In morte del grillo

«Bada, Grillaccio di malaugurio!… se mi monta la bizza, guai a te!…».
«Povero Pinocchio! Mi fai proprio compassione!…».
«Perché ti faccio compassione?».
«Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno».
A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutto infuriato e preso di sul banco un martello di legno, lo scagliò contro il Grillo parlante.
Forse non credeva nemmeno di colpirlo; ma disgraziatamente lo colse per l’appunto nel capo, tanto che il povero Grillo ebbe appena il fiato di fare crì-crì-crì, e poi rimase lì stecchito e appiccicato alla parete.
” (Le avventure di Pinocchio, Collodi)

Se ne vede di gente spiaccicata alle pareti, a destra e manca, poveri scemi che non vollero far di sé burattini obbedienti. Di manganelli e fermi a ragazzetti ce n’è a iosa, pure a rango più elevato si cheta con il «non parli», che il momento è greve. E tutt’intorno è stessa solfa, se persino al greco illustre si tolse parola a patria di welfare, e cugini d’oltralpe fanno uguale, che è proibito si menzioni strage continua. Termini per massacro non sono cosa di società civile, gli affari sono affari e se c’è crisi, massacro, invece, quello diventa di persona dabbene, che massacro fa levitar vendite di bomba, economia si risana così. Se non c’è virus malvagio e con occhio a mandorla, si faccia almeno repulisti sinché ce n’è di tal questo e tal altro a suon di bombarda a saldo di vendita. Quelli, i cattivi, fanno di censura loro arma pregiatissima.

E noi rispondiamo con arma assai più potente, che non venga messaggio che civilissima civiltà sia da meno a far che d’aggressione tremenda si taccia, per non guardare, non vedere, che ebbe tradizione d’espletamento grande e divertente di gioco delle tre scimmiette. La piazza affollata per pace non esiste, se non ha follower e mi piace di sufficiente numero non fece tempo a costituirsi parte civile che venne sciolta. Ma fu colpa di cinici e spietati, oppure i burattini che non s’avvidero che bomba e strage è a un passo preciso da loro, non ebbero occhi per vedere e plaudirono a pallon che rotola o a racchetta a cacciar mosche? Povera itaglia, povero mondo, che non c’è più acqua da bere, ma tanta ne viene giù precisa, ad annaffiar albero di legno giusto per fabbrica di burattino.
«La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché ha in sé l’eterna rinuncia del “dare a Cesare” e perché i suoi princìpi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che “‘Sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura.» (E. Vittorini, Il Politecnico n. 1, 29 settembre 1945)

Ancora a proposito di Alidoro

C’è da dire che taluni non paiono manco mastini incattiviti, coi quattro cenci addosso che ci hanno, e fame e disperazione, pure se ne auspica, con buona pace della brava gente e loro sicurezza, che facciano di boccata d’acqua salata ultimo sorso di vita. A noi ci rimane di dissertare su una succulente pesca, non a lenza a lancio di Pilu Rais, ma da banco di supermercato e frequentazione di famiglia per bene. Ma c’è pensiero frequente che ad aver più cuore basta che sei pezzo di legno che prese vita. Manco mi viene da dire, pensa che ti ripensa, meditate gente.

“Durante quella corsa disperata, vi fu un momento terribile, un momento in cui sentiva dietro di sé, alla distanza d’un palmo, l’ansare affannoso di quella bestiaccia. Si credé perduto: perché bisogna sapere che Alidoro (era questo il nome del can mastino) a furia di correre e correre, l’aveva quasi raggiunto. Basti dire che il burattino sentiva dietro di sé, alla distanza d’un palmo, l’ansare affannoso di quella bestiaccia, e ne sentiva perfino la vampa calda delle fiatate.

Per buona fortuna la spiaggia era oramai vicina, e il mare si vedeva lì a pochi passi.

Appena fu sulla spiaggia, il burattino spiccò un bellissimo salto, come avrebbe potuto fare un ranocchio, e andò a cascare in mezzo all’acqua. Alidoro invece voleva fermarsi: ma trasportato dall’impeto della corsa, entrò nell’acqua anche lui. E quel disgraziato non sapeva nuotare; per cui cominciò subito ad annaspare colle zampe per reggersi a galla; ma più annaspava, e più andava col capo sott’acqua.

Quando ritornò a rimettere il capo fuori, il povero cane aveva gli occhi impauriti e stralunati, e, abbaiando gridava:

– Affogo! affogo!

– Crepa! – gli rispose Pinocchio da lontano, il quale si vedeva oramai sicuro da ogni pericolo.

– Aiutami, Pinocchio mio!… salvami dalla morte!… –

A quelle grida strazianti il burattino, che in fondo aveva un cuore eccellente, si mosse a compassione, e voltosi al cane, gli disse:

– Ma se io ti aiuto a salvarti, mi prometti di non darmi più noia e di non corrermi dietro?

– Te lo prometto! te lo prometto! Spicciati per carità, perché se indugi un altro mezzo minuto, son bell’e morto. –

Pinocchio esitò un poco: ma poi ricordandosi che il suo babbo gli aveva detto tante volte che a fare una buona azione non ci si scapita mai, andò nuotando a raggiungere Alidoro, e, presolo per la coda con tutt’e due le mani, lo portò sano e salvo sulla rena asciutta del lido.

Il povero cane non si reggeva più in piedi. Aveva bevuto, senza volerlo, tant’acqua salata, che era gonfiato come un pallone. Per altro il burattino, non volendo fare a fidarsi troppo, stimò cosa prudente di gettarsi novamente in mare; e allontanandosi dalla spiaggia, gridò all’amico salvato:

– Addio, Alidoro; fa’ buon viaggio, e tanti saluti a casa.

– Addio, Pinocchio, – rispose il cane – mille grazie di avermi liberato dalla morte. Tu m’hai fatto un gran servizio: e in questo mondo quel che è fatto è reso. Se capita l’occasione ci riparleremo…. -” (Pinocchio, Carlo Collodi)

Falegnami si nasce.

A me sta cosa dei figli dei falegnami un po’ m’ha stuccato, secondo me se n’è fatta gran cagnara inutilmente. Che poi di figli di falegnami qualcuno che s’è fatto strada c’è, a dispetto di certi diktat. Ce n’era uno che si faceva bugiardo, legnoso e bagordante, ma che alla fine si fa accoltellare, bruciare, raggirare, inghiottire dal pescione, impiccare e quant’altro. S’avesse fatto il falegname come babbino suo caro, se la sarebbe scansata. Certo ce l’ha fatta a diventare protagonista pure di film, oltre che d’un libro che pare abbia avuto discreto successo di vendita, ma a che prezzo?. Tal altro, di carriera più luminosa, a fare il falegname come papà suo – pure se appena putativo – non ci pensò proprio, e si mise a camminare sulle acque, a moltiplicare pani e pesci, redimere meretrici, e guardate com’è finito, appeso malamente. Certo, pareva morto e sepolto e se ne andò in giro che non erano passati manco tre giorni, e pure la sua biografia ebbe discreto successo, ma ribadisco, mi pare a pagamento di scotto elevato.

Io m’astengo dal dare giudizio, ma una cosetta d’altro tempo ve la porgo, così, anche solo per celia. “C’è il rischio che le asimmetrie divengano eccessive, poi qualcuno finisce che si indispettisce e di teste calde in giro se ne trovano sempre, forse non come un tempo, ma qualcuna secondo me ancora c’è. Ci sono certe mie pulsioni in questi giorni no che ne sono la prova provata. Allora si deve trovare una sintesi, bisogna mettersi d’accordo, appunto. Che poi c’è rischio che uno se la canta e se la suona.

Ragioniamo, dunque, come si compete tra persone civili, tra gente di buon senso. È vero che esistono profonde diseguaglianze, di classe intendo, tra le persone. Che non si tiri però fuori la solita solfa di quel due per cento che detiene il sessanta per cento, eccetera eccetera. A che serve rivangare, è roba da secolo decimonono, mica da gente di questi anni frenetici, gente per bene che pedala, che “fa”, che si impegna e che vuole tornare a fare. Bene, chiarito questo però alcuni puntini sulle i, con discrezione, si intende, io magari li metterei. Va bene che madama la marchesa alla Zona di Espansione Nord non ci va a stare e preferisce il suo castelletto con vista sul lago; mi sta anche bene che il commendatore Ciccio Bombo non prenda in affitto una soffittella semi arredata con vista sulla discarica appena appena sorta dal nulla nella Suburbia a Sud, giacché, giustamente, come dice lui, s’è appena arredata la villa a quattro piani con vista sul golfo, da cui si gode il panorama da sufficiente distanza perché si perda il dettaglio della quinta del promontorio degli abusivi. Mi sta bene che anche il viceversa non sia consentito e non per libera scelta di quelli che stanno a ZEN e Suburbia, ma direi per qualche resistenza altrui. Vi ripeto, mi sta bene, non mi lamento, col mio stipendio mi merito un bilocale né pretendo l’attico, quello con le piante carnivore che si mangiano i giardinieri – che poi di questi tempi è così difficile trovarne di bravi – e la terrazza da cui si domina il mondo, che ti serve il monopattino per andare da una stanza all’altra, che ci puoi giocare a tennis in bagno, pure in doppio! E se la signora contessa non farebbe mai a cambio consentendomi di usare le sue stanze affrescate da antichi schiavi, la capisco, non gliene faccio torto… Per parlare d’altro, è vero che la signora Pinco de Pallis, in virtù dei suoi conti monegaschi e caimaneschi mai e poi mai acconsentirà d’andarsi a scegliere nylon made in Taiwan nel mercoledì del mercato, né – mi pare di poterlo asserire senza tema di smentita – il buon cavaliere, che è il re delle maniglie delle porte blindate, il suo doppio petto blu, con l’aria condizionata incorporata e il certificato sartoriale rilasciato dal notaio, se lo comprò al “butto fuori tutto e chiudo”. Io queste cose le capisco e se anche non ho fatto il militare a Cuneo sono uomo di mondo, me ne faccio una ragione. Pure se il viceversa è sostanzialmente non consentito per ragioni che tralascio, queste sono cose che accetto. I miei maglioni con l’etichetta su cui c’è scritto, con ricco ricorso a simbologie assai criptiche, che è meglio che li lavi a mano, anzi è meglio se non li lavi proprio perché non si sa mai, mica pretendo che se li metta il venerato conte, col rischio che la sua epidermide elegantemente colorata da delicate lampade UV se ne potrebbe avere a male, ribellandosi e producendosi in un effluvio di pustole e pustolette. Quelle sono cuti per bene, altro che la mia rozza copertura che certo non si ribella giacché a certi tormenti è ormai adusa. Mi sta bene, vi dico che mi sta tutto bene, anche il categorico divieto del viceversa… Tuttavia, proprio per pareggiare i conti – la qual cosa, se volete, potrebbe anche essere interpretata come il modesto tentativo di una pacificazione globale – proporrei che si cominci a mettere dei divieti a certi viceversa letti in senso antiorario. Allora, mia cara madama la marchesa, signor comm, egregio presidente, gentile cav., facciamo una cosa, da oggi voi mangiatevi pure le vostre tartine al beluga, con la salsina di Richelieu, bevetevi i vostri Cabernet che tanto a me il mutuo alla posta per pagarmene una bottiglia non me lo danno. Fatevi fare dallo Chef che vi piace tanto – quello col ristorante che per mettere in vetrina i cappelli beccati dai forchettivendoli di certi almanacchi ci vuole la cappelliera, e per pagare il conto dovete fargli un bonifico “estero-estero” – il cervello di cavalletta in gelatina di alghe del lago della foresta del Cippo Lippo, se vi pare, Ma giù le mani dall’acquacotta, dalla caponata, dalla panzanella, dalla sarda al beccafico, dal lampredotto; da oggi, e per sempre, ex legis non v’è più consentito. Salvo che tutto il resto dei viceversa proibiti non vi risulti un prezzo eccessivo da pagare, ed allora però si rimette tutto in discussione e vi tocca di socializzare l’ultimo Barolo che avete preso all’asta al prezzo di un bivani in semiperiferia, e vi tocca di vedere se quel pezzo di tartufo bianco, prima di grattarvelo sull’ovetto, in quel bivani c’è qualcuno che lo vuole condividere.”

Nessuno tocchi Alidoro

C’è da dire che taluni non paiono manco mastini incattiviti, coi quattro cenci addosso che ci hanno, e fame e disperazione, pure se ne auspica, con buona pace della brava gente e loro sicurezza, che facciano di boccata d’acqua salata ultimo sorso di vita. Semmai c’è pensiero frequente che ad aver più cuore basta che sei pezzo di legno che prese vita. Manco mi viene da dire, pensa che ti ripensa, meditate gente.

“Durante quella corsa disperata, vi fu un momento terribile, un momento in cui sentiva dietro di sé, alla distanza d’un palmo, l’ansare affannoso di quella bestiaccia. Si credé perduto: perché bisogna sapere che Alidoro (era questo il nome del can mastino) a furia di correre e correre, l’aveva quasi raggiunto. Basti dire che il burattino sentiva dietro di sé, alla distanza d’un palmo, l’ansare affannoso di quella bestiaccia, e ne sentiva perfino la vampa calda delle fiatate.

Per buona fortuna la spiaggia era oramai vicina, e il mare si vedeva lì a pochi passi.

Appena fu sulla spiaggia, il burattino spiccò un bellissimo salto, come avrebbe potuto fare un ranocchio, e andò a cascare in mezzo all’acqua. Alidoro invece voleva fermarsi: ma trasportato dall’impeto della corsa, entrò nell’acqua anche lui. E quel disgraziato non sapeva nuotare; per cui cominciò subito ad annaspare colle zampe per reggersi a galla; ma più annaspava, e più andava col capo sott’acqua.

Quando ritornò a rimettere il capo fuori, il povero cane aveva gli occhi impauriti e stralunati, e, abbaiando gridava:

– Affogo! affogo!

– Crepa! – gli rispose Pinocchio da lontano, il quale si vedeva oramai sicuro da ogni pericolo.

– Aiutami, Pinocchio mio!… salvami dalla morte!… –

A quelle grida strazianti il burattino, che in fondo aveva un cuore eccellente, si mosse a compassione, e voltosi al cane, gli disse:

– Ma se io ti aiuto a salvarti, mi prometti di non darmi più noia e di non corrermi dietro?

– Te lo prometto! te lo prometto! Spicciati per carità, perché se indugi un altro mezzo minuto, son bell’e morto. –

Pinocchio esitò un poco: ma poi ricordandosi che il suo babbo gli aveva detto tante volte che a fare una buona azione non ci si scapita mai, andò nuotando a raggiungere Alidoro, e, presolo per la coda con tutt’e due le mani, lo portò sano e salvo sulla rena asciutta del lido.

Il povero cane non si reggeva più in piedi. Aveva bevuto, senza volerlo, tant’acqua salata, che era gonfiato come un pallone. Per altro il burattino, non volendo fare a fidarsi troppo, stimò cosa prudente di gettarsi novamente in mare; e allontanandosi dalla spiaggia, gridò all’amico salvato:

– Addio, Alidoro; fa’ buon viaggio, e tanti saluti a casa.

– Addio, Pinocchio, – rispose il cane – mille grazie di avermi liberato dalla morte. Tu m’hai fatto un gran servizio: e in questo mondo quel che è fatto è reso. Se capita l’occasione ci riparleremo…. -” (Pinocchio, Carlo Collodi)

Nero Pinocchio (Allonsanfàn parte quattordicesima: Raffaello De Vito)

Le atrocità sollevano un’indignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono “more”, “sudice”, dago. Questo fatto illumina le atrocità non meno che le reazioni degli spettatori. (…) L’affermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom. Della cui possibilità si decide nell’istante in cui l’occhio di un animale ferito a morte colpisce l’uomo. L’ostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – “non è che un animale” – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il “non è che un animale”, a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dell’animale. Nella società repressiva il concetto stesso dell’uomo è la parodia dell’uguaglianza di tutto ciò che è fatto ad immagine di Dio. Fa parte del meccanismo della “proiezione morbosa” che i detentori del potere avvertano come uomo solo la propria immagine, anziché riflettere l’umano proprio come il diverso”. (Theodor Adorno)

Raffaello De Vito è fotografo raffinato, dotato di grande tecnica, padronanza degli strumenti. Ma non ne fa uso consueto, non ricerca perfezione d’immagini e basta, studia, concepisce, elabora narrazioni complesse. Il suo “Nero Pinocchio”, in mostra prima a Basilea, poi all’Altelier di Modica Alta (Luglio-Settembre 2022), è il recupero della vicenda del burattino secondo una rilettura analitica e controcorrente – o forse spietatamente corretta – delle pagine di Collodi, attraverso il filtro efficacissimo della sua trasposizione televisiva di Comencini.

Il burattino di De Vito si riappropria di atmosfere gotiche, minimaliste, sopite allo sguardo da trascorsi rassicuranti e consueti, come nelle illustrazioni “educative” del Dorè, o filmiche, manichee, edulcorate delle animazioni disneyane. Denuncia l’inadeguatezza di quelle rappresentazioni, disdegna con sguardo arguto l’idea del burattino che diviene finalmente bimbo in carne ed ossa solo dopo un percorso di crescita di consapevolezze cash & carry. De Vito centra la quinta scenografica della vicenda nell’estremo miserabile del mondo degli ultimi, ma non ne fa riproposizione compassionevole, pietistica. Ne disvela piuttosto l’essenza materiale, non indugia in infingimenti, nemmeno produce moralismi.

Il suo Pinocchio, come quello di Comencini, attraversa l’orrore della violenza (le torture di Abu Ghraib, la grottesca umiliazione dei prigionieri chiusi in sai pinocchieschi, appunto), è vittima di giustizie ingiuste (il carabiniere non ha sguardo umano, è solo divisa, financo nello sguardo), attraversa l’effimero eldorado del paese dei balocchi, la sconfinata illusione d’una vita altra, viene ingannato, vilipeso. Pinocchio, dunque, nella narrazione di De Vito, è burattino per sempre, vittima assoluta, paga pegno per la sua deviazione dal consueto. È personaggio contemporaneo, si riaffaccia all’oggi nelle parallele forme del migrante, con le sue identità annullate, marginalizzato, respinto, vilipeso, torturato, sfruttato, ridotto a clandestinità permanente. Il Gatto e la Volpe dialogano negli abiti più consoni al loro ruolo di predatori, non solo di qualche moneta, d’umanità. Sono gli incappucciati del Ku Klux Klan, paiono divertirsi nel pianificare la caccia all’ultimo, la sua definitiva marginalizzazione. I volti celati nascondono nature social, di piazza virtuale che urla a nuove, abbondanti impiccagioni, crocifissioni. Mangiafuoco è convitato di pietra d’ogni immagine, non è soggetto riconoscibile, non è immagine precisa in quanto sistemico, artefice del circo della filiera lunga, massimizzatore di profitti, si nutre dei nuovi schiavi. È il 100% italiano che esclude da tracce percentuali nazionalità di braccia invisibili, corpi depredati. Pinocchio è bracciante senza nome, sconta identità sottratta, corpo dimenticato, spiaccicato sui prodotti dell’”eccellenza” a cottimo, un tanto al chilo, archetipo illustrativo d’operare di caporalati collettivi. C’è più di qualche congruenza in “Nero Pinocchio” con l’essenza stessa dell’originale collodiano, se ne coglie il ribaltamento paradigmatico della visione consueta, in un certo senso la narrazione è compiuta, con la sua vertigine dialettica. Come per un fiume carsico De Vito fa riemergere la critica profonda a realtà che parevano dimenticate, da quel tempo di secolo nobile, e che, invece, sopravvivono, invisibili, sotto traccia, spaventose come allora.

Raffaello De Vito nasce a Mirandola nel 1967. Vive e lavora come fotografo pubblicitario a Reggio Emilia. Si avvicina alla fotografia all’età di 12 anni e a 14 inizia il suo percorso formativo in uno studio di fotografia pubblicitaria, esperienza che lo porterà a confrontarsi con diversi professionisti del settore e con importanti aziende presenti sul mercato internazionale. Alla fine degli anni Ottanta inizia una collaborazione come assistente alla produzione con Luigi Ghirri, collaborazione che si interrompe nel 1991 con la prematura scomparsa del grande fotografo e che ha dato inizio a una ricerca visiva che esplora ancora oggi.
Un costante lavoro di semplificazione, di sottrazione e di sintesi verso un linguaggio universale immediatamente comprensibile. Ha al suo attivo diverse esposizioni in Svizzera, Francia, Spagna, Inghilterra e Italia oltre a numerose pubblicazioni nei siti web di tutto il mondo.

http://www.raffaellodevito.com/

Ancora sulle gambe corte

Che le coincidenze, pure se ce n’è solo una non me ne avvedo, o sogghigno per la trovata casuale. Se ne trovi due, ti sgomenti appena, al tre fai che diventa indizio. Così, allorché microbi a sfare – taluni che paiono alieni – s’aprono cataratte equatoriali, tal’altre – le cataratte, intendo – s’accomodano sull’uscio di casa, ti bussano alla porta, mi sconvolgono lo scoglio natio, che pare ce le hanno mandate Scilla mano nella mano con Cariddi. E mentre tutto ciò segnala l’evento, si scampanella l’allarme, s’apre la marcia di pifferai magici, passerellanti a scartamento ridotto a dir mai più. Come dire, al fatto si risponde, purché sia, ma non di fatto s’accende la mischia, più pare taglio del nastro all’incubo costruttivo destrutturato a nuovo. Che mi viene, di converso, di ricitarmi, come ormai mi capita spesso, che m’annoia mettermi a pensare troppo a cose nuove, che d’ozio e pigrizia feci divinità totemiche.

“’Non si dicono le bugie’, che è cosa che ci siamo sentiti dire spesso, quando ancora l’età della ragione non ci spinse a rivedere certi consigli in modo critico. In questi momenti che ciascuno dice la sua, tra chi sparge panico al terror bianco e chi invece urla al magacomplotto ed invoca la Spectre, come minimo qualcuno mente, o come si dice ai più piccoli, “dice le bugie”. Ma ad essere sincero io le bugie non le dico, non tanto perché sia convinto dell’immoralità dell’agire mentendo pur sapendo di mentire (non siedo su scranni alti io, né vi aspiro, dunque sono privo di vincoli etici in tal senso), quanto per l’orrenda fatica che ti spinge a tenerle a mente tutte, sì da poterne difendere almeno l’impianto generale, all’uopo. Semmai, talvolta, si può sottacere la verità, rifugiandosi dietro un “non ci ho fatto caso”, oppure un “ma non l’avevo detto?”, buttato lì, quasi fosse una cosa che non ci appartiene. La bugia in sé, invece no, è faticosa e me ne sono persuaso. E, nel tentativo velleitario di scoprire chi la dice – o almeno la spara più grossa – mi rattristo di tanto attivismo diffuso, perché mi sa che da una parte all’altra del fronte, le gambe corte sono roba assai frequente. Pur in tale mesto convincimento personale, se c’è una storia che mi piace, è quella di Pinocchio.

Poco più che bimbo ne vidi la rappresentazione di Comencini in TV, musica da favola di Fiorenzo Carpi, la fata Turchina la faceva Gina Lollobrigida e mastro Geppetto era Nino Manfredi, mica pizza e fichi. E mi piaceva Pinocchio non solo perché si permetteva le sue bugie, sgamato al naso, ma soprattutto perché era fatto di materiale di risulta, riciclato da ceppi esausti, manco Greta si sarebbe spinta a tanto. Neppure Lisenko e la sua generazione del proletariato (ma tifavo Oparin a mani basse) dalla materia inerte l’avrebbe concepito, roba che la Prima Internazionale era un raduno di boy scout. Comunque, mi rimetto a leggere vecchie riviste, perché nel bel mezzo di nuove ondate pandemiche così ci si sollazza. Ad una sono abbonato e ci ritrovo questa cosa su Carlo Collodi, gigantesco protagonista della nostra storia letteraria la cui biografia è stata spesso pregna della grande accusa che si contrapponeva all’ammissione del suo genio imperituro: Collodi era un pigro. A parte il fatto che quella che per altri è un’accusa infamante per me è attestato di merito, ritrovo nelle vecchie pagine uno scritto di Eugenio Checchi che spiega l’abbandono del lavoro da parte dell’amico Carlo Collodi: “Non fu, come pareva agli amici ingannati dall’amabile scetticismo di Carlo, effetto di gradita pigrizia, nella quale egli diceva di sdraiarsi tanto volentieri dopo un trentennio di lavoro fecondo. Fu invece un più serio concetto dell’arte, che negli anni della tranquilla meditazione gli s’era venuto svolgendo nella mente, fissando visi come meta luminosa che egli sentiva di non poter raggiungere. Tutte le nuove scuole letterarie – scuole per modo di dire – rampollate dal settanta in poi, e battezzate da se stesse rinnovatrici del gusto, e ricreatrici d’una prosa dei nostri vecchi come il cavolo a merenda, indussero Carlo in errore; dovere egli e gli scrittori del tempo suo cedere il posto ai più giovani, ai più baldanzosi (…) Onde perplesso dapprima, sfiduciato poi, nella certezza che la torbida generazione affaccendata non si curasse più di ridere. (…) Felice errore…”. Cosa posso aggiungere, a parte che certe cose dovrebbero essere scritte oggi e non ricercate nelle pagine ingiallite della seconda metà dell’Ottocento, se non una piccola considerazione: ‘che bella una bugia, quando è così manifesto che lo sia’. Ma anche, quale nota al margine d’una ricerca imperfetta: ‘diffidate dei pigri, potrebbero non essere tali’”.

Le gambe corte

“Non si dicono le bugie”, che è cosa che ci siamo sentiti dire spesso, quando ancora l’età della ragione non ci spinse a rivedere certi consigli in modo critico. In questi momenti che ciascuno dice la sua, tra chi sparge panico al terror bianco e chi invece urla al magacomplotto ed invoca la Spectre, come minimo qualcuno mente, o come si dice ai più piccoli, “dice le bugie”. Ma ad essere sincero io le bugie non le dico, non tanto perché sia convinto dell’immoralità dell’agire mentendo pur sapendo di mentire (non siedo su scranni alti io, né vi aspiro, dunque sono privo di vincoli etici in tal senso), quanto per l’orrenda fatica che ti spinge a tenerle a mente tutte, sì da poterne difendere almeno l’impianto generale, all’uopo. Semmai, talvolta, si può sottacere la verità, rifugiandosi dietro un “non ci ho fatto caso”, oppure un “ma non l’avevo detto?”, buttato lì, quasi fosse una cosa che non ci appartiene. La bugia in sé, invece no, è faticosa e me ne sono persuaso. E, nel tentativo velleitario di scoprire chi la dice – o almeno la spara più grossa – mi rattristo di tanto attivismo diffuso, perché mi sa che da una parte all’altra del fronte, le gambe corte sono roba assai frequente. Pur in tale mesto convincimento personale, se c’è una storia che mi piace, è quella di Pinocchio.

Poco più che bimbo ne vidi la rappresentazione di Comencini in TV, musica da favola di Fiorenzo Carpi, la fata Turchina la faceva Gina Lollobrigida e mastro Geppetto era Nino Manfredi, mica pizza e fichi. E mi piaceva Pinocchio non solo perché si permetteva le sue bugie, sgamato al naso, ma soprattutto perché era fatto di materiale di risulta, riciclato da ceppi esausti, manco Greta si sarebbe spinta a tanto. Neppure Lisenko e la sua generazione del proletariato (ma tifavo Oparin a mani basse) dalla materia inerte l’avrebbe concepito, roba che la Prima Internazionale era un raduno di boy scout. Comunque, mi rimetto a leggere vecchie riviste, perché nel bel mezzo di nuove ondate pandemiche così ci si sollazza. Ad una sono abbonato e ci ritrovo questa cosa su Carlo Collodi, gigantesco protagonista della nostra storia letteraria la cui biografia è stata spesso pregna della grande accusa che si contrapponeva all’ammissione del suo genio imperituro: Collodi era un pigro. A parte il fatto che quella che per altri è un’accusa infamante per me è attestato di merito, ritrovo nelle vecchie pagine uno scritto di Eugenio Checchi che spiega l’abbandono del lavoro da parte dell’amico Carlo Collodi: “Non fu, come pareva agli amici ingannati dall’amabile scetticismo di Carlo, effetto di gradita pigrizia, nella quale egli diceva di sdraiarsi tanto volentieri dopo un trentennio di lavoro fecondo. Fu invece un più serio concetto dell’arte, che negli anni della tranquilla meditazione gli s’era venuto svolgendo nella mente, fissando visi come meta luminosa che egli sentiva di non poter raggiungere. Tutte le nuove scuole letterarie – scuole per modo di dire – rampollate dal settanta in poi, e battezzate da se stesse rinnovatrici del gusto, e ricreatrici d’una prosa dei nostri vecchi come il cavolo a merenda, indussero Carlo in errore; dovere egli e gli scrittori del tempo suo cedere il posto ai più giovani, ai più baldanzosi (…) Onde perplesso dapprima, sfiduciato poi, nella certezza che la torbida generazione affaccendata non si curasse più di ridere. (…) Felice errore…”. Cosa posso aggiungere, a parte che certe cose dovrebbero essere scritte oggi e non ricercate nelle pagine ingiallite della seconda metà dell’Ottocento, se non una piccola considerazione: “che bella una bugia, quando è così manifesto che lo sia”. Ma anche, quale nota al margine d’una ricerca imperfetta: “diffidate dei pigri, potrebbero non essere tali”.