Gioco di bimbi

“Quel pensiero andava e veniva dalla sua mente, così, senza senso e senza scopo, come una pietrabambina gettata a mare: si sentiva stanco, col corpo travagliato che si riposava nella branda e la mente che si sboriava in quel pensiero bambinesco, non diverso in niente dal gesto di pigliare e tirare pietrebambine. Se aveva un senso, quel pensiero curioso, era proprio questo: un senso bambinesco e sfantasiato, il senso che ha gettare a mare delle pietrebambine e vedere i cerchi d’acqua che s’ingrandiscono, s’ingrandiscono e intanto che s’ingrandiscono, svaniscono; il senso poi, che nel nome stesso, nella natura stessa e nella stessa vista di confetto, suscita alla mente la pietrabambina, per cui anche un uomo fatto, anche un pellesquadra, se istintivamente la piglia e la getta a mare, fa una figura bambinesca; e per cui anche il mare dove si getta, anche se è un mare scabroso e vecchio col pelo bianco, come il mare dello scill’e cariddi, fa una figura bambinesca.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus orca)

E pare si, che al cospetto del mare diventi bambino, ché forse è cosa ad attinenza con le dimensioni, ci fanno stare piccoli piccoli quelle cose d’infinito che s’aprono allo sguardo. S’accende la luce del primo acchito del mattino e tutto pare così grande che ci sparisci dentro, ma pure, mano mano che il sole se ne sale, che fa tepore anche fuori della stagione giusta, poi ci cresci dentro a tutto quell’infinito. Ti pare che poi partecipi anche tu.

Ti giri ed il resto d’intorno s’è messo a farsi piccolo, e tu, invece, torni grande d’improvviso. Ti levi da lì e ti sposti un poco. Ma pure quel poco non cambia, ché sei piccolo, poi ancora grande, a seconda di come ti sproni lo sguardo. È cosa che spaesa, spiazza, che non sai più chi sei. E far da nessuno diventa così identitario che ogni ossimoro s’è fatto dettaglio e precisione. Tutto, pure il suo contrario sei. Quale utero di madre t’accoglie la contraddizione, in quella pasci, che scivoli tra l’infinitesimo del piccolo e l’infinito di grandezza. Poi è che non te ne vuoi andare, pare tutto come dev’essere. Altro non c’è che ti tocca di quella confusione. Altro non c’è che t’aspetti. Altro non c’è, per fortuna.

Devoto di Santa Barbara

Che c’è corsa ad armamento, che se non basta tesoro di patrie, faccio pure debito che c’è priorità d’assoluto ad aumento capienza d’arsenale per nuova superlativa bombarda. Ch’io, che ho di bravo cittadino tempra esatta, non posso sottrarmi a fare di mia particolarissima patria grande potenza d’autosufficienza di bomba, che s’ode – chiaro – a destra uno squillo di tromba, e da sinistra (?) risponde – inequivocabile – medesima tromba. E, definitomi confini miei a dove arrivo, m’appresto a difesa d’ogni attacco, pure promuovo contrattacco. E vado di fuoco a note di sbarramento.

Feci di giorno di gran riposo, che fu ieri, preciso momento di rimpinguo armamentario che cominciai a mattina presto a far d’arsenale mio per deterrente formidabile a vil nemico. Dunque, a scavo in fondo a dispensa, ritrovo munizioni esatte e precise per mio solido scopo. Mi faccio riso allo zafferano sin dalle prime luci d’alba, che lo condisco con burro adatto ad uopo e lo lascio a farsi raffermo e freddo che sia a consistenza di fervida barriera ad eventuale imminenza d’attacco.

Ad attesa mi feci quattro passi a ricerca d’altro armamento, che passai tempo d’attesa a che fortificazione di cui sopra s’aggregasse a se stessa, chicco su chicco, a consistenza precisa, a non dare idea di atteggiamento disfattista quale orrendo pacifista. Feci incetta, tra caffettino a bar di turno, e sigarettina a viril sguardo volto oltre monti e valli ubertose, d’altro ingrediente mancante a supermercatino che pare oreficeria – ma decisione di aggredire PIL era già presa, farò taglio a cultura e sanità, che mi compro libro in meno e d’aspirina andrò cauto a favor di bomba. Presi padella adatta, vi versai olio al fulmicotone e, a temperatura di calor tattico – non ancora strategico – vi versai trito finissimo di sedano, carote e cipolla, a doratura d’oro alla patria, poiché siamo nati per soffriggere. Indi, prima che il nemico bussi alle porte, m’attinsi a rosolare macinato e piselli, seguito da versamento di pomodoro che parve fuoriuscita di radiazione a sale di quanto basta. Ad addensare il tutto impiegai tempo preciso, per consistenza di autentica pece bollente che mi feci a stemperare con audace freschezza di foglia di basilico. Giunto il primo ombreggiar della sera m’apprestai, dunque, ad estrema difesa, che misi olio di frittura a farsi bollente qual nucleo di reattore atomico a fuga di particella di contaminazione, in apposito contenitore ignifugo ad altezza equa. Indi preparai munizione sferica di sei-sette centimetri di diametro con compattezza solidissima di riso, poi, con gesto rapido da incursore ad abilità provetta, introdussi dentro l’arma d’esplosione una cucchiaiata abbondante del rosso intingolo a celarne la feroce consistenza, pure, al centro dello stesso misi cubo di cacio a stagionatura bassa, che a filar avrebbe creato recinto d’invalicabile intrigo ad avanzata nemica. A camuffar ordigno siffatto, passai in uovo, dunque a pangrattato e trito di granella di mandorla e pistacchio per croccantezza invalicabile, ancora ad uovo avvoltolai il tutto e, a finire, per mimesi perfetta ed inestricabile d’autentico contenuto ancora a solo pangrattato. Immersi la granata a friggere selvaggia che s’assumesse essenza di calore di nucleo solare. A doratura completa, mentre la granata rischiava d’attivare reazione a catena di nuclei per temperature elevatissime, ne addentai una, poi un’altra, quindi le altre due, con sguardo fiero fisso ad orizzonte. Una bastava, ma giammai avrei predisposto arsenale inadeguato alla sfida che ci attende. Soddisfatto per santabarbara ingombra, feci di fondo di fiasco di rosso apparenza di scorte patrie di gas. E ora vediamo chi la vince che ho pure molotov di sacro whisky a giusta invecchiatura per guerriglia a digestione.

(Non ho fotografato le mie nuove armi per non dare punti di riferimento al nemico)

Nero Pinocchio (Allonsanfàn parte quattordicesima: Raffaello De Vito)

Le atrocità sollevano un’indignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono “more”, “sudice”, dago. Questo fatto illumina le atrocità non meno che le reazioni degli spettatori. (…) L’affermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom. Della cui possibilità si decide nell’istante in cui l’occhio di un animale ferito a morte colpisce l’uomo. L’ostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – “non è che un animale” – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il “non è che un animale”, a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dell’animale. Nella società repressiva il concetto stesso dell’uomo è la parodia dell’uguaglianza di tutto ciò che è fatto ad immagine di Dio. Fa parte del meccanismo della “proiezione morbosa” che i detentori del potere avvertano come uomo solo la propria immagine, anziché riflettere l’umano proprio come il diverso”. (Theodor Adorno)

Raffaello De Vito è fotografo raffinato, dotato di grande tecnica, padronanza degli strumenti. Ma non ne fa uso consueto, non ricerca perfezione d’immagini e basta, studia, concepisce, elabora narrazioni complesse. Il suo “Nero Pinocchio”, in mostra prima a Basilea, poi all’Altelier di Modica Alta (Luglio-Settembre 2022), è il recupero della vicenda del burattino secondo una rilettura analitica e controcorrente – o forse spietatamente corretta – delle pagine di Collodi, attraverso il filtro efficacissimo della sua trasposizione televisiva di Comencini.

Il burattino di De Vito si riappropria di atmosfere gotiche, minimaliste, sopite allo sguardo da trascorsi rassicuranti e consueti, come nelle illustrazioni “educative” del Dorè, o filmiche, manichee, edulcorate delle animazioni disneyane. Denuncia l’inadeguatezza di quelle rappresentazioni, disdegna con sguardo arguto l’idea del burattino che diviene finalmente bimbo in carne ed ossa solo dopo un percorso di crescita di consapevolezze cash & carry. De Vito centra la quinta scenografica della vicenda nell’estremo miserabile del mondo degli ultimi, ma non ne fa riproposizione compassionevole, pietistica. Ne disvela piuttosto l’essenza materiale, non indugia in infingimenti, nemmeno produce moralismi.

Il suo Pinocchio, come quello di Comencini, attraversa l’orrore della violenza (le torture di Abu Ghraib, la grottesca umiliazione dei prigionieri chiusi in sai pinocchieschi, appunto), è vittima di giustizie ingiuste (il carabiniere non ha sguardo umano, è solo divisa, financo nello sguardo), attraversa l’effimero eldorado del paese dei balocchi, la sconfinata illusione d’una vita altra, viene ingannato, vilipeso. Pinocchio, dunque, nella narrazione di De Vito, è burattino per sempre, vittima assoluta, paga pegno per la sua deviazione dal consueto. È personaggio contemporaneo, si riaffaccia all’oggi nelle parallele forme del migrante, con le sue identità annullate, marginalizzato, respinto, vilipeso, torturato, sfruttato, ridotto a clandestinità permanente. Il Gatto e la Volpe dialogano negli abiti più consoni al loro ruolo di predatori, non solo di qualche moneta, d’umanità. Sono gli incappucciati del Ku Klux Klan, paiono divertirsi nel pianificare la caccia all’ultimo, la sua definitiva marginalizzazione. I volti celati nascondono nature social, di piazza virtuale che urla a nuove, abbondanti impiccagioni, crocifissioni. Mangiafuoco è convitato di pietra d’ogni immagine, non è soggetto riconoscibile, non è immagine precisa in quanto sistemico, artefice del circo della filiera lunga, massimizzatore di profitti, si nutre dei nuovi schiavi. È il 100% italiano che esclude da tracce percentuali nazionalità di braccia invisibili, corpi depredati. Pinocchio è bracciante senza nome, sconta identità sottratta, corpo dimenticato, spiaccicato sui prodotti dell’”eccellenza” a cottimo, un tanto al chilo, archetipo illustrativo d’operare di caporalati collettivi. C’è più di qualche congruenza in “Nero Pinocchio” con l’essenza stessa dell’originale collodiano, se ne coglie il ribaltamento paradigmatico della visione consueta, in un certo senso la narrazione è compiuta, con la sua vertigine dialettica. Come per un fiume carsico De Vito fa riemergere la critica profonda a realtà che parevano dimenticate, da quel tempo di secolo nobile, e che, invece, sopravvivono, invisibili, sotto traccia, spaventose come allora.

Raffaello De Vito nasce a Mirandola nel 1967. Vive e lavora come fotografo pubblicitario a Reggio Emilia. Si avvicina alla fotografia all’età di 12 anni e a 14 inizia il suo percorso formativo in uno studio di fotografia pubblicitaria, esperienza che lo porterà a confrontarsi con diversi professionisti del settore e con importanti aziende presenti sul mercato internazionale. Alla fine degli anni Ottanta inizia una collaborazione come assistente alla produzione con Luigi Ghirri, collaborazione che si interrompe nel 1991 con la prematura scomparsa del grande fotografo e che ha dato inizio a una ricerca visiva che esplora ancora oggi.
Un costante lavoro di semplificazione, di sottrazione e di sintesi verso un linguaggio universale immediatamente comprensibile. Ha al suo attivo diverse esposizioni in Svizzera, Francia, Spagna, Inghilterra e Italia oltre a numerose pubblicazioni nei siti web di tutto il mondo.

http://www.raffaellodevito.com/

Il dettaglio esatto

Strisciando sulla rena sino in pizz’in pizzo, dalla spiaggetta si lasciò scivolare sotto, s’infilò in acqua liscio liscio, senza fare spruzzi né schiume, come un pesce, o come qualcuno, qualcosa più d’un pesce, perché sembrò che fosse il mare che s’apriva e subito si richiudeva dietro a lui, con dentro lui: poi, dopo che sembrava sparito come per sempre, riassommò e silenzioso, leggero come non fosse il corpo a muoversi, ma la sua ombra, pigliò a nuotare risalendo la ‘Ricchia per tutta la sua apertura.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus Orca)

Mi feci persuaso col tempo che il mare appartiene a tutti, ma non è cosa per tutti a percezione perfetta, che mi pare che talune cose sfuggono di quello. Che sì, c’è che si possa dire che bello, ma se ti prendi posto a massa su spiaggia a densità di Striscia di Gaza, non è detto che poi hai capito bene cos’è. Se te ne godi presunte essenze a comodità con campanello c’arriva servizio a sdraio ed ombrellone, se ci hai bum bum a godimento mantrico di neurone, forse non c’è bisogno di mare, che medesima circolazione a divertimento è concessa pure a bordo piscina tra capannone a prefabbrico tutti uguali. Del mare ti sfugge il dettaglio esatto.

Il mare ha comunicazioni precise, non s’azzarda a dar libero sfogo ad essenza sua intima per chicchessia, pure se quello crede ch’è così. Appare parco di dono, che poi è ad evidenza che si mostra di bellezza assoluta quando s’appresenta sgombro di presenza, che cacciò tutti adirato a fulmicotone, attrezzato a bufera e tormenta, spazzolato di sabbia di Libeccio, sferzato da Scirocco. Che lì c’è fuggi fuggi, che non c’è tale alcuno ad ora di mattina che ancora melassa nottambula pesa su turistume vario, su ammarati della settimana, a costrizione di distanza dall’onda di risacca. Non c’è tale alcuno che non ne colse essenza precisa. Poche anime s’affollano a mare ad una certa ora, tal poche che nemmeno si potrà dire che s’affollano, al più si scrutano a distrazione da lontano, si percepiscono appena, che i sensi hanno altro cui rivolgersi. Che c’è odore di sale e posidonia, canto di sirena s’appalesa esatto, rumore di brontolio che viene da risacca d’agitazione che fu, che attende di rifare il verso di ferocia di vento di tormenta bollente. C’è colore unico che muta a piano, non si fa ora tutto cielo, ora tutto mare, a certe ore se la prende comoda, fa un po’ e un po’, si passano consegne, cielo e mare, in punto indefinito, all’alba che il giorno è giovane, a notte che morì ad attesa d’altro, a sbrilluccicare di riflesso di stella e di mezza luna, che mondo d’altro a quello volta le spalle.

A distrazione si corre sulla rena che è a conto giusto pensare a forma di fisico perfetto, che quello va esposto ad ora dopo, allorché il mare c’è ma sparisce di sua essenza, s’inabissa nei suoi abissi, fa appena quinta di scenografia di cartone, si finge tale. Riapparirà a vista giusta, non a vista di tutti, che colore, suono, odore, meritano stasi perfetta, non agitazione termica, lentezza inesorabile, postura di fermo di vertigine, che quello è punto di vista esatto di viaggio che il mare fa conto terzi, s’agita e ti profila il mondo intero, ti svela d’orizzonte la piega di terra, ti racconta storia che orecchio giusto ascolta e capisce s’è concentrato e cancella sovrapposizione d’altro pensiero. Il mare è così, s’affratella ai suoi figli, non si concede a Narciso se non a veste di camuffo, a parziale sua dimensione esatta. Il resto è di sensi giusti, assai più di quelli noti a pagina d’abbecedario.

La linea dritta

Che mi manca ormai poche settimane a mi fermo un attimo, che mi ricongiungo a scoglio natio, m’abbevero a fonte di fiume di Mercurio o di ninfa, tralascio risciacquo di panno in Arno pro tempore, quando si ripresenta ripartenza. Poco mi manca, che vi racconto, che già lo feci in illo tempore, quale è mio viaggio di ritorno ad origine.

Vi fu sempre nel mondo assai più di quanto gli uomini potessero vedere quando andavano lenti, figuriamoci se lo potranno vedere andando veloci” (John Ruskin)

Mi viene di preparare valigie, che è tempo di rimigrare per pause di svernamenti. Che mi tocca di ripercorrere a ritroso lo stivale, cosa che, invero, talora poco m’aggrada che rischio di cedere all’ansia dell’arrivo. Ma ho due fortune d’accompagno a viaggio, che l’una è definita in traiettoria di linea sghemba, l’altra in musica on the road.

Posto che la seconda non m’è mai data a mancare, della prima sono artefice, che non mi persuadono linee esatte, nemmeno ho tema di ritardo. Se ho appuntamento a precisione, in genere, mi appresto ad anticipo, se non è dato orario, chi attende è di mie imperfezioni consapevole, si fa ragione d’attesa, nemmeno si turba che questa sia eccessiva. Quindi evito la linea dritta d’autostrada, che concede folle a caselli, ingorghi a banco per camogli e positani. Piuttosto zigzago viandante, che m’aspetto che s’aprano scorci improvvisi del mai visto se scelgo strade che di dritto hanno pari al rovescio. Traccio il percorso in tratto generale, optando per vago incedere, di mare o di monti, che c’è bettola di conforto, barettino con baristi a sorriso e caffè decenti, s’abbandono il consueto lineare a doppia, pure tripla, carreggiata. Ribadisco, fretta non ve n’è alcuna, che da A a B s’arriva in tanti modi, e la strada assai più veloce è sempre quella che occulta allo sguardo la sorpresa. Di basso non m’attende alcunché di concetto, che a meningi tiro freno a mano, s’accomoderanno a quiete. E quell’altro me pure si farà ragione che del suo libro ultimo non vi sarà che traccia ad anno nuovo, che le feste sono salve di faccende a pubblico. Che io di detti libri m’adopero a rinnegarli, lasciando scampo al successivo, che tanto ancora è a rotativa. Dunque, sarà scoglio, vago itinerario d’altopiano, baratto di pesce con Pilu Rais, vino torbido di terra e sale, vicolo d’abbandono a silenzio, e poco altro.

Mi sovviene, tuttavia che, se affanno e paraocchio vivono di linee ritte, senza gomiti e tornanti, quanto meglio s’avverrebbe ad esser tutti lenti, a procedere per partecipato affratellamento con le cose del mondo, a che si disvelino prospettive altre di armonie e bellezze? Che la linea ritta è si assai più rapida, ma uguale a se stessa, è itinerario cash & carry, percorso mordi & fuggi Ltd. Per arrivare poi al più ad altro rettilineo di preconfezioni precotte, che non v’è gusto d’incontro se non di chi di fretta fece virtù superiore, né indugia di narrazione, che non ha memoria e sguardo di chi sa fermarsi, di chi lancia occhio e cuore a deriva inattesa, che non ha vincoli al bivio.

C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione fra le più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo. Nella matematica esistenziale il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio. Da tale equazione si possono dedurre diversi corollari, per esempio il seguente: la nostra epoca si abbandona al demone della velocità ed è per questo motivo che dimentica tanto facilmente se stessa. Ma io preferisco rovesciare questa affermazione: la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuole farci capire che oramai non aspira più ad essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata da se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria”. (Milan Kundera)

Se è fatica, dunque, di cambiar rotta, di scegliere la meno rapida, di generare l’incontro d’altro viandante, lento e narrativo, è divenuta fatica il pensare, l’indugio nel ventre di tempo, del racconto. Che se c’erano taluni che del viril “tiro dritto” s’approntavano a vanto, a me sovviene desiderio d’inceppo di clessidra, incendio di meridiana, sabotaggio d’orologio.

La linea dritta

Vi fu sempre nel mondo assai più di quanto gli uomini potessero vedere quando andavano lenti, figuriamoci se lo potranno vedere andando veloci” (John Ruskin)

Mi viene di preparare valigie, che è tempo di rimigrare per pause di svernamenti. Che mi tocca di ripercorrere a ritroso lo stivale, cosa che, invero, talora poco m’aggrada che rischio di cedere all’ansia dell’arrivo. Ma ho due fortune d’accompagno a viaggio, che l’una è definita in traiettoria di linea sghemba, l’altra in musica on the road.

Posto che la seconda non m’è mai data a mancare, della prima sono artefice, che non mi persuadono linee esatte, nemmeno ho tema di ritardo. Se ho appuntamento a precisione, in genere, mi appresto ad anticipo, se non è dato orario, chi attende è di mie imperfezioni consapevole, si fa ragione d’attesa, nemmeno si turba che questa sia eccessiva. Quindi evito la linea dritta d’autostrada, che concede folle a caselli, ingorghi a banco per camogli e positani. Piuttosto zigzago viandante, che m’aspetto che s’aprano scorci improvvisi del mai visto se scelgo strade che di dritto hanno pari al rovescio. Traccio il percorso in tratto generale, optando per vago incedere, di mare o di monti, che c’è bettola di conforto, barettino con baristi a sorriso e caffè decenti, s’abbandono il consueto lineare a doppia, pure tripla, carreggiata. Ribadisco, fretta non ve n’è alcuna, che da A a B s’arriva in tanti modi, e la strada assai più veloce è sempre quella che occulta allo sguardo la sorpresa. Di basso non m’attende alcunché di concetto, che a meningi tiro freno a mano, s’accomoderanno a quiete. E quell’altro me pure si farà ragione che del suo libro ultimo non vi sarà che traccia ad anno nuovo, che le feste sono salve di faccende a pubblico. Che io di detti libri m’adopero a rinnegarli, lasciando scampo al successivo, che tanto ancora è a rotativa. Dunque, sarà scoglio, vago itinerario d’altopiano, baratto di pesce con Pilu Rais, vino torbido di terra e sale, vicolo d’abbandono a silenzio, e poco altro.

Mi sovviene, tuttavia che, se affanno e paraocchio vivono di linee ritte, senza gomiti e tornanti, quanto meglio s’avverrebbe ad esser tutti lenti, a procedere per partecipato affratellamento con le cose del mondo, a che si disvelino prospettive altre di armonie e bellezze? Che la linea ritta è si assai più rapida, ma uguale a se stessa, è itinerario cash & carry, percorso mordi & fuggi Ltd. Per arrivare poi al più ad altro rettilineo di preconfezioni precotte, che non v’è gusto d’incontro se non di chi di fretta fece virtù superiore, né indugia di narrazione, che non ha memoria e sguardo di chi sa fermarsi, di chi lancia occhio e cuore a deriva inattesa, che non ha vincoli al bivio.

C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione fra le più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo. Nella matematica esistenziale il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio. Da tale equazione si possono dedurre diversi corollari, per esempio il seguente: la nostra epoca si abbandona al demone della velocità ed è per questo motivo che dimentica tanto facilmente se stessa. Ma io preferisco rovesciare questa affermazione: la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuole farci capire che oramai non aspira più ad essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata da se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria”. (Milan Kundera)

Se è fatica, dunque, di cambiar rotta, di scegliere la meno rapida, di generare l’incontro d’altro viandante, lento e narrativo, è divenuta fatica il pensare, l’indugio nel ventre di tempo, del racconto. Che se c’erano taluni che del viril “tiro dritto” s’approntavano a vanto, a me sovviene desiderio d’inceppo di clessidra, incendio di meridiana, sabotaggio d’orologio.