La liturgia spenta

Si poteva evitare, la liturgia però. Quel «si poteva evitare» non si regge più. Aria fritta per commozione pro tempore, domani è tutto finito, meno del solito. È accadimento tremendo che è pure capitato troppo a sud, non c’è necessità di ravvedimento. A stretto giro di posta di chi dà dello stupido a chi mette piede in fallo, ecco altri cinque che non sapevano, non vedevano. Uno dietro l’altro, come tessere di domino, se ne vanno, ciascuno perché provò a tirar fuori il suo compagno dalla camera a gas.

La liturgia ha stancato, e questi cinque hanno labile diritto di cronaca perché si fecero vittime a sodalizio. Quegli altri, quelli d’un due o tre a giorno, hanno preferito le solitudini che si competono a chi fa il volo del grande tacchino, per arricchimento del padrone del vapore. Ma quello, il padrone del vapore, è illuminatissimo, fa grana senza scanso di vittima. Ha ottima rappresentazione istituzionale, contrita di dolore per l’eccidio ultimo, pure per il venturo. A protezione di sacro interesse nazzzzionale, che lavoratore a cottimo non è tale tra tante zeta, nemmeno raccattagas a tombino di fogna. A far statistica vien da vomitare. A sperare in un batter di colpo si rischia asfissia generalizzata. Ma tant’è che chi lavora non protesta, mai lo fa abbastanza. A calci in culo va fuori, che non c’è nemmeno più un articolo 18 a tutela di ingiusto licenziamento.

E se protesto che ci tengo a vita faccio sporco gioco antiaziendale, sono fuori e faccio fame, che se son dentro è uguale fame ma sono un po’ meno. A tener lontana sicurezza si fa gran risparmio, economia ne gode, come a fabbricar bombe che non son confetti, nemmeno campi di geranio. Ed allora almeno una cosa, visto che d’ignavia si crepa nel Bel Paese del va tutto a gonfie vele, del si fan soldi a sbafo per taluni, bello assai sarebbe che, anziché liturgia d’un minuto che recita lascia moglie e figli, era ad età così giovane per perfettissimo necrologio, nota al mondo dovrebbe essere miserabile busta paga, almeno mondo stesso sa quanto costa a rata di mese vita d’un lavoratore. Ma quello sarebbe paese delle meraviglie.

Radio Pirata 66 (concertone da lavoro per separazione chimica di classe)

Riecco Radio Piratissima che torna a sfarzo di concertone per festeggiamento di ricorrenza di articolo guida di Costituzione che fu cassato per improbabilità di esplicita applicazione. E si fa puntata di grande e solida kermesse musical-argomentativa come si compete a trasmissione che gode di favori indiscussi di pubblico innumerevolissimo e benevola accondiscendenza di critica. Ma a non far da meno con altra roba seria, redazione fa subito presente che molti ospiti previsti brillarono per assenza a detta puntata, che è numero Sessantasei, per sopraggiunta censura. Per cui non ve ne sarà traccia. Ma si va subito di musica di grande spessore.

Che lavoro è a dignitosissima rappresentazione a membro permanente di consesso di nazioni civili a suon di bombarda, che si fece lavoro nero a campo di nuovo cotone per conserva a prezzo convenientissimo di super mega impianto di smercio di prodotto a consenso di massa claudicante per arrivo a fine mese. Che morto ammazzato di lavoro, dice statistica – che la fa cervello asettico di matematica -, è a due al giorno da inizio d’anno.

Che è solo storia di distratto a distrazione mosso, che muore a metto piede in fallo mentre passa betoniera o caterpillar, pure scivola d’ascensore, inciampa da impalcatura, precipita da palazzo e ciminiera, non collaborò col dire son morto per destino cinico e baro. Che di tanti morti d’ammazzo pare guerra guerreggiata, ma è roba disfattista se oggi a bandiera colorata si dice basta con tale guerra, pure con altra che tuona di bomba. E io vado di suono giusto, che faccio colonna sonora

Che c’è polemica superlativa su esternazione per classe separata, ma io spezzo lancia, che pure io voglio classe separata, che a ricco con super monolito a sgaso per cambio climatico per costo di palazzina popolare a tre piani, tocchi – ora e per sempre in esclusiva – ristorantino a selezione di chef a stella plurima di firmamento. Ma ci fu improvvida segnalazione di tale illuminatissimo che disse che povero paradossalmente mangia meglio – che paradossalmente è dire esplicito che pure mangia – per cui ci fu assalto a bettola negletta che bettolaio ed oste per moribondi si fecero furbi e levarono prezzi al cielo per nuova avventura di business. Che da Franco il bollito ch’era a sette eurini ora si fece a centoventi che tale padrone del vapore per meno di duecento non si muove. E c’è povero chef di cui sopra che fu costretto a rinnovare arredo con acquisto ad Emmaus di piatto e mobilia ed importazione di muffa autentica per star a passo col tempo. Aridatece la separazione di classe.

E quanto tremai d’adorazione per Annette Peacock, che fu mio furibondo amore giovanile a dispetto di generazione. Ma tale ero, catturato a fascino di dette signore senza tempo che miei coetanei d’allora, molto «le freak, c’est chic» attribuivano certe mie pulsioni ad uso disinvolto di combustione di materiali di scarto orientale di produzioni vegetali. Ma detti fuochi aprirono finestre, e pur se smisi in tempi rapidi di godermene benefici, certo le finestre rimasero aperte su orizzonti d’utopia. Ora v’è invece ricorso a chimica pura ed allopatica per farsi fenomeno a sculettamento a destra e a manca, da mane a mane, e iniezione di coraggio per proferire a iosa minkiata a cottimo manco richiesta.

E chiudo col dire che buon lavoro pare ossimoro e, a cautela, faccio spiegare detta cosa da collaboratore subordinato con contratto di apprendistato, prima che faccio pure di lui censura che nacque in posto strano: “Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendere dalla sua schiena.” (Lev Tolstoj) Buon 1° Maggio a tutti, i belli e i brutti, di più a questi ultimi se in piazze deserte furono pure sporchi e cattivi.

La notte porta consiglio?

Tocca riflettere ogni tanto, fermarsi un attimo. Lo faccio quasi controvoglia, ancora sulla censura. Poiché c’è stata una spettacolare risposta corale allo stop al monologo di Scurati. Anche qui, su WP, tantissimi l’hanno rilanciato, sui social mi dicono pure, la mia messaggistica era intasata, quelle quattro chat tecniche a cui sono – ob torto collo – iscritto straboccavano. Mi viene da pensare che se non ci fosse stata quella censura, quella paginetta densa, quel discorso di un minuto, non avrebbe avuto la stessa risonanza. Non ho pensato di rilanciarlo anch’io, non per disaffezione a quei contenuti, solo perché avevo già scritto il mio post precedente, ne avevo parlato di sgambescio. Più di uno al giorno non mi riesce.

Di quella risposta dal basso, ripeto, mi sono compiaciuto. Nell’istante in cui ho avuto la percezione della sua portata, mi sono sentito meglio. La risposta c’è stata, il boomerang è tornato indietro, per quello è fatto. Poi la notte porta consiglio, e il destino del giorno s’è fatto altro nella mia testa, nelle forme d’un paio di rammarichi, forse qualcuno in più. Il primo è che Scurati è un personaggio di chiara fama, ha già palcoscenici e vetrine importanti, ancorché meritati. Non pare silenziato del tutto se non partecipa ad una trasmissione televisiva, continuerà a parlare in altre, a scrivere, a pubblicare ed a vendere – sottolineo, meritatamente – i suoi libri, sarà invitato a partecipare ad eventi con pubblico numeroso. Fa parte a pieno titolo dell’intellighenzia di questo paese. Non è un gatto in autostrada. Ma c’è una censura sottile, trasversale, pesante ed opprimente che si esercita sul resto del mondo che urla, persino a due passi da casa di ognuno di noi. Non avrà diritto di parola pubblica l’operaio della GKN che perde il suo posto di lavoro, e che in una piazza di ventimila persone lega la sua lotta con la strage dei migranti, dei Palestinesi. Quelle piazze piene spariscono da ogni riferimento, se ne parla solo se i manganelli picchiano. Sono le piazze per la pace, per il lavoro, per i diritti, ma non esistono se non per chi le popola. Solo la settimana scorsa ancora due ragazzi giovanissimi sono crepati sul lavoro, vite ridotte in trafiletti, piccoli necrologi. Le loro vite sono state censurate ancora, non avevano diritto di parola prima, non l’avranno mai più. Sono censurate le storie di chi annega nei mari del mondo, quelli che si aggrappano disperatamente ad un relitto come fosse una vita che abbia un senso, e per questo la perdono. Questa è censura, questo è già fascismo, ma non facciamoci illusioni, c’è da un pezzo. C’è un’aria mefitica che opprime la cosa pubblica, la cultura di questo paese, pure quella è trasversale. Mi inquieta pure che quella risposta così bella e – sottolineo – dal basso, abbia potuto godere degli stessi strumenti che oscurano le piazze, che stritolano sino all’asfissia, come boa constrictor virtuali, il sangue, il sudore, le lacrime che si respirano in ogni anfratto di protesta, di sofferenza concreta. Pulsioni censurate, con collusione estrema. Ed ogni click, pure di indignazione legittima, necessaria, fa più ricchi i più ricchi, quelli che da soli hanno redditi di una decina di paesi condannati all’ecatombe. Ed è così da un pezzo. Da questa cosa mi piacerebbe disertare, che dalle armi non ne ho più necessità, non ne ho mai avute, nemmeno rischio d’averne. Così, per celia – ma non troppo – con Almerighi ed Henry, nei commenti in un post del primo, ci si è dati un appuntamento per il 24 aprile, vigilia d’una Liberazione che pare lontanissima, per pubblicare un post, a mo’ d’auspicio, che contenga il testo de «Il disertore», di Boris Vian, magari con una delle tante versioni con cui è stata cantata. Contro la guerra, contro un destino di censure d’umanità. Se vi va d’unirvi, ora sapete la data, per quello che può servire… Nel frattempo ho trovato una cosarella che oggi non passerebbe da nessuna parte. Qualcuno direbbe che è vecchia e desueta, fate voi se è davvero così.


«Il Fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità. Il fascismo è demagogico ma padronale, retorico, xenofobo, odiatore di cultura, spregiatore della libertà e della giustizia, oppressore dei deboli, servo dei forti, sempre pronto a indicare negli “altri” le cause della sua impotenza o sconfitta. Il fascismo è lirico, gerontofobo, teppista se occorre, stupido sempre, ma alacre, plagiatore, manierista. Non ama la natura, perché identifica la natura nella vita di campagna, cioè nella vita dei servi; ma è cafone, cioè ha le spocchie del servo arricchito. Odia gli animali, non ha senso dell’arte, non ama la solitudine, né rispetta il vicino, il quale d’altronde non rispetta lui. Non ama l’amore, ma il possesso. Non ha senso religioso, ma vede nella religione il baluardo per impedire agli altri l’ascesa al potere. Intimamente crede in Dio, ma come ente col quale ha stabilito un concordato, do ut des. È superstizioso, vuole essere libero di fare quel che gli pare, specialmente se a danno o a fastidio degli altri.» (Ennio Flaiano, Don’t Forget, 1976)

Radio Pirata 65 (settimana cruciale che viene, settimana cruciale che va)

Torna a furor di popolo Radio Pirata, che s’è fatta numero Sessantacinque, traguardo d’invidia autentica per chi non fa giro di boa nemmeno a sessantaquattro. E torna con convincimento ch’è di necessità assoluta far musica e notiziola in qua ed in là, per scovar talento dove talento c’è, a dar possibilità d’emergere a giovane che ha penna facile e vuole darlo a vedere al mondo intero. Che Radio ha volontà di talent scout e si da vetrina a giovane che vuol far di sua scrittura affermazione ad applauso. Ma andiamo subito con musica giusta che settimana comincia di lunedì e detto lunedì è di tali nebbie che ad allietarlo in nota non si fa etto di danno.

Che c’è settimana che si chiuse che odora di zolfo e piombo, per escalescione di guerra a parte del mondo che fu tutta. Che guerra fa a bombarda anche a chi non s’avvede che bomba casca su testa sua perché non sentì botto chiaro e si fece domenica a mangiar pizza tranquillo per scontrino da ecatombe. Che detta guerra è ‘ndo cojo cojo, ma sempre fa centro precisissimo a tale che ebbe a disgrazia di nascere di manto disgraziato, e se s’è fatto malato poi non trova cura che medico ed infermiere, pure medicina facile facile, non c’è per acquisto mancato a sottrazione di finanza, che quella, finanza, serve a far cosa buona e giusta che fu smercio di boma per guerra a dritta e manca.

Ambasciator non porta pena, si disse a saggezza antica, ma antica saggezza è superata e si bombarda ambasciata con tanto di morto e ferito, che se poi taluno che si vide recapitar ambasciator a modo di Attilio Regolo s’altera, – che già era ad alterazione permanente – fa a lancio di ogni cosa a modo pure lui per far morto e ferito. Ma che sia ora spazio a giovane virgulto di penna, ch’egli ritiene interessante messaggio suo, a speranza nostra che non faccia crollo di esagerata audience di Radio Pirata. «Quando i ricchi si fanno la guerra, sono i poveri a morire.» (Jean Paul Sartre) E meno male che fu sintetico, che se continuava a dirla lunga a fatto d’accumulazione di baggianata c’era rischio che audience di Radio Pirata si faceva colo a picco in un tempo di niente.

E quella che se ne andò fu anche settimana di strage che pare coazione a ripetere, in luogo di lavoro dove per sicurezza di risparmio non s’aggiunse troppa altra sicurezza. Che pare cosa non troppo a fatto occasionale che uno se ne va a lavoro, saluta a casa affetti o solitudini, a seconda dei casi, si accomoda a far fatica, poi non torna. E se affetti furono colti d’improvvisa devastazione, pure solitudini, che per cosa conclamata paiono d’anime migranti, pare urlino cose di disperazione. «Attraverso fitte di dolore, ore, squadre e livelle, il job diventava una realtà familiare, una sensazione nuova, brivido di uomini e pietre ed acciaio. Era un gioco, una corsa, una partita, in cui tutti erano attori muscolari, dal fischio del mattino a quello della sera, ed egli era uno di loro. Era giorno di paga e fra poche ore la busta avrebbe segnato un breve armistizio. Era la guerra per la vita, e Paolino era un soldato. Non era come al gioco delle biglie, dove giocava per divertirsi; era un vero assedio, un assedio condotto da uomini maturi e accaniti contro una fame sempre in agguato, contro il nemico ereditario.» (Cristo fra i muratori, Pietro Di Donato) E pure noi abbiamo dato l’obolo d’apparizione a quest’altro che anela a fama imperitura, ma se continua a scriver ad affondare successo di Radio Pirata con insopportabile retorica pauperista, più che fama si becca fame. Che noi, ad altra sorte adusi, mandiamo musica ch’è meglio assai.

E c’è grande isola che si fece matrigna di tenutario di direzione artistica di Radio, che pare essere a secco come piscio di cammello in deserto. E c’è ovvietà in questo che temporalone si ferma, che a traghettamento lento ed infingardo ci vuole tempo indefinito, così rinuncia ad attesa e scarica acqua ad un altrove a bidonata che fa danno, pure a chicco di grandine a strigliar tetto di decappottabile a lusso precisissimo. E prima che isola a forma di tre – che di perfezione fece a meno per esclusiva modestia – si boccheggia di sete, c’è fortuna che s’ebbe direttorio illuminatissimo di levatura cosmica che disse ponte sia, che tutto si sveltisce, pure tasca si piena assai e rapida e a pienare serbatoio poi ci si pensa, se me lo ricordo. E prima di cedere la parola ad altro giovane cercatore si sorti buone per minchiate scritte a cottimo, per non bombardare l’ultima speranza d’un qualche ascoltatore di Radio, andiamo di musica.

«Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l’ evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell’ omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poichè con le isole il punto è questo: sono di per sè parchi naturali e riserve dove lo “specifico” indigeno resiste più a lungo: sicchè rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale… Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benchè non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l’ Alitalia e l’ Autostrada del Sole. Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. Proprio su la Repubblica (31 agosto) Arbasino ci attribuiva una smania di staccarci dalla nazione e ce ne concedeva licenza. Obietto che, dai tempi di Salvatore Giuliano, fra le maschere sanguinose della mafia il fantasma del separatismo non è più ricomparso: e che oggi un eventuale referendum secessionista non raccoglierebbe in Sicilia più di mille o duemila suffragi… La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d’ Italia, dall’ Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d’ Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina… Con tutto ciò, come negare l’ esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’ esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l’ aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.» (Gesualdo Bufalino, su La Repubblica, 19 settembre 1985 su la Repubblica)

La sentenza antica che pare moderna

Che fa ottant’anni oggi ch’è tredici di detto aprile che a passi due da casa mia di lavoro si fece rastrellamento a morte subitanea per italiano per razza d’inferiorità conclamata e rappresaglia di ‘do cojo cojo a Vallucciole e Moscaio, per opera d’elevatissima gens griffata a doppia esse. Ma ci fu complice locale senza trucco e senz’inganno per moda a vestito giusto a tinta unita che si fece notte fonda. E ricordo di detti che perirono pare lontano assai nel tempo che non fu nessuno ad emetter sentenza che c’era solo a non meritar vita. Oggi sentenza è ad emissione assai più bianca, ma gettito non pare ad essere da meno, per annego, sepoltura a deserto, grappolo di bomba o lavoro coatto per vita miserabile che si fa strage di tanto in tanto a rinverdir ricordo di andava meglio quando andava peggio.

Ci sono sentenze ed inchieste ad orologeria? E che ne so, ma pure chi se ne frega. Il giochino non mi interessa più. Ci sono condanne ad orologeria, però, anzi, condanne scandite ad ogni minuto. È condannato a morte probabile chi la mattina s’alza ad ore improbabili, per andare a strappare l’obolo di sussistenza. Perché il destino cinico e baro lo inciampa nella trebbiatrice, l’accomoda al fresco d’una stanza d’ozono, gli regala avide aspirate di esalazioni d’una vasca di mosto – altri, che m’importa se ad orologeria, s’aspirano altro, e si fanno occhietti a pupilla midriatica -. Ed il siur padrun dalle belle braghe bianche, può star tranquillo, che il nostro è paese garantista. Un paio di cose – la seconda, del Maestro Ignazio Buttitta, la faccio mia, per dedicarla, mica per tenermela -, dunque, per chi è polvere sotto il tappeto, con lo sfondo fragoroso ed inutile del plural tenzone nella cassa da morto del segreto dell’urna.

subtraxerim utilium

Ho sentito i cori dei corvi

e l’arcangelo vestito di nerofumo

recitare litanie

in fondo alla ciminiera

dei campi di cotone.

Era il canto della strada buia,

in riva alla città zoo,

la sirena che pregava

di catturare gli scarafaggi d’ogni tribù,

nascosti alla luce esausta del neon

dallo scricchiolio della pattumiera

gonfia d’orgoglio

e di cose non dette, non scritte.

E se fossero sagge e definitive

le parole della notte

il mattino si diverte a cancellarle

per l’innata sua passione per lo smog,

o per lo smoking

– color cimitero –

da abbinare alla cravatta

con il nodo scorsoio

da indossare il ventisette

di un mese qualsiasi per l’obolo

dai vestiboli della civiltà dorata.

Nun sugnu pueta

Non pozzu chiànciri

ca l’occhi mei su sicchi

e lu me cori

comu un balatuni.

La vita m’arriddussi

asciuttu e mazziatu

comu na carrittata di pirciali.

Non sugnu pueta;

odiu lu rusignolu e li cicali,

lu vinticeddu chi accarizza l’erbi

e li fogghi chi cadinu cu l’ali;

amu li furturati,

li venti chi strammíanu li negghi

ed annèttanu l’aria e lu celu.

Non sugnu pueta;

e mancu un pisci greviu

d’acqua duci;

sugnu un pisci mistinu

abituatu a li mari funnuti:

Non sugnu pueta

si puisia significa

la luna a pinnuluni

c’aggiarnia li facci di li ziti;

a mia, la menzaluna,

mi piaci quannu luci

dintra lu biancu di l’occhi a lu voj.

Non sugnu pueta

ma siddu è puisia

affunnari li manu

ntra lu cori di l’omini patuti

pi spremiri lu chiantu e lu scunfortu;

ma siddu è puisia

sciògghiri u chiacciu e nfurcati,

gràpiri l’occhi a l’orbi,

dari la ntisa e surdi

rumpiri catini lazzi e gruppa:

(un mumentu ca scattu!)…

Ma siddu è puisia

chiamari ntra li tani e nta li grutti

cu mancia picca e vilena agghiutti;

chiamari li zappatura

aggubbati supra la terra

chi suca sangu e suduri;

e scippari

du funnu di surfari

la carni cristiana

chi coci nto nfernu:

(un mumentu ca scattu!)…

Ma siddu è puisia

vuliri milli

centumila fazzuletti bianchi

p’asciucari occhi abbuttati di chiantu;

vuliri letti moddi

e cuscina di sita

pi l’ossa sturtigghiati

di cu travagghia;

e vuliri la terra

un tappitu di pampini e di ciuri

p’arrifriscari nta lu sò caminu

li pedi nudi di li puvireddi:

(un mumentu ca scattu!)

Ma siddu è puisia

farisi milli cori

e milli vrazza

pi strinciri poviri matri

inariditi di lu tempu e di lu patiri

senza latti nta li minni

e cu lu bamminu nvrazzu:

quattru ossa stritti

a lu pettu assitatu d’amuri:

(un mumentu ca scattu!)…

datimi na vuci putenti

pirchi mi sentu pueta:

datimi nu stindardu di focu

e mi segunu li schiavi di la terra,

na ciumana di vuci e di canzuni:

li sfarda a l’aria

li sfarda a l’aria

nzuppati di chiantu e di sangu.

Inopinatamente m’ergo a traduttore dalla lingua mia a quella che m’ha adottato, sperando di non fare troppi danni.

Non sono poeta

Non posso piangere

che i miei occhi sono secchi

ed il mio cuore

è come lastra di pietra

La vita mi ha ridotto

arido e bastonato

come una carrettata di brecce

Non sono poeta

Odio usignoli e cicale

leggera brezza che accarezza l’erba

e le foglie che cadono con le ali

Amo i fortunali

i venti che spazzano via le nuvole

e nettano aria e cielo

Non sono poeta

nemmeno un insipido pesce

d’acqua dolce;

sono un pesce selvatico

abituato ai mari profondi:

Non sono poeta

se poesia vuol dire

la luna sospesa

che impallidisce i volti degli amanti;

a me, la mezzaluna,

piace quando risplende

nel bianco degli occhi dei buoi.

Non sono poeta

ma se è poesia

affondare le mani

nel cuore degli uomini che soffrono

per spremerne via pianto e sconforto;

ma se è poesia

sciogliere il cappio agli impiccati,

aprire gli occhi ai ciechi,

ridare l’udito ai sordi

spezzare catene, legacci e nodi:

(fra un momento scoppio!)…

Ma se è poesia

chiamare dentro tane e grotte

chi mangia poco e veleno inghiotte;

chiamare braccianti

ingobbiti sulla terra

che succhia sangue e sudore;

e strappare

dal fondo di miniere di zolfo

la carne degli uomini

che cuoce all’inferno;

(fra un momento scoppio!)…

Ma se è poesia

desiderare mille

centomila fazzoletti bianchi

per asciugare occhi gonfi di pianto;

desiderare letti morbidi

e cuscini di seta

per ossa storpiate

di chi lavora;

e desiderare che a terra

vi sia un tappeto di foglie e fiori

per rinfrescare il cammino

a piedi nudi dei poveri:

(fra un momento scoppio!)…

Ma se è poesia

farsi mille cuori

e mille braccia

per stringere povere madri

inaridite dal tempo e dalla sofferenza

senza latte al seno

e col bambino in braccio:

quattro ossa strette

ad un petto assetato d’amore:

(fra un momento scoppio!)…

datemi la voce più potente

perché mi sento poeta:

datemi uno stendardo di fuoco

e che mi seguano gli schiavi della terra,

un fiume di voci e canti:

gli stracci per aria

gli stracci per aria

inzuppati di pianto e sangue.

Ed ancora «Il lungo viaggio», per chi non volle partire e sparì uguale.

Mercanti d’anime

«Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.» (Conversazione in Sicilia, Elio Vittorini)

Vorrei non parlarne, mi piacerebbe. Ma sono un vecchio delegato sindacale, uno di quelli che lo fa da vent’anni senza mai aver preso una lira. Mi occupo di sicurezza come rappresentante dei lavoratori. So cose, si direbbe. Mi formo e mi informo, ne ho la responsabilità, me la sono presa, non me l’ha ordinato il dottore. Sono pure uno che rompe abbastanza. Quello che è successo a Bologna mi crea faticosissima voglia di parlare. Ci sono le cose che i giornali riportano, il giochino del cordoglio, chiudere le stalle mentre i buoi già corrono per i campi. C’è la logica del subappalto, vite vendute a cottimo, un tanto al chilo per gran risparmio, lavoratori che si dicono «esterni». Corpi alieni nel ventre putrefatto della balena.

L’ho già raccontato, tempo fa, non troppo, proprio a vista di casa mia, un tale che conoscevo appena, giusto un ciao al bar per le sigarette ed il caffè la mattina, è finito in una tramoggia, ha lasciato famiglia, un ragazzino complicato. Ho sentito le ambulanze, un certo frastuono, l’elicottero che lo portava via quando non c’era nulla di più da fare. Dopo un paio di giorni la notizia è sparita, pure se già era solo roba da trafiletto. Come sparirà quella di Bologna, è sparita la strage di Firenze, come sono spariti gli altri mille trafiletti dell’ultimo anno. Ogni tanto il morto ci scappa, finisce nella tramoggia anche quella notizia. Non succederà niente oltre la retorica della commozione dell’istante, il cordoglio unanime, il parliamone. Ma cosa ci sia da parlare non mi è mai stato chiaro, o meglio, mi è chiaro l’oggetto del contendere, non capisco perché bisogna parlare di certe ovvietà. Lo scontro è ideologico, non c’è vittima che tenga. Si dirà che ci vuole più formazione, più informazione. Si investirà tre centesimi in più su quello, il resto, si dirà, non c’entra.
Ma questa tragedia di Bologna ha qualcosa che non è più particolare, non solo per il numero delle vittime. I templi della merce vanno costruiti, non ce n’è mai abbastanza per deificare il consumo. Ancora ci tocca guardare l’anagrafe delle vittime. Vengono da un altrove dove non torneranno, Non torneranno più a casa, per le festività, le vacanze estive, a salutare vecchi amici, i parenti. In certi luoghi d’opulenza gente così, ben disposta per una vita dignitosa a fatiche incerte, stipiendi così così, non se ne trovano.
Sotto le macerie ancora le anime degli ultimi, quelli attaccati alla ricerca disperata d’una vita dignitosa con le unghie e coi denti, che non hanno nome, quelli che non saranno mai in copertina se non come numeri, non vinceranno slam. Domani è un altro giorno, la fila alla cassa non si esaurisce, in attesa delle rovine del prossimo tempio, delle nuove vittime sacrificali immolate al nostro shopping domenicale.

Porte chiuse

Il mare non ha il colore del vino, ha ragione il professore. Forse nella prima aurora, o nel tramonto: ma non in quest’ora. Eppure, il bambino ha colto qualcosa di vero: forse l’effetto, come di vino, che un mare come questo produce. Non ubriaca: s’impadronisce dei pensieri, suscita antica saggezza.” (Leonardo Sciascia, Il mare color del vino)

Faccio ritorno a casa che fu fortuna mia ch’ebbe convenzione amministrativa, sia pur per poco chilometraggio d’essere a suolo patrio. E avvenne, detto fatto, mentre s’erge, ad orgoglio italico, imponente barriera a franginero per difesa di coste sacre d’impero, pure si fa a colpo di disgraziato guerra d’intento tra Alpe ed Oltralpe – s’ode a destra squillo di tromba che a sinistra risponde squillo – occhio attento a trafiletto s’avvede di notiziola a passo in sordina. Mi feci a sobbalzo per dato di m’inquieto d’immenso, ma nemmeno troppo che era cosa a fatto risaputissimo per emersione, a tanto in tanto, quale cosa carsica. Insomma, a fastidioso ripresentarsi di centinaia a disperazione, è data risposta con milione di produzione nostrale ad esportazione che scappa e va via. A scorgere esatto dato manco è connazionale di cervello pregiato fuggito, ma è assai altro più complesso, pure manovale che a scopo non si specializzò, financo pizzaiolo e idraulico. Pare che italica porzione se ne sia andata ad altro paese a numero di 4,5 milioni, che se fatto si unisce a che non nasce nessuno, finisce che questo Belpaese diventa reparto geriatrico.

Ora, io comprendo che ad eventualità non c’è di trovar braccia per pagamento di pensione, non si trova operaio, nemmanco medico e professore (ma questo chi se ne frega, che non c’è alunno), mi sovviene che taluno disse che non c’è a trovarli che acchiappano a parassita reddito di cittadinanza. A punto di questione, e a lettura esatta di dichiarazione roboante, chi si fece valigia a partenza, fuggì da evenienza tragica che gli venisse concessa pacchia a non far niente. Che mentre m’arrovello su come si può a far fronte a cosa a domani non troppo lontano, mi sovviene che, al limite, a non trovar soluzione, sempre si può dire che trattasi di efferato crimine di comunismo, che già taluno si portò avanti in detta direzione, che aborto è problema a tasso di natalità estinto, e che terribile usanza di certa sinistra di mi mangio i bambini è cosa a spregio d’ogni umanità e prefigura danno erariale.

Tempi grami s’attendono che paese nostro, che fu di santi, poeti e navigatori, a finché la barca va che ad affermazione è desueta, s’appresta ad esser paradiso di badanti.

I libri tornano con le storie

«L’assessore legge un verbale, e chiede a Mr. Murdin se Geremia lavorava per lui.
“Si, era uno dei lavoranti.”
Paolino alza la mano e grida: “Non è vero!”.
Tutti si voltano.
“Mio padre era capomastro!”
L’assessore sorride indulgente e ordina a Paolino di sedere.
“Era capomastro, signor Murdin?”
“Può darsi… Chi se li ricorda, questi maledetti nomi italiani?”
» (Cristo fra i muratori, Pietro Di Donato)


Ci sono libri che ci appartengono per strani giochi del destino, sono con noi da sempre. «Cristo fra i muratori» di Pietro Donato è uno di quelli per me. È sempre stato lì, su uno scaffale, da che ho una libreria mia, nemmeno ricordo di averlo mai comprato, che me l’abbiano regalato. È lì e basta. Di Donato era figlio di immigrati abruzzesi in America, l’ha pubblicato nel 1939. Racconta un’America di migrazioni, quella degli ultimi, dei senza nome, sulla scia delle cose di Faulkner. Vinse un Pulitzer, divenne caso letterario. Un paio d’anni dopo il regime non se lo lasciò sfuggire per rivendicare la grandezza di un italiano e venne pubblicato pure qui, da noi. La biografia di Di Donato fu resa oscura, il libro fu ampiamente rimaneggiato dalla censura. Era pur sempre il successo letterario di un comunista obiettore di coscienza. E noi eravamo in guerra. Il 1939, dunque, per una vicenda che aveva già una ventina d’anni quando fu scritto. Andrebbe letto nelle scuole questo libro, ma renderebbe troppo meno aspri certi comportamenti, e le contraddizioni, le paure, la diffidenze, sono utili ai padroni del vapore. Un estratto di quel libro ve lo rendo, e provate a vedere se le cose sono cambiate da quegli anni bui, se gli ultimi hanno ora patria e, se avete pazienza di leggerlo, se vi ricorda qualcosa, se avete tempo un piccolo spazio d’ulteriore sgomento dinnanzi anche a ad una torre che pende male.

«Geremio aspirò dalla pipa spenta e sorrise con accondiscendenza. Gli uomini intorno a lui si muovevano in silenzio, portando a termine i loro compiti, stanchi ma assorbiti dagli stessi pensieri di Grugno. Il rumore del Lavoro sembrava non essere nemmeno più un rumore, e mentre Geremio si guardava attorno, la vita si posava su di lui come un grigio concerto, composto di atmosfere grigie e note grigie. Eppure, quel mondo scolorito gli suonava vicino e familiare.
«Cinque minuti alle due», sibilò Grugno attraverso i baffi folti.
Senza nemmeno pensarci, Geremio estrasse l’orologio dalla tasca, lo ricaricò e lo rimise a posto. Lazarene aveva finito con i cavi. Il tono e i movimenti della scena parevano a Geremio strani, diversi, eppure erano come un sogno conosciuto da un tempo imprecisato. Sollevò la mano verso Julio. La pietra fusa gorgogliava piano, e poi con un rumore crescente e rauco. I suoi occhi seguirono la miscela di pietra e cemento, e le sue orecchie non udivano altro suono che quel mescolio. Da qualche parte sopra i tetti, giungevano le note metalliche di Barney Google che si facevano strada attraverso la radio, e gli entravano nella testa, fermandosi lì come un disco nella sua calotta cranica.
Ah, sì, Barney Google, la bellissima radio di mio figlio… Il mio meraviglioso Paul. Il filo dei suoi pensieri corse rapidamente alla famiglia, alla sua casa e alle sue speranze. E insieme alle speranze, giunse la paura. Qualcosa dentro di lui si domandava: Sarà mai possibile respirare l’aria di Dio senza che venga inquinata dall’ombra della disoccupazione? E di dover fare guadagnare il padrone? La paura del Lavoro e del Padrone? Ribellarsi significa solo perdere tutto di quel pochissimo che si possiede. Obbedire significa soffocare. O caro Signore, indicami tu la strada.
Proprio in quel momento, il pavimento sussultò e ondeggiò sotto i suoi piedi. I sostegni slittavano e della base sottostante facevano vibrare gli impiantiti ancora instabili dell’edificio. Era svenuto o stava avendo le vertigini? Era solo una sensazione dovuta a quel pomeriggio irreale? Allungò le mani davanti a sé, indietreggiò e sollevò lo sguardo in preda al panico. «No! No!»
Gli uomini rimasero in bilico. Le loro gole avrebbero voluto gridare e urlare, ma non osavano. Per un momento furono come un corteo pietrificato e teso. Poi la base del loro mondo cedette. Un fremito violento percorse l’intero Edificio, i sostegni esplosero con il crepitio di una foresta in fiamme. L’impiantito venne ingoiato. Geremio si aggrappò all’aria, strillando agonizzante: «Fratelli, cosa abbiamo fatto? Ahhh-h, i nostri figli!». In un battito di ciglia, ogni equilibrio saltò, gli uomini come paralizzati si ritrovarono scaraventati nel cielo. L’edificio crollava sopra di loro trascinandoli in un folle baratro. Pareti, pavimenti, travi divennero onde vorticose, spezzate, solide che si infrangevano con detonazioni assordanti trascinando con sé uomini e materia in un connubio di morte.
Lo Smilzo non aveva tradito alcuna emozione. Quando le mura crollarono, restò fermo. Si limitò ad abbassare la testa. Un minuto dopo era sospeso a mezz’aria, il mento sul petto, gli occhi che gli uscivano dalle orbite, una schiuma verde che gorgogliava dalla bocca e il corpo in preda agli spasmi, tenuto sospeso dai brandelli rimasti delle sue braccia schiacciate, inchiodato tra un muro e una trave.
Una trave cinque per dieci colpì Tomas il piccoletto sotto la schiena e lo fece ruotare in cerchio fino a sbattere contro una trave che stava roteando. Nel lampo in cui sollevò il suo viso pietrificato da cherubino, il bordo della trave gli tagliò la sommità del cranio.
Quando Grugno gridò implorante: «San Michele!», l’oscurità lo avvolse. Rinvenne in un mondo di orrore. Un getto costante, caldo, denso e nauseante come vino caldo, gli bagnava il viso e gli ostruiva naso, bocca e occhi. Quella specie di sciroppo nauseabondo che gli ricopriva la faccia gli macchiava i baffi di rosso e gli gocciolava in bocca. Deglutiva in cerca d’aria e ingoiava il sangue. Mentre si sforzava di respirare, il dolore lo rese quasi incosciente. L’aria brulicava di grida, urla, gemiti e polvere, e il suo petto schiacciato bruciava di mille fuochi. Non riusciva a vedere, né a respirare abbastanza da poter piangere. Si portò la mano destra al viso e si asciugò quella sostanza gelatinosa, ma continuava a colare, e udì un gemito straziante vicino a lui, non molto lontano. Si asciugò gli occhi con un gesto meccanico disperato. Dov’era? Che sogno stava facendo? Che cosa sarebbe successo se non si fosse svegliato in tempo per andare al lavoro? Ma che strano; lo stomaco che pulsava, il petto in fiamme, e non vedeva altro che rosso opaco, solo una mano che si muoveva e quel gemito che pareva levarsi davanti al suo viso!
Il rumore e il clamore delle squadre di soccorso gli giunsero da lontano.
Ah, sì, stava sognando a letto, doveva essere così, dovevano essere i pompieri che stavano andando a spegnere un incendio. Oh, poveri diavoli! E se era la sua la casa in fiamme? Con i bambini sparsi nelle varie stanze, chissà dove! Doveva fare del proprio meglio per uscire da quel sogno! Stava nuotando sott’acqua e non era in grado di sollevare la testa e riemergere. Doveva riprendere coscienza per salvare i suoi figli!
Nuotò freneticamente con una mano,
e poi tastò la forma di un viso. Una faccia! C’è Angelina al suo fianco! Grazie a Dio, è sveglia! Le toccò il viso. Si mosse. Era freddo, ispido e umido. «Si muove. Che cos’è?». Le sue dita scivolavano sulle ossa macilente e appuntite, in una massa collosa, fibrosa e cava, cedevole come maccheroni bolliti. Poi una luce grigia rischiarò un po’ la sua visione e il suo cuore fu preso da un attacco di isteria. Una trave era posata sul suo petto e la sua mano destra stringeva una grottesca maschera umana. Sospeso quasi sopra di lui c’era il corpo contorto e senza volto di Tomas. Julio svenne di colpo, con un sospiro inarticolato. Le sue dita mollarono la presa e il viso senza corpo e testa gli cadde accanto, vicino alla sua faccia, mentre il gocciolamento sopra di lui si faceva sempre più lento.
I soccorritori si muovevano cupi con piccone e ascia.
Geremio si riprese con un sussulto, distante dai loro sforzi. Subito intuì cosa era successo e dove si trovava. Gridò selvaggiamente. «Salvatemi! Salvatemi! Sono qui sotto!»
Si fermò esausto. Sentì un dolore lancinante ai genitali. La fredda barra d’acciaio su cui erano impalati gli paralizzava la spina dorsale. Gridò sempre più forte. «Salvatemi! Sono gravemente ferito! Potete salvarmi! Potete salvarmi prima che sia troppo tardi!». Ma le sue grida non andavano al di là delle sue stesse orecchie. Il cemento freddo e umido gli arrivava al mento. Si sentì trasalire. Tra pochi secondi sarò sepolto. Se riesco almeno a respirare, mi raggiungeranno. Sì, ce la faranno! Il suo viso fu subito coperto, sprofondando fra le pietre taglienti. «Aria! Aria!», urlavano i suoi polmoni mentre veniva murato vivo. Morse selvaggiamente l’asse di legno premuta contro la sua bocca. Ne strappò via un pezzo grosso meno di mezzo centimetro. Oh, se solo fosse riuscito a resistere abbastanza a lungo da aprirsi anche il più piccolo buco con i denti e respirare! Doveva farlo! Non c’era altro modo! Doveva! Non c’era altro modo! Era responsabile per la sua famiglia! Non poteva lasciarli così! Non voleva morire! Non poteva finire in quel modo! Aveva morso metà del legno quando i suoi denti si spezzarono e si staccarono dalle gengive a causa di quel conflitto impari. La pressione del cemento era tale e così intensa che le schegge di legno, i monconi dei denti e il sangue non riuscivano a uscirgli dalla bocca soffocata.
Perché non gli era concesso di andare ancora un po’ più in là?
Aria! Presto! Affondò la mandibola nel piccolo spazio vuoto e strinse le labbra in una furia agonizzante cercando di non soffocare. Perché non cede! Madre di Dio, perché non cede? Magari c’è una tacca o un chiodo dietro? Cristo santo! No! No! Fai che ceda… Aria! Aria!
Spinse come un pazzo la mascella sdentata; si scheggiò, si spezzò e un angolo ormai privo di pelle perforò l’asse, aprendo un piccolo varco per l’aria. In uno scoppio disperato, l’ossigeno prigioniero dei polmoni gli uscì dalla bocca lacerata cercando avidamente di ingoiare un soffio d’aria fresca. Provò a respirare, ma era impossibile,
perché la colata si andava indurendo sempre di più. La malta carica di cemento gli scorreva sul viso ferito. I suoi polmoni non riuscivano a gonfiarsi, l’impasto che si rapprendeva li stringeva come in una morsa.» (Cristo fra i muratori, Pietro Di Donato)

Questioni di logica

Post lauream, ancorché avessi una certa avversione per il mondo accademico, m’ero messo in testa di proseguire uno studio iniziato con la tesi, dunque, avendo avuto il benestare del direttore del dipartimento, scelsi il gruppo di ricerca cui aggregarmi. Poiché la mia era ricerca autarchica, per di più di «base», l’uno, tutto sommato, valeva l’altro. Per cui utilizzai un criterio, previa appurata disponibilità ad accogliermi, direi poco scientifico. Optai per quello dei tre che aveva per capo fila l’unico che, ad ingresso universitario ad un certo livello, se ne sarebbe andato in pensione a quello stesso, per una certa ritrosia per gli spasmi carrieristici.

Il tale era stato pure vicino al movimento studentesco, quando quello era da fuoco e fiamme, l’aveva sostenuto, vi aveva preso parte. Gli altri due non erano ostili, ma parevano ascrivibili più alla categoria che allora si definiva dei sinceri democratici, ventre molle, dunque. Tra una pausa e l’altra di un esperimento, d’altronde, c’è bisogno di chiacchiera buona, un bicchiere di vino a chiusura.

Gli altri due mi parevano astemi, certamente erano astenici. Il primo era un tale dinoccolato, sempre con il camice in ordine e la cravatta in bell’evidenza sotto. Cordiale, cortese, affabile, affettato, mai sopra le righe. L’altra, una donna, era schiva, sorridente ma non troppo. Non ricordo di averle sentito pronunciare più di tre parole di fila. Avevo dato una materia con lei, c’era stima reciproca ma non tanto da prenderci un caffè insieme. Ma a farmi decidere fu la logica relazionale, diversissima tra i tre. Cerco di farmi capire meglio. Al «ci hai una sigaretta?» il mio capo – logica normale – poteva rispondere in molti modi, tutti conseguenziali. Non so, «si, tieni», «no, le ho finite», oppure «si ma me ne è rimasta una sola», magari «vattele a comprare», «si, ma non te la dò perché mi stai sulle palle» e cose così. Il secondo – logica logorroica – avrebbe risposto «no, non fumo. Però ti consiglio di smettere perché i danni provocati dal fumo sono tanti. Sai, il tabacco contiene una molteplicità di sostanze cancerogene che, anche in dosi minime, possono produrre conseguenze devastanti…» ed era capace di sostenere il pippone anche per diversi minuti. Ti avrebbe convinto a smettere di fumare, non tanto per il contenuto della sua narrazione dotta, quanto perché in crisi d’astinenza avresti preferito passeggiate spensierate a piedi nudi su braci ardenti piuttosto che riprovare quell’esperienza d’ascolto. La terza – fumava, la sua era logica stringente – avrebbe risposto «si», ma non te la avrebbe data perché la domanda posta non lo prevedeva.
In queste settimane ho scoperto un’altra logica di cui non ero perfettamente a conoscenza, ed anche qui provo a spiegarmi meglio. Se una ragazza viene stuprata, c’è sempre qualche fenomeno di logica, giornalista, opinionista, politico – non voglio offendere nessuno usando questo termine – che dice che un po’ se l’è cercata, per cui una certa responsabilità anche lei ce l’ha, mica si può sempre prendersela con una naturale propensione padronale e predatoria dei maschi? Ovviamente fatto salvo che questi non siano stranieri, nel qual caso… Ma il capolavoro l’ho letto ieri, allorché un tale illuminato, tornando sui fatti di Firenze ha affermato che i clandestini in Italia non ci devono stare, come dire, mica è colpa dello sfruttatore, è lo sfruttato che se l’è cercata e se non si faceva sbarcare al più crepava in mare o in un carcere libico, mica in un sacrosanto cantiere. Pare un sillogismo aristotelico per quanto è logico.

Occhio alla penna

Sette o otto anni fa ero ai banchetti per una raccolta firme per un referendum abrogativo di certe norme che puntava ad estendere la responsabilità del committente ad eventuali inadempienze contrattuali da parte di ditte appaltanti o subappaltanti. Questa una sintesi, non ho voglia di tecnicismi. Su quelli s’era espressa la Corte Costituzionale che aveva dichiarata la legittimità della consultazione. Però non si tenne, il legislatore corse ai ripari con un intervento – a mio avviso – assai blando di recepimento dell’istanza referendaria. Poi anche quegli interventi sono stati rimessi in discussione da altri interventi legislativi. Ora, non penso che quel referendum, qualora si fosse svolto, avrebbe messo fine a tragedie come quelle che nell’ultimo anno hanno fatto un migliaio di morti. Troppo pochi i controlli, troppo poche le persone che se ne devono occupare, e troppi i furbi.

Ma un minimo di strizza a chi fa certe cose border line negli anfratti di certe leggi sarebbe venuta, e forse qualcuno sarebbe tornato a casa. Chissà. Ma, ci si dice, non è tempo per le polemiche, per ora c’è il cordoglio, poi si vedrà, forse, se c’è tempo, ma occorre riflettere, pure a lungo. Ci sono cose urgenti da sistemare, bombe da acquistare.

Eppure i disgraziati sono il 90% di chi calpesta questo pianeta. Qualcuno farebbe bene a considerare che la pazienza delle moltitudini non è infinita, e pure i primi tra i primi, prima o poi, avranno bisogno di qualcuno che gli pulisca il culo. Nel frattempo un piccolo promemoria di ribellione, roba seria, terribilmente cruenta, per qualcuno questione di vita o di morte. Ve la posto qui, così, a buon intenditore.


«Quante persone, lungo questo viaggio, stivano la barca fino a rischiare di farla affondare di cose sciocche che pensano essenziali al piacere e al comfort, ma che in realtà sono soltanto inutile zavorra? Come riempiono la povera piccola imbarcazione fino all’albero di bei vestiti e grandi case, di domestici inutili e di una miriade di amici alla moda ai quali non importa un fico secco di loro, e dei quali a loro importa ancora meno, di costosi divertimenti che non divertono nessuno, di formalità e mode, di finzioni e ostentazioni, e di – oh, la più pesante, la più folle delle zavorre! – della paura di che cosa penserà il vicino, di lussi che possono soltanto nauseare, di piaceri che annoiano, di vuote mostre di sé che, come la corona ferrea del criminale di un tempo, fanno sanguinare e tramortiscono il capo dolorante che la porta! È zavorra uomini… tutta zavorra! Gettatela fuoribordo.» (Jerome K. Jerome)