Scorreva piano

“Dalla creazione del mondo, la barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progresso. Nel corso dei secoli, l’abbiamo soltanto ricoperta con una mano di vernice, nient’altro.” (Jack London)

Pure vi fu scoperta clamorosa che quella mano di vernice non servì solo a ricoprire la rugginosa natura dell’uomo, la sua permanente decadenza allo stadio più degenerato, era pure tossica. Ché pare, l’uomo, l’unica creatura che anela al proprio stesso sterminio ed ogni animale, dalla più screanzata delle meduse che sbeffeggia il tutto d’intorno coi suoi tentacoli urticanti, sino all’elegante zebra, guarda quella strana creatura con sospetto in permanenza, quasi vi si legge nello sguardo desiderio salvifico che faccia in fretta a condurre a termine la sua opera innata, a sospiro di sollievo di resto del creato. Me ne sovvenne certezza di detta mia sensazione ad osservazione precisa del fiume che mi scorre ai piedi e che ora non vedo più, rigagnolo putrescente lì dove un tempo fece storia di memorie dantesche, sostentamento d’interi popoli. Oggi, a consultazione precisa di corrente sua in forma di sputacchio, non condurrebbe bottiglia con messaggio al mare mio adorato. Si rifiuterebbe per stanchezza di sostenere peso ulteriore, nemmeno, credo, mi concederebbe la promessa di provarci che m’ascrisse alla specie che lo prosciugò e ridusse a vena d’infinita stanchezza. A far quattro chiacchiere non credo basterebbe a far cambio d’idea, che par rassegnato a lambire civiltà morente, e se anelito di vita vi scorre dentro è pure ad esso quello di speranza d’estinzione di massa di suddetta specie di barbara essenza.

Oggi lessi con frastornata distrazione ultime notizie, tali che mi fecero venir voglia di farmi fiume secco pure io. A guerra non c’è scampo che se taluno vuole e propone pace è a venir d’orticaria che viola patto precostituito, e a corsa ad armo di bombarda tutti si fanno a chi primo arriva che non si dica che non partecipammo a destino glorioso d’estinzione di massa, quale dinosauri goffi di ubriacatura. Altro disgraziato a fascio morì d’annego che notizia non fu tale più, a giornalettume preoccupa che non si giunga a pace e che, dunque, s’intraveda scorcio per chiacchiera su banca che quella pure affoga per mio ostinato ed incomprensibile chissenefrega. C’è promessa di salvataggio per caveau che a farla breve si riempie di provento di bomba, per morir d’annego non si fece barriera di salvataggio che liberissimi si è a non partire per morir di fame o sotto colpo di cannone. E a secco di fiume risposi che a barchetta per navigazione paciosa sostituirò infradito che bastò a sostegno di corrente.

“Al largo, cielo e mare erano saldati senza una giuntura e nello spazio luminoso le vele conciate delle barche che salivano con la marea sembravano immobili fastelli rossi di tele appuntite tra luccicori di aste verniciate. Sulle rive basse che correvano piatte a perdersi nel mare si era posata una nebbia leggera.” (Joseph Conrad) Quella, la nebbia, si fece d’improvviso pesante come cintura di piombo.

Non ne sapevo nulla

Che questo è il paese nostro, posto magico che vive a pari di paese di lotofago, immemore e manco accorto di ciò che è a sottonaso. Neppure migliorissimi e meritevolissimi paiono ad essere capaci di fuga a tale malasorte, che a rivendicarla si fanno piuttosto fieri, per rappresentanza esatta di proprio popolo. A digrigno serrato e cattivo di mascella contro virus, pure contro malcapitato che va a morte d’annego, pare, per incoscienza ereditata, a tutti si grida No pasarán! E poi, a morto fatto, a cosa precisa di sfilza di bare, allora come ora, pare che nessuno disse nulla ed avvisò. Organizzazione d’avviso è cosa che non appartiene a nessuno, che ascolto non è cosa che è a riguardo d’alto bordo, che ad altre faccende pare capo in testa affaccendato. Ed io, invece, a memoria tengo fatto luttuoso che di fior di loto mi feci d’antidoto precisissimo e a tal uopo non dimenticai, che talora, invece, vorrei.

Salirono da tre passerelle, salirono come una fiumana sospinta dalla fede e dalla speranza del paradiso, salirono con uno scalpiccio soffice e continuo di piedi scalzi, senza una parola, senza un sospiro, senza nemmeno voltarsi indietro; e quando non furono più trattenuti e incanalati dai corrimano di legno, sciamarono in tutte le direzioni sul ponte, fluirono a poppa e a prora, si ingolfarono nelle gole buie dei boccaporti, riempirono gli interni recessi della nave, come l’acqua quando scende nelle cisterne, come l’acqua che filtra nei crepacci e nei canali di scolo, come l’acqua che giunge silenzioso fino all’orlo di un abisso.

Erano ottocento tra uomini e donne, e si erano radunati lì, con il loro carico di fede e di speranza, di affetti e di ricordi, venendo dal Nord e dal Sud e dai più lontani recessi dell’Est, dopo aver camminato per settimane e mesi lungo i sentieri della giungla, dopo aver disceso fiumi, costeggiato in praus i bassifondi del mare d’Oriente, dopo essere passati a bordo di piccole canoe da un’isola all’altra, attraverso mille sofferenze, lungo paesi stranieri, in preda ad oscuri timori, sospinti da un desiderio unico.

Venivano da solitarie capanne sperdute in zone selvagge, da popolosi kampong, da villaggi sulle rive del mare. Cedendo alla suggestione di un’idea, avevano abbandonato le loro foreste, le loro campagne, la protezione dei loro governanti, la loro ricchezza, la loro povertà, i luoghi della loro giovinezza, le tombe dei loro padri.

Arrivavano coperti di polvere, di sudore, di sudiciume, di stracci, gli uomini forti e vigorosi alla testa di ciascun gruppo familiare, i vecchi cadenti che si trascinavano senza alcuna speranza di ritorno.

E vi erano ragazzetti dagli occhi sfrontati e dallo sguardo curioso, timide fanciulle dagli ispidi capelli lunghi, donne spaurite imbacuccate dalla testa ai piedi che si stringevano al seno bimbi addormentati, avvolti in un lembo cadente del velo, inconsci pellegrini di una fede inesorabile”. (Joseph Conrad)

Conosco delle barche

La traversata era cominciata e la nave, come un frammento staccato dalla terra, correva solitaria e rapida come un piccolo pianeta. Intorno ad essa gli abissi del cielo e del mare si univano in una irraggiungibile barriera. Una grande solitudine sembrava avanzare tutt’intorno con la nave, sempre mutevole e sempre eguale ed eternamente monotona ed imponente. Di tanto in tanto un’altra vela bianca errante carica di vite umane appariva lontano e spariva diretta verso il suo destino.
(Joseph Conrad)

Ora sono solo numeri, numeri sparsi, oltre i necrologi, mentre è discussione accesa sul nulla che avvolge l’ultimo naufragio, solo ieri. Quello, il naufragio, non c’è più, forse non c’è mai stato, non se ne sente il bisogno, non v’è necessità se non a dimensione di trafiletto scordato.

Pure, il porto salvo, era lì, che ci sono tali che a forza di braccia fanno tratti più lunghi, roba da applausi, record e medaglie. Il corpo sfinito dalla fuga infinita non regge. Sei uomini, tre donne, una è incinta, un’altra è giovane, ha perso i sensi per fame, sete, freddo, teneva tra le braccia il suo bambino, scivolato via, finito inghiottito dalle onde. Questi sono quelli che non ce l’hanno fatta per ultimi, ed il racconto dei sopravvissuti si fa cosa che non si descrive con semplice strazio. Altre anime vedranno quanto è profondo il mare, Altre bare le attendono, ci sarà legno per farne ancora, useremo i relitti spiaggiati poi passeremo alla plastica, ricicleremo, che ci piacciono le economie circolari, il vuoto a rendere. Chissà chi vince il festival.

Conosco delle barche
che restano nel porto per paura
che le correnti le trascinino via con troppa violenza.
Conosco delle barche che arrugginiscono in porto
per non aver mai rischiato una vela fuori.
Conosco delle barche che si dimenticano di partire
hanno paura del mare a furia di invecchiare
e le onde non le hanno mai portate altrove,
il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare.

(Jacques Brel)

Radio Pirata 51 (largo ai giovani)

Radio Pirata ad ultimo sondaggio pare prima radio d’ascolto a casa mia, che il resto invece pare relativo quando si fa giro di boa. E a vista di successo epocale, che io ho fiducia in giovani, a loro concedo spazio, pure mi raccomando che stavolta gli do tema, che il fuori di quello non viene concesso nemmeno per mai. Anzi, mi faccio duplice e, per selezione a meritocrazia, di temi gliene rifilo a doppia quota, che primo è che musica è a cover, e testo sia, per solluchero mio che detengo imperio di trasmissione, dunque ne ho facoltà, mare. E do via a giro di musica che non è giro di do.

Quando si spiaggiano o qualcuno le tira a secco perché pensa che d’acqua non ce n’è più bisogno, quelle guardano ancora verso l’orizzonte, finisce pure che ti ci portano, se gli concedi un po’ di credito ancora, se ti fidi di loro, perché “una nave in darsena, circondata dalle banchine e dai muri, ha l’apparenza di una prigioniera che medita sulla libertà, con la tristezza di uno spirito libero, messo a freno”. (Joseph Conrad)

Che a mare mai finisce viaggio, si arriva solo per ripartire. Si fa d’oltre la meta definitiva, che l’oltre non scopri mai dov’è, pure se sai che lì ci dev’essere sicuro un approdo, un’Itaca felice che t’aspetta, ma che non è Itaca per sempre. Decide d’esserlo appena il tempo che tu ti conceda il riposo giusto a carico d’energia per la ripartenza.

Sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto ‘più in là’”. (Eugenio Montale)

Il desiderio del mare è cosa che attiene a certe qualità dell’anima, a tali altre appartiene quella visione d’immenso quale frontiera, muro a separazione, confine, colonna d’Ercole da altro che pare che non siamo sempre noi. Ma se hai solo il sogno, che quello è quanto ti resta, “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il Mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)

Per mare impari tutto quello che ti serve, che poi fai ripasso ad osterie, quando racconti la storia che vivesti su quell’infinito, che è storia il cui finale è sempre da riscrivere, che muta quanto muti tu, che cambia per come ti senti, ma sempre ha epilogo a conforto. “Ho sempre avuto l’idea che navigando ci siano soltanto due veri maestri, uno è il mare, e l’altro è la barca, E il cielo, state dimenticando il cielo, Si, chiaro, il cielo, I venti, Le nuvole, Il cielo, Si, il cielo”. (José Saramago)

C’è che certe volte il mare si rabbuia, pare che avverta l’esigenza di farlo, non si sottrae dal mostrarsi adirato, non ne ha remora, ma è come se ti trasmettesse il suo disappunto per qualcosa che hai fatto, che se stai a guardarlo senza volontà di rimprovero si rifà a calmo. Finisce sempre che l’arrabbiatura gli passa. “Pensava sempre al mare come a la mar, come lo chiamano in spagnolo quando lo amano. A volte coloro che l’amano ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna”. (Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare)

Ciao David, tanto da qualche parte ci ribecchiamo. A proposito, ci hai una sigaretta?

Radio Pirata 42 (per voce d’altri)

Radio Pirata, quatta quatta, si fa a numero 42 che conduttore è a tiro di calzino, che quindi fu fortuna immane ch’egli ebbe lucidità di farsi comodo di gruppo di giovane cronista che dice la sua, che pure se la disse a tempo assai addietro, pare che tempo non cambia, semmai s’accetta a ragione ciò che venne detto. Conduttore ufficiale, comunque, non s’arretra rispetto ad incomodo statutario di porre in essere scaletta musicale di certa efficacia, che sa di domenica, neppure fa sconto ad immagine.

“Nessun uomo si aprirà con il proprio padrone; ma a un amico di passaggio, a chi non viene per insegnare o per comandare, a chi non chiede niente e accetta tutto, si fanno confessioni intorno ai fuochi del bivacco, nella condivisa solitudine del mare, nei villaggi sulle sponde del fiume, negli accampamenti circondati dalle foreste — si fanno confessioni che non tengono conto di razza o di colore. Un cuore parla — un altro ascolta; e la terra, il mare, il cielo, il vento che passa e la foglia che si agita, ascoltano anche loro il vano racconto del peso della vita.” (Joseph Conrad)

“Ci sono giorni in cui tutto intorno a noi è lucente, leggero, appena accennato nell’aria chiara e pur nitido. Le cose più vicine hanno già il tono della lontananza, sono sottratte a noi, mostrate a noi ma non offerte; e ciò che ha rapporto con gli spazi lontani – il fiume, i ponti, le lunghe strade e le piazze che si prodigano -, tutto ciò ha preso dietro di sé quegli spazi, vi sta sopra dipinto come sulla seta.” (Rainer Maria Rilke)

“Dobbiamo essere buoni con chi lo è con noi. E un contratto non scritto, ma pur sempre un contratto. Fatto sta che di solito viviamo come se non sapessimo che tutto e tutti sono una merda. Più uno è intelligente e meno lo dimentica, più lo tiene presente. Non ho mai conosciuto una persona intelligente che amasse per davvero o avesse fiducia nel prossimo. Al massimo ha provato compassione. Questo sentimento sì che lo capisco.” (Manuel Vasquez Montalban)

“Sulla luna, per piacere,
non mandate un generale:
ne farebbe una caserma
con la tromba e il caporale.
Non mandateci un banchiere
sul satellite d’argento,
o lo mette in cassaforte
per mostrarlo a pagamento.

Non mandateci un ministro
col suo seguito di uscieri:
empirebbe di scartoffie
i lunatici crateri.
Ha da essere un poeta
sulla Luna ad allunare:
con la testa nella luna
lui da un pezzo ci sa stare…
A sognar i più bei sogni
è da un pezzo abituato:
sa sperare l’impossibile
anche quando è disperato.
Or che i sogni e le speranze
si fan veri come fiori,
sulla luna e sulla terra
fate largo ai sognatori!”
(Gianni Rodari)

E buona fine domenica!

Radio Pirata 41 (a destra, pure a manca)

Radio Pirata va a Quarantuno, sempre più in prossimità di grado giusto di temperatura di sole che cuoce. Cuoce tutto ma non virus, che s’è messo a bene vedere di caldo pure lui, s’è fatto virus di vacanza che non fu di nessun rispetto per governo di migliorissimo sopra ogni altro che disse che virus è abolito di legge autentica di stato. Ma si ebbe a risparmio di stato per povero virussologo che chiedeva reddito di cittadinanza ed ora, invece, ritorna a lavoro suo che è so tutto io non quegli altri a sedicente collegume mio. Faccio musica bollente.

Migliorissimo, che mette zizzania a destra e manca, soprattutto a manca, che a destra va che è meraviglia che pure scavalca solido baluardo di pensiero a tradizione italica, si mostra sempre più a massa di popolo bue a che gli dice “t’amo o pio bove”, che adesso dà pure mancetta d’estate che così blocca ad un sol colpo trauma autentico di inflazione che è colpa di zar. Ed è standing ovation di giornalettume che mai migliore fu tale da diventare migliorissimo, che ci dà mille lire al mese e si canta canzone tutt’a d’un tratto in coro. Radio Pirata non è migliorissima, così canta canzone altra.

Sempre Egli, che riferendosi a se stesso disse Io, che la D era a precedenza a pronome stata, per somma modestia, momentaneamente fatta ad accantono, ebbe idea geniale che a caldo di Scipio che si cinse la testa, disse a tempo non previsto che non s’accende condizionatore così si fa dispetto imperituro a zar che deve cercare acquirente altro per suo gas, che pare si è messo da solo a canna di quello. Ma migliorissimo non disse che forse è meglio non accendo condizionatore che risparmio ad energia così non faccio cambio di clima, che quelle sono pinzallecchere da complottista pure terrapiattista. Vado a musica d’aggiro l’inganno.

Dopo lungo e periglioso viaggio tra budelli cantierabili, che titolare in pectore di Radio Pirata fece ad attraversamento di glorioso stivale, giunse alfine a terra dei Lotofagi ch’è tutto bello, che qui c’è ceto politico che fa concorrenza pure a migliorissimo per sagacia ed inventiva, che dissero che appena discarica era pienata non si raccoglie più monnezza, che piccolo è bello, così, ad ogni cassonetto che fu a disponibilità di popolume, si fece subito microdiscarica. Torma di turistume prende d’assalto armate sponde a desiderio di veder risultato di si tale genio che non fece altra discarica nemmeno altro che sia, tipo differenzio monnezza, che di olezzo fu pieno lo mondo. E caldo bestia arriva a cottura ad amplifico serbatoio di germe, così malattia di scarsa igienico e sanitaria si propaga, che casa farmaceutica fa grande affare e finalmente s’alza il PIL così si fa pernacchia a zar che si fa soldo senza di lui nemmeno a doblone falso di Monopoli. Mi ammusico di contagio.

Ma spero presto, ad ora certa che non vi fu altro che io, mi ricongiungo a fatto preciso con mare, che ignorante sono ed ignorante fui, pure tale sarò nei secoli de secoli, che capisco solo a sgambescio grande strategia politica a faccio cose che voi umani. Solo capisco cosa di mare che ci nacqui con piede ammollo.

Il mare è un luogo metafisico: spazio isolato, astorico, di pienezza e di solitudine, in cui i conflitti spirituali raggiungono con facilità le posizioni estreme e radicali ed in cui gli uomini vengono a trovarsi, drammaticamente, alle prese con l’Assoluto.” (Joseph Conrad)

Radio Pirata 14 (largo ai giovani)

Radio Pirata ad ultimo sondaggio pare prima radio d’ascolto a casa mia, che il resto invece pare relativo. E a vista di successo epocale, che io ho fiducia in giovani, a loro concedo spazio, pure mi raccomando che stavolta gli do tema, che il fuori di quello non viene concesso nemmeno per mai. Anzi, mi faccio duplice e, per selezione a meritocrazia, di temi gliene rifilo a doppia quota, che primo è che musica è a cover, e testo sia, per solluchero mio che detengo imperio di trasmissione, dunque ne ho facoltà, mare. E do via a giro di musica che non è giro di do.

Quando si spiaggiano o qualcuno le tira a secco perché pensa che d’acqua non ce n’è più bisogno, quelle guardano ancora verso l’orizzonte, finisce pure che ti ci portano, se gli concedi un po’ di credito ancora, se ti fidi di loro, perché “una nave in darsena, circondata dalle banchine e dai muri, ha l’apparenza di una prigioniera che medita sulla libertà, con la tristezza di uno spirito libero, messo a freno”. (Joseph Conrad)

Che a mare mai finisce viaggio, si arriva solo per ripartire. Si fa d’oltre la meta definitiva, che l’oltre non scopri mai dov’è, pure se sai che lì ci dev’essere sicuro un approdo, un’Itaca felice che t’aspetta, ma che non è Itaca per sempre. Decide d’esserlo appena il tempo che tu ti conceda il riposo giusto a carico d’energia per la ripartenza.

Sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto ‘più in là’”. (Eugenio Montale)

Il desiderio del mare è cosa che attiene a certe qualità dell’anima, a tali altre appartiene quella visione d’immenso quale frontiera, muro a separazione, confine, colonna d’Ercole da altro che pare che non siamo sempre noi. Ma se hai solo il sogno, che quello è quanto ti resta, “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il Mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)

Per mare impari tutto quello che ti serve, che poi fai ripasso ad osterie, quando racconti la storia che vivesti su quell’infinito, che è storia il cui finale è sempre da riscrivere, che muta quanto muti tu, che cambia per come ti senti, ma sempre ha epilogo a conforto. “Ho sempre avuto l’idea che navigando ci siano soltanto due veri maestri, uno è il mare, e l’altro è la barca, E il cielo, state dimenticando il cielo, Si, chiaro, il cielo, I venti, Le nuvole, Il cielo, Si, il cielo”. (José Saramago)

C’è che certe volte il mare si rabbuia, pare che avverta l’esigenza di farlo, non si sottrae dal mostrarsi adirato, non ne ha remora, ma è come se ti trasmettesse il suo disappunto per qualcosa che hai fatto, che se stai a guardarlo senza volontà di rimprovero si rifà a calmo. Finisce sempre che l’arrabbiatura gli passa. “Pensava sempre al mare come a la mar, come lo chiamano in spagnolo quando lo amano. A volte coloro che l’amano ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna”. (Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare)

Un nome c’è, da qualche parte

“Ho sempre avuto l’idea che navigando ci siano soltanto due veri maestri, uno è il mare, e l’altro è la barca, E il cielo, state dimenticando il cielo, Si, chiaro, il cielo, I venti, Le nuvole, Il cielo, Si, il cielo”. (José Saramago)

Quando arrivano all’alba, coi motori che appena sbuffano, quasi non le senti. La barche, quelle piccole, di piccolo cabotaggio, sono discrete, non fanno rumore e pure l’equipaggio, a quell’ora del giorno, pare assecondarne la discrezione. Si muove piano, per non infierire sulla stanchezza della notte, tutti come recitassero a soggetto, con l’unico linguaggio del corpo, senza parlare. Le barche hanno sempre un nome. Quello di una madre, una sorella, un’amata o un santo padre. Tutte hanno una storia, dal momento in cui sono armate, a quando s’affollano d’equipaggi, foss’anche un equipaggio d’un cristiano solo. Scivolano d’attese, s’apprestano ai moli ed alle bitte con le cime tese, come volessero conquistarsi il riposo meritato, aggrappandosi alla certezza d’un porto sicuro dopo l’irrequietezza della notte, con le reti che vibravano d’argenti e d’ultimi respiri affannosi.

Le barche hanno un nome, tutte, pure che non superano la grandezza di una vasca da bagno. Ed anzi, più piccole sono, più pare che vogliano raccontarti la storia di quel nome, che di quelle grandi e sbuffanti di potenze si sa già tutto. Talvolta giacciono in rada, col capo chino, leggermente piegate su un fianco, spinte lì sinché hanno avuto la forza d’arrivarci, per poi rimanerci sdraiate ed esauste. Altre volte s’accomodano sul fondo, e aspettano che qualcuno, per passione di scoperta, o solo per curiosa insistenza, ne racconti la presenza. Quando fotografi le barche, quelle che nessuno nota, un po’ scrostate, tra prua e poppa, senza alberi levati al cielo, motori che ruggiscono, sirene che squarciano silenzi per chilometri, quelle che qualche volta hanno il solo motore d’un remo torto, racconti la storia dell’uomo, la storia d’Ulisse, d’un Argonauta di fortuna, d’un pastore nomade che fugge dal deserto nel grande blu, d’un mercante fenicio, d’un pescatore d’anime guizzanti. Le barche, quelle piccole e malmesse, sono un libro con tante pagine, pochi versi intensi su ogni facciata, un quadro incorniciato di blu e del colore della rena, che si ravviva di cromatismi quando arriva il crepuscolo, piove o un’aurora si fa strada fra le nuvole a tempesta. Sono quadri d’un pittore che s’è scordato di firmarli, di mettere in calce una data, un frammento di riconoscibilità, che pure le ha provate tutte prima di metterli in mostra. Poi s’è arreso, senza rendersi conto d’aver firmato un capolavoro col nome d’un altro. E quando si spiaggiano o qualcuno le tira a secco perché pensa che d’acqua non ce n’è più bisogno, quelle guardano ancora verso l’orizzonte, finisce pure che ti ci portano, se gli concedi un po’ di credito ancora, se ti fidi di loro, perché “una nave in darsena, circondata dalle banchine e dai muri, ha l’apparenza di una prigioniera che medita sulla libertà, con la tristezza di uno spirito libero, messo a freno”. (Joseph Conrad)