La nave dei folli (ancora in viaggio)

Mentre della nave che va non v’è traccia, si palesa che, se non ci fu affogo a massa, taluno abbia restituito anime vaganti di speranza ad aguzzini certi, ché occhio non vede cuore non duole. Io vado a banale ripubblicazione di cosa vecchia per lieve sensazione di nausea sopraggiunta ad impedimento di scrittura nuova e compiaciuta.

“…la nave dei folli non era, poi, totalmente un parto della fantasia. Al contrario, era piuttosto comune la prassi di allontanare i matti dalla comunità dei normali, eventualmente proprio affidandoli a gente di mare. Accadeva spesso che venissero affidati a battellieri, a Francoforte, nel 1399, alcuni marinai vengono incaricati di sbarazzare la città di un folle che passeggiava nudo. Le città europee hanno spesso dovuto veder approdare queste navi di folli”. (Michel Foucault)

La follia arriva e batte bandiera sconosciuta. Non ha patria né dio, nemmeno padre e madre, pare tale, la follia, intendo, che non si palesa con documento d’imbarco, s’allontana e basta, a cerca di porto salvo per disperazione d’essere niente e nessuno. La cittadella fortificata del mondo dei sani se ne difende, invita a respingimento, con accordo tra tiranno e tiranno a far che pure accoglienza di pazzo è cosa da folli. D’avanzata sanità di mente si tinge distruzione e guerra, parve laurea a saggezza affondare nave dei folli, bombardo di città di dissenso, ripiegare a tasso d’umanità pari a curva concava.

Orizzonte scruta non per vertigine di visione, solo per scorgo a vista nemico che arriva, che se poi non si palesa ad esodo qual vien dichiarato, che importa, che semplice attesa d’invasione è a generazione di paura e fremito di pelle di popolume a suddito di illuminatissimi, che immantinente si tinge di vessillo patrio a nome noto, sotto egida di tiranno a difendere belle, armate sponde, a sventolar bandiera di grande savio di giustezza conclamata. Il resto è dago, pazzo, diverso per colpa ed essenza di sua scelta, che non nacque né a colore giusto, né a terra di saggezza. Pazzo più pazzo è a sostegno d’idea che pazzia fu per causa di mondo di giusti che non s’avvidero che pazzi fecero a furor di tempesta, a fulmine di guerra, a sfrutto a schiavo creatura e natura. Egli attende anche per sé medesimo imbarco coatto – che presto arriva – di chi, pazzo tra i pazzi, ricerca altra sponda per vita, anziché schiantare a terra desolata senza far rumore a non disturbo saggissimo manovratore.

A furor di vento

Che pare, di questi tempi, che tutto proceda in direzione univoca, scivolamento verso barbarie quando non di palesato inebetimento. Che se c’è cosa che potrà andar storta, per linea dritta ci andrà a prescindere, e l’ottimismo pare roba da caratteristi di cinema anni ’70, fa scappar riso, talora amaro. Pure m’accorgo che a remar contro si fa fatica parecchia a remo senza pala, come a cacciar fumo con battipanni a sfondo d’uso eccessivo. Faccio musica a parzial conforto, pure mi ci dedico con ricerca a grande impegno per regine autentiche.

Che mi venne voglia di tempesta, a cambio di bonaccia a direzione precisa, vento che spiazza piuttosto, che non ti fa apparire direzione chiara, che smuove le carte, si fa scompiglio di pensieri, che se ne faccia pila nuova, ad ordine inverso e criterio di divergenza. Nostalgia c’è di scogli e rene, ma non di beati tramonti, desiderio invece ho di fortunali a schiocco di tempesta, onda che s’alza a cielo, precipita a tonfo, marea che si riveste di maremoto, gorgo di Scilla e Cariddi, vento possente ed incerto di Scirocco. Che “lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus orca)

Che me ne frega ormai della brezzolina leggera e rinfrescante, che di noia mi portò all’esausto, che non mi feci persuaso affatto che quella passa se non a colpi d’incedere inesorabile di folata a tutto sfare, a scoperchio case e mi porto via ogni cosa. Che non fu terribile come la noia dell’attesa d’un giorno dopo l’altro, che il primo pare uguale al secondo e pure a quello che viene, se non nella stanchezza che s’accumula e diventa sgomento d’ignavia del tutto d’intorno. Anelo bufera, che quella sia, che di cartolina a fronte d’azzurro nitido non me ne faccio niente, voglio scuro di sorpresa che fece notte pure il giorno fitto di luce: “Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare.”

Esilio a non precisa dichiarazione

“Oh, la bellezza di una coppiera che allunga
le dita con la sposa del vino, cinta di collane di schiuma!
Ti ha dissetato con un vino puro, fatto veramente
d’uva, splendido qual sole che sorga
d’un tratto sulla sua sfera vermiglia.
Ah, come si risveglia in seno a colei
i cui canti fugano gli affanni!
Diventa il corpo — grazie al suo benefico
agire — come pervaso di dolci aliti di piacere,
e la mano della coppiera sembra quasi parlare
fascinose parole, e trar suoni
da incantevoli cetre…”
(Ibn Hamdis)

“Di Salvatore Quasimodo nella cui poesia il tema dell’esilio (l’esilio che generazioni di siciliani, per sfuggire alla povertà dell’isola, hanno sofferto e soffrono) si lega amaro e dolente, ma splendido nella memoria dei luoghi perduti, a quello del poeta arabo Ibn Hamdis, siciliano di Noto. E questa può anche essere una chiave per capire la Sicilia: che alla distanza di più di otto secoli un poeta di lingua araba e un poeta di lingua italiana hanno cantato la loro pena d’esilio con gli stessi accenti: “vuote le mani, – dice Ibn Hamdis, – ma pieni gli occhi del ricordo di lei”. (Leonardo Sciascia)

Perché Ibn Hamdis, poeta che pare immenso, era arabo e pure siciliano. Dunque si fece i conti con la ferocia liberatoria di Ruggero, allorché il suo “stupido” sultanato non venne a conflitto con altro prossimo. Che i due contendenti attenti assai a disegnar bellezze, si scordarono d’armare adeguati giannizzeri. S’affidarono, dunque, a tal Ruggero ed ai suoi civilissimi mangiatori di carne cruda a bivacco da qualche parte peninsulare. Quelli, risolta la tenzone, pensarono bene di prendersi tutto facendosi liberatori. Tralascio, più per evitar lungaggini, d’affermare che cristiani ed ebrei vivacchiavano discretamente da quelle parti senza necessità di liberazioni non troppo richieste. Il poeta e tanti altri fecero a combattimento per difesa di patria, ma poi furono a caccio per esilio permanente. Il prode Ruggero, a spada ammorbata di vittima, si fece a stupore per tanta bellezza conquistata che si conciò che pareva sultano converso facendosi pure far scomunica papale. Ad esclusione di parentesi illuminata di Stupor Mundi, saraceno fu vietato ed ebreo s’obbligò a marrano, ad esilio, oppure oggetto di polvere alla polvere.
Ma bellicosa armata di liberazione si portò dietro certa mitologia che rimase a fatto di cosa sicula come enormità di spettacolo, l’Opra de’ Pupi. E che miti i pupari, a muovere pupi a ritmo perfetto e sincronia immaginifica, a rotear spade a colpo ferire. Di quelle precisissime figure, autentiche opere d’arte (e chiedo venia che non ve ne fornisco foto che non ne trovai qui ed ora), si facevano voce narrante di fatti a canovaccio mai scritto a precisione, campioni d’improvvisazione con timbri attoriali a concorrere con immensi protagonisti di teatri di prosa. Pure io, bimbo, di tanto in tanto m’attrezzavo a tal spettacolo con entusiasmo da prima alla Scala e cosa di festa autentica.
Ci fu fatto che avvenne in una fine estate, con coloritura di pubblico pagante e plaudente a virar verso il bruno fitto, causa esposizione solare d’estate senza crema antibrucio. Ad apparizione sua, il prode Orlando, con tanto di rutilante commento narrante, sguainò la Durlindana e si mise a mozzar teste di saraceni con precisione chirurgica d’abilissimo signore del tiro fili. Ma avvenne cosa mai vista né sentita che pubblico bimbo insorse. E sarà stato perché il vil turco, tinto all’uopo di bruno, pareva ora lo zio, ora papà, ancora nonno di questo o quell’altro, anche ce n’era taluno con faccia più lucida di creatura a somiglianza precisissima d’amico del cuore. Abile puparo comprese l’antifona e a nuovo sguainar di Durlindana, il prode Orlando perse la testa per mano infedele a festa grande che con la sua finì il rotear di teste altrui. Che mi viene morale in scrittura d’altro conterraneo di Ibn Hamdis: “Si firmerebbero poche dichiarazioni di guerra se chi le dichiara dovesse per legge firmarle col proprio sangue.” (Gesualdo Bufalino)

Confederazione d’anime

Piglio cosa vecchia che a farne nuove mi mancò tempo, pure prestanza fisica d’ultimo. E poi ho da metabolizzare che sono torto che nacqui tondo e quadrato non ci divento. Che se dico che c’è cambio di clima e piove che manco Giove Pluvio se la pensava così e faccio morto ad annego in zona commerciale e sfollato a massa in pieno centro, è colpa mia che dissi che c’è cambio di clima. Se c’è guerra e dico pace, pure c’è guerra per mia precisa responsabilità, che non volli grande sberla nucleare che ci si leva il dente e si fa la pace tra superstiti. Fortuna volle che morto d’annego per grande viaggio a fuga da guerra e fame non è colpa mia, è colpa sua che si fa morto d’annego per fuga da guerra e fame, che se stava dov’era al massimo crepava di guerra e fame, non certo d’annego che magari là da dove parte acqua non ce n’è, che serve tutta a miniera per gioiello prezioso di madama la marchesa. V’aggiungo musichina pure.

Credere di essere “uno” che fa parte a sé, staccato dall’incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un’illusione, peraltro ingenua, di un’unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot ed il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone. Il dottor Cardoso fece una piccola pausa e poi continuò: quella che viene chiamata norma, o il nostro essere, o la normalità, è solo un risultato, non una premessa, e dipende dal controllo di un io egemone che si è imposto nella confederazione delle nostre anime; nel caso che sorga un altro io, più forte e più potente, codesto io sposta l’io egemone e ne prende il posto, passando a dirigere la coorte delle anime, meglio la confederazione, e la preminenza si mantiene fino a quando non viene spodestato a sua volta da un altro io egemone, per un attacco diretto o per una paziente erosione. Forse, concluse il dottor Cardoso, dopo una paziente erosione c’è un io egemone che sta prendendo la testa della confederazione delle sue anime, dottor Pereira, e lei non può farci nulla, può solo eventualmente assecondarlo.” (Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira)

Ad essere possessione di confederazione d’anime io non mi sottraggo, pure come farei ad essere contraltare di pensiero di siffatta elevatissima teoria? Ne riconobbi financo alcune di dette anime sin da che ebbi facoltà d’intendere e volere, che m’ero appena attrezzato di denti da latte. Un paio furono d’inizio – sempre anime, dico, non denti da latte – che poi si fecero a moltiplicazione. Talune, a radicalizzarsi d’originale, vennero fuori da quelle, che parevano escrescenza ectoplasmica; tali altre furono a nascita di sintesi tra differenti, orripilante incrocio tra oche di Lorentz e cani di Pavlov. E questo è quanto, che divennero ciurma numerosa ed io solo contenitore d’essa, nave espropriata. Semmai fui a problema d’aggiunta che nessuna di quelle ebbe a vocazione di far io egemonico, ad interesse di metamorfosi a guida convinta. Se ve ne fu una che, a scapito d’altre – o per intendimento d’altre, direi, meglio – si fece a virtù condottiera, fu solo per distrazione a gioco di resto d’equipaggio, che abbindolò l’ultimo a donazione di cerino in mano.

Così quella, anziché prendere redini e timone, passa tempo suo, pure il mio che ne fui coinvolto ob torto collo, a ciondolare distrattamente sulla tolda, ipotizzando di non farsi notare, a che altra anima si distragga, sì da scaricare su quella la patata bollente di indirizzo giusto di prua. Che le mie son anime oziose, cialtronesche, dedite più alle libagioni che a seria attività di cabotaggio, per vocazione di nullafacenza, a mal disposizione per indole di comando. Neppure sono compiacenti a delega, esse disdegnano comando per sé stesse, detestando chi se ne fece portatore insano proponendosi a metamorfosi d’esistenza.

Così traggo linfa vitale da conflitto non per prender potere, bensì per evitarlo, ignorarlo, annichilirlo, declassificarlo o, secondo dei casi, derubricarlo a facezia. Fu corsa a mio intimo ad arrivar ultimo, a rendermi irreversibilmente invisibile oltre linee d’orizzonte, che la ciurma ha pensiero attivo nel non guidare la nave, attende solo sorpresa di approdi per deriva che è a decisione di corrente a sballonzolare chiglia di robustezza sedicente.

La bellezza sepolta

La bellezza non è per tutti, pure se tutti dovrebbero pascersene, ma non è per tutti. E se l’arte t’attrezza ad arrivarci, manco l’arte è per tutti. Che v’è un mondo che ne è stato privato ex legis. Ci andate alle prime, voi? La percezione, quella che ti sta sotto la pelle come friccicorio pruriginoso, l’avevo già da un pezzo, le clausure (a)sociali tra quattro mura me ne hanno, al più, fatto il gentile omaggio della conferma, consegnato il responso diagnostico. Non è per tutti perché v’è stata, nel tempo, la consuetudine a nasconderla, la coazione a ripetere del celarla allo sguardo, che alla fine funziona. Poiché non interessa quello che non conosci, dunque, seppure la bellezza esiste, non è detto che tu la conosca. Nessuno t’obbliga ad accostarti a quello che non hai mai visto: della luna te ne viene meno la curiosità, se al suo posto t’hanno mostrato il pozzo dov’è caduta.

La bellezza è per i salotti buoni, li ce ne trovi un artefatto sintetico, quanto meno il passaporto (in)sanitario per farci un salto dentro, qualora te ne venisse voglia. Poi, mi pare, che lasciarne al salotto buono l’esclusiva sia una bella mossa per chi se l’è inventata. È così che rifanno le città, le riarticolano purché non si veda la bellezza intorno, nemmeno quella che c’è nelle loro viscere, nelle fondamenta. Sono prodotti ideologici, con cenni manifesti di patologie delicatissime, acute, gravi. Hanno solo vie d’uscita verso il consumo, vie di fuga murate, orizzonti occlusi. Le periferie di Suburbia sono anaidentitarie rispetto ad alfabeti evoluti d’umanità, coazioni a ripetere di costruzione di protoidentità subumane, cittadelle fortificate distese sul magma sconfitto della prospettiva creativa. Sono escrescenze ectoplasmiche che tendono a ricongiungersi, occupando i luoghi vitali che vi si inframezzano, procedendo con contaminazioni psicotiche di riqualificazioni architettoniche, per spazi capitalistici d’interdizione. L’architettura è l’alibi demiurgico per la creazione di un sistema sociale verticistico, che impone allontanamento ed esclusione. Produce l’atomizzazione dei sistemi di relazione e della comunicazione sociale. La frammentazione sociale rende il disagio non più collettivo, ma questione personale, esalta l’individuo anche nella sua condizione di malessere profondo, ne disvela le contraddizioni e le ambiguità come non patologiche, piuttosto banali effetti collaterali necessari. La percezione della propria malattia svanisce nella barbarie e nel rifiuto – per non accettazione, neppure conoscenza – delle forme più elementari d’articolazione del pensiero divergente dal dogma. La bellezza semplicemente non esiste più poiché non esiste più il progetto creativo, mentale, naturale, che la interpreta e la genera, pure a partire dalla sofferenza. Non esiste più poiché è forma relazionale pura e aggregativa.

Il salotto buono ne mantiene per sé brandelli funerari, esposti nel proprio spazio vitale. Si cinge del recinto protettivo dell’immensità periferica, e si nutre del totem dell’economia circolare, i cui rifiuti – che non esistono per dogma concepito da chi li produce, come nelle sacre scritture – si ammassano sotto i tappeti di Hyperpolis, provocando la mostruosa ed aberrante adesione postculturale al consumo felice e responsabile.

Il sistema è perfetto, non c’è complotto, non c’è regia, è il corpo che si autoinvolve in una direzione specifica, con le proprie staminali che rigenerano i tessuti cancellando la memoria di ciò che era. Risolve le sue patologie inglobandole, rendendole sistemiche, financo le trasforma in cura per la stessa malattia.

Ma scappa, talora, che qualcuno s’accorge d’essere malato, qualcuno che s’è fissato ch’esiste la bellezza, e se gliene precludi la vista se ne sta a cercarla in tondo, scansando il resto. Se non la trova, ma pure la cerca, si mette a frequentare il piccolo mondo antico di chi fa la stessa cosa, fa banda di pazzi con quello, si mette ad armeggiare con cose delicate, riannoda il cerchio spezzato, magari ne parla, rischia il contagio. E così s’avvede che il punto di vista è irrilevante. Ciò che è oggettivo non è opinabile, è soltanto tale e quale a se stesso. Scopre che il progetto circolare non ha solo una tangente, certo non solo in quel punto dov’è la prospettiva obliqua, angolare, bugiarda, il quid verso l’orbita scontata. Che quella è solo l’opinione diffusa, anche il punto d’accumulo orribilmente affollato. Solo l’ultima traccia dell’obbligo di tenere la destra o cosa volete che sia un po’ di coda al casello, al cestello, al carrello.

Roba da far gridare allo scandalo: in un momento come questo, mettersi a cercare la bellezza. Roba che nei salotti buoni sobbalzano, pure non hanno il vaccino, se quel male dilaga.

Le vibrazioni del viaggio (Allonsanfàn parte ventiduesima: “Live from the Globe” di Stefano Meli)

Gettato sull’erba vergine, in faccia alle strane costellazioni io mi andavo abbandonando tutto ai misteriosi giochi dei loro arabeschi, cullato deliziosamente dai rumori attutiti del bivacco. I miei pensieri fluttuavano: si susseguivano i miei ricordi: che deliziosamente sembravano sommergersi per riapparire a tratti trasumanati in lontananza, come per un’eco profonda e misteriosa, dentro l’infinità maestà della natura…” (Canti Orfici, Dino Campana)

Stefano Meli non pare mai tipo da prove lunghe ed estenuanti, è sempre da buona la prima, che quella è la sola giusta. Le corde della sua chitarra vibrano sempre di viaggio e scoperta, e se i suoni sono quelli che hanno capacità di sollevare la polvere di deserti lontani, a me, pure, mi danno sensazioni di percorrenze di trazzere sperdute a margine d’un altrove che è casa nostra condivisa, come condiviso si fece un fiasco di vino dal sapor di terra e di sale. Vibrano quelle corde, ancora, per un disco nuovo che si fece vivo – ma quando mai non lo fu? – dal vivo, in una serata al Globe di Ragusa. Qualcosa spizzicata qua e là tra le cose sue, roba di Viceversa Records, tutte con quella propensione a lasciare aperta la storia d’un altro viaggio.

Viaggio notturno, tra la fioca luce dei lampioni d’una qualche Suburbia, pure attraversamento d’altro, comunque giammai a itinerario fermo, prestabilito, solo corso per vite libere, come altro non può essere. Quest’ultimo lavoro di Stefano questo mi ricorda, scorrimento lento in terra iblea, quando si fa terra d’altrove, concorre con Patagonie e deserti. E quello m’evoca forse solo per nostalgia di luoghi e affratellamenti di cui mai facemmo a meno. Qualche volta bisogna fare rotta altrove, oltre la cittadella presa d’assalto. L’altopiano sulle guide non c’è, lo consente. Ci puoi fare decine di chilometri e non incontrarci nessuno, che presenza umana invece è dappertutto, in dedalo infinito di muri a secco, pietre su pietre strappate alla terra. C’è ancora un altro blues che vibra lì.

Quadrati, rombi, trapezi, cerchi ed ovali, raccontano storie antiche. Antichi abituri che non smisero mai d’essere abitati, che di destinazione d’uso fecero gioco bislacco, financo sepoltura di vassallo d’Eblon divenne chiesa di Bisanzio, tombe si fecero magazzini, ovili, abitazioni di chissà quante genti da mille mila anni per bagaglio d’ampia fantasia a necessità impellente. L’intarsio è roba di ordito intricatissimo, d’eleganza somma, sguardo di vertigine si spinge sinché ce n’è. E poi, d’improvviso dicchi e pieghe della crosta, per irrequietezza di mantelli incandescenti, di sommovimenti terribili, pure strapiombi infiniti, dove le acque gelide di fiumi si fecero e si fanno strada a scavare tane per trote, volpi, ghiandaie e biacchi iridescenti. C’è comanda di suoni giusti tra quei cento anfratti che nascosero velli d’oro e trovature in fondo ad arcobaleni. Tutto si fa ingresso a terra di Lotofagi e smarrisci ogni tema di ritorno. Terra di fiabe, terra d’apparenza sola, che di colori si fece tavolozza densa, e non si curò che di chi ne seppe cogliere l’indispensabilità d’ogni cromatismo. È terra che puoi attraversare come ti pare, ma se c’è una corda giusta che t’accompagna, come filo d’Arianna, è quella che vibra ancora nelle cose di Stefano. E a proposito, il 21 presenta il suo Apache qui.


La riconquista della noia

Non mi pare di discernere più se d’infinita stanchezza ho da render responsabile strascichi del malanno che mi piombò in casa senza invito e che tali pare lascia, o di quell’essenza primordiale che fa la noia al cospetto del tutto solito e senza fine di coazione a ripetere.

Che pure di noia mi pascerei, pure a lungo, ma sol che sia io a sceglierne i confini esatti. Non di noia imposta m’aggrado, di quella insulsa noia operativa di mercenario che da trincea a trincea ha speranza che la prossima non sia l’ultima per ostilità di nemico, o d’avvitatore di bullone a catena di montaggio per catena lunga ed infinita a volontà di burocrate bizantino.

Pare che ad ora non vi sia che prender atto, attendere la sera per tiro inesausto di cicca e bicchiere di rosso senza fondo, a cancellare pensieri ostili, ché tanto quelli si ripresentano ad albeggiare proprio come seguono il ritmo che tocca a rotazioni terrestri. E ora s’accompagnano a fiacca che pare definitiva. E v’è in un gesto limitato solo desiderio profondo d’annoiarsi a modo di sé stessi, non per orgoglio produttivo, ch’io m’annoierei a rango di felicità sublime se m’acquietassi a semplice vista d’infinito da scoglio d’accoglienza, quale naufrago od esploratore che si cheta a meta conseguita, che non molla la presa quale mitilo tenace. E non di noia perirei in detto caso come per quella di reiterazione del gesto eterodiretto e constatazione del nulla che porta al nulla, con passaggio di consegna tra barbarie di merce e merce di barbarie che fa morto d’ammazzo che vendo di più e sfianco braccia e teste per sfruttamento ad libitum.

“La società, non per compassione, ma a causa delle proprie strane necessità, si era occupata di quei due uomini, vietando loro ogni pensiero indipendente, qualsiasi iniziativa, qualsiasi allontanamento dalla routine; e vietandoglielo pena la morte. Potevano vivere solo a condizione di essere macchine. E ora, sciolti dalla materna protezione di uomini con la penna dietro l’orecchio, o di uomini con galloni dorati sulle maniche, erano come quegli ergastolani che, liberati dopo molti anni, non sanno che farsene della libertà. I due non sapevano che farsene delle loro facoltà, essendo entrambi, per mancanza di pratica, incapaci di pensiero indipendente.” (Joseph Conrad)

Radio Pirata 57 (buon non lavoro)

Che Radio Pirata si fa Cinquantasette che è Festa di Lavoro, pure faccio auguri a chi lavora e a chi no, che cerca a disperazione che Costituzione ad Articolo 1 pare non c’è o se c’è manca di specifica a “sfrutto”, e pure a ripudio di guerra d’articolo 11 si fa occhiolino distratto. Ma vado di musica che è compito statutario di trasmissione per pace, dunque pare con colbacco in testa.

Che morto ammazzato di lavoro, dice statistica – che la fa cervello asettico di matematica -, è a due al giorno da inizio d’anno. Che è solo storia di distratto a distrazione mosso, che muore a metto piede in fallo mentre passa betoniera o caterpillar, pure scivola d’ascensore, inciampa da impalcatura, precipita da palazzo e ciminiera, non collaborò col dire son morto per destino cinico e baro.

Che di tanti morti d’ammazzo pare guerra guerreggiata, ma è roba disfattista se oggi a bandiera colorata si dice basta con tale guerra, pure con altra che tuona di bomba. E io vado di suono giusto, che faccio colonna sonora.

Che radio si ripete se dice che cotali creature di cervello raffinatissimo dice che è scandalo a chiedere soldo per lavoro a ore senza tetto, che a tali posti già è a pagamento onore di fatica, pure se è a sgobbo indefinito, che s’impara a far fame dove si serve porzione dabbene. Che pure questo è paese civile che istituzione non s’indigna, nemmanco popolo fa gesto di sorpresa e dice ad illuminatissimo, sai che c’è, che forse è meglio che conosci via d’esilio a paese civile dove lavoro è a schiavo, che qui non si dice, pure se è. Musica sia, per lavoro a cottimo un tanto al chilo e contratto di clausura con vita altra che non è a facchinaggio.

Che è giorno di rischio orrendo questo che pare sia ad intenzione di taluni manifestanti per lavoro, protesta pure contro guerra, dunque contro lavoro di persona dabbene che fabbrica, ad onesto progetto per futuro fulgido, bomba ad esplodo certo, per taglio armata industriale di riserva e creo occupazione a sterminio di pretendente. Ma anche faccio di profugo clandestino prodotto di braccia a costo basso, che lavo piatto, colgo pomodoro e, a senza diritto, calmiero prezzo di centro commerciale per salsina gourmet. E meritevolissiono dice basta a tal schiavo d’altro pianeta, che schiavo sia anche autarchico senza sostituzione di massa sottomessa. Musichissima di lavoro concedo ad ascolto di meritato riposo di weekend.

A dire buon lavoro pare ossimoro, che, a cautela, faccio spiegare da collaboratore subordinato con contratto di apprendistato, prima che faccio di lui censura che nacque in posto strano: “Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendere dalla sua schiena.” (Lev Tolstoj)

Buonissimo 1° Maggio, senza lavoro!

Mi faccio un totem

Ah i guru, che cosa magnifica i guru, quando cercano posizione corretta a favore di flash, di click o d’altro che immortali immagine loro e la renda a popolume adorante quale totem definitivo di bellezza insuperata. Quelli, i guru, tutto capirono della vita che si fecero pagare un tanto al chilo da mille mila persone a teatro strabordante per dire esattezza di come svolgimento debba essere di vita ad altri.

Che ruolo magnifico e specifico hanno i guru, leader di pensiero, totem di venerazione, che alleggeriscono peso di pensiero ad ognuno che lo serba così a far carico di lavoro esclusivo, a farsi sfruttamento per giiustificato motivo che guru seppe trovare tra le pieghe (pure le piaghe) della mente

Ascoltai santi guru, talora a soluzione di sorriso, tale altra volta a digrigno feroce di dente che offerta è vasta, ad imporre felicità a venti quattro. Chi non ebbe a goderne di detta gioia intrinseca d’ascolto si fece peggior nemico di sé stesso per mancati plasmi d’immagine esatta a precisa somiglianza. V’è pure guru che invoca dolore su dolore, ferma espiazione come fatto d’obbligo. E se non v’è dolore bastevole, metaforico cilicio sarà a colpire fedifrago che se ne sottrasse. E piccola borghesia dolente ebbe a ciascuno membro suo guru a scaffale di social o d’altro canale TV, pulpito amorevole, libro denso di fai ciò che dico a costo modesto. Io pure ebbi grande guru cui rimasi ad affezione autentica per portento di messaggio ch’egli trasmise. Ei fu Pilu Rais, grande navigatore con barca a sganghero e miserabile piega di sguardo a tempesta di sale. Egli, intriso di saggezza, a domanda precisa su destino d’umanità, elaborò risposta a scanso d’equivoco: non mi rompete i c…

Il centravanti è stato sostituito

“Perché avete usurpato il ruolo degli dèi che in altri tempi guidarono la condotta degli uomini, senza arrecare conforti soprannaturali, ma soltanto la terapia dell’irrazionale. Perché il vostro centravanti vi fa gestire vittorie e sconfitte dalla comoda poltrona di cesari minori: il centravanti verrà ucciso all’imbrunire.” (Manuel Vasquez Montalban)

Tra quella casa che mi comprai qualche anno fa e quella di mia sorella sarà un chilometro in linea d’aria. Ma c’è un dislivello da sentieri di capre, scalinate a mille mila gradini per una, e se piove pare che tutto diventa fiumana. Da dimora a dimora faccio comunque a meno d’auto, non ho fretta, pure diversi da incontrare. Giù, da me, è terra di cartoline e c’è tale bella gioventù che si sollazza ad ogni Bistrot che la metà basterebbe. A svolto d’angolo pare si torna a secolo fa, quando tutto era silenzio e suggestione di silenzio.

Ma c’è pure cosa che non dissi e dico ora, che non c’è che persona anziana, giovani si fecero valigie per fuga e taluno che si vede è solo eccezione o turista. Incontro con una vecchina carica di busta di spesa mi è spesso di conforto che mi aiuta a prender fiato a soffermarmi per conversazione del più e del meno. Pure m’offro per accompagno sino ad uscio di casa a privazione di soma. Una casa è abitata su tre che si susseguono. Le vecchine figli non ne vogliono fare più, che spinger passeggino a ottanta e passa su per erta via è cosa che non gli viene a sconfinfero. Non vi fu sostituzione, però, se non a fatto limitato.

E mi chiesi, qual certo d’incapacità a darmi soluzione, quale problema c’era a far che sostituzione ci fosse a quartiere di disabito definitivo? Che poi, lì – ed è cosa che mi risulta personalmente – c’è difficoltà ad assistenza a persona anziana che per far su e giù da scale ci vuole fisico che taluni a superata certa soglia d’età non ebbero. Pure per altro ci vorrebbe, ma ad elenco lunghissimo trovai risposta parziale che fu cosa assai preziosa che ancora non ebbi tempo elevatissimo per scrittura.

“Il dramma delle culture è consistito nel fatto che i loro primi contatti reciproci sono stati quasi sempre appannaggio di gente della peggior risma: predoni, soldataglie, avventurieri, criminali, mercanti di schiavi e via dicendo. Talvolta, ma di rado, capitava anche gente diversa, come missionari in gamba, viaggiatori e studiosi appassionati. Ma il tono, lo standard, il clima fu conferito e creato per secoli dall’internazionale della marmaglia predatrice che non badava certo a conoscere altre culture, a cercare un linguaggio comune o a mostrare rispetto nei loro confronti. Nella maggior parte dei casi si trattava di mercenari rozzi e ottusi, privi di riguardi e di sensibilità, spesso analfabeti, il cui unico interesse consisteva nell’assaltare, razziare, uccidere. Per effetto di queste esperienze le culture, invece di conoscersi a vicenda, diventavano nemiche o, nel migliore dei casi, indifferenti. I loro rappresentanti, a parte i mascalzoni di cui sopra, si tenevano alla larga, si evitavano, si temevano. Questa manipolizzazione dei rapporti interculturali da parte di una classe rozza e ignorante ha determinato la pessima qualità dei rapporti reciproci. Le relazioni interpersonali cominciarono a venir classificate in base al criterio più primitivo: quello del colore della pelle. Il razzismo divenne un’ideologia per definire il posto della gente nell’ordinamento del mondo.

Da una parte i Bianchi, dall’altra i Neri: una contrapposizione dove spesso entrambe le parti si sentivano a disagio.” (Ryszard Kapuścinski)