Sempre più affaccendato, con ancora tirata da leggero e persistente malessere per stanchezza, strascico di fatto che fu morbo d’infesto, ci si ritrova schiavi di tempo, che mai, pare, ve n’è abbastanza. Pure mi decido che non indugerò su ciò che non mi viene adesso, che ne guadagno a sufficienza per impiegarlo al meglio nel non far niente, che è cosa in cui ho talento autentico. E se mi viene di scrivere, ma non abbastanza, vi riciclo il già scritto che scriverei pure io così, ma senza meglio di certo. Nè vi manco di musica, spero buona, che aggradi ai più, che vi leggete il seguito con quella di fondo.
“Quante persone, lungo questo viaggio, stivano la barca fino a rischiare di farla affondare di cose sciocche che pensano essenziali al piacere e al comfort, ma che in realtà sono soltanto inutile zavorra? Come riempiono la povera piccola imbarcazione fino all’albero di bei vestiti e grandi case, di domestici inutili e di una miriade di amici alla moda ai quali non importa un fico secco di loro, e dei quali a loro importa ancora meno, di costosi divertimenti che non divertono nessuno, di formalità e mode, di finzioni e ostentazioni, e di – oh, la più pesante, la più folle delle zavorre! – della paura di che cosa penserà il vicino, di lussi che possono soltanto nauseare, di piaceri che annoiano, di vuote mostre di sé che, come la corona ferrea del criminale di un tempo, fanno sanguinare e tramortiscono il capo dolorante che la porta! È zavorra uomini… tutta zavorra! Gettatela fuoribordo.
Rende la barca così pesante che remare vi sfinisce. La rende così lenta e pericolosa da manovrare che l’ansia e la preoccupazione non vi concendono mai un attimo libero; e non avete mai un momento di riposo per sognare pigramente, mai un momento per osservare le nuvole che sfiorano le onde spinte dal vento, o i scintillanti raggi di sole che giocano con le increspature, o i grandi alberi sull’argine che si curvano per fissare la loro immagine riflessa, o il bosco tutto verde e oro, o i gigli bianchi e gialli, o i giunchi che ondeggiano oscuri o i falaschi, o le orchidee o gli azzurri non-ti-scordar-di-me. Liberatevi della zavorra, uomini!
Lasciate che l’imbarcazione della vostra vita sia leggera, carica soltanto di quello di cui avete bisogno: una casa accogliente e qualche semplice piacere, un paio di amici degni di questo nome, qualcuno da amare e che vi ami, un gatto, un cane, e una o due pipe, cibo e indumenti a sufficienza e da bere in abbondanza, perché la sete è una compagna pericolosa. La barca sarà più facile da governare, e non sarà tanto soggetta a capovolgimenti, e se si capovolgerà non sarà così grave; la merce semplice e di buona qualità sopporta un bagno. Avrete tempo per pensare oltre che per lavorare. Tempo per scaldarvi al sole della vita… tempo per ascoltare le melodie eoliche che il vento divino trae dalle corde del cuore umano tutt’intorno a noi… tempo per… Scusate tanto. Divagavo.” (Tre uomini in barca, per non tacer del cane, Jerome K. Jerome)
Che Radio Pirata si fa Cinquantasette che è Festa di Lavoro, pure faccio auguri a chi lavora e a chi no, che cerca a disperazione che Costituzione ad Articolo 1 pare non c’è o se c’è manca di specifica a “sfrutto”, e pure a ripudio di guerra d’articolo 11 si fa occhiolino distratto. Ma vado di musica che è compito statutario di trasmissione per pace, dunque pare con colbacco in testa.
Che morto ammazzato di lavoro, dice statistica – che la fa cervello asettico di matematica -, è a due al giorno da inizio d’anno. Che è solo storia di distratto a distrazione mosso, che muore a metto piede in fallo mentre passa betoniera o caterpillar, pure scivola d’ascensore, inciampa da impalcatura, precipita da palazzo e ciminiera, non collaborò col dire son morto per destino cinico e baro.
Che di tanti morti d’ammazzo pare guerra guerreggiata, ma è roba disfattista se oggi a bandiera colorata si dice basta con tale guerra, pure con altra che tuona di bomba. E io vado di suono giusto, che faccio colonna sonora.
Che radio si ripete se dice che cotali creature di cervello raffinatissimo dice che è scandalo a chiedere soldo per lavoro a ore senza tetto, che a tali posti già è a pagamento onore di fatica, pure se è a sgobbo indefinito, che s’impara a far fame dove si serve porzione dabbene. Che pure questo è paese civile che istituzione non s’indigna, nemmanco popolo fa gesto di sorpresa e dice ad illuminatissimo, sai che c’è, che forse è meglio che conosci via d’esilio a paese civile dove lavoro è a schiavo, che qui non si dice, pure se è. Musica sia, per lavoro a cottimo un tanto al chilo e contratto di clausura con vita altra che non è a facchinaggio.
Che è giorno di rischio orrendo questo che pare sia ad intenzione di taluni manifestanti per lavoro, protesta pure contro guerra, dunque contro lavoro di persona dabbene che fabbrica, ad onesto progetto per futuro fulgido, bomba ad esplodo certo, per taglio armata industriale di riserva e creo occupazione a sterminio di pretendente. Ma anche faccio di profugo clandestino prodotto di braccia a costo basso, che lavo piatto, colgo pomodoro e, a senza diritto, calmiero prezzo di centro commerciale per salsina gourmet. E meritevolissiono dice basta a tal schiavo d’altro pianeta, che schiavo sia anche autarchico senza sostituzione di massa sottomessa. Musichissima di lavoro concedo ad ascolto di meritato riposo di weekend.
A dire buon lavoro pare ossimoro, che, a cautela, faccio spiegare da collaboratore subordinato con contratto di apprendistato, prima che faccio di lui censura che nacque in posto strano: “Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendere dalla sua schiena.” (Lev Tolstoj)
E di cosa dovrei scrivere oggi, di quegli altri morti d’annego che ormai ad assuefazione collettiva non paiono più qualche decina ma solo trafiletto a cronaca locale, di bomba che diventa superbomba per partecipazione corale a guerra di corsa ad arma, di acqua che s’asciuga per termosifone acceso, o ad imbarazzo per sovvenzione a banca di speculo forte? Scrivo solo che fra poco smetto di scrivere per qualche giorno che c’è spiegazione precisa a questo. Pure, però, a voi vi leggo e se posso lascio commento. Ma io, adesso non posso più di tanto che altro me m’ha catturato a castigo di suo imperituro impegno tutto a fronte di tutto.
Insomma, egli – altro me dico – s’è messo su calendario cose da tremore di vene ai polsi che s’affatica a sindacato, a comizionzo e conferenzuccia a dove lo chiamano, si presenta libro suo (che almeno si paga qualche spesa per il resto che sempre fu gratis et amore dei), scribacchia per questa e quella rivista di cosa serissima, si affanna per lavoro di scuola che pare si versa tale lavoro da cornucopia degli abissi, pure se pare tela di Penelope che non v’è né fine nemmeno costrutto per scuola a similitudine d’ufficio disbrigo pratiche. Ed io, che m’ero ricavato spazio di nessunitudine definitiva per libertà conclamata a bloghettino di sassi che parlano, vengo trascinato in siffatto modo ad affanno imperituro. Ma egli pure, a girar come trottola, a mangiar panino al volo a fronte di consumo di fegato e riverso di bile, a non farsi fermo se non a semaforo per trasbordo da parte ad altra, a ricavar spazio a muraglione di tempo per caffè e sigaretta al massimo, pure non sposta virgola, al più mette punti ad esclamazione di disfatta autentica. E io, a notte che fu inoltrata, gli dissi che va bene, che mi limito a scrittura a quando passò la buriana e lo seguo, ma feci appuntino preciso preciso, che riporto qui tale a come lo concepii. A vedere bene – che mi rivolsi ad egli con tu perentorio di confidenza, crescemmo e convivemmo insieme, financo in corpo medesimo sì da che venne vagito a nascita in illo tempore – ti sbatti e ti risbatti a consapevolezza che il mondo mai cambiasti, nemmanco mi pare ce la farai di pelo appena, di più t’accollasti tale mole d’incombenza a costo esattamente zero, pure con carico di debito conto terzi che finisti quasi a far fame. Ma non t’avvedesti di fatto che c’è capitalismo brutale e cinico? E se tale energia a spreco si volge, pure a tempo determinato, ad accumulo di doblone, si può poi mollare tutto e farsi bilocale frontemare a località deserta, magari isolonza a scarsa o nulla di popolazione. E ci si va ad armo di canna, e zampirone, che a lanciar lenza con boccone amaro per sfratto di sfrattante Bernardo l’eremita c’è speranza che ci si consola con cena di cerniotto e sarago.
Che a contorno ci si pensa con armo d’orto a produzione di pomodoro che per sale di vento si fece a meno di condimento. E unico contatto con mondo fu con corriere per consegna di librino ogni tanto e per arrivo di grande nave cisterna per consegna di vino rosso. Che musica ce n’è e pure abbastanza da recar con noi e il resto fu pace, scoglio, sale e vento, infinito di sguardo, silenzio di tempesta.
Manco a dirlo, mi ignorò. E comunque, se ce la faccio torno tra qualche giorno. Fate cose buone voi che passate di qui, che io mi dimenticai come si fa.
S’appresta grande armata d’Occidente a partecipare a gusto di bomba, e popolujme è ignaro circa suoi destini trascritti in segrete stanze, a leccarsi ferite per strabolletta a non arrivo nemmeno a metà mese.
“Ma che siamo noi, che siamo?… Formicole che s’ammazzano di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo. In fila avant’arriere senza sosta sopra quest’aia tonda che si chiama mondo, carichi di grani, paglie, pùliche, a pro’ di uno, due più fortunati. E poi? Il tempo passa, ammassa fango, terra sopra un gran frantumo d’ossa. E resta, come segno della vita scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra, qualche scena o figura.” (Vincenzo Consolo)
Che a festa finita, questo ci resta, che è condizione di formica, ad accumulare cose conto terzi, manco per regina però, che, ricca e spietata, almeno pare ha istinto materno, financo progetto di conservazione della specie. Peggio di formiche, a finire sotto al tallone, non per fine d’occasione di passeggiata distratta d’altro grande e grosso, ma tallone sempre è in testa che manco lo senti più a consapevolezza, però fa male uguale, e padrone di tallone fece suo il progetto di estinzione di massa di sua stessa specie per puro godimento di conto in banca di taluni sempre meno. Che per quello pare che lavoro di moltitudine sia a sfrutto e basta, con contrattualizzazione per bava alla bocca ed insofferenza in permanenza. Che mai fu colpa d’alto rango, sempre d’ultimo peggio che noi che è a maggior patimento. Che c’è tanti che sperano per rientri a routine che di vite spente fanno a riempimento di fatica che svuota idee. E non s’avvede moltitudine di propria fatica per riempir granai che alta sfera gaudente usa sfrutto di braccia e di mente, pure magazzino stracolmo, per far guerra a cottimo, per far distruzione di natura a manca e destra, per decidere di destino di massa deforme e claudicante di pensiero a che viene peggio, che se c’è peggio quella più si piega a schiaccio di tallone per assuefazione definitiva. Ch’ebbe sensazione di consapevolezza solo a fatto di pubblico memoria di vacanza d’io con sfondo di meraviglia d’uno sopra l’altro su pagina di faccia libro e affini, quale surrogato di libero pensiero.
Rivolta sarebbe dire, so cosa sto facendo, so cosa mi fate fare, dire che pure per lavoro divento merce un tanto al chilo, ma ora lo so. Che se so, vertice di piramide è alto assai, ma si scordò di fare forte fondamenta di base per crollo tra un istante. Rivolta è dire che ultimo è con ultimo e più ultimo assieme qual fratello, e far da piedistallo ci venne un po’ a noia, che c’è a scostamento improvviso di tutti a medesimo tempo per crollo di piramide, di busto impomatato.
Che c’è a più di ieri gioco di risiko che ho carrarmato tanto grosso che tuo trema di brutto, che pare gioco d’i studentato’adolescente a chi ha orpello a sovradimensione di miglior dotazione. E c’è corsa a chi spara la cosa più grossa che si spende tanto che a metà basta a sfamare intero creato. Ma quale dio è a prima di menzione di patria e famiglia – che poi a parlar di famiglia a mammasantissima a caduta di rete pare cosa strana – che non capisco? Pure si spende tanto di quella cassa di doblone a far morto d’ammazzo, a far che non ti curo, nemmeno che ti sfamo e disseto, pure a cercar vita – questa la lessi, me ne approprio impropriamente – ad altra parte di universo, mentre qua si fa a decremento demografico coatto. Ch’io spero sempre che viene ad emozione guardar la luna, che ci si dimentica d’altro nefasto intendimento. Così rifaccio questa cosa, che a me piace assai.
“I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare senz’aver finito d’estrarre le tante casse di zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar la calcara. Cacciagallina, il soprastante, s’affierò contr’essi, con la rivoltella in pugno, davanti la buca della Cace, per impedire che ne uscissero.
– Corpo di… sangue di… indietro tutti, giù tutti di nuovo alle cave, a buttar sangue fino all’alba, o faccio fuoco!
– Bum! – fece uno dal fondo della buca. – Bum! – echeggiarono parecchi altri; e con risa e bestemmie e urli di scherno fecero impeto, e chi dando una gomitata, chi una spallata, passarono tutti, meno uno.
Chi? Zi’ Scarda, si sa, quel povero cieco d’un occhio, sul quale Cacciagallina poteva fare bene il gradasso. Gesù, che spavento! Gli si scagliò addosso, che neanche un leone; lo agguantò per il petto e, quasi avesse in pugno anche gli altri, gli urlò in faccia, scrollandolo furiosamente:
– Indietro tutti, vi dico, canaglia! Giù tutti alle cave, o faccio un macello!
Zi’ Scarda si lasciò scrollare pacificamente. Doveva pur prendersi uno sfogo, quel povero galantuomo, ed era naturale se lo prendesse su lui che, vecchio com’era, poteva offrirglielo senza ribellarsi. Del resto, aveva anche lui, a sua volta, sotto di sé qualcuno più debole, sul quale rifarsi più tardi: Ciàula, il suo caruso.
Quegli altri… eccoli là, s’allontanavano giù per la stradetta che conduceva a Comitini; ridevano e gridavano:
– Ecco, sì! tiènti forte codesto, Cacciagallì! Te lo riempirà lui il calcherone per domani!
– Gioventù! sospirò con uno squallido sorriso d’indulgenza zi’ Scarda a Cacciagallina.
E, ancora agguantato per il petto, piegò la testa da un lato, stiracchiò verso il lato opposto il labbro inferiore, e rimase così per un pezzo, come in attesa.
Era una smorfia a Cacciagallina? o si burlava della gioventù di quei compagni là?
Veramente, tra gli aspetti di quei luoghi, strideva quella loro allegria, quella velleità di baldanza giovanile. Nelle dure facce quasi spente dal bujo crudo delle cave sotterranee, nel corpo sfiancato dalla fatica quotidiana, nelle vesti strappate, avevano il livido squallore di quelle terre senza un filo d’erba, sforacchiate dalle zolfare, come da tanti enormi formicai.
Ma no: zi’ Scarda, fisso in quel suo strano atteggiamento, non si burlava di loro, né faceva una smorfia a Cacciagallina. Quello era il versaccio solito, con cui, non senza stento, si deduceva pian piano in bocca la grossa lagrima, che di tratto in tratto gli colava dall’altro occhio, da quello buono.
Aveva preso gusto a quel saporino di sale, e non se ne lasciava scappar via neppur una.
Poco: una goccia, di tanto in tanto; ma buttato dalla mattina alla sera laggiù, duecento e più metri sottoterra, col piccone in mano, a ogni colpo gli strappava come un ruglio di rabbia dal petto, zi’ Scarda aveva sempre la bocca arsa: e quella lagrima, per la sua bocca, era quel che per il naso sarebbe stato un pizzico di rapè.
Un gusto e un riposo.
Quando si sentiva l’occhio pieno, posava per un poco il piccone e, guardando la rossa fiammella fumosa, della lanterna confitta nella roccia, che alluciava nella tenebra dell’antro infernale qualche scaglietta di zolfo qua e là, o l’acciajo del paolo o della piccozza, piegava la testa da un lato, stiracchiava il labbro inferiore e stava ad aspettar che la lagrima gli colasse giù, lenta, per il solco scavato dalle precedenti.
Gli altri, chi il vizio del fumo, chi quello del vino; lui aveva il vizio della sua lagrima.
Era del sacco lacrimale malato e non di pianto, quella lagrima; ma si era bevute anche quelle di pianto, zi’ Scarda, quando, quattr’anni addietro, gli era morto l’unico figliolo, per lo scoppio d’una mina, lasciandogli sette orfanelli e la nuora da mantenere. Tuttora gliene veniva giù qualcuna più salata delle altre; ed egli la riconosceva subito: scoteva il capo, allora, e mormorava un nome:
– Calicchio.
In considerazione di Calicchio morto, e anche dell’occhio perduto per lo scoppio della stessa mina, lo tenevano ancora lì a lavorare. Lavorava più e meglio di un giovane; ma ogni sabato sera, la paga gli era data, e per dir la verità lui stesso se la prendeva, come una carità che gli facessero: tanto che, intascandola, diceva sottovoce, quasi con vergogna:
– Dio gliene renda merito.
Perché, di regola, doveva presumersi che uno della sua età non poteva più lavorar bene.
Quando Cacciagallina alla fine lo lasciò per correre dietro agli altri e indurre con le buone maniere qualcuno a far nottata, zi’ Scarda lo pregò di mandare almeno a casa uno di quelli che ritornavano al paese, ad avvertire che egli rimaneva alla zolfara e che perciò non lo aspettassero e non stessero in pensiero per lui; poi si volse attorno a chiamare il suo caruso, che aveva più di trent’anni (e poteva averne anche sette o settanta, scemo com’era); e lo chiamò col verso con cui si chiamava le cornacchie ammaestrate:
– Tè, pà! tè, pà!
Ciàula stava a rivestirsi per ritornare al paese.
Rivestirsi per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quella che un tempo era stata forse una camicia: l’unico indumento che, per modo di dire, lo coprisse durante il lavoro. Toltasi la camicia, indossava sul torace nudo, in cui si potevano contare a una a una tutte le costole, un panciotto bello largo e lungo, avuto in elemosina, che doveva essere stato un tempo elegantissimo e sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia, che a posarlo per terra stava ritto). Con somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei quali ciondolavano, e poi se lo mirava addosso, passandoci sopra le mani, perché veramente ancora lo stimava superiore a’ suoi meriti: una galanteria. Le gambe nude, misere e sbilenche, durante quell’ammirazione, gli si accapponavano, illividite dal freddo. Se qualcuno dei compagni gli dava uno spintone e gli allungava un calcio, gridandogli: – Quanto sei bello! – egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un riso di soddisfazione, poi infilava i calzoni, che avevano più d’una finestra aperta sulle natiche e sui ginocchi: s’avvolgeva in un cappottello d’albagio tutto rappezzato, e, scalzo, imitando meravigliosamente a ogni passo il verso della cornacchia – cràh! cràh! – (per cui lo avevano soprannominato Ciàula), s’avviava al paese.
– Cràh! cràh! – rispose anche quella sera al richiamo del suo padrone; e gli si presentò tutto nudo, con la sola galanteria di quel panciotto debitamente abbottonato.
– Va’, va’ a rispogliarti, – gli disse zi’ Scarda. – Rimettiti il sacco e la camicia. Oggi per noi il Signore fa notte.
Ciàula non fiatò; restò un pezzo a guardarlo a bocca aperta, con occhi da ebete; poi si poggiò le mani sulle reni e, raggrinzando in su il naso, per lo spasimo, si stirò e disse:
– Gna bonu! (Va bene).
E andò a levarsi il panciotto.
Se non fosse stato per la stanchezza e per il bisogno del sonno, lavorare anche di notte non sarebbe stato niente, perché laggiù, tanto, era sempre notte lo stesso. Ma questo, per zi’ Scarda.
Per Ciàula, no. Ciàula, con la lumierina a olio nella rimboccatura del sacco su la fronte, e schiacciata la nuca sotto il carico, andava su e giù per la lubrica scala sotterranea, erta, a scalini rotti, e su, su, affievolendo a mano a mano, con fiato mòzzo, quel suo crocchiare a ogni scalino, quasi un gemito di strozzato, rivedeva a ogni salita la luce del sole. Dapprima ne rimaneva abbagliato; poi col respiro che traeva nel liberarsi del carico, gli aspetti noti delle cose circostanti gli balzavano davanti; restava, ancora ansimante, a guardarli un poco e, senza che n’avesse chiara coscienza, se ne sentiva confortare.
Cosa strana: della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava in agguato la morte, Ciàula non aveva paura, né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in uno stagno d’acqua sulfurea: sapeva sempre dov’era; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno.
Aveva paura, invece, del bujo vano della notte.
Conosceva quello del giorno, laggiù, intramezzato da sospiri di luce, di là dall’imbuto della scala, per cui saliva tante volte al giorno, con quel suo specioso arrangolio di cornacchia strozzata. Ma il bujo della notte non lo conosceva.
Ogni sera, terminato il lavoro, ritornava al paese con zi’ Scarda; e là, appena finito d’ingozzare i resti della minestra, si buttava a dormire sul saccone di paglia per terra, come un cane; e invano i ragazzi, quei sette nipoti orfani del suo padrone, lo pestavano per tenerlo desto e ridere della sua sciocchezza; cadeva subito in un sonno di piombo, dal quale, ogni mattina, alla punta dell’alba, soleva riscuoterlo un noto piede.
La paura che egli aveva del bujo della notte gli proveniva da quella volta che il figlio di zi’ Scarda, già suo padrone, aveva avuto il ventre e il petto squarciato dallo scoppio della mina, e zi’ Scarda stesso era stato preso in un occhio.
Giù nei varii posti a zolfo, si stava per levar mano, essendo già sera, quando s’era sentito il rimbombo tremendo di quella mina scoppiata. Tutti i picconieri e i carusi erano accorsi sul luogo dello scoppio; egli solo, Ciàula, atterrito, era scappato a ripararsi in un antro noto soltanto a lui.
Nella furia di cacciarsi là, gli s’era infranta contro la roccia la lumierina di terracotta, e quando alla fine, dopo un tempo che non aveva potuto calcolare, era uscito dall’antro nel silenzio delle caverne tenebrose e deserte, aveva stentato a trovare a tentoni la galleria che lo conducesse alla scala; ma pure non aveva avuto paura. La paura lo aveva assalito, invece, nell’uscir dalla buca nella notte nera, vana.
S’era messo a tremare, sperduto, con un brivido per ogni vago alito indistinto nel silenzio arcano che riempiva la sterminata vacuità, ove un brulichio infinito di stelle fitte, piccolissime, non riusciva a diffondere alcuna luce.
Il bujo, ove doveva essere lume, la solitudine delle cose che restavan lì con un loro aspetto cangiato e quasi irriconoscibile, quando più nessuno le vedeva, gli avevano messo in tale subbuglio l’anima smarrita, che Ciàula s’era all’improvviso lanciato in una corsa pazza, come se qualcuno lo avesse inseguito.
Ora, ritornato giù nella buca con zi’ Scarda, mentre stava ad aspettare che il carico fosse pronto, egli sentiva a mano a mano crescersi lo sgomento per quel bujo che avrebbe trovato, sbucando dalla zolfara. E più per quello, che per questo delle gallerie e della scala, rigovernava attentamente la lumierina di terracotta.
Giungevano da lontano gli stridori e i tonfi cadenzati della pompa, che non posava mai, né giorno né notte. E nella cadenza di quegli stridori e di quei tonfi s’intercalava il ruglio sordo di zi’ Scarda, come se il vecchio si facesse ajutare a muovere le braccia dalla forza della macchina lontana.
Alla fine il carico fu pronto, e zi’ Scarda ajutò Ciàula a disporlo e rammontarlo sul sacco attorto dietro la nuca.
A mano a mano che zi’ Scarda caricava, Ciàula sentiva piegarsi, sotto, le gambe. Una, a un certo punto, prese a tremargli convulsamente così forte che, temendo di non più reggere al peso, con quel tremitìo, Ciàula gridò:
– Basta! basta!
– Che basta, carogna! – gli rispose zi’ Scarda.
E seguitò a caricare.
Per un momento la paura del bujo della notte fu vinta dalla costernazione che, così caricato, e con la stanchezza che si sentiva addosso, forse non avrebbe potuto arrampicarsi fin lassù. Aveva lavorato senza pietà tutto il giorno. Non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora; ma sentiva che, proprio, non ne poteva più.
Si mosse sotto il carico enorme, che richiedeva anche uno sforzo d’equilibrio. Sì, ecco, sì, poteva muoversi, almeno finché andava in piano. Ma come sollevar quel peso, quando sarebbe cominciata la salita?
Per fortuna, quando la salita cominciò, Ciàula fu ripreso dalla paura del bujo della notte, a cui tra poco si sarebbe affacciato.
Attraversando le gallerie, quella sera, non gli era venuto il solito verso della cornacchia, ma un gemito raschiato, protratto. Ora, su per la scala, anche questo gemito gli venne meno, arrestato dallo sgomento del silenzio nero che avrebbe trovato nella impalpabile vacuità di fuori.
La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all’ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto.
Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava di sopra, e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva su, su, su, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassù lassù si apriva come un occhio chiaro, d’una deliziosa chiarità d’argento.
Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
Possibile?
Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.
Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna… C’era la Luna! la Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.” (Ciàula scopre la luna, Luigi Pirandello)
Che si fece fine vita pure d’anno nefasto, che fu abile solo a costruire enorme tappeto a consuetudine di archiviarsi sotto polvere che nemmeno bidone aspiratutto pare a capacità di levar di torno. E io mi faccio latore a postino preciso di auguri a fatto che diventa polvere a nascondere proprio sotto quello di trama finissima ed ampio contenuto.
Auguri, dunque, che facciamo ad inizio per donna di paese vario, che a citarne un paio come Afganistan e pure Iran, mi pare faccio sconto per difetto. Che quella donna, a massacro che non rispetta regola sacra, è a furor di popolo sano d’Occidente grande vittima di iattura integralista, ma stesso popolume a civiltà elevatissima spolvera detta donna collettiva sotto tappeto ad arrivo di prima bolletta, ch’è questione di priorità. Pure fece a grande scandalo che finì vita di povere ragazze a reato gravissimo di capelli sciolti, ma sotto il tappeto furono a più di cento donne ad anno andato di nostro paese a sommaria esecuzione di tribunale d’unico maschio ché non si fecero a comportamento adeguato. Auguri a lavoratore d’ogni tribù, che come scarafaggio fa a nasconderello sotto tappeto, che fece grande stadio a simil fatta d’arena per gioco ad esultanza di gente civile, convincimento diffuso per spartizione a pioggia di sacco di dobloni che fecero come scopa a spazzar via ricordo di morto ammazzato a 6500 per godimento e sponsorizzazione. Che già in altri anni pare c’è poco spazio sotto il tappeto, che quello passato è stato anno, come dissi, di grande ordito, che dunque non manca posto per altro morto ammazzato a scritto di lavoro, non di paese a medioevo per consuetudine di mostrar spettacolo come arena, ma a tiro di soffio di naso nostro, che furono quasi 700, e manco ci fu divertimento di palla che rotola. A loro augurio mi pare non serve granché, ma lo faccio a congiunti d’essi, che anno nuovo – ma pare difficile assai – venga a far giustizia. Per ora, loro, come congiunto spacciato, fanno solo granello ad affollare rifugio di tappeto. Auguri, augurissimi, a chi scappa, a chi fugge da ogni guerra, – che pare oggi ce ne sia una sola a degno accoglimento a sgomitar per partecipazione – auguri a tutti i disertori, a chi fa di vita priorità pure a costo di stessa vita, ad imbarco per rischio d’annego, per non morir di bombarda, d’amputo testa, impicco per scarso rendimento a religione, fame e sete. A tutti quelli che ci provano, auguri, pure se quando non ci riescono sono solo polvere anch’essi, a riempir di sotto il tappeto. E se ce la fanno a farsi congiungimento a Porto Salvo, sono a pubblico ludibrio, causa d’ogni male, financo d’orticaria e fastidio per sabbia nelle mutande.
Auguri pure a quei due o tre che si diedero a razzia sotto casa mia di povera e miserabile bottega, senza ricavarne altro che danno di catenaccio logoro. Auguri che non ebbero a trovar nemmeno centesimo, ma ci fu coro collettivo ad invocar per loro taglio di mani e ghigliottina a pubblica piazza. Finiranno sotto il tappeto, a cella di galera a prestissimo, che ad ultimo tentativo di scasso a poco centesimo si scordarono cellulare a bancone di panificio. Questo è destino che a loro tocca, che non si fecero università prestigiosa a imparar a prender tangente milionaria, ma risposero con sbaglio di scasso ad altro disgraziato a diniego collettivo di ci hai ‘na sigaretta dammi cento lire. Si fecero metafora elevatissima, mentre diventavano altra polvere e a loro disgraziata insaputa capro espiatorio, di guerra d’ultimo contro ultimo a saziar la pancia di padroni del vapore. Auguri al mio mare, che stamane mi guardava a sgomento e pareva che mi chiedesse perché c’è desiderio di far assembramento a fondale suo di poveri cristi, che lui se li prende che altro non può fare, ma dice lui che non è tappeto, non pretende polvere a gonfiarne l’onde. Auguri a tutti quelli, tanti altri, che fanno polvere sotto il tappeto, ma anche a chi passa da qui, per caso o per volere, ed auguri pure a me, che mi saluto l’anno con poesia che mi parve giusta, e che rendo a desiderio di condivisione,
“Pace non cerco, guerra non sopporto Tranquillo e solo vo pel mondo in sogno Pieno di canti soffocati . Agogno La nebbia ed il silenzio in un gran porto In un gran porto pien di vele lievi Pronte a salpar per l’orizzonte azzurro Dolci ondulando, mentre che il sussurro Del vento passa con accordi brevi E quegli accordi il vento se li porta Lontani sopra il mare sconosciuto. Sogno. La vita è triste ed io son solo. O quando o quando in un mattino ardente L’anima mia si sveglierà nel sole Nel sole eterno, libera e fremente.” (Dino Campana, Georgia O’Keeffe “The Beyond”)
Che ormai manco me lo sento di dire “io” quando non ho minuti per grattarmi la testa. Che io non ci sono portato a non avere tempo, non è cosa mia. È quell’altro me che s’affanna senza soluzione, pure mi coinvolge, senza pietà, che dice che da solo non gli pare giusto, che devo dare contributi. Poi, sotto sotto, lo so che manco lui c’è portato, ma pare non se n’avveda, s’arrabatta su tutto. Niente tralascia. Glielo ribadisco, l’imploro, lo supplico, talora, di lasciare perdere, di starsene buonino, che altre cose abbiamo da fare, ben più importanti. Niente, da quest’orecchio non ci sente.
Mi fa persuaso, però, ed a sua insaputa, che di ragione ne ho a bizzeffe, nemmeno basterebbero tomi interi per elencarle nella loro arguta giustezza. Mi sorprendo che non s’annessuna come mi piacerebbe che facesse, così, ad armi pari, identità sovrapponibili, potremmo dedicarci alle cose che ci aggradano, quelle si, davvero. Che tempo non ne rimane di far visita alle nostre bettole, per un jazz che langue, pure per starsene un po’ di più su queste pagine, a chiacchierare come fossimo al baretto da Piero, davanti all’uovo sodo e il vino, per la protoapericena. Né ce ne resta per sorprenderci a rigirarci felicemente pollici su uno scoglio, oppure on the road, come ci compete. Ma pure stesi sul divano andrebbe bene, un libro, un bicchiere.
No, non demorde, che pare che se smette collassa l’universo. Io glielo avevo detto che se ci mettevamo a fare gli insegnanti, poi, ce ne saremmo pentiti. E lui, invece, che piglia tutto come missione umanitaria, ci si butta a capofitto. Anche se scopre che non esiste fare l’insegnante, che pare furiere dell’esercito del Regno delle Due Sicilie (ma quale è l’altra?), al più passacarte di tribunale bizantino. Che quando entra in classe si riposa, si gode il momento. S’è messo a sindacato, che non ce n’era altro da fare, pure gratis et amore dei e le beghe dell’uno, come di tutti, diventano cosa sua, gli arrovellano i pensieri, che, pure se non becca una lira, ci sono taluni che lo guardano come fosse collettore d’ogni privilegio gli sia dato di depredare. Ultimamente tira il fiato coi denti. Ma non è che non gli s’appresentano cose interessanti. A bizzeffe. Una mostrettina ogni tanto, che ce lo chiamano pure, ch’è occasione per starsene in giro e vedere gente che gli aggrada, e lui tre su quattro dice no, che non può, pare financo che se la tira. Anche un editore che gli vuole pubblicare una cosa, che s’è fatto sentire, se la vive come agonia che – dice – non gli basta il tempo per l’ordinaria amministrazione. Ma quale dovrebbe essere l’ordinaria amministrazione, scavare trincee e riempirle, per tenere alto il morale della truppa? Che il destino che ci competeva era altro, né patria né Dio, come al tempo quando non c’era il tempo, quando eravamo uno, quando avevamo derubricato generalità anagrafica al niente, quando avremmo detto a Boccadoro, hazte a un lado, niña, que no tengo nada que hacer, y quiero hacerlo bien, quando pensavamo di avere già vinto, con quell’enorme privilegio che ci eravamo presi d’essere nessuno, in terra di qualunque.
Che ormai manco me lo sento di dire “io” quando non ho minuti per grattarmi la testa. Che io non ci sono portato a non avere tempo, non è cosa mia. È quell’altro me che s’affanna senza soluzione, pure mi coinvolge, senza pietà, che dice che da solo non gli pare giusto, che devo dare contributi. Poi, sotto sotto, lo so che manco lui c’è portato, ma pare non se n’avveda, s’arrabatta su tutto. Niente tralascia. Glielo ribadisco, l’imploro, lo supplico, talora, di lasciare perdere, di starsene buonino, che altre cose abbiamo da fare, ben più importanti. Niente, da quest’orecchio non ci sente.
Mi fa persuaso, però, ed a sua insaputa, che di ragione ne ho a bizzeffe, nemmeno basterebbero tomi interi per elencarle nella loro arguta giustezza. Mi sorprendo che non s’annessuna come mi piacerebbe che facesse, così, ad armi pari, identità sovrapponibili, potremmo dedicarci alle cose che ci aggradano, quelle si, davvero. Che tempo non ne rimane di far visita alle nostre bettole, per un jazz che langue, pure per starsene un po’ di più su queste pagine, a chiacchierare come fossimo al baretto da Piero, davanti all’uovo sodo e il vino, per la protoapericena. Né ce ne resta per sorprenderci a rigirarci felicemente pollici su uno scoglio, oppure on the road, come ci compete. Ma pure stesi sul divano andrebbe bene, un libro, un bicchiere.
No, non demorde, che pare che se smette collassa l’universo. Io glielo avevo detto che se ci mettevamo a fare gli insegnanti, poi, ce ne saremmo pentiti. E lui, invece, che piglia tutto come missione umanitaria, ci si butta a capofitto. Anche se scopre che non esiste fare l’insegnante, che pare furiere dell’esercito del Regno delle Due Sicilie (ma quale è l’altra?), al più passacarte di tribunale bizantino. Che quando entra in classe si riposa, si gode il momento. S’è messo a sindacato, che non ce n’era altro da fare, pure gratis et amore dei e le beghe dell’uno, come di tutti, diventano cosa sua, gli arrovellano i pensieri, che, pure se non becca una lira, ci sono taluni che lo guardano come fosse collettore d’ogni privilegio gli sia dato di depredare. Ultimamente tira il fiato coi denti. Ma non è che non gli s’appresentano cose interessanti. A bizzeffe. Una mostrettina ogni tanto, che ce lo chiamano pure, ch’è occasione per starsene in giro e vedere gente che gli aggrada, e lui tre su quattro dice no, che non può, pare financo che se la tira. Anche un editore che gli vuole pubblicare una cosa, che s’è fatto sentire, se la vive come agonia che – dice – non gli basta il tempo per l’ordinaria amministrazione. Ma quale dovrebbe essere l’ordinaria amministrazione, scavare trincee e riempirle, per tenere alto il morale della truppa? Che il destino che ci competeva era altro, né patria né Dio, come al tempo quando non c’era il tempo, quando eravamo uno, quando avevamo derubricato generalità anagrafica al niente, quando avremmo detto a Boccadoro, hazte a un lado, niña, que no tengo nada que hacer, y quiero hacerlo bien, quando pensavamo di avere già vinto, con quell’enorme privilegio che ci eravamo presi d’essere nessuno, in terra di qualunque.
“C’è un tempo in cui devi lasciare i vestiti, quelli che hanno già la forma abituale del tuo corpo, e dimenticare il solito cammino, che sempre ci porta negli stessi luoghi. È l’ora del passaggio: e se noi non osiamo farlo, resteremo sempre lontani da noi stessi.” (Fernando Pessoa)
Quel tempo arriva nelle forme che vuole, quando desidera di farlo, mai si presenta a richiesta, finge di non essere stato invitato, pure se ad evocarlo è stata ogni stilla di sangue e sudore che puoi buttar fuori. Ci hai pensato a quel tempo, in un lasso di tempo infinito, indeterminato, non te ne serve altro. È roba che si consuma a gambe ferme, non quando ti muovi, nemmeno quando ti si muovono le consapevolezze doverose del quotidiano, quando l’abito da lavoro che t’è toccato pare così logoro che non c’è più spazio per immaginare il colore della carne che prova a nascondere. Che è dato a stupirsi pure per la scoperta d’essere colorato in qualche modo, non d’amorfo grigio, che era cosa che desumevi da stanchezze definitive. Si realizza di forme concrete un tempo ancora d’orizzonte, ch’è perso nel chiaro d’una luna, forse nelle cappe del sole di scirocco, nel rosso della sabbia del deserto che s’avvicina a trasporto di libeccio. C’è ancora quel profumo strano, acre, di vita vissuta come viene, pure dovrebbe non esserci, che non c’è distesa di posidonia nelle aule vuote, nemmeno nelle stanze a vista di terminale. Lo specchio pare gioca ogni giorno ad implacabile riflesso d’autore, non fornisce manipolazioni sghembe d’immagine, che non si riconosce mai d’acchito, non fa come riverbero azzurro di mare, che di distorsione fece solo virtù sua.
In quotidiano di lavorio indefesso c’è urlo ovunque, sgraziato e d’artificiosa perfetta fattura, che a natura è altro che frastuono, quando è tuono a spavento pare invece rimbrotto benevolo, strappa sorriso, fa regalo di libertà che non è d’acquisto a svendita. Risorsa da lavoro, si dice, pare compenso per acquisto di libertà, ma quella non è cosa d’un tanto a chilo, non merita che la fatica d’essere vissuta a pieno, che vuol dire avere occhi per compiacersene, non polmoni per respirare la merce che ne è surrogato. Ed è vero, poi, ed alla fine, che il lavoro rende liberi, liberi dal desiderio d’esser liberi, quando te ne sei assuefatto e quel tempo, quando arriva, ci sta che si palesa e non te ne accorgi, che hai dimenticato in fondo ad un cassetto di inutili memorie l’orologio che suona al suo passaggio.
“Il lavoro mi piace, mi affascina: posso stare ore ed ore a guardare la gente che lavora. Mi piace tenerlo accanto a me; e l’idea di liberarmene quasi mi spezza il cuore.” (Jerome K. Jerome) Privarmene, affrontandolo così, di petto, come m’avviene ora e di questi tempi, mi dispiace, ne preferirei precisa valorizzazione con una sana contemplazione ascetica a distanza ragionevole, perché non si consumi. Ed a mò d’esempio vi riporto cosa già scritta.
“Lo zio Antonio mi chiama due o tre volte al mese, s’intrattiene parecchio, pure se disarticola il verbo, che faceva lavoro che l’appensionò a tasche gonfie, ma che sfrangia neuroni, ne succhia a cannuccia linfa vitale. Sempre chiama per due cose, che la prima riguarda un vecchio libro assurto a Bibbia, d’un “ei fu” gastronomo, i cui appunti rimisi all’uopo in formazione leggibile per la editor cortese. Non gli sconfinferano taluni dettagli del prezioso scritto, quali, ad esempio, la mancanza di precisione nel riportare la grammatura del pompelmo da spremere, o la diametratura specifica del cucchiaio d’olio previsto. Me ne chiede lumi. che a nulla vale rispondere circa la fluidità dell’informazione, mi tocca di trovare – a memoria d’esperienze pregresse, adiranti per imperdonabile approssimazione – la giusta dose, a prescindere. Che quando squilla il telefono, pure, mi munisco di bilancia e squadra, sia mai mi trovi impreparato. Felice non legga qui – nessuno non ha patria né dio, figuriamoci zio – posso affermare la falsità ricercata con cui rifornisco l’esatto tassello mancante, che il q.b. non è cosa ch’attiene a chi perse l’occhio su rendiconti d’economie vertiginose. (v’intermezzo di musica, che non sono sicuro vi interessino i fatti miei, e vi rifate le orecchie fino in fondo)
Chiama anche quando se ne sta fronte porto, sul bastione del castello, per fornirmi, stavolta lui, il dettaglio esatto di chi attraversa la bocca, se pilotina, feluca o transatlantico, se è mossa da sibilanti turbine, diesel borbottanti, vele o remi silenziosi. Me ne eviscera dimensioni e presumibile scopo sociale, colori e bandiera battente, talora financo targa e nome, se leggibili di crepuscolo, sollecitandomi a ricordarne la proprietà che a lui non sovviene. E manco a me sovviene. Né mi sottraggo dal fare ipotesi, non m’azzardo dal non dare risposte. Mi sovviene, invece, di quando eravamo complici d’ispezioni abissali, di come svuotavamo la cornucopia di tesori, in guscio, lische o spine che fossero.
Di quando non c’era domenica che non s’era sotto al bastione che dà sul mare aperto, dove lo scoglio non era ancora turismificio di lidi Belle Époque, di bicchieri ed ombrellini. Quando lui, asciutto ad acciuga, era dotato di lingua fluente, radicale di precisioni ittiche. Lo scoglio era vuoto se non di noi, che nessuno s’azzardava d’acqua gelida fuori stagione. E la domenica vuote erano pure le stanze delle tre grazie, che di piacere facevano economie a cottimo. Così stendevano seni prosperosi, disoccupate dalle campane a messa che quando suonano fanno a indicar peccato per certi lavori, occhio alle onde, in attesa. V’era anche per loro, gentile omaggio di zio e nipote, una parte del bottino, quello che andava consumato lì per lì, all’acqua di mare, prima che ne perdesse la linfa vitale, irrorato del succo di limone appena colto. Quella era incombenza mia di procurarne, sgusciante ad anguilla, nel furto all’albero d’oro del vescovo. S’era, il santo prelato, chiuso il giardino, per cristiana carità, di muraglione elevatissimo, con ferrei spioventi a dissuadere monellerie di espropriazione. Ma l’albero, blasfemo ed eretico, si protendeva un ramo carico di preziosi, oltre le puntute ferramente, che bastava l’elevazione del cassone di motoape di Turi il rigattiere, per socializzarne l’oro tra le foglie. Talora, immersi, sgusciava veloce la barca del signor Enzo, fiero di record, e lui sbiascicava a mezza voce – che aveva linguaggio dabbene in tutte le altre occasioni – l’improperio definitivo, che s’era fatto persuaso che lì su conoscessero il segreto della secca al largo, quella dove peschi cernie più grasse di Teresa, sospesa di petto alle ringhiere, nell’attesa del succo del riccio. Ne seguiva la scia sin verso dove l’occhio arrivava, poi, che l’inghiottiva la curvatura del pianeta, sommesso, riconquistava il fondale suo. E la griglia del pranzo mai rimase vuota, neppure di maestrale, libeccio o scirocco.
Ha telefonato anche ieri, che prima mi chiede notizia specifica sul numero esatto di capperi d’una ricetta, – che il concetto di “una manciata” non gli pareva adeguato – quindi m’illustraq le dimensioni di una nave da crociera ancorata al centro del porto. Prima dragavano il fondale – mi ricorda – e alle banchine ci stavano pure quelle. Ora, al massimo, attracca uno yacht di lusso, o un peschereccio malfermo, tutta roba che pesca poco di chiglia. Poi, si cheta, smette di sbiascicare confusioni, riacquista rigidità semantiche: “Che io sono stato un coglione, – mi dice – con l’oro in bocca che avevo ad ogni giro di sguardo, mi sono consumato di lavori forzati. Ma tu sei più coglione di me, che pure lo fai, con l’esempio di quello ch’è diventato tuo zio”.”
"L'amore non conosce barriere. Salta ostacoli, oltrepassa recinzioni, attraversa pareti per arrivare alla sua destinazione, pieno di speranza." - Maya Angelou
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