era giorno di paga e fra poche ore la busta avrebbe segnato un breve armistizio. Era la guerra per la vita, e Paolino era un soldato. Non era come al gioco delle biglie, dove giocava per divertirsi; era un vero assedio, un assedio condotto da uomini maturi e accaniti contro una fame sempre in agguato, contro il nemico ereditario.» (Cristo fra i muratori, Pietro Di Donato) E pure noi abbiamo dato l’obolo d’apparizione a quest’altro che anela a fama imperitura, ma se continua a scriver ad affondare successo di Radio Pirata con insopportabile retorica pauperista, più che fama si becca fame. Che noi, ad altra sorte adusi, mandiamo musica ch’è meglio assai.

E c’è grande isola che si fece matrigna di tenutario di direzione artistica di Radio, che pare essere a secco come piscio di cammello in deserto. E c’è ovvietà in questo che temporalone si ferma, che a traghettamento lento ed infingardo ci vuole tempo indefinito, così rinuncia ad attesa e scarica acqua ad un altrove a bidonata che fa danno, pure a chicco di grandine a strigliar tetto di decappottabile a lusso precisissimo. E prima che isola a forma di tre – che di perfezione fece a meno per esclusiva modestia – si boccheggia di sete, c’è fortuna che s’ebbe direttorio illuminatissimo di levatura cosmica che disse ponte sia, che tutto si sveltisce, pure tasca si piena assai e rapida e a pienare serbatoio poi ci si pensa, se me lo ricordo. E prima di cedere la parola ad altro giovane cercatore si sorti buone per minchiate scritte a cottimo, per non bombardare l’ultima speranza d’un qualche ascoltatore di Radio, andiamo di musica.

«Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l’ evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell’ omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poichè con le isole il punto è questo: sono di per sè parchi naturali e riserve dove lo “specifico” indigeno resiste più a lungo: sicchè rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale… Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benchè non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l’ Alitalia e l’ Autostrada del Sole. Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. Proprio su la Repubblica (31 agosto) Arbasino ci attribuiva una smania di staccarci dalla nazione e ce ne concedeva licenza. Obietto che, dai tempi di Salvatore Giuliano, fra le maschere sanguinose della mafia il fantasma del separatismo non è più ricomparso: e che oggi un eventuale referendum secessionista non raccoglierebbe in Sicilia più di mille o duemila suffragi… La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d’ Italia, dall’ Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d’ Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina… Con tutto ciò, come negare l’ esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’ esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l’ aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.» (Gesualdo Bufalino, su La Repubblica, 19 settembre 1985 su la Repubblica)

La sentenza antica che pare moderna

Che fa ottant’anni oggi ch’è tredici di detto aprile che a passi due da casa mia di lavoro si fece rastrellamento a morte subitanea per italiano per razza d’inferiorità conclamata e rappresaglia di ‘do cojo cojo a Vallucciole e Moscaio, per opera d’elevatissima gens griffata a doppia esse. Ma ci fu complice locale senza trucco e senz’inganno per moda a vestito giusto a tinta unita che si fece notte fonda. E ricordo di detti che perirono pare lontano assai nel tempo che non fu nessuno ad emetter sentenza che c’era solo a non meritar vita. Oggi sentenza è ad emissione assai più bianca, ma gettito non pare ad essere da meno, per annego, sepoltura a deserto, grappolo di bomba o lavoro coatto per vita miserabile che si fa strage di tanto in tanto a rinverdir ricordo di andava meglio quando andava peggio.

Ci sono sentenze ed inchieste ad orologeria? E che ne so, ma pure chi se ne frega. Il giochino non mi interessa più. Ci sono condanne ad orologeria, però, anzi, condanne scandite ad ogni minuto. È condannato a morte probabile chi la mattina s’alza ad ore improbabili, per andare a strappare l’obolo di sussistenza. Perché il destino cinico e baro lo inciampa nella trebbiatrice, l’accomoda al fresco d’una stanza d’ozono, gli regala avide aspirate di esalazioni d’una vasca di mosto – altri, che m’importa se ad orologeria, s’aspirano altro, e si fanno occhietti a pupilla midriatica -. Ed il siur padrun dalle belle braghe bianche, può star tranquillo, che il nostro è paese garantista. Un paio di cose – la seconda, del Maestro Ignazio Buttitta, la faccio mia, per dedicarla, mica per tenermela -, dunque, per chi è polvere sotto il tappeto, con lo sfondo fragoroso ed inutile del plural tenzone nella cassa da morto del segreto dell’urna.

subtraxerim utilium

Ho sentito i cori dei corvi

e l’arcangelo vestito di nerofumo

recitare litanie

in fondo alla ciminiera

dei campi di cotone.

Era il canto della strada buia,

in riva alla città zoo,

la sirena che pregava

di catturare gli scarafaggi d’ogni tribù,

nascosti alla luce esausta del neon

dallo scricchiolio della pattumiera

gonfia d’orgoglio

e di cose non dette, non scritte.

E se fossero sagge e definitive

le parole della notte

il mattino si diverte a cancellarle

per l’innata sua passione per lo smog,

o per lo smoking

– color cimitero –

da abbinare alla cravatta

con il nodo scorsoio

da indossare il ventisette

di un mese qualsiasi per l’obolo

dai vestiboli della civiltà dorata.

Nun sugnu pueta

Non pozzu chiànciri

ca l’occhi mei su sicchi

e lu me cori

comu un balatuni.

La vita m’arriddussi

asciuttu e mazziatu

comu na carrittata di pirciali.

Non sugnu pueta;

odiu lu rusignolu e li cicali,

lu vinticeddu chi accarizza l’erbi

e li fogghi chi cadinu cu l’ali;

amu li furturati,

li venti chi strammíanu li negghi

ed annèttanu l’aria e lu celu.

Non sugnu pueta;

e mancu un pisci greviu

d’acqua duci;

sugnu un pisci mistinu

abituatu a li mari funnuti:

Non sugnu pueta

si puisia significa

la luna a pinnuluni

c’aggiarnia li facci di li ziti;

a mia, la menzaluna,

mi piaci quannu luci

dintra lu biancu di l’occhi a lu voj.

Non sugnu pueta

ma siddu è puisia

affunnari li manu

ntra lu cori di l’omini patuti

pi spremiri lu chiantu e lu scunfortu;

ma siddu è puisia

sciògghiri u chiacciu e nfurcati,

gràpiri l’occhi a l’orbi,

dari la ntisa e surdi

rumpiri catini lazzi e gruppa:

(un mumentu ca scattu!)…

Ma siddu è puisia

chiamari ntra li tani e nta li grutti

cu mancia picca e vilena agghiutti;

chiamari li zappatura

aggubbati supra la terra

chi suca sangu e suduri;

e scippari

du funnu di surfari

la carni cristiana

chi coci nto nfernu:

(un mumentu ca scattu!)…

Ma siddu è puisia

vuliri milli

centumila fazzuletti bianchi

p’asciucari occhi abbuttati di chiantu;

vuliri letti moddi

e cuscina di sita

pi l’ossa sturtigghiati

di cu travagghia;

e vuliri la terra

un tappitu di pampini e di ciuri

p’arrifriscari nta lu sò caminu

li pedi nudi di li puvireddi:

(un mumentu ca scattu!)

Ma siddu è puisia

farisi milli cori

e milli vrazza

pi strinciri poviri matri

inariditi di lu tempu e di lu patiri

senza latti nta li minni

e cu lu bamminu nvrazzu:

quattru ossa stritti

a lu pettu assitatu d’amuri:

(un mumentu ca scattu!)…

datimi na vuci putenti

pirchi mi sentu pueta:

datimi nu stindardu di focu

e mi segunu li schiavi di la terra,

na ciumana di vuci e di canzuni:

li sfarda a l’aria

li sfarda a l’aria

nzuppati di chiantu e di sangu.

Inopinatamente m’ergo a traduttore dalla lingua mia a quella che m’ha adottato, sperando di non fare troppi danni.

Non sono poeta

Non posso piangere

che i miei occhi sono secchi

ed il mio cuore

è come lastra di pietra

La vita mi ha ridotto

arido e bastonato

come una carrettata di brecce

Non sono poeta

Odio usignoli e cicale

leggera brezza che accarezza l’erba

e le foglie che cadono con le ali

Amo i fortunali

i venti che spazzano via le nuvole

e nettano aria e cielo

Non sono poeta

nemmeno un insipido pesce

d’acqua dolce;

sono un pesce selvatico

abituato ai mari profondi:

Non sono poeta

se poesia vuol dire

la luna sospesa

che impallidisce i volti degli amanti;

a me, la mezzaluna,

piace quando risplende

nel bianco degli occhi dei buoi.

Non sono poeta

ma se è poesia

affondare le mani

nel cuore degli uomini che soffrono

per spremerne via pianto e sconforto;

ma se è poesia

sciogliere il cappio agli impiccati,

aprire gli occhi ai ciechi,

ridare l’udito ai sordi

spezzare catene, legacci e nodi:

(fra un momento scoppio!)…

Ma se è poesia

chiamare dentro tane e grotte

chi mangia poco e veleno inghiotte;

chiamare braccianti

ingobbiti sulla terra

che succhia sangue e sudore;

e strappare

dal fondo di miniere di zolfo

la carne degli uomini

che cuoce all’inferno;

(fra un momento scoppio!)…

Ma se è poesia

desiderare mille

centomila fazzoletti bianchi

per asciugare occhi gonfi di pianto;

desiderare letti morbidi

e cuscini di seta

per ossa storpiate

di chi lavora;

e desiderare che a terra

vi sia un tappeto di foglie e fiori

per rinfrescare il cammino

a piedi nudi dei poveri:

(fra un momento scoppio!)…

Ma se è poesia

farsi mille cuori

e mille braccia

per stringere povere madri

inaridite dal tempo e dalla sofferenza

senza latte al seno

e col bambino in braccio:

quattro ossa strette

ad un petto assetato d’amore:

(fra un momento scoppio!)…

datemi la voce più potente

perché mi sento poeta:

datemi uno stendardo di fuoco

e che mi seguano gli schiavi della terra,

un fiume di voci e canti:

gli stracci per aria

gli stracci per aria

inzuppati di pianto e sangue.

Ed ancora «Il lungo viaggio», per chi non volle partire e sparì uguale.

Antimerce (Allonsanfàn parte ventiseiesima: l’arte outsider di Grazia Ferlanti)

Grazia Ferranti è tipica esponente di quella che ormai s’è affermata come «outsider art», forma espressiva cui si approda come sponda salvifica oltre le derive quotidiane. È lì l’Arte di chi, per immaginari collettivi mercificati, d’arte non deve occuparsi. Il termine supera ed ingloba l’Art Brut, le esperienze lontane del pittore francese Jean Dubuffet, va oltre ogni categorizzazione. Le produzioni sono non convenzionali, concepite quali percorsi intimi, esclusivi, da autodidatti, in forme talora riabilitative, altre volte catartiche e di riscoperta. Permane sempre, però, una solida volontà di ricerca dialettica e comunicativa del sé attraverso l’arte.


Grazia Ferlanti è tutto questo e in qualche modo fa sue anche esperienze altre, le amplifica con sensibilità originali cui sovrappone il proprio quotidiano. Nata a Modica nel 1988, dalla sua città, da quel quartiere abbarbicato su un costone roccioso, scavato letteralmente nella roccia, si è allontanata solo per breve tempo, per lavorare altrove, nella ristorazione. Una grave malattia l’ha costretta ad un lungo periodo riabilitativo durante il quale si è avvicinata al collettivo Artisti Associati Matt’Officina di Modica dove ha conosciuto il pittore Marco Terroni Grifola, amico fraterno da cui ha appreso le principali tecniche pittoriche. Ho incontrato Grazia per la prima volta proprio a Matt’Officina, lei non parlava delle sue cose, pareva occuparsi d’altro. Aveva una sorta di pudore intimo nel mostrarsi per quello che era, un’artista. Mi accorsi però che non era lì per caso solo dopo aver notato un dipinto su carta di buona dimensione che mi colpì, faceva bella mostra di sé in cucina, dove Grazia pare trovarsi proprio a suo agio. Chiesi di chi fosse. Era il suo.


All’inizio della sua esperienza ha preferito concentrarsi sulla pittura ad olio, con un percorso di rappresentazione di sé stessa, di ricostruzione ed esplorazione del proprio essere. Le sue opere sono esplosioni di colori, solo in apparenza e ad un occhio distratto ingenue, con quella precisa separazione cromatica, il tratto che confina le tonalità in un ambito precisamente definito, la disposizione spaziale che segue logiche incomprensibili, istintuali ammiccamenti a certa psichedelia. Ad uno sguardo attento appare invece evidente la rappresentazione di parti d’un sé disordinato, un caos generativo cui non occorre mettere ordine, non è necessario se la disposizione eterodossa del proprio io coincide con aspirazioni e pulsioni comunicative da non imbrigliare. Dell’io di Grazia, nei suoi dipinti s’avverte la profondità, pure la natura di fermento permanente, non riconducibile a categorizzazioni d’alcun tipo. È arte che si autoriproduce, attraversa fasi dialettiche serratissime con l’artista che la plasma, finisce essa stessa per plasmare Grazia, la rende differente, la racconta senza infingimenti, produce narrazioni libere. Ma c’è, nascosta tra i meandri di quei ghirigori trasformati in magia espressiva, anche la sua Modica, l’intricata sua morfologia, incomprensibile a primo acchito, intersezione d’anime rade, di aperture improvvise, imbuti inattesi di rocce e quel crogiolo di case indefinito tra cascate di cespugli di capperi che si aprono varchi nelle fessure tra le mura e la roccia. Grazia anche lei pare scavarsi una propria identità, un proprio modo di esrpimersi. Partecipa a quel complexus, lo fa come soggetto eversivo (nel senso latino dell’e-vertere, cambiare direzione) giacché, come un’antenna, capta più o meno consapevolmente i segnali del proprio ambiente sociale e culturale (quindi politico), li filtra col proprio vissuto, li trasforma in determinazione creativa. Lo fa quando sensibilità non avvezze all’immaginazione – quindi ad andare oltre -, non sono capaci di coglierne nemmeno i vagiti più rumorosi. Le cose di Grazia appartengono all’immaginario che le ha prodotte, non sono alienabili giacché quel percorso è già stato compiuto. Il suo vissuto impone una lettura differente e soggettiva della sua opera, ne rende l’essenza di antimerce, giacché la merce è tale solo se ne è garantita la riproducibilità seriale. Grazia, invece, è cangiante, non s’accomoda, nemmeno ci prova. Non le appartiene l’idea della compatibilità, del fare le cose «per bene», dunque, se si racconta, si racconta così, non cerca scorciatoie ruffiane, nemmeno ammicca a certa serialità di maniera. Outsider art, pienamente, completamente altra. Ma forse è talmente arte questa da rendere, in qualche modo, outsider, brandello d’arte e convenzione, il crogiolo artistico conclamato come tale da immaginari che stentano a concepire l’arte come comunicazione «onesta», premiante nel gusto degradato della serialità della merce.


Grazia Ferlanti è ancora in mostra per qualche giorno presso l’A/telier di via Pizzo a Modica (RG), in una collettiva che esplora proprio l’arte outsider.

Mercanti d’anime

«Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.» (Conversazione in Sicilia, Elio Vittorini)

Vorrei non parlarne, mi piacerebbe. Ma sono un vecchio delegato sindacale, uno di quelli che lo fa da vent’anni senza mai aver preso una lira. Mi occupo di sicurezza come rappresentante dei lavoratori. So cose, si direbbe. Mi formo e mi informo, ne ho la responsabilità, me la sono presa, non me l’ha ordinato il dottore. Sono pure uno che rompe abbastanza. Quello che è successo a Bologna mi crea faticosissima voglia di parlare. Ci sono le cose che i giornali riportano, il giochino del cordoglio, chiudere le stalle mentre i buoi già corrono per i campi. C’è la logica del subappalto, vite vendute a cottimo, un tanto al chilo per gran risparmio, lavoratori che si dicono «esterni». Corpi alieni nel ventre putrefatto della balena.

L’ho già raccontato, tempo fa, non troppo, proprio a vista di casa mia, un tale che conoscevo appena, giusto un ciao al bar per le sigarette ed il caffè la mattina, è finito in una tramoggia, ha lasciato famiglia, un ragazzino complicato. Ho sentito le ambulanze, un certo frastuono, l’elicottero che lo portava via quando non c’era nulla di più da fare. Dopo un paio di giorni la notizia è sparita, pure se già era solo roba da trafiletto. Come sparirà quella di Bologna, è sparita la strage di Firenze, come sono spariti gli altri mille trafiletti dell’ultimo anno. Ogni tanto il morto ci scappa, finisce nella tramoggia anche quella notizia. Non succederà niente oltre la retorica della commozione dell’istante, il cordoglio unanime, il parliamone. Ma cosa ci sia da parlare non mi è mai stato chiaro, o meglio, mi è chiaro l’oggetto del contendere, non capisco perché bisogna parlare di certe ovvietà. Lo scontro è ideologico, non c’è vittima che tenga. Si dirà che ci vuole più formazione, più informazione. Si investirà tre centesimi in più su quello, il resto, si dirà, non c’entra.
Ma questa tragedia di Bologna ha qualcosa che non è più particolare, non solo per il numero delle vittime. I templi della merce vanno costruiti, non ce n’è mai abbastanza per deificare il consumo. Ancora ci tocca guardare l’anagrafe delle vittime. Vengono da un altrove dove non torneranno, Non torneranno più a casa, per le festività, le vacanze estive, a salutare vecchi amici, i parenti. In certi luoghi d’opulenza gente così, ben disposta per una vita dignitosa a fatiche incerte, stipiendi così così, non se ne trovano.
Sotto le macerie ancora le anime degli ultimi, quelli attaccati alla ricerca disperata d’una vita dignitosa con le unghie e coi denti, che non hanno nome, quelli che non saranno mai in copertina se non come numeri, non vinceranno slam. Domani è un altro giorno, la fila alla cassa non si esaurisce, in attesa delle rovine del prossimo tempio, delle nuove vittime sacrificali immolate al nostro shopping domenicale.

Piccoli malintesi

I miei ricordi spesso si appannano, talora paiono fenomeni carsici, qualcosa riemerge da un tempo indefinito che non so precisamente collocare. Per cui non sono sicuro di aver già scritto di questo. Nel caso chiedo venia, apparirò come certi tipi – categoria di cui forse sono parte organica – che si ripetono, scordandosi di farlo. Diversi anni prima di questo blog ne tenni uno per qualche mese, non di più. Fu una prova che durò poco, tentativo abortito di recuperare facoltà di scrittura. Quella mi aveva abbandonato, se n’era andata via e non desiderava tornare. Ero su una piattaforma altra, nemmeno ricordo quale ma credo sia irrilevante, e com’ero seguito da taluno, seguivo talaltro.

C’era un blog che mi piaceva, postava cose che mi sconfinferavano. Raramente interloquivo ma a conseguenzialità che ritenni tale, postai quel «la bellezza salverà il mondo» che il principe Lev Nikolaevič Myškin volle lasciarci a futura, imperitura memoria. In quel caso – in altri no – vi fu risposta, secca: «minestra riscaldata, roba da salotti buoni».
Non me la presi, semmai mi scappò una risatina a pensare le mie bettole in qualche angolo di suburbia elevati al rango di salotti buoni. Ma forse per me sono proprio quelli, salotti buoni. So bene, del resto, che esiste la certa attitudine molto borghese di attribuire attitudini borghesi a tutto ciò che si realizza ad un paio di centimetri dal proprio naso. Ma è quel «la bellezza salverà il mondo» su cui mi va di ragionare. Perché di tutto si tratta fuorché d’una volontà del buon Fëdor Dostoevskij di esaltare la bellezza in quanto tale. L’Idiota cerca la bellezza perché quella emoziona, la riproduce financo a partire da se stesso, non vuole che sia minestra riscaldata, il pret-a-porter del gusto raffinatissimo delle élite. Perché è appagante ritrovare quel tentativo di «bello» che sta in una pianta di gerani fiorita in un vicolo d’un centro storico in abbandono, mentre il tetto della casa regge a stento l’ultima pioggia e non c’è certezza d’un pranzo all’altezza della cena. Ed una primula rossa sul davanzale d’una finestra d’un cubo di cemento trenta per trenta, in una periferia dimenticata non commuove forse? Non spinge lo sguardo verso un altro orizzonte che rifiuta ogni sopraffazione, in quella ricerca disperata non c’è l’emozione della bellezza?

Ed oggi l’idiota è tale per convenzione, è così per l’immaginario collettivo, ha la presunzione di pensare di emozionarsi per una bellezza in divenire, per la sua ricerca. Nei grandi e magnifici salotti la comprano un tanto al chilo, si raccontano di visite nei grandi musei, le crociere verso i mari lontani, surrogato d’emozione, malintesa commozione. Ma sono, quegli stessi eleganti consessi, talmente collaterali – quando non direttamente lo sono essi stessi – a chi decide con le proprie leve le sorti della bellezza, a chi, in luogo di piante di gerani in vasetti sbeccati di terracotta, preferisce l’esosa «bruttezza» della bomba.

Vi riposto «Il lungo viaggio», che forse un po’ racconta di questa ricerca istintiva della bellezza.

Un piatto ch’è una bomba

Li chiamano piatti poveri, come ve ne parlai a proposito di sgombri. Non sono sicuro che lo siano, pure penso che invece siano ricchissimi. Ce n’è uno cui già vi feci cenno che non ha tema di farmi smentire a dire che di quello si tratta. Una cosa che viene da contadini raffinatissimi, ricchissimi di perizia e cultura, tali da strapazzare interi universi accademici. E parlo di «lolli col macco di fave». Ora, non è che d’improvviso mi feci petit gourmet, ma la ricetta ve la dó per ragioni più avanti note ed è ovvio che non c’è ricetta senza musica e manco ne conosco senza un bicchiere in mano.

Partirei con l’ingrediente principe, che furono fave secche, ad opportunità sgusciate, che acquistai a costo preciso di 3,50 eurini per un chilo. Le ho messe in ammollo per ore ventiquattro circa, che quelle da un chilo che erano si fecero due e forse pure di più. Di odori me ne servono facciamo mezzo chilo, con composizione d’un paio di cipolle bianche, un paio di carote di media grandezza ed un paio di gambi di sedano che per tutto andiamo sul mezzo chilo, ad un costo che, dal buon Nino che coltiva in proprio e vende a furgoncino ante bellum sotto casa mia, per quota quadrupla – per altre evenienze – fanno circa due euro, e quindi diciamo che ciò che mi serve si ferma a centesimi cinquanta circa. Per aromi che son d’accompagno al sale non spesi, che me li trovo sul balcone, e di particolare m’attrezzai di salvia, pure un rametto di rosmarino e menta che non si lesina. Il peperoncino pure quello è di mia pertinenza, ma se non ne aveste in proprio mi verrebbe complicata la quantificazione economica, che a costo d’una spruzzata non volano che un paio di ramini di quelli piccoli. Olio, diciamo un bicchiere piccolo, che son 100 ml, a dirla precisa ne presi a sfare di nuovo al frantoio per dieci euretti al litro, che dunque quello fa un solo euro. Mezzo bicchierozzo di olietto buono lo metto a far calor bianco sul fondo di pentolonissimo, per far patire ardenti inferni ad odori al gran completo, tagliati a dadini senza troppo far caso a precisione. A precisa doratura butto giù le fave a rigonfio d’almeno doppio rispetto a partenza, un salto rapido con tutto il resto, poi giù l’acqua. Ad aggiustar di sale ci penso dopo che un pò si restringe il tutto e rischio l’errore strategico. Ma anche in questa fase non lesino aromi a come mi pare ed a mio gusto. Che se la fava la rigonfiata in acqua se l’è fatta bene, poi la cottura fa presto a venir che si fece pappetta. Ma a me serve ancora più pappetta, dunque, aggiustata di sale ancora, pure dopo aggiunta, se serve, di acqua altra a far bene brodetto, a fatto che si fece fredda, faccio fare tormento di lame rotanti a frullatore ad immersione, poi metto via. Mi faccio un bicchiere di rosso, meglio due e vado di musica.

Però detta ricetta ve la affianco a costo approssimativo per esuberanza e poi assieme ragioniamo su quote ad personam, pure se io, d’ultimo, ne preparai assai meno che a cena non avevo che sei persone di fame certa ed autoinvito proprio per lolli con fave.

Per fase seconda comprai, sempre da buon Nino, un chilo di patate – ne presi tre, invero, ma a lessarne tali ne metto – che la spesa dell’occorrenza è eurozzo uno preciso, ed al mulino di Raffaello m’attrezzai d’un chilo di farina di semola di grano duro buonillima per euro unovirgolatrenta. A quest’ultima aggiungi ad amalgama patata lessa e schiacciata precisa a far pastetta, anche sale ed un goccio d’acqua del sindaco quanto basta, Aggiungo pure un cucchiaio d’olio, faccio riposare una mezz’ora buona e concio la pasta che la faccio a vermetti di spessore di mezzo centimetro e lunghi tre o quattro, che a detto modo s’ottengono i «lolli». Quelli li butto nella purea di prima, assicurandomi che sia a brodosità adeguata che pure l’amido fa parte sua a stringere il tutto d’intorno. A venir su la tribù di lolli si procede a scodellamento con olio a rimanenza che a dette porzioni ci mangiano in quindici a strafogo che i conti sono presto fatti: un chilo di fave (a raddoppio minimo per ammollo), uno di patate, mezzo d’odori, uno di farina che son oltre 200 grammucci a testa, che non contano la pasta che li straborda dal piatto, e ci feci bella figura che me ne chiesero ancora e poi di più finché non fecero fuori pure il fondo del pignattone. Ma anche parecchio di rosso si scolarono, che io non potei far da meno. E c’era musica giusta a fondo a render più lieto il convivio.

Detto piatto ha proprietà favolose d’apporto proteico, di carboidrati, di vitamine e sali giusti, pure calorico non è da meno ad altri, anzi, di più che ha amidi a sfare, e non usai carni pompate ad antibiotico. Senza volersi fare dimentichi che le fave, come altre leguminose di fatta simile, si mettono a radice tali funghi e batteri simbionti che fanno ad arricchir suolo di nitriti e nitrati, per nutrir altra pianta a stagione diversa come non fece la chimica.

Il costo, mi stavo dimenticando tra un bicchiere e l’altro. A volerlo fare esatto per dette dosi che vi diedi che van bene per numero di persone che son circa quindici a porzione saggia (io ne feci q.b. per invitati) siamo sui setteetrenta ma facciamo otto che ci metto il conforto. In pratica siamo sui cinquanta centesimi a testa. Pure, ché comprai da terzi e non feci produzione in proprio, ad indiretto diedi contributo per mettere a tavola detti produttor-venditori. E risultato spietato merita bevutona con musica prima di far tiro di somma.

Mi viene a sobbalzo che a tempo di bomba c’è grande flotta aerea di nuovo acquisto, che lancia missile e fa sfascio d’ogni vita che becca e che, a scanso di manutenzione e carburante, si fece a grande offerta speciale per grande accordo tra paesi civili e rispetto di stesso a trasversal consenso d’ogni partituccio di repubblichetta, ed a costo di questo s’aggiunge bomba di qua e di là per miliarduccio più, miliarduccio meno. Insomma, fatto il conto della serva ci viene che ogni spicciolo di guerra costa circa milioncini di porzioni di «lolli con le fave». Insomma a far la guerra ci si guadagna assai, e si ammazza abbastanza, ma a far la fame s’ammazza pure di più senza sparar colpo per semplice affare di bomba ammazzasette che quella si che è elegante per far ricca bella gente, mica piatto povero che al più sazia disgraziato.

I giorni della lupa

«Lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.» (Horcinus orca, Stefano D’Arrigo)

Avviene che faccio lavare la macchina un paio di volte a decennio, e c’è ragione precisa in questa scelta di disimpegno igienico: quando prendo la decisione viene su lo Scirocco, si porta dietro una coltre di sabbia rossa e bollente. Dunque, l’operazione di nettezza viene vanificata. Detto questo, a brevi giorni di feria, a mare ci sono andato che c’era la lupa, una foschia densa che l’orizzonte s’immagina appena. In un tempo di scarsa tecnologia, le navi grosse facevano ululare le sirene, erano quelle che parevano lupe. Ma a certi pareva di sentire canti di sirena, bastava tendere orecchie d’immaginazione. Pescatori di piccolo cabotaggio in giro non ce n’è, quelli se ne stanno al riparo dei porticcioli. Il mare è calmo, ma non sai come se la pensa il vento. Non gli va di rischiare proprio sotto Pasqua di essere inghiottiti da quella coperta densa, nemmeno ci tengono che a certi motori – già arrancano per grazia ricevuta – la sabbia intasi il filtro dell’aria lasciandoli invisibili in mezzo al nulla infinito. Ed io il pesce lo prendo solo da loro. Pilu non c’è, mi dicono che non sta bene e spero non sia niente, solo male di stagione. Vuol dire che per un attimo Nettuno, di cui è sacerdote a tempo pieno, si scordò di garantirgli giusta protezione. Raffaele, che sacerdote non è, lui c’è almeno a rango di chierichetto, e s’è fatto un giro rapido. Ha tirato su seppie e sgombri, a me va bene. Le seppie se le acchiappano subito, è roba che serve per le feste, quelle assai benestanti, va a far ripieno di certe procaci scacce. Per gli sgombri non faccio fatica ad assicuramene abbastanza, è pesce con le «spine», si fa fatica a perder tempo per toglierle, non c’è pazienza. Io, invece, tempo ne ho, pure pazienza. Per chi non gode di risorse spietate ma ha ad occasione sporadica del tempo, c’è il presagio di poter fare la differenza. Che già per comprare pesce buono di tempo ne occorre, ci vuole conoscenza giusta di luoghi e distinzione delle rughe che fece il mare salato. Avere tempo è un lusso che ci si deve concedere, che certe categorie nemmeno sanno cosa sia il tempo. Il tempo è buono per lamentarsi, per preparare «macco di fave», avendo cura – e, ovvio, tempo – di farle seccare, sgusciarle per bene una una, lasciare che «spanzino» in ammollo e cuocerle sinché non si fanno sfaldo e basta, crema precisa. Serve tempo per pensare a rivoluzioni, immaginare d’attuarle, magari per fiducia mal riposta in chi tempo non ne ha. Che gran lusso il tempo, pure se appartiene più ai disgraziati, tempo che fu ed è spazio mentale, tempo per soggiacere ai padroni senza tempo del vapore, o sperare d’emanciparsi da quelli stessi. Persino la morte pare cosa diversa per chi mezzi non ne ha e, dunque, possiede tempo: può essere oscena iattura, ma anche elegante prospettiva.

Della morte di certi disgraziati bisogna parlarne, che non sempre pare cosa elegante e non se ne capisce la ragione d’un anticipo, buonuscita per vita goduta malamente, a suono di bomba, per catastrofe o per qualche naufragio di barca sgangherata, traghetto di misere anime. Per quella dello sgombro bisogna essere preparati, invece, con precisione, avere mani buone, dose di tempo e pazienza per lordarsele a sufficienza, aspettando meritati appagamenti. Premio giusto ce n’è per sé, pure per gli altri, ché cucinare per gli altri non è dono da poco, è cosa che non serve solo a sfamare, detto a chi capisce cos’intendo. Tralascio di parlare di valore nutrizionale, quello che fa dello sgombro il re senz’altri a pretenderne il trono. Mi soffermo, invece, su certe sue proprietà estetiche, che a giocar di parola si fa a parlare di sembianze estatiche. Quello, lo sgombro, è da prima di copertina, per livrea iridescente, il portamento a perfetta affusolatura, campione d’idrodinamica, al tempo d’elegante, raffinatissima argentatura. Per cucinarlo si impiega il tempo d’uno sbadiglio, al forno con sale e olio e basta più, tutt’intorno rondelle di patate, quelle, al più, con salvia e rosmarino, una quindicina di minuti in tutto. E se volete ci si fa con ancor meno, se si tolgono testa e lisca centrale, s’apre a libro, si passa in farina da una parte e l’altra e basteranno un paio di minuti per lato, in olio bollente. Credo che la Convenzione di Ginevra proibisca altro olio che non sia d’oliva. Se la creatura lascia il suo nuoto libero, allora val la pena abbia sepoltura degnissima, che la morte sempre va santificata. E se la rapidità di cottura pare contraddire il prendersi tempo, è nel trovar pazienza per spinarlo che se ne recupera quanto basta la sacralità. Vien sete per quei piccoli morsi di mare salato, a bere rossi giusti non si fa male, lo sgombro ha personalità tale da resistere senza affanni all’innaffiata, non teme d’esser passato per gusto in sordina. Dopo ci si sente liberi, perché quello – sempre lo sgombro intendo – trasmette libertà di movimento, non pascola a fondali limacciosi, ama la corrente, non si tira indietro se s’alzano libeccio o scirocco, neppure se soffiano grecale o tramonta. Lui cammina, cammina, sfiora l’orizzonte perché si presenta sempre oltre quello, con pinne che ne cercano uno nuovo. Per questo i borghesi lo evitano, dicono ch’è pesce povero, con disprezzo, e lo rifiutano pure allo sguardo. Come rifiutano con analogo disgusto lo sguardo a chiunque abbia la stessa aggettivazione, se non per misericordiosi oboli a distanza, conto terzi, che non si perda tempo manco per la carità. Ma che tristezza quei bistrot sul lungomare, più avanti, c’erano sui tavoli – giuro, li ho visti – cocktail di gamberi, qualcuno li ha ordinati.

Per feste buone ad ognuno

Dimmi, enigmatico uomo, chi ami di più? tuo padre, tua madre, tua sorella o tuo fratello?
– Non ho né padre, né madre, né sorella, né fratello.
– I tuoi amici?
– Usate una parola il cui senso mi è rimasto fino ad oggi sconosciuto.
– La patria?
– Non so sotto quale latitudine si trovi.
– La bellezza?
– L’amerei volentieri, ma dea e immortale.
– L’oro?
– Lo odio come voi odiate Dio.
– Ma allora che cosa ami, meraviglioso straniero?
– Amo le nuvole… Le nuvole che passano… laggiù… Le meravigliose nuvole!

(Charles Baudelaire, L’étranger)

Due parole in fila, per farvi un buone feste come so fare, che di meglio non mi viene.

Se vi fosse in uomini amore per le nuvole, vi fosse passione per onde del mare, vi fosse desiderio d’acque gelide di fiume, come quello che a pochi mesi fa consentì poderose bracciate, ed ora vale appena per pediluvio in acqua di stagno; se vi fosse estasi a cospetto di quadro d’abilissimo pittore di strada, di bosco e di prateria, financo di deserto incontaminato e steppa gelida, piacere autentico di far l’amore, se uomini anelassero a corale sentimento per pane e pomodoro, bicchiere di vino a compagnia sana (che è umanità intera, se vi fosse) pure, se vi fosse autentica gioia in ascolto di musica di suono giusto, vi fosse piacere a lettura di poesia ispirata, vi fosse piacevolezza del godere d’orizzonte sgombro, occhio che guarda oltre, sgomento dinnanzi alla rena, allo scoglio, financo al vento ed alla bufera che scompiglia quei quattro capelli che mi rimasero in ordine sparso, a chi verrebbe a giovamento di far di piacere e ricerca per bombarda, strage, miseria?

Ma tutto ciò che è “se vi fosse” non è che a lontananza di vertigine da desiderio di uomini, e non v’è che in uomini assai pochi – poveri e pazzi – voglia d’altro che non fu compulsione nel non vedere, sofferenza nel guardare, distrazione a mondo intero, non fu responsabilità d’uno, due, o pochi – cui rivolgere maledizione per angoscia d’arrivo a fine mese e caro di bolletta – gettar bomba, accaparro d’armi, fu invece scelta collettiva, fu condiviso per silenzi sfruttamento feroce d’ogni frammento di terra, d’altro uomo cui non ci affratella abbastanza natale, fu ipocrisia piantar alberello ad abbellir villetta a schiera che pare salvai il mondo da disastro annunciato. Né è a salvezza che non decisi io, se a far cosa ch’io faccio decide progetto di vita cash & carry, pure di tutto e subito, e io non me ne faccio a sottrazione. Se vi fosse in uomini a loro complesso, anelito definitivo di bellezza e basta, voglia di un bicchier di vino od una tiratina di pipa o cicca con amici, a star mano nella mano con amata o amato,

a tirar bombe, uno, due, pochi, fanno da soli, e a digrignar gengie a rabbia per ignoro corale, si fecero condanna per inutilità conclamata, che resto di mondo, invece, con risata globale che si deve a cospetto di scemo del villaggio, finalmente, li seppellirà.

Aristocrazie di ritorno

«Nel giro di tre o quattro generazioni la gente non sarà più nemmeno in grado di scorreggiare da sola e l’essere umano regredirà all’età della pietra, alle barbarie medievali, ad uno stadio che la lumaca aveva già superato all’epoca del pleistocene. Il mondo non verrà distrutto da una bomba atomica, come dicono i giornali, ma da una risata, da un eccesso di banalità che trasformerà la realtà in una barzelletta di pessimo gusto.» (Carlos Ruiz Zafón, un saluto a chi è andato via troppo presto)

Qualche volta incombenze di burocrazie incomprensibili e autoreferenziali ci riportano in un certo indietro. Ieri mi hanno riportato nella mia vecchia città. Non ci mettevo piede da anni. Mi sono ricordato perché non appena sono arrivato. Semplicemente perché non c’è più, al suo posto c’è qualcosa che non conosco, che non è mai stata parte di me. C’è una gran folla festante, i vicoli paiono straripanti di vita, ma se ne sente l’olezzo di morte, camuffato dall’odore nauseante di cibo rancido, di mille bistrot, localini. Ho fatto quello che dovevo fare e sono scappato, non senza aver subito l’interminabile attesa d’una coda in auto, all’andata, pure al ritorno che pareva m’avessero occluso le vie di fuga. Sono quei casi in cui evito di fotografare, quindi niente immagini per questo breve, interminabile viaggio.
Qualcuno penserà che sono uno snob, che non mi sono mai attrezzato a condividere con il popolume turistico i fasti delle cartoline. Ebbene, comunico al mondo intero che è proprio così, sono uno snob, un aristocratico della bettola, l’elitario frequentatore di cantine dimenticate. Alla banalità del calice preferisco il bicchiere doppio vetro, vagamente sbeccato in basso, quello delle mescitorie d’annata. Dovevo farmi passare la sbornia urbana e, tempi alla mano, mi sono immerso nel dimenticato mondo che sta intorno la mia casetta di provincia, alla ricerca del vino del contadino, d’un silenzio riparatore, d’un profumo giusto, d’intonaci cadenti, d’aperture improvvise, la campagna lontana di muri a secco, carrubi, ulivi, d’una musica lontana ed indefinita. A dispetto d’un ginocchio che s’incapriccia ho percorso mille mila scalini, salutato anziane signore, scambiato due parole con un anziano scalpellino, fumato seduto su un muretto, sin quando ho trovato la scaccia adatta, pomodoro e prezzemolo, un rosso che sa di sale e di terra, poi, però, ho fatto due rossi. Senza chiavi d’auto in mano, senza fila alla cassa, nemmeno al casello, mi sono perso nel su e giù, ed ho avuto voglia di qualche foto, a ricordarmi che ancora c’è urbanità resistente, per quanto non so ancora, ma finché c’è ne approfitto.

Me lo sono fatto durare questo viaggio, perché è ancora di scoperta. Mi faccio sorprendere da un sottopasso che non ricordavo, un cortiletto tinto del viola d’una bouganville, del giallo d’un limone, del verde del cappero che respira primavera, da una fila di case che paiono reggersi a vicenda per scalare l’ultimo costone di roccia, lo sventolio dei panni colorati, bandiere che festeggiano l’impresa riuscita. Le porte sono chiuse, quelle poche oltre le quali c’è vita. Non c’è quel tanfo per cui c’è affezione nei turismifici, di graditissimo cibo da mensa d’azienda sotto le mentite spoglie di portata caratteristica, pure a prezzo da strozzo. Il profumo è lieve, ne avvertono di più i gatti, fieri gendarmi della derattizzazione, che s’affollano dietro le porte giuste. Le ciotole vuote dicono che presto si riempiranno di nuovo. Il lavoro prezioso va retribuito come si compete. Ed ora è tempo d’una sosta da Totò che ha aperto bottega adesso, poi un caffè da Piero ed a casa, m’è tornata voglia di scrivere.

Ed ancora vi posto «Il lungo viaggio»

Ieratici, eretici (Allonsanfàn parte venticinquesima: oltre il martirio con Raffaello De Vito e Sergio Poddighe)

Difficile metter insieme artisti differenti quando si concepisce una mostra, la collettiva è straniante, spesso non raggiunge obiettivi narrativi comuni, nemmeno li sfiora, sono solo immagini alle pareti. Talora si sceglie il tema, l’artista lo esegue, certo con la propria sensibilità, ma, appunto, lo esegue, non lo partorisce, non è roba sua. Rarissimo vedere espressioni artistiche che si completano, pare autentico miracolo trovarne maturate a distanza, da esperienze lontane, storie diverse, mestieri – nell’accezione più ampia del termine – a tratti persino alternativi.

Le biografie artistiche di Sergio Poddighe e Raffaello De Vito sono talmente altre da non presumere che si sia realizzato il «miracolo» della convergenza evolutiva, che i due abbiano potuto concepire produzioni artistiche procedendo parallelamente, trovando una sintesi narrativa che si esprime in un unicum sorprendente. I due dialogano, intrecciano una dialettica serrata, paiono completarsi in un gioco di rimandi che pare studiato e che in realtà è idem sentire. Consapevolezza personale – il personale è politico – che trova vie di fuga nell’espressione creativa, procede sino a quella sorta d’imbuto dove le produzioni si toccano, si completano, si intrecciano. «Ieratici, Eretici» non è una collettiva, nemmeno una doppia personale, è una mostra sola con due volti che si guardano, che si cercano producendo alchimie preziose, si avviluppano in un complexus mai scontato.
Come si dice in questi casi, cominciamo dal principio, da ciò che fu il verbo e poco importa se dai soggetti ieratici di Sergio Poddighe o dalle presunte eresie di Raffaello De Vito. Sergio crede in una sorta di connaturata dimensione angelica dell’essere umano, una propensione a librarsi in volo. L’angelo lo fa, l’infernale precipita, sceglie una direzione differente per esprimere se stesso. Il volo è il sogno, l’avere una prospettiva altra, ricongiungere il proprio sguardo con l’infinito. La metafora dell’angelo è perfetta, ma quanto c’è davvero di sacro nel desiderio di sollevarsi da terra, e quanto invece non è un desiderio naturale di fuga, come fu per Icaro, forse più come Dedalo che pretese un’ascesa ancor più completa? È nella natura umana spingersi oltre, valicare confini asfittici, tracciati per limitare l’istinto di vagare per la terra, la libertà di movimenti che ha spinto interi popoli ancora più in là, sino ad ogni anfratto conosciuto, come se approdassero dalle nuvole in una dimensione altra.

E quanto quel volo è interrotto, consumatosi nella voglia di oltre che è nel fanciullo, proibito dalle catene della convenzione? Il sogno si snatura, le ali divengono organo vestigiale, come una coda mancata, il cenno d’artiglio d’uno smalto sintetico su unghie laccate. Il resto è progressiva amputazione, la perfetta rappresentazione della perdita d’umanità nel cerchio stretto del concreto, l’atrofia dell’organo del volo coincide con quella del desiderio primigenio, conduce all’asfittico del quotidiano. I lavori di Poddighe sono la rappresentazione del contesto dei desideri umani e dell’uomo stesso come soggetti esclusivi dell’apparire, metafora della parzialità dell’essere. L’uomo, dunque, è entità incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Il volo del bambino lascia spazio al vuoto dell’adulto. E questi vuoti l’umanità riempie creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo allontanamento dalla stessa concreta condizione umana. Proprio sulla condizione umana le opere suggeriscono una riflessione profonda, una riflessione ed un’analisi che possono essere affrontate da più punti di vista, poiché l’accettazione della complessità, quindi delle diverse angolazioni dell’osservazione, è l’unico strumento attraverso cui è possibile costruire una prospettiva di ricomposizione dell’essere umano. Mentre questa ricomposizione passa proprio dal tornare indietro all’organo vestigiale, la sua definitiva riscoperta come condizione salvifica. Al contrario l’eterodirezione dei comportamenti è il vicolo stretto della disgregazione, dell’annichilimento, il martirio di soggetti comuni che hanno semplicemente rinunciato ad essere, non hanno osato la fuga tra le nuvole, non sono più angeli fanciulli, levati in alto dal desiderio primordiale dell’infinito vertiginoso. Poddighe ci racconta questo mancato ricongiungimento con gli strumenti che gli sono più congeniali, un surrealismo post litteram che ammicca alle cose di Breton, alle copertine stralunate delle Mothers of Invention, si esprime con caratteri originalissimi, si riconosce nell’uomo qualsiasi, nel giovane, nella donna, nel vecchio, che consumano il proprio doloroso disumano nell’anaerobico quotidiano. I soggetti di Poddighe sono talmente comuni da risultare invisibili, eppure mostrano senza pudore le proprie parzialità, mancano del doveroso silenzio della consapevolezza della propria drammatica condizione, sostituita dalla disperazione del vacuo apparire.
E quel martirio di cui narra è dentro il dogma d’una società obbediente, il dettato è preciso, la prospettiva esatta. È il processo educativo che conta, le masse obbediscono, il martirio delle moltitudini invisibili è scelta imposta, cultura dell’abbandono della propria emancipazione, la salvezza è altrove, non è di questo mondo. Il volo avviene solo dopo che le spoglie mortali si sono consumate nella loro essenza vitale. Raffaello De Vito individua uno dei più potenti strumenti di coercizione culturale nel martirologio, lo trova nei «santini», il promemoria formato tascabile che indica la strada, l’unica percorribile, il sacrificio estremo come unica prospettiva di salvezza. Raffaello se ne accorge, interviene su quelli, li riarticola e sostituisce l’educatore con l’educato, il soggetto diviene moltitudine dimenticata, non è più venerabile santissimo, è quotidiano sterminio. L’idea è quella d’un fake che amplifica la natura mantrica dell’immagine originale, in cui il soggetto poco importa chi sia, è fondamentale che dia al dolore ed alla sofferenza una componente salvifica che seppellisca l’istinto primordiale.
Non c’è passaggio umano, cambiamento d’una qualche fatta che non abbia preteso martiri, vittime sacrificali. Il santo è sempre – o quasi – martire, il miracolo è la prospettiva che scaturisce da quel martirio. Ed il martirio è una sorta d’espiazione per una condizione che è già di per sé sacrificale, appartiene agli ultimi. La devozione più profonda, pure nella religiosità archetipica, nella sua simbologia, è la rievocazione del sacrificio, il martirologio è punto di riferimento della fede, in realtà nasconde prospettive di trasformazione, di subalternità al dettato.
I Santini, tweet ante litteram, che raccontano vicende di sopraffazione, di martirio, appunto, hanno rappresentato per tantissimi una sorta di protezione dalla stessa tragedia. In realtà non ne hanno nascosto affatto l’evenienza ch’essa si presenti, nel qual caso appare ineluttabile, premessa per una vita altra di compenso. Ogni categoria sociale ha il proprio riferimento nel santo che ha fatto da parafulmine, ha pagato per i posteri, in qualche modo li ha liberati dal patirne le stesse pene. Ed è protezione semplice, a portata di borsetta, portafoglio, l’avvertimento che il cambiamento può avvenire solo attraverso il sacrificio, con l’esempio. Hanno iconografie apparentemente semplici i santini, al tempo ricercate, ché ogni dettaglio non appare superfluo, è narrazione atipica, semplifìcata ma esaustiva. Il punto è che la categoria degli ultimi, in definitiva dei martiri, non pare esaurirsi nella iconografia classica. Raffaello De Vito coglie l’enorme portata simbolica della trasmissione del messaggio sacrificale che era nel «santino», ne amplia la rappresentazione all’infinita platea degli ultimi. La sua è ricerca anche fisica, negli ambienti più consueti di quella presenza, chiese, monasteri e negozi di ecclesiastica. A quei soggetti ridisegna i contorni e non v’è in questo alcuna volontà blasfema, al contrario coglie la formidabile dirompenza di immagini iconiche di farsi mappe concettuali per veicolare i nuovi martirologi. Cambia i volti dei santi, le loro effigi classiche, i protettori degli ultimi lasciano solo impronte delle proprie gesta, cedono il posto alle nuove vittime della società involuta, fanno spazio a nuove immaginette che, come le vecchie, presumono d’avere capacità esorcizzanti il declino d’umanità private della propria stessa essenza.
La tecnica che Raffaello usa è raffinata, egli è conoscitore abilissimo di grafiche, fotografie ed immagini. Subordina le sue competenze ad un processo di riscrittura autenticamente «umano», trasforma il mito religioso in quotidianità, compie il passaggio inverso rispetto al canonico: il santo, nella iconografia classica, ha un nome, è la parte per il tutto, s’identifica nell’ultimo che si sacrifica per il resto d’intorno, per dare una possibilità ancora col proprio sacrificio, con la propria testimonianza ed opera, a chi soffre condizioni di privazione, di vessazione, di prevaricazione, sfruttamento, violenza; in epoche in cui l’esempio virtuoso pare ombra fuggente, quasi violazione di norme comportamentali non scritte ma esattamente codificate, nei santi di Raffaello è la pletora degli ultimi che parla in prima persona, si fa soggetto collettivo che produce voce corale. Il martire non è più uno, si fa moltitudine, schematizzata nell’immagine mutuata dalla tradizione. Ed il martirologio mostra la sua vera essenza, quella della sopraffazione legittima, anzi auspicabile per il mantenimento d’una condizione gerarchica, in cui il potere si legittima nella disfatta degli ultimi.

Questa di Raffaello è operazione coraggiosa, straniante come poche, in divenire giacché i nuovi martiri sono elenco che non pare abbia fine, donne vittime di femminicidio, di regimi feroci, vittime dei cambiamenti climatici, migranti sfruttati, bambini sotto le bombe, preda di pedofili, ma anche schiavi delle nuove tecnologie, e poi lavoratori che muoiono sul posto di lavoro, medici ed infermieri che hanno contrastato il Covid e che da eroi divennero nessuno. Ognuno può aggiungerne altri, quelli che gli pare, ché ogni ladrone ha la propria devozione.
E questa mostra si concede a chiunque la voglia, basta chiedere per averla (magari all’A/telier di Modica Alta), non c’è da pagar nulla, solo verificare se ci sono le condizioni materiali per trasferirla dove si vuole.

Porte chiuse

Il mare non ha il colore del vino, ha ragione il professore. Forse nella prima aurora, o nel tramonto: ma non in quest’ora. Eppure, il bambino ha colto qualcosa di vero: forse l’effetto, come di vino, che un mare come questo produce. Non ubriaca: s’impadronisce dei pensieri, suscita antica saggezza.” (Leonardo Sciascia, Il mare color del vino)

Faccio ritorno a casa che fu fortuna mia ch’ebbe convenzione amministrativa, sia pur per poco chilometraggio d’essere a suolo patrio. E avvenne, detto fatto, mentre s’erge, ad orgoglio italico, imponente barriera a franginero per difesa di coste sacre d’impero, pure si fa a colpo di disgraziato guerra d’intento tra Alpe ed Oltralpe – s’ode a destra squillo di tromba che a sinistra risponde squillo – occhio attento a trafiletto s’avvede di notiziola a passo in sordina. Mi feci a sobbalzo per dato di m’inquieto d’immenso, ma nemmeno troppo che era cosa a fatto risaputissimo per emersione, a tanto in tanto, quale cosa carsica. Insomma, a fastidioso ripresentarsi di centinaia a disperazione, è data risposta con milione di produzione nostrale ad esportazione che scappa e va via. A scorgere esatto dato manco è connazionale di cervello pregiato fuggito, ma è assai altro più complesso, pure manovale che a scopo non si specializzò, financo pizzaiolo e idraulico. Pare che italica porzione se ne sia andata ad altro paese a numero di 4,5 milioni, che se fatto si unisce a che non nasce nessuno, finisce che questo Belpaese diventa reparto geriatrico.

Ora, io comprendo che ad eventualità non c’è di trovar braccia per pagamento di pensione, non si trova operaio, nemmanco medico e professore (ma questo chi se ne frega, che non c’è alunno), mi sovviene che taluno disse che non c’è a trovarli che acchiappano a parassita reddito di cittadinanza. A punto di questione, e a lettura esatta di dichiarazione roboante, chi si fece valigia a partenza, fuggì da evenienza tragica che gli venisse concessa pacchia a non far niente. Che mentre m’arrovello su come si può a far fronte a cosa a domani non troppo lontano, mi sovviene che, al limite, a non trovar soluzione, sempre si può dire che trattasi di efferato crimine di comunismo, che già taluno si portò avanti in detta direzione, che aborto è problema a tasso di natalità estinto, e che terribile usanza di certa sinistra di mi mangio i bambini è cosa a spregio d’ogni umanità e prefigura danno erariale.

Tempi grami s’attendono che paese nostro, che fu di santi, poeti e navigatori, a finché la barca va che ad affermazione è desueta, s’appresta ad esser paradiso di badanti.

Porti salvi

«…l’umore di quella moltitudine d’emigranti seguiva con fedeltà mirabile le variazioni
del mare. Come parlando con un personaggio potente, al quale domandiamo un favore, e che ci può nuocere, il nostro viso riflette inavvertitamente tutte le espressioni del suo, così i pensieri e i discorsi di tutta quella gente si facevan neri, gialli, grigi, azzurri, lucenti secondo che era il colore delle acque. Esattissimo è il dire “la faccia del mare” poiché lo spianarsi e il corrugarsi della sua
superficie, e le ombre che vi guizzano, e le tinte pallide o tetre che la coprono all’improvviso, rassomigliano in modo maraviglioso ai moti di una faccia umana, la qua le rispecchi l’agitazione d’un animo mobilissimo e mal fido. Quanti mutamenti si succedevano in poche ore, sempre rimanendo buon tempo!
» (Sull’oceano, Edmondo De Amicis)

Le correnti sotto traccia portano ricordi, le onde paiono libri spalancati che raccontano di memorie. Quella distesa bisogna guardarla con attenzione, non si può far finta che sia solo bella, che sia piena di fascino. È un approccio sbagliato, da cartolina mordi & fuggi. Non sei al cospetto d’una vetrina, d’uno spettacolo, per quanto portentoso, da circo. Sei davanti alla più grande delle epopee, il racconto più ardito. Infinite pagine, infiniti sguardi i cui occhi sono dappertutto. Non c’è infinito più infinito, e quello ti entra dentro rendendo te stesso infinito. La vertigine dentro quel blu cangiante diventa definitiva, ci si abitua, finisce che non ci si accorge nemmeno di provarla, come ci si abitua ai propri acciacchi, ai propri malanni, alle proprie sorti, pure a quelle nefaste. Lì c’è tutto l’uomo, con i suoi fardelli, le sue noiose steppe, i suoi vulcani d’intemperanza, le sue tragedie. I porti sono le librerie che raccolgono quelle narrazioni, sono salvi per forza, non si chiudono mai, come non si chiudono le rene sconfinate, gli scogli puntuti, le isole e i promontori. In mare è tutto aperto, chi non ci crede nega le sorti dell’uomo. Mai quelle furono sorti semplici, sono vicende d’afflati, d’abbracci, non negano mai braccia tese, mani pronte a ghermire una sorella, un fratello che tra l’onde ha deciso di sfidare tutto e tutti per speranze nuove, per semplice desiderio di vita. Chi non trova l’approdo non può essere solo, anche quando i flutti lo rendono particella del tutto. C’è la storia dell’uomo con lui, chi si volta altrove, chi desidera il martirio d’altri, chi non concepisce il porto salvo non è parte di quella storia, la inquina negando se stesso.

«“Mori? Mori ‘Ndrja?” singultarono gli sbarbatelli. “‘Ndrja, ‘Ndrja, ‘Ndrja.” lo chiamavano e singhiozzavano. Ma quanto a Masino, fu un momento e poi fu tutto un pensiero, quello di allontanarsi di là, sulla stessa lancia dove si trovava, riportare ‘Ndrja a casa, vogare, vogare, fare quella vogata di una diecina di miglia, riportare ‘Ndrja a casa, sullo scill’e cariddi. Si rigirò agli sbarbatelli:
“Oooh.oh. Oooh.oh.” e la lancia, pesante prima e poi sempre più leggera, ripigliò la corsa in avanti.
Masino pensò, pensava solo a portare ‘Ndrja al duemari: solo quel pensiero sentiva, pungente, doloroso, dominante e commosso, nella sua mente. E con quel pensiero, gli pareva di speronare e scavare il mare davanti alla lancia, con quel pensiero barbaro, pietoso, lo riportava al loro mare.
“Oooh.oh.” gridava: e gridava al mare medesimo, lui in persona spronava, speronava.
Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare.
» (Horcynus Orca, Stefano D’Arrigo)

Vi riposto qui il mio lungo viaggio, magari ve lo siete perso, che comunque non è cosa gravissima.

Tanto per continuare a non chiarire

Non mi piacciono i contrasti, soprattutto quando il linguaggio che li alimenta non è lo stesso tra chi si concede la nobile tenzone del punto di vista. Qualche giorno fa ho avuto, se non proprio uno scontro, certamente una difficoltà in tal senso con una persona che anela, quasi disperatamente, ad un successo letterario. E mi ha affettuosamente rimbrottato per come tratto quello che produco, sia ciò che mando in giro con nome e cognome mio precisissimo, sia quello che invece non mi attribuisco, che lascio vagare – come avevo già scritto – in forma d’anonimo messaggio nella bottiglia, perché se ne vada dove vuole la sorte. Non pretendo vi sia attribuzione, nemmeno apporrò un copyright ad un’etichetta che mi si fece più interessante da leggere prima di svuotare il contenitore.

Non credo proprio di dover spiegare ulteriormente il mio punto di vista, non m’importa granché, forse non importa a nessuno. Prendo al massimo una cosarella tratta da un lavoro ch’ebbe ventura di girare su carta precisa e frusciante, che non fu racconto di scrittore che narra delle sue parole, ma d’artista che non s’affeziona alle sue cose.

«…Vede, quella dell’opera incompleta dell’artista che non si può vedere, per molti è un vezzo. Per me è un’altra cosa. Quando la devo completare, un’opera mi appartiene completamente. C’è l’atto creativo in corso, e quello è solo mio. Ho passato una vita a vendere le mie cose, e non le nascondo che me le hanno pagate anche molto bene. Ma solo le opere finite, che a lei sembrerà un’ovvietà. Ma se ci pensa un attimo, la parola opera e la sua aggettivazione più consueta, finita, sono in contraddizione. Opera ci dà un senso di dinamismo, di divenire. Finita è qualcosa che la contraddice. In fin dei conti, l’opera è viva quando appartiene solo all’artista che ci sta lavorando, quando non è definitivamente plasmata e ancora si trasforma, cresce, matura, cambia, impara, persino. Poi tutto quel fermento dell’atto creativo si esaurisce, l’opera è finita, non c’è più niente che la renda viva. Completare l’opera significa recitarne il de profundis. Io ho venduto solo i cadaveri della mia creatività, ho esposto per decenni i cadaveri delle creature che avevo messo al mondo, ed i collezionisti sono soltanto necrofori che comprano le spoglie mortali dello spirito dell’artista, il suo genio sepolto. Le loro gallerie, le loro abitazioni sontuose, ricche di ‘opere finite’, sono cimiteri. Solo l’artista vero conosce questo segreto e lo custodisce gelosamente. Gli altri sono mercenari che producono merci e cercano critici che recitino litanie al capezzale dell’arte che muore. Io sono un artista, mediocre, forse, superato, persino, ma sempre artista sono, e mi affeziono alle mie creature come una mamma ai suoi figli, per poi piangerle quando muoiono. Perché una mamma non dovrebbe mai sopravvivere ai suoi figli. Allora li lascio andar via, perché di loro non restino che le povere spoglie mortali. Ed è sorprendente che, nel mondo di oggi, siano solo quelle a valere.»

Ed aggiungo una piccolissima nota a margine, perché taluno obietterebbe che l’opera continua a vivere negli occhi di chi la guarda, come un libro nella testa di chi lo legge. Ed allora perché non dovrei cedere il testimone a chi si prende quell’opera, se io l’ho solo concepita e ad altri compete il tenerla in vita?

Non ci resta che ridere

Parlarsi è meglio che spararsi, ma non vale sempre. Oggi pare ci sia guerra alle porte. Attenti osservatori, attenti assai più di me, non dubitano del fatto, piuttosto disquisiscono del quando. Il come è certo, chiaro, dà idee per un scontro totale. Non ci si mette certo d’accordo prima su che arma usare quando c’è voglia di guerra, quando pare che solo sparute minoranze inascoltate producano ipotesi di dialogo anziché rumore di bombe. C’è rumore di teste fracassate a sopire azione di pace, sibilo di manganelli, altro non depone bene.

Ma c’è anche una strana coltre, spessa e rutilante, che avvolge la percezione delle cose. Si spinge il fumo con una racchetta, – ed ogni riferimento a persone o cose realmente esistenti è assolutamente voluto – ci si stringe a coorte, non per far fronte comune come proclamato ad un tempo di tristi presagi, ma per voltare ad unisono il capo chino da parte opposta all’orrore prossimo venturo. I popoli non sanno essere tali, non per appartenenza a stretti confini d’asfissia che trafilano a bronzo pelli già martoriate, ma per accettare idee altre quali che sangue, sudore e lacrime fanno identità comune, dunque popolo a latitudine diffusa, immenso ecumene d’appartenenza. Rileggevo atti che risalgono alla seconda guerra, quelli di Danimarca e Norvegia, la resistenza passiva di due popoli pressoché compatti nel ripudiare l’occupazione nazista, ripudiare la guerra, la deportazione di ebrei e minoranze. Scrivevano nei propri negozi jude, portavano i simboli della segregazione all’unisono, recepivano l’idea d’essere tutti uomini, donne, senza confini, non collaboravano, boicottavano. Lo dico molto chiaramente, io non voglio una guerra, sono convinto che non siano molti quelli che la vogliono, ma quella scoppia, a prescindere dalle nostre sacrosante priorità che non prevedono le conseguenze definitive d’un altro conflitto. La soluzione sta proprio lì, dire «io ripudio la guerra» tutte le volte che ne ho la possibilità, non m’importa chi ha torto, nemmeno chi ha ragione o ha cominciato, io non sto accanto a chi spara, io m’arrendo prima, la mia è una bandiera d’un solo colore, bianca, non ho altri cromatismi da esporre. Non c’è una maggioranza che spera di sparare. Oggi non c’è però una maggioranza che governa i destini degli uomini. Allora che governino da soli, che facciano delle loro pretese d’ordine costituito solo la volgare manifestazione del privilegio di decidere delle vite degli altri. Che vengano smascherati, che se ne scorgano i veri abiti ridicoli, che ci siano le lacrime per chi muore di bomba o disperazione di miseria. Per i padroni del vapore ho in serbo risate sino a seppellirli.

«“Sono pronto”, disse l’imperatore. “Sto proprio bene, non è vero?” E ancora una volta si rigirò davanti allo specchio, facendo finta di osservare il suo vestito.
I ciambellani che erano incaricati di reggergli lo strascico finsero di raccoglierlo per terra, e poi si mossero tastando l’aria: mica potevano far capire che non vedevano niente.
Così l’imperatore marciò alla testa del corteo, sotto il grande baldacchino, e la gente per la strada e alle finestre non faceva che dire: “Dio mio, quanto sono belli gli abiti nuovi dell’imperatore! Gli stanno proprio bene!” Nessuno voleva confessare di non vedere niente, per paura di passare per uno stupido, o un incompetente. Tra i tanti abiti dell’imperatore, nessuno aveva riscosso tanto successo.
“Ma l’imperatore non ha nulla addosso!”, disse a un certo punto un bambino. “Santo cielo”, disse il padre, “Questa è la voce dell’innocenza!”. Così tutti si misero a sussurrare quello che aveva detto il bambino. “Non ha nulla indosso! C’è un bambino che dice che non ha nulla indosso!”
“Il re è nudo!”, si misero tutti a urlare alla fine. E l’imperatore rabbrividì, perché sapeva che avevano ragione; ma intanto pensava: “Ormai devo condurre questa parata fino alla fine!”, e così si drizzò ancora più fiero, mentre i ciambellani lo seguivano reggendo una coda che non c’era per niente.
» (I vestiti nuovi dell’Imperatore, Hans Christian Andersen)

Tempi moderni

Quante parole rimangono quando ci si è accorti d’averne usate tante? Per quante ce n’è in un vocabolario quelle non bastano, non sai dove cercarne altre che servono, tutte quelle che hai sono diventate nero su bianco. Non bastano nemmeno, sia che le usi tutte assieme in un sol frangente, sia che ne fai lunghe e spedite fila, una dietro l’altra, fila indiana, processione per fedeltà di cassa. Il vuoto più silenzioso e profondo di vertigine infinita non pare più sufficiente a contenerne ancora, ma non bastano, ancora non ce la fanno. Se dico sgomento neppure è sufficiente, non ho altro però.

Ci sono truppe che s’ammassano, l’une ai confini d’altre, muscoli tesi, bombe lucidate a nuovo. Si sente il coro delle gengive che digrignano, della fabbrica che sforna bomba ancora, nuova di zecca, micidiale d’intelligenza, che non fa sconti. «Io ci sono», urla l’apice piramidale, la base crolla ecchissenefrega, tiro dritto. Il nemico non è in trincea, il nemico è mondo intero, il nemico è globale, tutti contro tutti. Tecnologie furibonde, di modernismo che pare alieno, contemporaneità del genio che fa morto. Grande potenza su grande potenza, minaccia reiterata, gioco d’adolescente che fa a chi piscia più lontano ed ogni pisciata è morti a fasci. Terribile cometa di falce spiegata, a mietere vittima, che sia disgraziato innanzitutto. Ed a scuola si studia la crudele guerra di trincea che fece vittima per fuoco amico e nemico a fronte che pareva immoto. Quello non era piombo abbastanza intelligente, non aveva grande progresso ad animarlo, non spazzava via popoli interi, pare guerra da Neanderthal. Padroni del vapore, signori della strage dettano leggi che chi muore muore. Studente per pace è target di manganello, intelligenze artificiali elevatissime menti tutto possono per fatto di morte, c’è dignità d’applauso per grande statismo.

Trogloditi che non fanno fatica ad alzar dito per morto d’annego, a scappare da terra che gronda sangue per nostro signore tenore di vita, dio d’inferno che fece fila a cassa di grossmarket, grossi coglioni ebeti e disumani che starnazzano «portateli a casa tua se non li vuoi ad annego». Commozione su commozione vale un tanto al chilo solo a mercato comune, a PIL che s’ingrossa, vittima è vittima se consuma abbastanza, altrimenti se l’è cercata, si fece curioso di profondità d’abisso e tanto va la gatta al lardo… Lo fanno apposta a venir sotto costa, è boicottaggio di nemico a stanarlo a bomba è conveniente, poi c’è reintegro con appalto per subappalto, a torma di vassallo, valvassino, valvassore. C’è rischio per stagione estiva che s’è fatta a prolungamento causa fortunata inversione climatica che fa strabuzzare occhio di gioia a padrone d’ombrellone a serie continua, rena privata dove non è lecita morte e bagnino soccorre lì non oltre. Portaerei potentissima non fa cose scurrili e banali che non siano lancio di missile ed aereo supersonico. Soldato è robocop, drone a telecomando, vittima meno, pure se a narrazione pare solo pezzo di carne, accidentale proprietario di sangue e lacrima, a sbafo però. Bimbo sta a bomba come cacio a maccheroni, donna incinta sta ad annego come il nero sfila. Buona fortuna. Viva il supermarket, viva quello saccheggiato.

Dei colori perduti

«Il mare ha questa capacità: restituisce tutto dopo un po’ di tempo, specialmente i ricordi».(Carlos Ruiz Zafon) Un tempo fotografavo il mare con tutti i suoi colori, quelli dell’imbrunire, quelli dell’alba, il pieno giorno, il sale che si finge nebbia in istanti di bufera, il blu ed il verde, i mille altri di cui è capace di vestirsi. Poi le mie foto hanno cominciato ad ingrigirsi, appaiono bruciate, brandelli di memoria che si inseguono nella speranza di riportare tutto ad un originale iridescente che non emerge più dalle acque. Per questo, a meglio specificare, faccio riciclo di cosa vecchia, per una volta o due, e forse tre, ed è riciclo che si fa d’uopo, ancora per far bagaglio di memoria per chi, pare, non ha diritto a ricordo che non sia di rena d’abisso.

«Durante i miei viaggi, che non hanno ancora fine – solo l’Insondabile sa che cosa cerco e se un giorno mi sarà dato di trovarlo -, ho conosciuto tre specie di viaggiatori. Prima ci sono i devoti pellegrini. Che il Generoso vegli su di loro. Poi vengono i sereni commercianti, che seguono le tracce delle carovane. Che il Perfetto abbia cura dei loro beni e li moltiplichi. E infine ci sono coloro che sospirano contemplando il vago orizzonte del mare. Strani uomini senza alcun attaccamento ai beni che Allah dispensa loro. Preferiscono dipendere dalla sua volontà durante le terribili tempeste che godere dell’amorosa ospitalità del bazar. Le loro anime trovano maggiore pace nello spaventoso ruggito del vento, che nella pia voce dell’ iman quando dall’alto del minareto annuncia l’ora della preghiera. Che il Misericordioso allievi le loro pene, perché sento che questi sono i miei fratelli.» (Muḥammad ibn ʿAbd Allāh ibn Muḥammad al-Lawātī al-Ṭanǧī, noto come Ibn Battuta, dal romanzo «Un nome da torero», di Luis Sepulveda)

Cos’è diventato il mare? Quello di petto al quale stavo da ragazzino, su uno scoglio ad aspettare che all’amo ci fosse qualcosa di notevole, di gigantesco, pesante. La lampuga, che lo scirocco si porta via, ma qualche volta invece se la pensa così, vira dal largo e poi punta sotto costa, per capire se c’è roba da mangiare. Che finge d’essere altro, con quella pinnettina azzurro e argento, che strappa l’urlo a quei tre turisti tedeschi affacciati alla banchina del porto perché hanno sbirciato tra le pagine di Goethe, che c’è il pescecane, come in una canzone di Kurt Weill. Zitti, che magari ci casca e viene a fare colazione all’amo. O la ricciola che, meno pudica e più ingorda, s’appresta a lambire la
costa, come bestia famelica. Ma anche due sauri e quattro ope vanno bene. E quelli prendo.

Che fine ha fatto il mare del libeccio, che prima tartaglia giorni interi, poi s’arruffa il pelo e t’avverte col boato dell’onda, col ringhio della risacca, l’odore del sale, che con lui non si scherza. Poi si stanca, e se ne sta buono buono, quasi voglia farsi perdonare per l’ascesso d’ira, nascondendosi dietro forma di specchio, senza manco farti capire dove finisce lui e passa le consegne al cielo, laggiù in fondo, dove tutto curva e la vela fa capolino, mentre il resto della barca pare se lo siano inghiottito Scilla e Cariddi. E allora ti piglia quella specie di commozione per come s’appresta a farsi bello il tuttod’intorno. Non ti viene da fare nessun movimento, non tiri su la lenza e la lasci lì, sotto sotto sperando che nulla abbocchi. Che il tonfo della bestia che si divincola non spezzi l’incantesimo, che non ti costringa a far fatica per tirarla a secco distraendoti dal meravigliarti. Al limite ci pensa Pilu Rais a tirar su la cernia, con la sua barchetta e la faccia d’uomo senz’anni, cotta dal sole e scavata di rughe di sale, che somiglia ad una carta geografica di El Idrisi riemersa dalle intemperie delle biblioteche d’Alessandria. Che fine ha fatto il mare? Quello di Giovannina e Teresa che, tra un cliente e l’altro, s’affacciavano al bastione del sole che si leva e, i grandi seni sulle ringhiere rugginose, urlavano ai ragazzini di stare attenti che sugli scogli si scivola che c’è il lippo. Ma a noi non importava di scivolare, come fili di posidonia ci saremmo rialzati come niente fosse successo, con in mano il limone rubato all’albero del vescovo, e lo scollo da intingere nel riccio aperto a piatto di gran portata, ché piccolo com’è, pure, là dentro ci sta tutto il mare. Che fine ha fatto il mare? Che ora è tomba di disgraziati. Una volta quelli venivano a raccontarci le storie d’altre rive, d’altre facce come la nostra, e le ascoltavamo con lo stupore del fanciullo. Ora sembra che debbano starsene ad abisso, per farsi perdonare d’esistere. Che fine ha fatto il mare, che non è mai stato mio e basta, ma anche d’ogni cristo che ci si affaccia, ci nuota, e d’ogni creatura che ci respira dentro? Almeno lasciatecene un pezzo, quello dell’alba che la rena è umida e deserta, quello della luna che ci si tuffa dentro. A certi cosa importa di starsene lì, se poi si sono comprati un tanto all’etto il divertimento d’una notte? Non lo sentono il suono della risacca. Ci sono distese di capannoni che hanno tirato su, produttivi, mica come noi pigre creature del mare che abbassiamo il PIL. Dunque, se tanto vi piacciono le fabbriche dei soldi che vi servono per comprare felicità prêt-à-porter, perché non vi trovate uno spazietto lì per tracannare le vostre coppe di champagne? Il mare, anzi, quel che ne resta, lasciatelo semplicemente a chi si fa saltare il cuore in gola appena lo vede, anche fuori stagione e senza servizio in camera, a chi cerca solo un porto salvo sulla sua riva.

P.S. Ho visto che in molti avete scaricato il pdf del mio messaggio in bottiglia, allora ve lo rilancio qui, questa volta lo faccio con corredo di fotografie. Sono in un formato un po’ più definito di quello che può apparire sul web, persino si possono stampare se volete e ve ne piace qualcuna. Certo non sono grandissime, un po’ le potete allargare senza perdere troppa definizione. Di più non posso, la memoria non mi reggerebbe. Ed anzi fra qualche giorno mi toccherà togliere tutto poiché temo di poterla riempire troppo la memoria che mi tocca qui. Ce ne tocca sempre poca di memoria, e quanto ce ne tocca in un portale ne diventa metafora perfetta.

E fortunato chi non ha capito!

Quel giovane autunno caldo di un certo numero d’anni fa (per pudore non confesserò quanti), insieme ad un gruppo d’altri che condivideva con me la passione per le posture statiche, me ne stavo incollato ad una panchina sul lungomare di ponente, quello dove il sole se ne va a dormire. Avevo smesso lanci di lenze, ma la bonaccia al porto non parve rispondere alle mie aspettative. C’era traccia di bestie grosse, scuotevano il mare al centro del golfo, ma s’erano fatte furbe.

Su quello di levante si vede sorgere, ma era assai improbabile che me ne stessi lì nel momento in cui la cosa avveniva, e posso testimoniare sotto giuramento che anche quegli altri avrebbero optato per un più comodo tramonto. Lì eravamo in attesa che il mare facesse col sole spuntino serale.

Proprio mentre sembrava di sentirlo deglutire, da un angolo della panchina, forse illuminato dalla suggestiva visione su cui anche Goethe ebbe a scrivere qualcosa, si sentì: “il mio sogno è un Duetto Alfa Romeo, color terra bruciata, usato”. Ora, quella dichiarazione improvvida, per nulla sollecitata, scosse tutti dal torpore cui ci eravamo dedicati sin lì con impegno, ed aprì una discussione feroce, e quasi si veniva alle mani. Sottolineo il quasi poiché, a raccontarla bene, il consesso non era particolarmente avvezzo a dedicarsi a certe fatiche fisiche, per di più a quell’ora tarda, proprio prima di cena e con lo scirocco che ti succhiava ogni ipotesi d’energia. Non vi fu, difatti, uniformità di giudizio su quella esternazione, poiché ognuno ebbe a che ridire su un suo aspetto particolare. Io, ad esempio, mi indignai perché ritenevo che il possesso di una macchina sportiva celasse sotto sotto una insana passione per la velocità, per l’attivismo, e ritenni la cosa inaccettabile. Una ragazza di cui non ricordo ormai nemmeno il nome (tanto meno il cognome nemmeno che faccia avesse), che spesso indugiava in quelle serate tranquille nella lettura di brani scelti da un Libretto Rosso che allora godeva ancora di una discreta fortuna editoriale, stigmatizzò con fervore autentico quello scivolamento mistico (tale doveva essere, viste le scarse fortune economiche del nostro) e borghese. Ci fu chi invece sindacò sulla scelta del modello, altri ebbero un travaso di bile per la scelta del colore. Ci fu tale altro che espresse il proprio disagio circa l’idea che l’auto dovesse essere usata: “se proprio te la sogni, perché non te la sogni nuova, tanto, in quanto sogno, non costa di più”! Credo che in quest’ultima critica si nascondesse un malizioso riferimento al braccino sottodimensionato di chi aveva dato l’incipit a quella serrata disfida dialettica. Insomma, la discussione si protrasse a lungo, poiché ciascuno volle dare il massimo risalto al proprio punto di vista. Poi, d’improvviso, cadde il silenzio. Come se fossimo stati illuminati sulla via di Damasco, ci accorgemmo all’unisono della stessa cosa, neppure osammo confessarcela. Avevamo visto l’inizio della fine. Il consesso si sciolse mestamente e negli anni successivi e sino ad oggi (non vi dirò nemmeno stavolta quanti anni sono passati), sono convinto che nessuno di noi non abbia pensato almeno una volta a quel giorno in cui siamo stati testimoni dell’ultimo vaticinio di Cassandra.

8 Marzo (ancora non basta)

Che m’accingo a 8 Marzo che riprendo cosa antica che oggi è lotta, domani pure, festa poca.

Pure ne faccio riferimento per fatto che fu lotta di donna, ma che a tramonto d’aspettativa si vide riflesso che tutto pare vano. Parto di musica, però.

E faccio a recupero d’omaggio per donna che lottò per suoi diritti, non si fece a sgomito per arrivo prima io ad imitazione esatta di maschio coatto e basta. Oggi tale donna è a farsi morto d’ammazzo e d’annego, scioglie suoi capelli come fosse atto eversivo e a chioma sciolta insegnò a tutti – soprattutto a noi maschietti – significato esatto di rivoluzione, che non fu comando io, fu non comanda nessuno.

Le donne dei “Fasci”

Fra il 1893 e il 1894 la Sicilia fece molto parlare di sé per dilagare in città e campagne di grandissima agitazione sociale senza precedenti e rapido diffondersi dei Fasci siciliani delle lavoratrici e dei lavoratori, organizzazione quale mai si era vista prima, capillarmente strutturata, dotata di efficiente coordinamento regionale, ispirata a socialismo, guidata da dirigenti per lo più giovani, intelligenti, colti e determinati. Adolfo Rossi, giornalista d’inchiesta, si reca in Sicilia per studiare il movimento. Ne intervista i protagonisti nelle campagne e coglie esterrefatto il ruolo di donne – un terzo del movimento, che per farne a metà di quelle, ora ci vuole doppia quota rosa ex legis – e della loro capacità di esprimere concetti politicamente elevati, con proprietà di linguaggio e consapevolezza di condizione e prospettive di loro lotta.

Noi non andiamo più in chiesa, ma al Fascio.

Là dobbiamo istruirci, là organizzarci per la conquista dei nostri diritti.

Vogliamo che, come lavoriamo noi, lavorino tutti, e non vi siano più né ricchi né poveri. Che tutti abbiano del pane per sé e per i figli. Dobbiamo essere eguali. Io ho cinque bambini e una sola cameretta, dove siamo costretti a mangiare, a dormire, tutto, mentre tanti signori hanno dieci o dodici camere, dei palazzi interi (…)

Vogliamo mettere in comune le terre e distribuire con giustizia quello che rendono.

Ci deve essere la fratellanza, e se qualcheduno mancasse ci sarebbe il castigo.

Gesù era un vero socialista e voleva appunto quello che chiedono i Fasci, ma i preti non lo rappresentano bene, specialmente quando fanno gli usurai. Alla fondazione del Fascio i nostri preti erano contrari e al confessionale ci dicevano che i socialisti sono scomunicati. Ma noi abbiamo risposto che sbagliavano, e in giugno, per protestare contro la guerra ch’essi facevano al Fascio, nessuno di noi andò alla processione del Corpus Dammi. Era la prima volta che avveniva un fatto simile.

I signori prima non erano religiosi e ora che c’è il Fascio hanno fatto lega coi preti e insultano noi donne socialiste come se fossimo disonorate. Il meno che dicono è che siamo tutte le sgualdrine del presidente.

Quando un reato è commesso da un ricco, nessuno se ne cura, mentre il povero che ruba un pugno di grano per sfamarsi va subito in prigione.

Vedete che per i poveri non c’è giustizia in Piana dei Greci! I signori dicono apertamente che ci vogliono ammazzare ad uno ad uno. (…) Per ora i nostri consiglieri non potranno far altro che impedire gli abusi e le prepotenze dei signori i quali finora comandavano anche nel Comune. Ma i Fasci nomineranno anche i consiglieri provinciali e i deputati, e quando alla Camera avremo maggioranza socialista….

Noi speriamo che sorgano presto anche nel continente. Voi vedete come si moltiplicano qui. Possibile che nel resto d’Italia i nostri fratelli che soffrono seguitino a dormire? Basterà che qualcheduno cominci a predicare anche là l’unione del proletariato. Anche noi fino alla primavera scorsa non sapevamo che cosa fossero i Fasci. Morivamo di fame e tacevamo. Eravamo ciechi. Non ci vedevamo.

Maria Occhipinti

Che ricordo di lei, a tempo di muscolo a palestra d’armi e doppi petti di migliori tronfi di boria maschile, è più letale d’atomica, pure se non fa morti. Che fece il Non si parte! di Ragusa, che lottò contro arruolamenti forzati a ricostituzione d’esercito di Badoglio e Bonomi. A Ragusa, il 4 gennaio del 1945, a far fuggire giovani rastrellati, si fece tappeto in strada per bloccare il mezzo delle reclute, che era al quinto mese di gravidanza. E per quel gesto fu insurrezione, per giorni quattro, con esercito patrio a sparar sulla folla, ad uccidere ragazzo e sagrestano. E Maria, cattiva maestra per odio a guerra, si fece anni da carcere in carcere. Pure prigioniera da suore rimase, per volontà imperitura di stato democratico. Il suo racconto a dramma l’ho trovato scritto da Maricla Boggio.

Ragusa Ibla ci mandò San Giorgio a incontrare il nostro San Giuanne…

San Giorgio a cavallo, terribile! armato di lancia e vittorioso contro il drago…

Lasciate i nostri figli! Per carità lasciateli! Siamo stanchi di guerre! Non vogliamo più servire i Savoia! Ridate i figli a queste madri! Per carità lasciateli andare! Mi ucciderete, ma voi non passate!

VOCI di donne – E’ incinta! Incinta di cinque mesi! Non le fate male! Per carità!

L’esercito sabaudo chiedeva di andare a combattere al nord, contro i tedeschi e i fascisti… Ma non erano già arrivati gli americani a liberarci? E quell’esercito, dei Savoia, non era ancora dei fascisti? Niente a che fare con i partigiani del nord. Ho deciso di impedire con tutte le mie forze che si parta per la guerra! E ci sono riuscita, ma a quale prezzo! Per me tanti ragazzi erano sfuggiti alla trappola e le madri e i padri mi abbracciavano… Ma nel pomeriggio si cominciò a sparare, i soldati erano armati e organizzati, Caddero molti ragazzi. Tanti i feriti, li curai come potevo, incoraggiando le madri ad aiutarmi. Il terrore durò una settimana. I nostri giovani vennero arrestati, e io con loro. Non ci fu giustizia per la povera gente. Mentre centinaia di famiglie soffrivano per i figli catturati o uccisi, i fascisti continuavano a passeggiare indisturbati per la città. Gli arrestati, quasi tutti, erano comunisti e socialisti. Fui condannata insieme al gruppo dei ribelli (…) mi mandarono al confino. Dentro di me la mia creatura si muoveva. Mi confortava il pensiero che non partivo da sola. (…)

Non ho nemmeno una camicia per questa creatura! Non c’era neanche un pannolino.

Magra, le mani trasparenti le dita fini come artigli… un piccolo rapace… In viso era bella… graziosa… ma il corpo… lo spettro della fame. Piangeva piangeva per tre giorni non fece altro che piangere… Alla fine piegò la testina da una parte e chiuse gli occhi come per morire. Venne un compagno, non so come altro definirlo… un compagno perché pativa insieme a noi, ma non l’avevo mai visto prima… Prese la bambina fra le mani, la scaldò con la forza delle braccia. A poco a poco la bambina prese vita, il colore le apparve sulle guance… aprì gli occhi, ci guardò e sorrise. Era salva.

Franca Viola

A 17 anni e basta, fu presa dal mafioso Melodia, che agì con aiuto di dodici amici, tutti di gran coraggio da maschio vero. Franca fu violentata, malmenata, lasciata a digiuno, tenuta segregata per otto giorni; poi, i parenti del fenomeno Melodia contattarono il padre di Franca per la “paciata” e matrimonio riparatore a tanto di rito per parroco dabbene. Padre e madre di Franca giocarono a finta di “che bello” e fecero arrestare la banda. Che legge di repubblica proponeva che il matrimonio era gomma a matita per stupro, altrimenti c’era il “donna svergognata”.

Il giudice Giovanni Albeggiani, per fermo immagine di Franca, fece mannaia sulla banditaglia, ma la leggiastra fu abrogata dopo sedici anni, e altri quindici ne passarono per 1996, che poi stupro è contro persona non contro morale. Eccola Franca, che pure porta per cognome fiore.

Per me quella vicenda rappresentò una vera e propria disgrazia, ho dovuto attraversare momenti tristi, di sofferenza, è stata un’esperienza decisamente negativa. Ritenni quel gesto non un atto di grande coraggio, ma una normale scelta dettata dal cuore. Feci quello che mi sentivo di fare, furono i media, in seguito, a rendere la vicenda un evento storico.

La gente parla sempre a sproposito, nel bene o nel male, dicevano che mi vendevo le interviste ai giornali per soldi, mi mortificavano con le loro false affermazioni. Ero contenta quando sentivo di altre ragazze che si erano salvate facendo la mia stessa scelta, mi faceva piacere sapere che, anche se indirettamente, ero stata io ad aiutarle. Quella legge era ingiusta e andava cambiata, c’è sempre una prima volta, e io fui quella che diede inizio al cambiamento. Mi sposai e decisi di condurre una vita dedita alla normalità, lontana dai riflettori. Abitai tre anni a Monreale, dove mio marito lavorava, per poi trasferirmi di nuovo ad Alcamo quando ottenne il trasferimento. Abbiamo due figli, uno studia Scienze naturali e l’altro lavora come commercialista. Con loro non abbiamo mai affrontato a pieno la questione, sanno già tutto dagli altri, che mi descrivono sempre come una donna molto coraggiosa.

Mi sono sempre sentita molto serena, come se non fosse mai accaduto niente. Guardo a quei giorni come se avessi seguito bene e da vicino la cronaca che ha visto coinvolta un’altra persona. Per me non è stato facile allora riprendere la vita di tutti i giorni, ma quella scelta fu decisiva. Semplicemente non volevo sposarmi con un uomo che non amavo e preferivo restare tutta la vita da sola piuttosto che farlo. Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi donna: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti; non è difficile.

E a tutte le donne che hanno orecchie, dico mi dispiace, che d’ogni uomo, almeno un poco, è colpa di patriarcato. E faccio omaggio di musica.

Poesie in scatola

Mi è capitato tante volte di cambiare casa, pure città a dire il vero. Tutte le volte recupero scatole dalle forme più stravaganti e extrafunzionali, le riempio di cose che per la fretta non butto, non si sa mai. Se non c’è tempo per oculate cernite ci finisce dentro tutto ed il suo contrario: scatole di cerini, una conchiglia, un biglietto da visita di un tale «nonsochi», un pezzo di vetro levigato dalle onde che finge d’essere prezioso opale, un braccialetto d’ossicini di carrube che mi regalò qualcuna che m’amò, un gettone del telefono ed una moneta da dieci lire. Pure una polaroid, un biglietto del cinema, un pizzino con appunti incomprensibili, – ho sempre avuto una pessima grafia – persino un numero di telefono che ancora regge il prefisso ma non l’oscura provenienza. Ogni tanto riapro qualcuna di quelle scatole ammassate sotto il letto o sul fondo d’un armadio, su una libreria o nel sottoscala, faccio scarti per discariche, nel frattempo viaggio nel tempo.

Nell’ultimo che ho aperto c’era pure un foglio a righe, stropicciato, con una cosa che pareva una poesia. Io non scrivo poesie, non mi riesce. La poesia è un petardo, un fulmine che dura un’istante, riesce a farsi pugno nello stomaco, è sintesi esaustiva. Ed io ho segno zodiacale bradipo tetradattilo, ascendente tardigrado. Ma in quel foglio la poesia c’era, almeno tale pareva, pure l’avevo scritta io mille mila anni addietro. Il viaggio nel tempo aveva dato responsi, me ne ricordai il momento in cui l’avevo buttata giù su quel foglietto tirato via da un quadernetto di qualcuno. C’era in corso una di quelle liturgie che detestavo ma che non osavo contraddire, quella che si declinava quale democrazia assembleare, quella con centododici punti all’ordine del giorno che una commissione attenta a non farsi sfuggire nulla del pubblico-privato d’una facoltà occupata, sgranava come le beghine fanno col rosario. E tra una votazione sulla necessità di definire turni precisi per l’autocritica di genere, delimitare il campo delle relazioni interpersonali alla sola sfera della condivisione politica, stabilire quale marca di birra poteva essere consumata e se era consentito pisciare controvento in cortile, l’avevo scritta, facendo sparire rapidamente la stolta produzione psicoletteraria annuendo a chi mi chiedeva se prendevo appunti per l’epocale discorso della sera dopo in cui mi sarei travestito da “Che”.


Ve la rendo così come l’ho trovata ché, al di là della qualità, mi pare, oggi, interessante indagine socioantropologica farne lettura condivisa, pure per capire chi eravamo taluni, cosa non siamo diventati.

«Mi annoio!
Di per se non mi da alcuna noia
annoiarmi.
Semmai mi da noia
pensare di annoiarmi,
o forse
semplicemente pensare.
Noioso pensare,
almeno quanto è noioso
non pensare.
Pensare,
non so,
a te,
O alle tue tettine
di velluto rosso.
O forse erano di tweed,
a quadri rossi e blu?
Che noia non ricordare
particolari pregnanti.
Del soffitto
della mia camera da letto,

  • si intende –
    ricordo ogni dettaglio,
    e seppure non lo ricordassi,
    vi darei uno sguardo,
    annoiato,
    dalla mia postazione preferita,
    dal letto,
    faccia in su,
    ad annoiarmi.
    Che noia immaginare
    che nulla è cambiato
    o forse che nulla è come prima
    o forse che qualcosa è cambiato
    ma non del tutto,
    nel qual caso
    è davvero noioso
    cercare di capire cosa
    è rimasto tale e quale
    ed altrettanto noioso,
    cercare di trovare
    quelle variabili impazzite
    che rendono la nostra vita,
    anzi la mia
  • giacché della vostra,
    in linea di principio,
    non me ne importa poi tanto –
    diversa da quella che era prima,
    prima,
    cioè,
    che quel piccolo cambiamento,
    la rendesse differente.
    Potrei smettere di annoiarmi,
    rimettermi in discussione,
    dimenticare
    le tue tettine colorate chissà come,
    e concentrarmi su quei piccoli cambiamenti,
    magari insignificanti,
    scoprendo una naturale propensione
    per quei culetti
    scolpiti
    ginnasticamente
    nel marmo,
    ebanizzati
    da lampade UV,
    come si vedono in TV,
    anche nei TG,
    quelli del mezzodì
    o quelli del più tardi di così.
    O potrei aspettare l’estate
    per smettere di annoiarmi a letto
    a guardare il soffitto
    per svelarne il particolare
    intarsio consunto di muffa,
    ed iniziare ad annoiarmi
    su una spiaggia
    ad osservare i particolari
    di culetti scolpiti,
    ebanizzati
    dal buco nell’ozono.»

Poi vi rimando il mio messaggio nella bottiglia, così come ve ne dissi qui, che quello, il messaggio, ve lo potete pescare da questa battigia qua.

Nel buio, guardo!

«E io credo in questo: che la mente libera ed esplorativa del singolo essere umano sia la cosa più preziosa al mondo.

E per questo mi batterei: la libertà della mente di prendere qualsiasi direzione desideri, senza direzione. E contro questo devo lottare: ogni idea, religione o governo che limiti o distrugga l’individuo.

Questo è quello che sono e quello che faccio.» (La valle dell’Eden, John Steinbeck)

Quando vengo qui, scrivo quello che mi passa per la testa nell’esatto istante in cui lo scrivo. Mi siedo dinnanzi alla tastiera e butto giù quel momento, le parole esclusive di quel momento. Sono parole che viaggiano in un istante, nemmeno sono certo di averle davvero interiorizzate, che siano quelle in cui credo ciecamente. Sono soltanto un frammento di pensiero che c’è ora e adesso. Dopo, quelle stesse parole fanno spazio ad altre suggestioni, forse persino distanti dalle prime. Posso concedermi questa libertà, posso usare le parole che voglio, come voglio, non ho limiti se non quelli che mi sono stati inculcati da un me atavico, che forse non è mai esistito o forse c’è sempre stato senza dirmi niente, s’è presentato senza invito ed è rimasto seduto nel tinello. Questa cosa mi ha riservato sorprese, perché consentirsi l’insano lusso di vaneggiare, se mi va di farlo, è come guardare dritti nel buio, scorgervi ciò che c’è, pure quello che non c’è, tanto non v’è tema di smentita su questo. È come lanciare lo sguardo oltre la curvatura dell’oceano quando sei sul promontorio che ci si tuffa dentro. Le parole possono volare sul pelo d’acqua ed assecondare quella curva, scivolarvi sopra come un relitto alla deriva, o possono inabissarsi e studiare i dettagli d’un canyon sommerso, sono escrescenze ectoplasmiche di sguardi, occhi, d’un qualche io.

S’articolano come pare loro, o come pare a me, in quel momento, poi se ne vanno, fanno spazio ad altre frasi, per altre esplorazioni d’infinito. Questo è quello che faccio, che mi va di fare. Nemmeno chiedo di più, salvo qualche bene di conforto. Capisco che questo può creare qualche disordine relazionale. Me ne farò – con pudore antico, forse – una ragione. «È nel buio che devi guardare, con disobbedienza, ottimismo e avventatezza.» (Marguerite Yourcenar)

Un piccolo messaggio nella bottiglia

Da queste parti c’è tanta gente che scrive bene, scrive bene e pubblica le sue cose. Funziona così, almeno nel mio caso, butti giù il libro, lo mandi al tuo editore oppure ad un altro che comunque sai può essere interessato. Arriva la risposta e si procede. Questa è la prassi. Per buttar giù un libro ci vuole tempo, c’è il lavoro di cesello, quello che deve mettere insieme trama ed ordito. Pare assai comprensibile che non si veda l’ora di ritrovarselo in mano in forma di carta frusciante. È soddisfazione bella, in taluni casi impagabile.

C’è da fare i conti poi con tutto il resto, quello che succede dopo la prima stesura. Ed ammetto che se provo piacere autentico sino a quella, il dopo mi pesa in modo crescente. L’aggiustare la prima bozza comincia a crearmi un pruriginoso fastidio. Mi pare d’affrontarla in modo coscienzioso ma è dentro che mi sento svogliato, poco incline a tornare sul luogo del delitto. È come se, partorito il bebè, io pretenda che se ne vada già per la sua strada, ché le tassonomie di Bloom non siano che indicazioni generiche. Mi piacerebbe salutarlo con occhi commossi, fazzoletto sventolante, sussurrare un lungo addio. Tolta, infatti, la soddisfazione di ritrovarsi il libro tra le mani, scritto come si deve – grosso modo e fatte salve certe mie intemperie di carattere -, subentra la fase che mi presenta il conto, che mi lascia fuori della porta, come fossi interdetto a pubblici uffici: la promozione. Lì m’arrendo. Se mi faccio andar giù certe presentazioni ad uopo scelte tra quelle che, in prospettiva, pretendono convivi a color rosso rubino subito appresso, il ritrovare vecchie e mai dimenticate compagnie, il resto mi si esercita come indebita pressione, sfida le mie steppe di gialla noia senza ritegno, le rimprovera, talora con affettuosi rimbrotti, più spesso con falcate d’indisponenza. Insomma, è cosa che non mi riesce, non ci sono portato, nutro però affettuosa invidia per chi invece se n’è fatto aduso in modo assai consapevole, com’è giusto che sia. Non è tutto, c’è dell’altro che mi crea angosce a sommo di petto, proprio un palmo sopra il diaframma. Ci sono storie che scrissi che non tirai mai fuori del cassetto. Mi parrebbe, a vederle in stampa, con tanto di prezzo di copertina, di commettere un abuso, una violenza a certi frammenti di memoria. Mi pare che certe immagini che emergono da certi scritti non m’appartengano così tanto, si fanno storia condivisa di cui io non sono mai stato legittimo proprietario, al massimo un subaffittuario senza contratto e con sfratto incombente. E se certi racconti emergono da fantasia e basta, pur se pescano in realtà concrete la loro – spero – credibilità, altri hanno una dimensione così intima che non se ne prevede violazione. Sono proprio quelli che rimangono nei cassetti, gli stessi che, un frammento ogni tanto, trovate qui, ma che non so se mai avranno sorte d’offset.

Qui mi pare che certe storie siano al sicuro, non corrono rischi, se ne vanno dove vogliono e non appartengono a me, nemmeno ad altri che non siano se stesse. Mi sconfinfera che siano come messaggi nella bottiglia, se ne conosce la spiaggia da cui partirono, non è certo vi sia uno scoglio d’approdo, e se c’è non si sa se sia approdo fermo di bonaccia, presa facile per mani curiose ad abbrancarli, o barriera posta a fortunale che ne sgretola vetri ed inzuppa fogli d’irreversibile perdita. Ne ho uno di questi messaggi, ve lo cedo volentieri ch’io non credo lo manderò mai ad un editor cortese. Si chiama solo “Il lungo viaggio”.

La lacrime di Sisifo

«Si può avere potere sulle persone finché non gli si porta via qualcosa. Ma quando si è rubato tutto ad un uomo, questi non sarà più soggetto ad alcun potere: sarà libero di nuovo.» (Alexandr Isajevič Solženicyn)

Io, da quell’altro me mi prendo una pausa di riflessione a domenica che viene. Veramente avevo chiesto il divorzio, poi c’è stato un ripensamento che è prevalsa la linea morbida. La quale cosa merita un po’ di musica a suggello di pace, se questa arriva.

Insomma, per farla breve, abbiamo qualche dissapore, note caratteriali a divergenza conclamata, prospettive diverse. Io per lui sono desiderio inesaudito, stile di vita da utopista metà Ottocento, comunardo d’isola deserta. Dunque, in un certo qual senso, mi apprezza, solo che certe volte si rivolge a me con tale asprezza di toni che pare più animato da rancorose invidie. Per me, lui, invece è ciò che detesto, che s’arrabatta nel mondo come se non ci fosse domani, pare che solleva la mappa come Atlante, e lacrima, poi, a conseguente mal di schiena, peggio di Sisifo. La verità è che la separazione – pro tempore o in via definitiva che sia – era nelle cose, non siamo riusciti a prevenirla. L’unica occasione di contatto ce l’abbiamo quando, deluso e trafelato, mi tracanna tutto il bottigliame, che io pure offro, ma a tutto c’è limite che mi pare s’approfitta. Ora, io mi rendo conto a perfetta analisi che è di quelli fragili a dire di no, manco ce l’ha a vocabolario, che se poi lo deve dire che non arriva a si, pare che si macchia a occhi di mondo di lesa maestà.

Si agita a termica d’atomo di metallo fuso, sbatte di qua, si precipita di là. Manco è cosa che gli aggrada, che destino è dei pigri – che lui tale è, pure se dissimula – di non aver pace ad esercizio del vizio che si fece sublime virtù. È lui che scrive libri, – lui, non io – s’articola di riviste, si sbatte a sindacato pure di cause perse, si commuove a profugo e rifugiato, manco aveva dismesso denti da latte che s’avvolgeva a bandiera di manifestazione a cambio di manganellate con profuso entusiasmo. Poi, che capita, si sente dire “e si, ma il sindacato…”, oppure, che mai smise manco a quarto d’ora, “e i pacifisti dove sono stati fino ad ora?”. Io non reggo a selfie a presentazione e dibattito, mi prude come sabbia a mutande, scappo a disperazione. Lui regge appena, ma sta lì, tiene posizione, che pare impegnato a trincea, nemmanco è sicuro di chi ce l’ha mandato. Pure so che s’annota fastidi ad ogni centimetro epidermico e appena s’avvede di possibilità fugge d’atterrito sconforto e, tragedia ultima, si tracanna a spese mie ogni scorta di sapiente riserva di dispensa. Insomma, che erano circa tre anni fa che mi feci qui casa, e sull’uscio di porta ci scrissi mio nome esatto ch’è nessuno. Solo di rado la lascio, a pensiero di sfratto suo, per darmi a scoglio perduto, a baluginio di vela, canto di sirena, a orizzonte a tema d’infinito, a bosco senza tempo, a raggio di sole, torrente di fiato lindo.
Glielo spiegai, ancor oggi, a discussione d’animo elevato, che se sei fatto di niente, sei nessuno di forma e sostanza, di libertà godrai a gratitudine, né mai alcuno dirà che non dirai, nemmeno farà cenno al che non farai. Che nessuno è soave niente, dunque è tutto che è vuoto da riempire. Ma se continua così, al massimo si va ad ammanco di vino, che tutto si sciroppa, senza comprensione alcuna per chi si fece nessuno, giammai per non pagar dazio – come egli suppone a non detto preciso -, ma per dare invece esempio attivo di non belligeranza, pace di zingaro.

La bitta

D’estate pesce ce n’è di meno, pare che se ne va in ferie. D’inverno la pesca è migliore ma i ristoranti a quei tempi erano vuoti, non c’erano turisti e quelli che stavano lì, compreso me – che ero a tempi di scuola – non è che ci avessero di che andarsi a sfamare su tovaglie a quadri. Saro si faceva la notte su quella barca a sganghero ed arrivava la mattina al molo che era giorno fatto, si metteva a togliere le anime d’argento che guizzavano ancora nella rete, caricava quello che c’era nel retro della macchina vecchia e si metteva a pulire tutto.

Dalla rete toglieva pure ogni filo d’alga impigliata, che quella, la rete, costa assai e non se ne deve rompere niente. A rammendarla si fa gran fatica d’occhi e tempo e Saro tanto bene non ci vedeva, tempo pure gliene restava poco. Ci passavo davanti con la canna quando scuola non ce n’era e la stagione non era buona. Sul molo c’era giusto lui, faceva il freddo che t’entra nelle ossa, ma se non si usciva non c’era scampo. Si muoveva che pareva una vela stropicciata che s’asciuga a sole tiepido della mattina dalla tempesta della notte, su quella bonaccia indeterminata del porticciolo. Nell’acqua stagna c’era odore dolciastro d’alghe a putrefare, i gabbiani facevano festa un po’ più in là, troppo non si fidavano ad avvicinarsi, c’era il rischio di prendersi pedate a prendere di mira la cassetta che si faceva inghiottire dal portabagagli.

A quel tanfo s’aggiungeva puzzo di nafta, della riverniciatura impermeabile della barca. Saro armeggiava e se non era tutto a posto non smetteva. Non avevo mai capito perché, tutto finito, non avesse desiderio di scappare, di andarsene a farsi una doccia, togliersi quel puzzo di dosso, farsi un goccio di vino ed una zuppa di pescato fresco. Non mi pareva logico mentre scivolavo sui frangiflutti a cercare un pezzo di mare aperto dove lanciare la lenza. Lui si sedeva sulla bitta e s’accendeva una sigaretta, e manco scostava gli occhi d’un grado dalla bocca di porto. Era un rituale che si consumava sempre così, pareva esatto la messa del prete. Mi veniva da gridarglielo «vattene a casa», che mi pareva un povero pazzo. D’estate pesce non ce n’è tanto, ma ce chi se lo compra, e a mare ci si deve stare di più. La rete si tira ancora e ancora, fino a quando non ce n’è abbastanza. E Saro aveva rughe antiche, canyon scavati dal sale, dal sole, dal vento. Farmi paghetta extra a scuola sospesa mi parve cosa buona, e dissi che l’accompagnavo quando da solo non ce la fece più, a stagione bella. Andai anch’io, poi tornavo, e la rete la piegavo palmo a palmo come lui, che non facesse pieghe pronte a strappo. Finita la notte, col giorno bollente, mi veniva d’andarmene a casa, a farmi una doccia, a togliermi quel puzzo di dosso. Ma le gambe tremavano e decidevano loro che mi sarei seduto sull’altra bitta lì a seguire, senza scostare occhi d’un grado dalla bocca di porto, e Saro aveva la forza appena di passarmi una sigaretta. Io maledicevo che le bitte fossero lontane così, più di due metri, che ad allungare il braccio per abbrancare la cicca mi pareva fatica d’Ercole. E pure io ora parevo pazzo, a guardarmi l’infinito davanti.

Sogno d’una piazza

«Io ho camminato per tutto il paese. Tutti chiedono la stessa cosa. Dove andiamo? Per me non andiamo mai da nessuna parte. Siamo sempre in viaggio. Sempre in cammino. Perché a questa cosa non ci pensa nessuno? Oggi tutto si sposta. La gente si sposta. Sappiamo perché e sappiamo come. La gente si sposta perché lo deve fare. Ecco perché la gente si sposta. Si sposta perché vuole qualcosa di meglio. E quello è l’unico modo per trovarselo. Quando gli serve qualcosa, quando gli manca qualcosa, se lo vanno a pigliare. È a forza di sopportare che uno impara a ribellarsi». (John Steinbeck)

Andavo e venivo pure io, da qualche parte, in qualche tempo. Ho percorso e percorro tante piazze assieme ad altri. Qualche volta sono piazze in cui ti riconosci, pare t’appartengono, ti senti parte di quella moltitudine. Non sai se da qualche parte qualcuno anela a farti pagare quella piazza di ribellione, non ci pensi. Ti vorrebbe fermo. Quando sei molto giovane non te l’aspetti che qualcuno possa fartela pagare per ciò che pensi, per te c’è solo l’oggetto del contendere, le ragioni per cui sei lì, quel sentirti una parte del tutto che vuole quella cosa. Da ragazzo mi capitava spesso che in piazza c’ero per questo. Quella cosa che volevo era per me essenziale. Non è cambiato molto per molti di questi ragazzi che scendono in piazza oggi, che molti vorrebbero rimanessero isole nell’oceano virtuale.

È vero che qualcuno non li voleva lì, ed ha cercato di farglielo capire con i propri mezzi. Ma c’è pure che, dopo, rimangono solo i modi. Quello che quei ragazzi volevano, pensavano, è sparito, dissolto. Rimane solo il manganello, non la voce forte di una ragazza e un ragazzo che chiedono una cosa di straordinaria banalità, che non si uccida da nessuna parte. L’oggetto del contendere è svanito nel nulla, è rimasto solo il resto, la forma, la sostanza è morta, l’ascolto sepolto. Molti che oggi si scandalizzano per quanto è successo a quei ragazzi hanno picchiato altrettanto duro, perché hanno evitato di parlare della sostanza di quella ribellione, di quell’insopportabile volontà che vuole un’intera generazione condannata ad ascoltare canzonette, a trastullarsi d’un social. Quella è la sola piazza consentita, dove digrigni i denti, sbavi sulla tastiera fredda, e ti senti parte d’un tutto sconosciuto ed invisibile che non odora di sangue, sudore, lacrime. Il tutto vero – fuori da quel mondo eterocostruito e mai percepito veramente – non esiste poiché non trasuda le sue essenze biologiche attraverso uno schermo. Oggi, noi adulti, pure quando ci indigniamo per quel pestaggio inutile, abbiamo usato e derubricato quei ragazzi ad altro che non è ciò che vogliono. Siamo stati bravissimi a colpire altrettanto duro perché non abbiamo lo stesso identico coraggio di regalare loro la considerazione che riguarda ciò che pensano, che poi è la semplicità dell’uomo che non diserta dalla sua libertà di essere umano.

I libri tornano con le storie

«L’assessore legge un verbale, e chiede a Mr. Murdin se Geremia lavorava per lui.
“Si, era uno dei lavoranti.”
Paolino alza la mano e grida: “Non è vero!”.
Tutti si voltano.
“Mio padre era capomastro!”
L’assessore sorride indulgente e ordina a Paolino di sedere.
“Era capomastro, signor Murdin?”
“Può darsi… Chi se li ricorda, questi maledetti nomi italiani?”
» (Cristo fra i muratori, Pietro Di Donato)


Ci sono libri che ci appartengono per strani giochi del destino, sono con noi da sempre. «Cristo fra i muratori» di Pietro Donato è uno di quelli per me. È sempre stato lì, su uno scaffale, da che ho una libreria mia, nemmeno ricordo di averlo mai comprato, che me l’abbiano regalato. È lì e basta. Di Donato era figlio di immigrati abruzzesi in America, l’ha pubblicato nel 1939. Racconta un’America di migrazioni, quella degli ultimi, dei senza nome, sulla scia delle cose di Faulkner. Vinse un Pulitzer, divenne caso letterario. Un paio d’anni dopo il regime non se lo lasciò sfuggire per rivendicare la grandezza di un italiano e venne pubblicato pure qui, da noi. La biografia di Di Donato fu resa oscura, il libro fu ampiamente rimaneggiato dalla censura. Era pur sempre il successo letterario di un comunista obiettore di coscienza. E noi eravamo in guerra. Il 1939, dunque, per una vicenda che aveva già una ventina d’anni quando fu scritto. Andrebbe letto nelle scuole questo libro, ma renderebbe troppo meno aspri certi comportamenti, e le contraddizioni, le paure, la diffidenze, sono utili ai padroni del vapore. Un estratto di quel libro ve lo rendo, e provate a vedere se le cose sono cambiate da quegli anni bui, se gli ultimi hanno ora patria e, se avete pazienza di leggerlo, se vi ricorda qualcosa, se avete tempo un piccolo spazio d’ulteriore sgomento dinnanzi anche a ad una torre che pende male.

«Geremio aspirò dalla pipa spenta e sorrise con accondiscendenza. Gli uomini intorno a lui si muovevano in silenzio, portando a termine i loro compiti, stanchi ma assorbiti dagli stessi pensieri di Grugno. Il rumore del Lavoro sembrava non essere nemmeno più un rumore, e mentre Geremio si guardava attorno, la vita si posava su di lui come un grigio concerto, composto di atmosfere grigie e note grigie. Eppure, quel mondo scolorito gli suonava vicino e familiare.
«Cinque minuti alle due», sibilò Grugno attraverso i baffi folti.
Senza nemmeno pensarci, Geremio estrasse l’orologio dalla tasca, lo ricaricò e lo rimise a posto. Lazarene aveva finito con i cavi. Il tono e i movimenti della scena parevano a Geremio strani, diversi, eppure erano come un sogno conosciuto da un tempo imprecisato. Sollevò la mano verso Julio. La pietra fusa gorgogliava piano, e poi con un rumore crescente e rauco. I suoi occhi seguirono la miscela di pietra e cemento, e le sue orecchie non udivano altro suono che quel mescolio. Da qualche parte sopra i tetti, giungevano le note metalliche di Barney Google che si facevano strada attraverso la radio, e gli entravano nella testa, fermandosi lì come un disco nella sua calotta cranica.
Ah, sì, Barney Google, la bellissima radio di mio figlio… Il mio meraviglioso Paul. Il filo dei suoi pensieri corse rapidamente alla famiglia, alla sua casa e alle sue speranze. E insieme alle speranze, giunse la paura. Qualcosa dentro di lui si domandava: Sarà mai possibile respirare l’aria di Dio senza che venga inquinata dall’ombra della disoccupazione? E di dover fare guadagnare il padrone? La paura del Lavoro e del Padrone? Ribellarsi significa solo perdere tutto di quel pochissimo che si possiede. Obbedire significa soffocare. O caro Signore, indicami tu la strada.
Proprio in quel momento, il pavimento sussultò e ondeggiò sotto i suoi piedi. I sostegni slittavano e della base sottostante facevano vibrare gli impiantiti ancora instabili dell’edificio. Era svenuto o stava avendo le vertigini? Era solo una sensazione dovuta a quel pomeriggio irreale? Allungò le mani davanti a sé, indietreggiò e sollevò lo sguardo in preda al panico. «No! No!»
Gli uomini rimasero in bilico. Le loro gole avrebbero voluto gridare e urlare, ma non osavano. Per un momento furono come un corteo pietrificato e teso. Poi la base del loro mondo cedette. Un fremito violento percorse l’intero Edificio, i sostegni esplosero con il crepitio di una foresta in fiamme. L’impiantito venne ingoiato. Geremio si aggrappò all’aria, strillando agonizzante: «Fratelli, cosa abbiamo fatto? Ahhh-h, i nostri figli!». In un battito di ciglia, ogni equilibrio saltò, gli uomini come paralizzati si ritrovarono scaraventati nel cielo. L’edificio crollava sopra di loro trascinandoli in un folle baratro. Pareti, pavimenti, travi divennero onde vorticose, spezzate, solide che si infrangevano con detonazioni assordanti trascinando con sé uomini e materia in un connubio di morte.
Lo Smilzo non aveva tradito alcuna emozione. Quando le mura crollarono, restò fermo. Si limitò ad abbassare la testa. Un minuto dopo era sospeso a mezz’aria, il mento sul petto, gli occhi che gli uscivano dalle orbite, una schiuma verde che gorgogliava dalla bocca e il corpo in preda agli spasmi, tenuto sospeso dai brandelli rimasti delle sue braccia schiacciate, inchiodato tra un muro e una trave.
Una trave cinque per dieci colpì Tomas il piccoletto sotto la schiena e lo fece ruotare in cerchio fino a sbattere contro una trave che stava roteando. Nel lampo in cui sollevò il suo viso pietrificato da cherubino, il bordo della trave gli tagliò la sommità del cranio.
Quando Grugno gridò implorante: «San Michele!», l’oscurità lo avvolse. Rinvenne in un mondo di orrore. Un getto costante, caldo, denso e nauseante come vino caldo, gli bagnava il viso e gli ostruiva naso, bocca e occhi. Quella specie di sciroppo nauseabondo che gli ricopriva la faccia gli macchiava i baffi di rosso e gli gocciolava in bocca. Deglutiva in cerca d’aria e ingoiava il sangue. Mentre si sforzava di respirare, il dolore lo rese quasi incosciente. L’aria brulicava di grida, urla, gemiti e polvere, e il suo petto schiacciato bruciava di mille fuochi. Non riusciva a vedere, né a respirare abbastanza da poter piangere. Si portò la mano destra al viso e si asciugò quella sostanza gelatinosa, ma continuava a colare, e udì un gemito straziante vicino a lui, non molto lontano. Si asciugò gli occhi con un gesto meccanico disperato. Dov’era? Che sogno stava facendo? Che cosa sarebbe successo se non si fosse svegliato in tempo per andare al lavoro? Ma che strano; lo stomaco che pulsava, il petto in fiamme, e non vedeva altro che rosso opaco, solo una mano che si muoveva e quel gemito che pareva levarsi davanti al suo viso!
Il rumore e il clamore delle squadre di soccorso gli giunsero da lontano.
Ah, sì, stava sognando a letto, doveva essere così, dovevano essere i pompieri che stavano andando a spegnere un incendio. Oh, poveri diavoli! E se era la sua la casa in fiamme? Con i bambini sparsi nelle varie stanze, chissà dove! Doveva fare del proprio meglio per uscire da quel sogno! Stava nuotando sott’acqua e non era in grado di sollevare la testa e riemergere. Doveva riprendere coscienza per salvare i suoi figli!
Nuotò freneticamente con una mano,
e poi tastò la forma di un viso. Una faccia! C’è Angelina al suo fianco! Grazie a Dio, è sveglia! Le toccò il viso. Si mosse. Era freddo, ispido e umido. «Si muove. Che cos’è?». Le sue dita scivolavano sulle ossa macilente e appuntite, in una massa collosa, fibrosa e cava, cedevole come maccheroni bolliti. Poi una luce grigia rischiarò un po’ la sua visione e il suo cuore fu preso da un attacco di isteria. Una trave era posata sul suo petto e la sua mano destra stringeva una grottesca maschera umana. Sospeso quasi sopra di lui c’era il corpo contorto e senza volto di Tomas. Julio svenne di colpo, con un sospiro inarticolato. Le sue dita mollarono la presa e il viso senza corpo e testa gli cadde accanto, vicino alla sua faccia, mentre il gocciolamento sopra di lui si faceva sempre più lento.
I soccorritori si muovevano cupi con piccone e ascia.
Geremio si riprese con un sussulto, distante dai loro sforzi. Subito intuì cosa era successo e dove si trovava. Gridò selvaggiamente. «Salvatemi! Salvatemi! Sono qui sotto!»
Si fermò esausto. Sentì un dolore lancinante ai genitali. La fredda barra d’acciaio su cui erano impalati gli paralizzava la spina dorsale. Gridò sempre più forte. «Salvatemi! Sono gravemente ferito! Potete salvarmi! Potete salvarmi prima che sia troppo tardi!». Ma le sue grida non andavano al di là delle sue stesse orecchie. Il cemento freddo e umido gli arrivava al mento. Si sentì trasalire. Tra pochi secondi sarò sepolto. Se riesco almeno a respirare, mi raggiungeranno. Sì, ce la faranno! Il suo viso fu subito coperto, sprofondando fra le pietre taglienti. «Aria! Aria!», urlavano i suoi polmoni mentre veniva murato vivo. Morse selvaggiamente l’asse di legno premuta contro la sua bocca. Ne strappò via un pezzo grosso meno di mezzo centimetro. Oh, se solo fosse riuscito a resistere abbastanza a lungo da aprirsi anche il più piccolo buco con i denti e respirare! Doveva farlo! Non c’era altro modo! Doveva! Non c’era altro modo! Era responsabile per la sua famiglia! Non poteva lasciarli così! Non voleva morire! Non poteva finire in quel modo! Aveva morso metà del legno quando i suoi denti si spezzarono e si staccarono dalle gengive a causa di quel conflitto impari. La pressione del cemento era tale e così intensa che le schegge di legno, i monconi dei denti e il sangue non riuscivano a uscirgli dalla bocca soffocata.
Perché non gli era concesso di andare ancora un po’ più in là?
Aria! Presto! Affondò la mandibola nel piccolo spazio vuoto e strinse le labbra in una furia agonizzante cercando di non soffocare. Perché non cede! Madre di Dio, perché non cede? Magari c’è una tacca o un chiodo dietro? Cristo santo! No! No! Fai che ceda… Aria! Aria!
Spinse come un pazzo la mascella sdentata; si scheggiò, si spezzò e un angolo ormai privo di pelle perforò l’asse, aprendo un piccolo varco per l’aria. In uno scoppio disperato, l’ossigeno prigioniero dei polmoni gli uscì dalla bocca lacerata cercando avidamente di ingoiare un soffio d’aria fresca. Provò a respirare, ma era impossibile,
perché la colata si andava indurendo sempre di più. La malta carica di cemento gli scorreva sul viso ferito. I suoi polmoni non riuscivano a gonfiarsi, l’impasto che si rapprendeva li stringeva come in una morsa.» (Cristo fra i muratori, Pietro Di Donato)

Questioni di logica

Post lauream, ancorché avessi una certa avversione per il mondo accademico, m’ero messo in testa di proseguire uno studio iniziato con la tesi, dunque, avendo avuto il benestare del direttore del dipartimento, scelsi il gruppo di ricerca cui aggregarmi. Poiché la mia era ricerca autarchica, per di più di «base», l’uno, tutto sommato, valeva l’altro. Per cui utilizzai un criterio, previa appurata disponibilità ad accogliermi, direi poco scientifico. Optai per quello dei tre che aveva per capo fila l’unico che, ad ingresso universitario ad un certo livello, se ne sarebbe andato in pensione a quello stesso, per una certa ritrosia per gli spasmi carrieristici.

Il tale era stato pure vicino al movimento studentesco, quando quello era da fuoco e fiamme, l’aveva sostenuto, vi aveva preso parte. Gli altri due non erano ostili, ma parevano ascrivibili più alla categoria che allora si definiva dei sinceri democratici, ventre molle, dunque. Tra una pausa e l’altra di un esperimento, d’altronde, c’è bisogno di chiacchiera buona, un bicchiere di vino a chiusura.

Gli altri due mi parevano astemi, certamente erano astenici. Il primo era un tale dinoccolato, sempre con il camice in ordine e la cravatta in bell’evidenza sotto. Cordiale, cortese, affabile, affettato, mai sopra le righe. L’altra, una donna, era schiva, sorridente ma non troppo. Non ricordo di averle sentito pronunciare più di tre parole di fila. Avevo dato una materia con lei, c’era stima reciproca ma non tanto da prenderci un caffè insieme. Ma a farmi decidere fu la logica relazionale, diversissima tra i tre. Cerco di farmi capire meglio. Al «ci hai una sigaretta?» il mio capo – logica normale – poteva rispondere in molti modi, tutti conseguenziali. Non so, «si, tieni», «no, le ho finite», oppure «si ma me ne è rimasta una sola», magari «vattele a comprare», «si, ma non te la dò perché mi stai sulle palle» e cose così. Il secondo – logica logorroica – avrebbe risposto «no, non fumo. Però ti consiglio di smettere perché i danni provocati dal fumo sono tanti. Sai, il tabacco contiene una molteplicità di sostanze cancerogene che, anche in dosi minime, possono produrre conseguenze devastanti…» ed era capace di sostenere il pippone anche per diversi minuti. Ti avrebbe convinto a smettere di fumare, non tanto per il contenuto della sua narrazione dotta, quanto perché in crisi d’astinenza avresti preferito passeggiate spensierate a piedi nudi su braci ardenti piuttosto che riprovare quell’esperienza d’ascolto. La terza – fumava, la sua era logica stringente – avrebbe risposto «si», ma non te la avrebbe data perché la domanda posta non lo prevedeva.
In queste settimane ho scoperto un’altra logica di cui non ero perfettamente a conoscenza, ed anche qui provo a spiegarmi meglio. Se una ragazza viene stuprata, c’è sempre qualche fenomeno di logica, giornalista, opinionista, politico – non voglio offendere nessuno usando questo termine – che dice che un po’ se l’è cercata, per cui una certa responsabilità anche lei ce l’ha, mica si può sempre prendersela con una naturale propensione padronale e predatoria dei maschi? Ovviamente fatto salvo che questi non siano stranieri, nel qual caso… Ma il capolavoro l’ho letto ieri, allorché un tale illuminato, tornando sui fatti di Firenze ha affermato che i clandestini in Italia non ci devono stare, come dire, mica è colpa dello sfruttatore, è lo sfruttato che se l’è cercata e se non si faceva sbarcare al più crepava in mare o in un carcere libico, mica in un sacrosanto cantiere. Pare un sillogismo aristotelico per quanto è logico.

Occhio alla penna

Sette o otto anni fa ero ai banchetti per una raccolta firme per un referendum abrogativo di certe norme che puntava ad estendere la responsabilità del committente ad eventuali inadempienze contrattuali da parte di ditte appaltanti o subappaltanti. Questa una sintesi, non ho voglia di tecnicismi. Su quelli s’era espressa la Corte Costituzionale che aveva dichiarata la legittimità della consultazione. Però non si tenne, il legislatore corse ai ripari con un intervento – a mio avviso – assai blando di recepimento dell’istanza referendaria. Poi anche quegli interventi sono stati rimessi in discussione da altri interventi legislativi. Ora, non penso che quel referendum, qualora si fosse svolto, avrebbe messo fine a tragedie come quelle che nell’ultimo anno hanno fatto un migliaio di morti. Troppo pochi i controlli, troppo poche le persone che se ne devono occupare, e troppi i furbi.

Ma un minimo di strizza a chi fa certe cose border line negli anfratti di certe leggi sarebbe venuta, e forse qualcuno sarebbe tornato a casa. Chissà. Ma, ci si dice, non è tempo per le polemiche, per ora c’è il cordoglio, poi si vedrà, forse, se c’è tempo, ma occorre riflettere, pure a lungo. Ci sono cose urgenti da sistemare, bombe da acquistare.

Eppure i disgraziati sono il 90% di chi calpesta questo pianeta. Qualcuno farebbe bene a considerare che la pazienza delle moltitudini non è infinita, e pure i primi tra i primi, prima o poi, avranno bisogno di qualcuno che gli pulisca il culo. Nel frattempo un piccolo promemoria di ribellione, roba seria, terribilmente cruenta, per qualcuno questione di vita o di morte. Ve la posto qui, così, a buon intenditore.


«Quante persone, lungo questo viaggio, stivano la barca fino a rischiare di farla affondare di cose sciocche che pensano essenziali al piacere e al comfort, ma che in realtà sono soltanto inutile zavorra? Come riempiono la povera piccola imbarcazione fino all’albero di bei vestiti e grandi case, di domestici inutili e di una miriade di amici alla moda ai quali non importa un fico secco di loro, e dei quali a loro importa ancora meno, di costosi divertimenti che non divertono nessuno, di formalità e mode, di finzioni e ostentazioni, e di – oh, la più pesante, la più folle delle zavorre! – della paura di che cosa penserà il vicino, di lussi che possono soltanto nauseare, di piaceri che annoiano, di vuote mostre di sé che, come la corona ferrea del criminale di un tempo, fanno sanguinare e tramortiscono il capo dolorante che la porta! È zavorra uomini… tutta zavorra! Gettatela fuoribordo.» (Jerome K. Jerome)

Il tempio del mercante

«Già morta, già cosa, quando ancora dobbiamo viverla, la nostra epoca è sola nella storia e codesta solitudine storica influisce fin sulle nostre percezioni: ciò che noi vediamo “non ci sarà più”; si riderà delle nostre ignoranze, ci si indignerà delle nostre colpe. Quale risorsa ci rimane?» (Jean Paul Sartre)

Sono un vecchio delegato sindacale, uno di quelli che lo fa da vent’anni senza mai aver preso una lira. Mi occupo anche di sicurezza come rappresentante dei lavoratori. So cose, si direbbe. Mi formo e mi informo, ne ho la responsabilità, me la sono presa, non me l’ha ordinato il dottore. Sono pure uno che rompe abbastanza. Di quello che è successo ieri a Firenze ne ho parlato in altre sedi. Ci sono le cose che i giornali riportano, il giochino del cordoglio, le richieste di dialogo per chiudere le stalle mentre i buoi già corrono per i campi. C’è la logica del subappalto, gran risparmio, una certa leggerezza nell’affidare pezzi della produzione in terzocontismo, senza che sia ben chiara a tutti la catena dei processi. Corpi alieni nel ventre di una balena.

Tempo fa, non troppo, proprio a vista di casa mia, un tale che conoscevo appena, giusto un ciao al bar per le sigarette ed il caffè la mattina, è finito in una tramoggia, ha lasciato famiglia, un ragazzino complicato. Ho sentito le ambulanze, un certo frastuono. Dopo un paio di giorni la notizia è sparita, pure se già era solo roba da trafiletto. Come sparirà quella di Firenze fra qualche giorno, come sono spariti gli altri mille trafiletti dell’ultimo anno. Sono tornato ieri sera tardi da Firenze, c’erano momenti concitati, ovvia rabbia, occhi puntati su leggi fatte per far ricchi i più ricchi. Ogni tanto il morto ci scappa, ma finisce nella tramoggia anche quella notizia. Non succederà niente oltre la retorica della commozione dell’istante, il cordoglio unanime, il parliamone. Ma cosa ci sia da parlare non mi è mai stato chiaro, o meglio, mi è chiaro l’oggetto del contendere, non capisco perché bisogna parlare di certe ovvietà. Lo scontro è ideologico, non c’è vittima che tenga. Si dirà che ci vuole più formazione, più informazione. Si investirà tre centesimi in più su quello, il resto, si dirà, non c’entra.
Ma questa tragedia di Firenze ha però qualcosa di particolare, e non solo per il numero delle vittime. Ci riflettevo mentre cercavo di non investire i cinghiali sulla via del ritorno. Per la stessa strada provavo a non scivolare sul ghiaccio sino all’anno scorso, a non farmi cogliere dalla inevitabile tormenta di neve. In quest’inverno tropicale mi sono pure fermato ad oltre mille metri, in riva al bosco, per fumare con l’aria fresca. A Firenze si è consumata una metafora potente dell’oggi. I templi della merce vanno costruiti, non ce n’è mai abbastanza per deificare il consumo. Vi invito a guardare chi sono le vittime. C’è un signore che sino a qualche anno fa sarebbe già stato in pensione. Viene dall’Abruzzo, s’era spostato per lavoro probabilmente, e ne aveva accettato uno che non pare semplice. Non tornerà più a casa, nemmeno nella sua piccola provincia, per le festività, le vacanze estive, a salutare vecchi amici, i parenti. Gli altri sono nordafricani, un paio pare senza permesso di soggiorno. Sono quelli che facciamo finta di non vedere se annegano, che non vogliamo, che vorremmo cannoneggiare, poi sotto traccia ne usiamo le braccia per fabbricarci lustrini festosi, i luoghi divini del consumo, ché altri non s’adatterebbero a certe fatiche.
E quell’immenso tempio s’è fatto un detrito nella città della storia mortificata, sotto le sue macerie ancora le anime degli ultimi, quelli attaccati alla ricerca disperata d’una vita dignitosa con le unghie e coi denti, che non hanno nome, quelli che non saranno mai a Sanremo, nemmeno vinceranno uno slam. Domani è un altro giorno, la fila alla cassa non si esaurisce, in attesa delle rovine del prossimo tempio, delle nuove vittime sacrificali immolate al nostro shopping domenicale.

Il gioco del silenzio e quello delle parti

«Il termine totalitario, infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Essa preclude per tal via l’emergere di una opposizione efficace contro l’insieme del sistema. Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio partitico producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un pluralismo di partiti, di giornali, di poteri controbilanciantisi ecc.» (Herbert Marcuse)

Mentre il mondo si interroga su questioni fondamentali come chi ha vinto il televoto, mi sorge spontaneo il dubbio che s’è Chet fosse ancora vivo ed in discreto spolvero, salendo su tal palco di rilevanza artistica definitiva per suonare Almost Blue, non avrebbe che consacrato l’ultima sua posizione financo a gradimento di pubblico.

Ma l’ultima posizione è precisa, non dà adito ad equivoco alcuno. L’ultimo è ultimo, ed è tale perché non ha diritto di cittadinanza, non è donna, nemmeno uomo, giammai bambina o bambino. L’ultimo è ultimo. S’è messo in croce da solo. Peggio per lui che non va in vacanza a Portofino, che non si fece Jacuzzi, che non ebbe volontà alcuna di comprarsi una bella fuoriserie. È ultimo, basta, non paga tasse ché non ebbe un soldo, non fece evasore per scelta, scemo fino in fondo. Perché occuparsi di lui, di come viene bastonato selvaggiamente se non s’arrende allo sfruttamento? E non merita d’occuparsi d’ultimi, di morti ammazzati di bombe, si rischia ferocissima censura, stimmate d’infamia, manganellata precisa a meninge che pensa male.

Mi permetto sommessamente di parlar d’ultimo ché sono nessuno, e nessuno non è niente, si concede lusso di sfruttar d’essere un fantasma, di non contare, di non muovere bottoni. Di tali invece che decisero per tal modo d’agire a «dagli all’ultimo» ce n’è molti e molti assai di più. Solo che da taluni me l’aspetto, non mi stupisce, ci hanno DNA a riporto esatto di comportamenti precisi. Altri son peggio, che non dicono per non esser coinvolti, e a far finta di niente non si perde voto alcuno, al più c’è borbottio, bisbiglio sommesso, trasudazione di scarso intendimento, a mascherar di linguaggio dabbene l’identico «chissenefrega» dei primi. Ma, attenti, che a giocar gioco di parti spesso s’è sgamati, la storia non fa sconti, non sarete dimenticati da chi ebbe cuore e testa sua, e non per progetto eterodiretto si fece opinione a veste d’umanità. Ed anche se son solo pochi certuni che a detto agire non derogheranno, saranno critica durissima e credibile, che hanno sangue, sudore e lacrime per appartenenza a genere umano che, anche se non parve né ai primi nemmeno ai secondi, accolse in quanto tale anche l’ultimo degli ultimi e financo ogni nessuno.

«I deboli non combattono / quelli più forti lottano forse per un’ora / quelli ancora più forti lottano / per molti anni / ma quelli fortissimi lottano / per tutta la vita / costoro sono indispensabili.» (Bertolt Brecht).

Protezione navale

C’è stata stragettina, qualche giorno fa, una decina, forse più, si fecero cogliere da tormenta di mare e la barchetta non resse. Taluno fu superstite e raccontò i fatti. Non è dato a sapere a chi, c’era grande interesse d’altro, televoto a contestazione multipla, polemica su quale fa canzone che suona meglio. Nemmeno si parla del suicidio di Ousmane Sylla, di bimba che chiede aiuto per bomba in testa. E nemmeno io voglia di parlarne ne ho, pensate se ne ho di scrivere. E prendo cosa vecchia, a dedica di chi fugge, a dedica di chi non esiste se non per propria esclusiva consapevolezza di disperazione.

C’è non si sa quale soave mistero in questo mare, le cui movenze delicatamente tremende paiono dir d’una qualche anima che là sotto si celi… Ed è appropriato che sopra questi pascoli marini, sopra il vasto rollio di quest’acquee praterie, sopra questi campi del vasaio dei quattro continenti, le onde s’alzino e s’abbassino e fluiscano e rifluiscano incessantemente, poiché qui milioni d’ombre e di parvenze si mescolano, sogni annegati, sonnambulismi, fantasticherie e tutto ciò che chiamiamo vite e anime qui giacciono sognando, sognando, sempre…” (Herman Melville)

Pare che si faccia contraddizione autentica quella lastra piatta piatta che ho davanti stamattina. Non sono ancora le otto, qui, coi piedi a mollo sulla rena, mi guardo intorno e non vedo nessuno. Non soffia niente, non c’è un alito di niente. Pare tutto fermo.

Non c’è un suono che sia uno, nemmeno di risacca, corrente di marea. Fermo, tutto pare fermo. C’è solo quella piatta superficie che arriva all’infinito, e laggiù un’ombra che copre l’orizzonte, per tutta la sua lunghezza. Forse è libeccio che cerca uno spiraglio per passare, per tirare per aria sabbia rossa, farsi bufera e farla finita con tutto sto stare fermo, immobile.

Sto zitto, e con chi devo parlare che non c’è nessuno. Lontano c’è una nave, una di quelle grosse, s’è confusa con la macchia scura in fondo. Forse è una portacontainer, una di quelle cariche ad uovo, che non affondano mai tanto sono grosse, nemmeno se il fortunale la prende a sberle. Quella porta merce e la merce è sacra. Per quella si spende a metterla al sicuro, deve arrivarci dentro, farsi respiro, entrarci nel sangue e nei polmoni. Per quella c’è rigore, un tanto al chilo per protezione, e se il fortunale non intende ragioni, rema contro ché non conosce vizi obbligati, c’è qualche assicurazione che paga per un altro sbarco, a distanza breve dal previsto precedente. Che la merce mai ci deve mancare, quella la paghiamo a debito di sangue e sudore, che chi ce la vende non abbia a patirne assenza. La merce sempre ci arriva. E se non sei merce, e provi ad arrivare non ce la fai, pure se sei un bimbo da niente, che quella lastra piatta sempre così non è, ti rovescia la barca a colpo di tempesta, che quella manco a brezzolina leggera regge. C’è il caso che manco parti, che c’è ad impedimento di ultimo viaggio accordissimo di potenti, che a mare non s’annega, semmai crepa a sete e fame di deserto. E se ti scappa lo schiribizzo che arrivi, allora non sfuggi a destino esatto che diventasti merce pure tu, a far da schiavo fuori da occhio indiscreto.
Poi arrivò gente, fecero rumore di parlottio. Me ne vado.

“Il dramma è finito. Perché allora qualcuno si fa avanti?… Perché uno scampò al naufragio.
Capitò che dopo la sparizione del Parsi, io fui quello che i Fati destinarono a prendere il posto del prodiere di Achab, quando questo prodiere assunse il posto vacante; e io fui quello che, quando l’ultimo giorno i tre furono sbalzati in acqua dall’urto, cadde a poppa.

Così, galleggiando sul margine della scena che seguì, e dominandola tutta, quando il risucchio semispento della nave affondata mi prese, fui allora tirato, ma lentamente, verso il vortice che si chiudeva. Quando ci arrivai, s’era placato in un pantano di spuma. Torno torno, allora, e sempre attratto dal nero bottone della bolla, all’asse di quel cerchio che roteava lento, girai come un altro Issione. Finché, nel toccare quel centro vitale, la bolla nera esplose; e ora, sganciata dalla sua molla ingegnosa, e saltando a galla con forza per essere così leggera, la
cassa da morto-salvagente balzò quant’era lunga dal mare, ricadde, e mi galleggiò accanto. Sostenuto da quella bara, per quasi tutto un giorno e una notte, galleggiai su un mare morbido e funereo. Senza toccarmi, i pescicani mi guizzavano accanto come avessero lucchetti alle bocche; i falchi selvaggi del mare passavano coi becchi inguainati. Il secondo.210
giorno, una vela mi venne vicina, sempre più vicina, e mi raccolse alla fine. Era la Rachele che andava bordeggiando, e che nel rifare la sua rotta in cerca dei figli perduti, trovò solo un altro orfano.” (Herman Melville)

In attesa d’una noia altra.

Non mi pare di discernere più se d’infinita stanchezza ho da render responsabile strascichi d’anni che mi piombano in casa senza invito o quell’essenza primordiale che fa noia al cospetto del tutto solito e senza fine di coazione a ripetere.

Che pure di noia mi pascerei, pure a lungo, ma sol che sia io a sceglierne i confini esatti. Non di noia imposta m’aggrado, di quella insulsa noia operativa di mercenario che da trincea a trincea ha speranza che la prossima non sia l’ultima per cessata ostilità di nemico, o d’avvitatore di bullone a catena di montaggio per catena lunga ed infinita a volontà di burocrate bizantino e salario al minimo.

Pare che ad ora non vi sia che prender atto, attendere la sera per tiro inesausto di cicca e bicchiere di rosso senza fondo, a cancellare pensieri ostili, ché tanto quelli si ripresentano ad albeggiare proprio come seguono il ritmo che tocca a rotazioni terrestri. E ora s’accompagnano a fiacca che pare definitiva. E v’è in un gesto limitato solo desiderio profondo d’annoiarsi a modo di sé stessi, non per orgoglio produttivo, ch’io m’annoierei a rango di felicità sublime se m’acquietassi a semplice vista d’infinito da scoglio d’accoglienza, quale naufrago od esploratore che si cheta a meta conseguita, che non molla la presa quale mitilo tenace. E non di noia perirei in detto caso come per quella di reiterazione del gesto eterodiretto e constatazione del nulla che porta al nulla, con passaggio di consegna tra barbarie di merce e merce di barbarie che fa morto d’ammazzo che vendo di più e sfianco braccia e teste per sfruttamento ad libitum.

“La società, non per compassione, ma a causa delle proprie strane necessità, si era occupata di quei due uomini, vietando loro ogni pensiero indipendente, qualsiasi iniziativa, qualsiasi allontanamento dalla routine; e vietandoglielo pena la morte. Potevano vivere solo a condizione di essere macchine. E ora, sciolti dalla materna protezione di uomini con la penna dietro l’orecchio, o di uomini con galloni dorati sulle maniche, erano come quegli ergastolani che, liberati dopo molti anni, non sanno che farsene della libertà. I due non sapevano che farsene delle loro facoltà, essendo entrambi, per mancanza di pratica, incapaci di pensiero indipendente.” (Joseph Conrad)

Mi faccio fare compagnia da ricerca in divergenza di noia permanente, quella che è solo in chi perde la strada consueta determinata e necessaria ai più per dimenticare d’essere vivi, ché aver consapevolezza di strada obbligata induce pensieri assai malevoli verso il tutto d’intorno.

«A quel punto mi ero accorto che cercare era il mio destino, l’emblema di coloro che escono la notte senza alcuna precisa intenzione, lo scopo degli assassini di bussole.» (Julio Cortázar)

San Lento

San Quello Lì io non lo vedo. Nulla contro a chi invece se ne pasce e d’allegria si sollazza. Non penso che a casco di bomba, a crisi di sistema, a fatto che clima pare a pazzia pura si risponda con ascesi spirituale e collettiva prostrazione. Talora cenno di svago è cosa di legittimissima aspirazione e non me ne dolgo con asprezza di distacco. È che non lo capisco, non me ne viene gana di farmelo piacere. Non mi sconfinfera la canzonetta, pur se ammetto che taluna possa essere cosa ben fatta e pensata ad adeguato artistico valore. La verità è che mi subentra noia a dodici secondi, son cose che m’assonnano, m’irritano, mi angustiano a prime due note. E vivaddio che durano un paio di minuti o poco più. Ch’io adoro cose che durano una pestilenzialità di tempo e pure se finiscono ad libitum d’infinito, mi pare che durarono poco. E ve n’offro carrellata, che se avete pazienza di mettervi lì ve le ascoltate a mo’ di «che m’importa se ho da fare, ora mi faccio questo.»

Ché io ci ho vizio autentico, da che sono bambino, d’evitar di far cosa mordi & fuggi, anelo al bisogno di prendermela comoda, e se c’è suonata che dura impedimento d’ogni cosa altra, io ci vado a nozze pure se ci son solo fichi secchi, basta c’è da bere. Poi mi capita che se sento musica ci ho pure bisogno d’avvertire che taluno la suona e la suona con rispetto di tal altro che deve poi dar cambio a far nota a divergenza di quanto s’aspetta. E non mi manca desiderio che ad ascolto viene altro ancora che pare come primo che mi spiana la strada e mi fa cogliere sfumature che ad ascolto precedente non s’erano palesate. Ancora procedo a lunghezza, che con brani a numero ch’entrano a mano singola ci faccio durata di musica di tutto San Cosarello.

Sarà che c’è dipendenza di tale cosa mia dall’esser fatto a risma esatta di pescatore di scoglio, che fece d’attesa d’abbocco ragion d’essere propria, e che mette in detta attesa la prassi consueta della contemplazione. Senza contemplazione non s’apre orizzonte e nemmeno fu detta scelta di preferenza cosa di metafisica, ma proprio d’appagamento preciso di piacere estremamente materiale che materia, a mio dire, non pare cosa sgarbata e d’impraticabilità per costumanza morale.

Viceversa mi pare che attesa e contemplazione facciano far pace a sensi e natura senza impedimenti ed asprezze, procedano a dilatar pupille pure ad occhio serrato, pure a sturar narici per essenza di perfezione. Quello avviene senza distrazione di lustrino, si fa invece a sotto traccia e diventa percettibile sotto pelle per brivido intensissimo.

Ch’io non ci ho fretta che finisca certa cosa, sia che sia musica od altro, pure libro se è a finir presto mi abbandona a troppo niente, pure se niente è interessante. E mi capita di leggere recensione di libro che dice che è agile e si legge facilmente. E perché mai dovrei leggere facilmente un libro o quant’altro farmelo piacere a minutino pure ad ascolto? Che se non c’è neurone che si mobilita a lettura d’interstizi tanto vale che faccio parole crociate a sottofondo di ticchettio di sveglia, che tanto è uguale e non fa sorpresa. A me la sorpresa m’aggrada, pure se non anelo a fatti roboanti, ma a dettagli che si palesano uno ad uno, a far fittissima rete d’armonie cangianti, di parole spese bene a costruire orditi imperscrutabili, foreste di sensazioni che s’accompagnano a magnificenza con certi fiaschi di vini contadineschi il cui fondo rutila di percezioni fruttate e salmastre intuizioni.

Ed io non sono a pretesa d’esser condiviso a pensiero mio, non me ne faccio cruccio se c’è preferenza di grande kermesse armata a miliardo e presenza multipla rutilante. Ma mi vien da pensare che pare pensiero delegato, attrezzatura per anestetico di massa, arena di gladiatorume. Non ho critica radicale, è solo cosa che mi balugina in meningi forse sfatte, forse in procinto d’esser tali a breve.

Detto questo non faccio proselitismo, mai mi riuscì nemmanco ci provai, ma a sommesso consiglio fate partir la musica. Ch’io un poco ve l’ho offerta, che altra ce n’è in giro che insegna a guardar lontano, magari non a tutti, che forse altri lo sguardo ce l’hanno già altrove tanto son avanti. Io sono indietro, ho bisogno di tempo, pure d’un bicchier di vino.

Radio Pirata 64 (grande è il disordine sotto il cielo)

Ed arriva a farsi Sessantaquattresima puntatissima pure Radio Pirata che fa concorrenza durissima a grande kermesse che tutto paese di suonatori mette in fila appassionatamente a far tifo per capolavoro immortale, e questo forse vince, ma forse no, ma se si fa passaggio a passerella floreale è roba da commozione comunque che comunque vada è successo conclamato da critica e pubblico. Che c’è chi piange d’adorazione e chi invece piange ch’è allergico a fiore ad oltranza, pure c’è chi piange per grande disordine cosmico. Radio non teme sfida d’Auditel che ha pacchetto solido d’ascoltatore e per puntata in corso s’attrezza a palmares per consegna di premio per taglio di traguardo a man bassa d’ascoltatore.

E si comincia subito che si fece fuori buona parte di giovani collaboratori che si cerca nuove leve da lanciare in produttivissimo mondo di spettacolo che Radio Pirata è, a detta d’estimatori competentissimi ed esperti marketing pure social, trampolino perfetto per carriera bruciante ed aspirazione di diventare numero nessunissimo. Ecco che da cast emerge tal giovane talento cui si concede parola e si spera bene: «Non tutte le prigioni hanno le sbarre: ve ne sono molte altre meno evidenti da cui è difficile evadere, perché non sappiamo di esserne prigionieri. Sono le prigioni dei nostri automatismi culturali che castrano l’immaginazione, fonte di creatività.». (Henri Laborit)
Mi scuso con radioascoltatori che beccammo un altro che ha testa a favore di vento di scirocco, che straparla. Esperto di casting per Radio ha giorni contati che contratto cococo glielo faccio ad uso di doppio velo morbido ed avvolgente e lo metto ad addetto di pulizia WC a cottimo. Per far perdono collettivo vado di musica.

Si procede subito con notiziola che c’è blocco totale ad opera di cingolato che non fu carrarmato sovietico come a temenza passata bensì cosa semovente da campo. Fortuna è che c’è saggezza d’istituzione che dice che protesta è cosa buona e giusta e si fa concessione che s’usa pesticido ed ogni altro orpello che fa venir su zucca a forma di pallone tensiostatico. Così consumatore viene dissuaso a far passeggiata a favor d’aria buona e non lesina presenza sua a grande e grosso supermarket energivoro per acquisto ad oltranza, che passeggiata boschiva mai influenzò PIL. Che saggio governante capisce meriti di crescita economica a tutto spiano e pure a spiano tutto. E se taluno protesta per cambio di clima con lancio di zuppa precotta e blocco di striscia pedonale si fa ergastolo che non si blocca servizio. Che blocco di servizio non è assedio di detto cingolato, al più è ferrotramviere che fa a protesta che arrivo a fine mese pare più complicato che mezzo nuovo a prossima fermata. Per pretesa tale merita precetto di «ti presenti al lavoro o vai a pena d’ammenda pari a stipendio stesso moltiplicato per anni ad arrivare a pensione che è a fine pena mai.»

Sentiamo quest’altro che ce lo porti buono e non dica minkiate come ormai pare d’uopo a chi vuol successo facile con passaggio a Radio Pirata. «Io spero sinceramente per amore della posterità che, se la terra dovesse perdere quella beltà che deve alle cose, che un’accrescimento illimitato di ricchezze (…) farebbe estirpare onde alimentarne una quantità maggiore, cosa aderirebbe a rimanersi stazionaria assai prima che la necessità ve la obbligasse. (…) Vi sarebbe sempre un altro scopo per ogni specie di cultura mentale, e pei progressi morali e sociali; vi sarebbe luogo, come prima, a perfezionare l’arte della vita e vi sarebbe eziandio più facilità per farlo.» (John Stuart Mill) Niente, non ce la possiamo fare, pure questo pare ha cambiato spacciatore.

Va beh, si continua che pare non c’è scampo a delirio vario, ‘sti giovani non hanno più voglia di lavorare a mondo dello spettacolo con sacrifico di preparazione. Speriamo nelle donne. «Qualche volta ho la sensazione di non essere un vero e proprio essere umano, ma appunto qualche uccello o un altro animale in forma di uomo; nel mio intimo mi sento molto più a casa mia in un pezzetto di giardino come qui, oppure in un campo tra i calabroni e l’erba, che non… a un congresso di partito.

A lei posso dire tutto ciò: non fiuterà subito il tradimento del socialismo. Lei lo sa, nonostante tutto io spero di morire sulla breccia: in una battaglia di strada o in carcere. Ma nella parte più intima, appartengo più alle mie cinciallegre che ai “compagni”. E non perché nella natura io trovi, come tanti politici intimamente falliti, un rifugio, un riposo. Al contrario, anche nella natura trovo ad ogni passo tanta crudeltà, che ne soffro molto.» (Rosa Luxemburg) Ecco, un uccello si sente, ma io glielo dico ai giovani di lasciare stare le cose pesanti, fanno male.

Che vi devo dire, mi dispiace per ospite irrequieto e con poco sale. Ma non è che ad altra parte per megalitica kermesse c’è meglio assai. Vi lascio però con rinfreschino e musica che abbiamo budget elevatissimo. «È indispensabile che tutti gli esseri e tutti i popoli saggi della terra capiscano che pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale dell’alimentazione umana. Piatto peccaminoso per eccellenza perché comprende e semplifica il peccato rendendolo accessibile a chiunque. Piatto peccaminoso in quanto può significare un’alternativa a tutto ciò che è trascendente, a tutto ciò che è pericolosamente trascendente, se diventa cultura della negazione. Non fate la guerra ma pane e pomodoro. Non votate per la destra ma mangiate pane e pomodoro. No alla NATO e sì al pane e pomodoro. Ovunque e sempre. Pane. Pomodoro. Olio. Sale. E dopo l’amore, pane e pomodoro e un po’ di salame». (Manuel Vasquez Montalban) Il vino lo offre la casa🍷🍷.

Il viaggio pont(e)ificato

Venne il giorno dell’abbandono che il viaggio risultò assai periglioso e parve trasferimento in purgatorio con passaggio obbligato all’inferno. Tocca viaggiare in auto per l’isola, che l’aereo costa quanto un bivani in centro, ammobiliato, il treno è a far cambio ogni due o tre, ed a saltar coincidenza richiede un pernotto da stazione. Mi feci l’alba per la partenza e dopo due ore d’auto m’imbarcai per questa cosa sgradevolissima del traghetto. Mezz’ora a guardare il mare, un caffè al bar di bordo, due chiacchiere con altri partenti, taluni migranti par mio, altri turisti dell’occasione. A quell’ora pare tutto assai più bello, il mare dello Scill’e Cariddi s’è fatto blu d’improvviso, del colore scuro della notte pare aver perso memoria, e l’aria è tiepida. Poi comincia il serpentone, si snoda tranquillo sino a vista di Vesuvio, poi è boa constricor, tutto intasato, puzzo di catrame bruciato, incidenti a destra e manca, mi tocca d’uscire poca sopra il vulcano, farmi l’Appennino, a passo di lumaca è meglio che a star fermo e il paesaggio è assai più gradevole d’una permanente catena d’acciaio.

Ad Umbria fatta, ora che mi pareva mancasse poco a doccia e bicchiere di vino per magra consolazione, c’è un altro incidente a restringimento di carreggiata, sto bloccato, fermo impassibile per oltre un’ora. Pare roba grave che passa un’ambulanza poi un’altra, pattuglie della stradale, mezzi di pompieri. Meno male che ci fanno il ponte, non vorrei che ci si pigliasse vizio a quella tregua d’una mezzora vista mare. Il resto delle diciotto ore a tutta tirata, tutto sommato, son poca cosa.

Ma soprattutto si fa festa grande, che ponte farà a cessazione di cosa d’isola, vi riciclo cosa antica, per memoria di perduto amor di terra matria che s’appresta a diventar cosa altra, praticamente ferma a gancio, incementata che non ebbe abbastanza disgrazia, pare, che non gliene si doveva affibiare altra.

Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio”. (Manlio Sgalambro)

Mi capita tutte le volte che me ne vado da lì, a valigie non ancora pronte che struggo d’essere isola forse pure io.

Aveva voglia Nisticò a classificare i siciliani in siciliani di scoglio e di mare, gli uni abbarbicati al substrato come una cozza, un dattero, un riccio spinoso, incuranti della natura claustrofobica dell’appartenenza. Gli altri, con la valigia in mano, fermi non ci stanno, e appena la prima brezza lo consente, prendono il largo a vele gonfie. Ma tutti si portano dentro la stessa insularità, che è condanna del viaggio e nostalgia struggente per il porto di partenza. Solo che ai primi arriva subito, ci soffrono di più, basta che si mettano poco fuori l’uscio di casa, si vadano a sbrigare un documento nel capoluogo. I secondi, al più, con la lacerazione del distacco ci si sono abituati a convivere. Ma tanto tornano, prima o poi vedi se tornano e non passa minuto che con la testa non si organizzano per farlo. Mi pare che questo desiderio di ritorno sia proprio il risultato della paura atavica che l’isola non la ritrovi più, che qualcuno, mentre ti allontani giusto un attimo, se la possa portare via. Forse lo tsunami o li turchi, anche se – ed è evento inconfutabile -, qualunque cosa arriva, dopo un primo attimo di sgomento, gli si apre la porta di casa e, passati al più cinque minuti, ti scordi che è arrivata allora allora, e ti pare che sia lì da sempre, ci fai l’abitudine. Tuttavia, poiché non si sa mai ed a scanso di equivoci, metti in giro strane voci, che lì ci sono i Lestrigoni, i Lotofagi, forse Circe, che giù per lì Scilla e Cariddi hanno un brutto carattere, che quei sassi, isole essi stessi, ce li lanciano Ciclopi a basso tasso di socievolezza, e che le figlie di Kokalos avvelenano gli ospiti. Di più, se per ragioni di modernità te ne devi andare per qualche giorno, che ne so, a Poggibonsi, San Giovanni in Persiceto o a Cormano, saluti parenti e amici, fazzoletto in mano, come se stessi andando a sfidare i cannibali del Borneo.

Ad ogni buon conto, mettetela come vi pare, uno che nasce su un’isola sta già viaggiando. Perché il mare, tutto intorno, fermo non ci sta, e si muove di correnti e flutti, in definitiva, viaggia conto terzi. Non merita citare chissà chi per comprendere che il viaggio è una precisa connotazione antropologica, e pure se ha talune accezioni di ingegneria nautica, non è solo uno spostamento da e per. Alla fine “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)

Nell’insularità è connaturata la pigrizia più atavica, quella persino trascendente, che si fa connotazione definitiva ed archetipo illustrativo di genti. E del resto che ti agiti a fare se sei proprio dentro il gorgo più gorgo, il tutto che si muove permanentemente? Fatica sprecata. Per altri quella è ignavia, accidia, in realtà è saggia contemplazione del mondo che non sta fermo, dunque perché inseguirlo nell’apoteosi dell’operatività? Il mare vortica così tanto che ti fa dono ora del primato di paradiso terrestre, ora d’inferno in terra, né fu creato per compiacere chi vi si trova circondato senza scampo; inutile cercare di opporvisi. Se serve qualcosa, servissero tre secoli e più, prima o poi un’onda bislacca te la schiaffa davanti, spiaggiata a pancia rivolta al sole. Né si tratta d’un fiume che scorre in un unico verso, cosicché sai già cosa t’arriva a valle se conosci il monte. Il turbinio è pluridirezionale, dipende dalle stagioni, talora dall’umore nero della burrasca o talaltra accondiscendente d’un venticello virato a bonaccia. Sfidare quel tutto che si muove per provare a spostarsi in altra direzione è atto temerario. Ed in tutto quel bailamme agitato meglio star fermi giacché, prima o poi, da qualche parte arrivi, e se non arrivi – quella data parte, intendo – presto o tardi, t’arriva lei. Ma l’isola, quella, da dentro non te la togli nemmeno se ti metti a pizzo di montagna. Non c’è niente da fare, t’entra in valigia, col sale e tutto il resto.