Equivoci, per così dire!

C’è memoria corta da queste parti, Pare che lanciarono napalm su neuroni, e brava gente si dimenticò d’esser tale per patimento vissuto, per protervia sopportata, per angheria subita. A sconcezza d’ira verso ultimo mi sovviene di fornire memoria d’osservazione diretta, che riporto fedele racconto, nemmeno vi dirò chi lo scrisse e per chi, pure tolsi riferimenti. Magari lo faccio in un altro momento, che dico esattezza d’origine, a ribadire che c’è trave nell’occhio che non pose a veder bene fatto, ma non abbastanza si fece a occlusione di vista per pagliuzza di vicino.

“Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già cominciato da un’ora (…). La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani (…) erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti (…) passavano,(…) Delle povere donne che avevano un bambino da ciascuna mano, reggevano i loro grossi fagotti coi denti (…) molti erano scalzi, e portavan le scarpe appese al collo. (…) la maggior parte degli emigranti, presi dal mal di mare, giacevano alla rinfusa, buttati a traverso alle panche, in atteggiamenti di malati o di morti, coi visi sudici e i capelli rabbuffati, in mezzo a un grande arruffio di coperte e di stracci. Si vedevan delle famiglie strette in gruppi compassionevoli, con quell’aria d’abbandono e di smarrimento, che è propria della famiglia senza tetto (…). Il peggio era sotto, nel grande dormitorio, di cui s’apriva la boccaporta vicino al cassero di poppa: affacciandovisi, si vedevano nella mezza oscurità corpi sopra corpi, come nei bastimenti che riportano in patria le salme degli emigrati (…) La povera gente si adatta a tutti i vani come l’acqua.

(…) La maggior parte, bisognava riconoscerlo, eran gente costretta a emigrare dalla fame, dopo essersi dibattuta inutilmente, per anni, sotto l’artiglio della miseria. (…) Tutti costoro non emigravano per spirito d’avventura. Per accertarsene bastava vedere quanti corpi di solida ossatura v’erano in quella folla, ai quali le privazioni avevano strappata la carne, e quanti visi fieri che dicevano d’aver lungamente combattuto e sanguinato prima di disertare il campo di battaglia.

Non mi potevo levar dal cuore che ci avevano pure una gran parte di colpa, in quella miseria, la malvagità e l’egoismo umano: (…) tanta caterva d’impresari e di trafficanti, che voglion far quattrini a ogni patto, non sacrificando nulla e calpestando tutto, dispregiatori feroci degli istrumenti di cui si servono, e la cui fortuna non è dovuta ad altro che a una infaticata successione di lesinerie, di durezze, di piccoli ladrocini e di piccoli inganni, di briciole di pane e di centesimi disputati da cento parti, per trent’anni continui, a chi non ha abbastanza da mangiare. E poi mi venivano in mente i mille altri, che, empitisi di cotone gli orecchi, si fregan le mani, e canticchiano; e pensavo che c’è qualche cosa di peggio che sfruttar la miseria e sprezzarla: ed è il negare che esista, mentre ci urla e ci singhiozza alla porta. (…) Una politica disposta sempre a leccar la mano al più potente, chiunque fosse; uno scetticismo tormentato dal terrore segreto del prete; una filantropia non ispirata da sentimenti generosi degli individui, ma da interessi paurosi di classe. (…) Molti visi (…) pareva che serbassero ancora intatte le scaglie del dì della partenza. (…) Tutta la sua persona rivelava la borghesuccia impastata d’invidia per chi le sta sopra e di disprezzo per chi le sta sotto, capace di commettere una vigliaccheria per entrare in relazione con una marchesa, e di dimezzare il pane ai figliuoli per strascicare del velluto sui marciapiedi.

(…) il caldo cocente non era il peggio: era un puzzo d’aria fracida e ammorbata, che dalla boccaporta spalancata dei dormitori maschili ci saliva su a zaffate fin sul cassero, un lezzume da metter pietà a considerare che veniva da creature umane (…). Eppure, ci dicevano, non v’eran più passeggieri di quanti la legge consente che s’imbarchino in relazione con lo spazio. Eh! che m’importa, se non si respira! Ha torto la legge. (…) Si spende tutto a mantener soldati, milioni a mucchi in cannoni e in bastimenti, (…) e alla povera gente nessuno ci pensa (…). lo stavo a sentire con quell’aspetto quasi vergognato col quale tutti oramai ascoltiamo le querele delle classi povere, compresi del sentimento d’una grande ingiustizia, alla quale non troviamo riparo nemmeno nell’immaginazione, ma di cui tutti, vagamente, ci sentiamo rimorder la coscienza, come d’una colpa ereditata. (…) Ce n’eran di quelli che non avevan più mangiato un pezzo di carne da anni, che da anni non portavan più camicia fuor che i giorni di festa, che non avevan mai posato le ossa sopra un letto, e pure avevan sempre lavorato con l’arco della schiena.

(…) Voi accoglierete bene questa gente, non è vero? (…) Son buoni, credetelo; sono operosi, lo vedrete, e sobrii, e pazienti, che non emigrano per arricchire, ma per trovar da mangiare ai loro figliuoli, e che s’affezioneranno facilmente alla terra che darà loro da vivere. Sono poveri, ma non per non aver lavorato; sono incolti, ma non per colpa loro, e orgogliosi quando si tocca il loro paese (…); e qualche volta sono violenti; ma voi pure, nipoti dei conquistatori del Messico e del Perù, siete violenti. E lasciate che amino ancora e vantino da lontano la loro patria, perché se fossero capaci di rinnegar la propria, non sarebbero capaci d’amar la vostra. Proteggeteli dai trafficanti disonesti, rendete loro giustizia quando la chiedono, e non fate sentir loro, povera gente, che sono intrusi e tollerati in mezzo a voi. Trattateli con bontà e con amorevolezza. Ve ne saremo tanto grati! Sono nostro sangue, li amiamo, siete una razza generosa, ve li raccomandiamo con tutta l’anima nostra! (…) La maggior parte delle creature umane è più infelice che malvagia e soffre di più di quella che faccia.”

A tutto sconto

“Chiunque facesse crescere cinque pannocchie di grano o due fili d’erba là dove prima ne cresceva uno solo, avrebbe fatto un miglior servizio al suo paese che tutta la razza dei politici messa assieme.” (Jonathan Swift)*

Al mio fabbisogno vitaminico, mineral-fibroso, nei tempi di stazionamento isolano, ci pensa il buon Nino. Egli ha orto piccolo ma ben messo, ne raccoglie messi a tempo d’albeggiare, poi carica il suo camioncino Lupetto che fa trasporto contraddicendo dettami certi della scienza a merito di sua età vetusta, e nel pomeriggio le vende sotto il balcone di casa mia. Ne traggo giovamento certo, che hanno sapore ai limiti del peccaminoso e prezzo che concorre a sbaraglio financo concorrenza di grande distribuzione a prezzo d’hard e sapore al plasticoso andante con medesima sollecitazione di papilla gustativa a nessuna differenza fra specie orticole.

Pure ne trae giovamento la mia anziana madre quando s’accoglie ad ospito autoproposto a casa mia, e, chiamando a gran voce il mite contadino, s’approvvigiona di frutti della terra a calar di cesto di vimini da balcone di mio primo piano. La cosa la diverte anche a evidenza che fatto pare di sé assai a folclore locale che il turistume immortala con scatto a cui ella non si sottrae, che poi me lo racconta con orgoglio nazional-propagandistico, che assurse a monumento pregiatissimo. Il buon, anzi, l’ottimo Nino, ad esperienza di tradizione antica, fece a meno di serra a derivato di petrolio, pure di chimica ad aggiunta, e si consentì solo roba a stagione precisa, senza sgarro alcuno. Prezzo bassissimo è per impresa mononucleare, distanza tra colto e mangiato di cinque chilometri e tempo cinque minuti. Manco ebbe spesa per grande frigorifero di mantenimento di derrata, nemmeno piccolo invero, che tutto raccolto va venduto, quindi a prezzo di grande attrazione ch’egli svuota a sera esatta intero carico. Mi balenò che poteva essere sovranità alimentare conclamata, ma ebbi smentita da dimensione a verifica de visu di dimensione di suoi possedimenti. Per sfamo popolazione intera c’è necessità d’altro, serra a più fioritura annua, pesticida e fertilizzante a iosa, di grande Tir, frigo capiente, confezionamento all’uopo, distribuzione a mega impianto. Costo su costo s’arriva a compiacersi di grande sconto a scaffale supermercatese, che non si sa come sia possibile. Mi parve che miracoloso successo sia dovuto ad essenza di fatto che raccolta mi sa che è a sfrutto di braccia rubate ad annegamento. E allora mandiamoli tutti a casa superstiti d’annegamento, che di Nino ce n’è solo qualcuno, e poi facciamo a far fila a cassa di banca per mutuo ad acquisto di mazzo di lattuga.

Non si può pretendere da un contadino la razionale fatica di un uomo senza contemporaneamente dargli il diritto ad essere uomo.” (Leonardo Sciascia)

*A tutti i migranti che si spezzano la schiena per qualche centesimo, a cinquanta gradi dentro una serra, a respirare merda, a ringraziare un Dio per non essere annegati, per dare da mangiare ad un paese che nemmeno li vuole.

Cattivi maestri

“Il lavoro mi piace, mi affascina: posso stare ore ed ore a guardare la gente che lavora. Mi piace tenerlo accanto a me; e l’idea di liberarmene quasi mi spezza il cuore.” (Jerome K. Jerome) Privarmene, affrontandolo così, di petto, come m’avviene ora e di questi tempi, mi dispiace, ne preferirei precisa valorizzazione con una sana contemplazione ascetica a distanza ragionevole, perché non si consumi. Ed a mò d’esempio vi riporto cosa già scritta.

“Lo zio Antonio mi chiama due o tre volte al mese, s’intrattiene parecchio, pure se disarticola il verbo, che faceva lavoro che l’appensionò a tasche gonfie, ma che sfrangia neuroni, ne succhia a cannuccia linfa vitale. Sempre chiama per due cose, che la prima riguarda un vecchio libro assurto a Bibbia, d’un “ei fu” gastronomo, i cui appunti rimisi all’uopo in formazione leggibile per la editor cortese. Non gli sconfinferano taluni dettagli del prezioso scritto, quali, ad esempio, la mancanza di precisione nel riportare la grammatura del pompelmo da spremere, o la diametratura specifica del cucchiaio d’olio previsto. Me ne chiede lumi. che a nulla vale rispondere circa la fluidità dell’informazione, mi tocca di trovare – a memoria d’esperienze pregresse, adiranti per imperdonabile approssimazione – la giusta dose, a prescindere. Che quando squilla il telefono, pure, mi munisco di bilancia e squadra, sia mai mi trovi impreparato. Felice non legga qui – nessuno non ha patria né dio, figuriamoci zio – posso affermare la falsità ricercata con cui rifornisco l’esatto tassello mancante, che il q.b. non è cosa ch’attiene a chi perse l’occhio su rendiconti d’economie vertiginose. (v’intermezzo di musica, che non sono sicuro vi interessino i fatti miei, e vi rifate le orecchie fino in fondo)

Chiama anche quando se ne sta fronte porto, sul bastione del castello, per fornirmi, stavolta lui, il dettaglio esatto di chi attraversa la bocca, se pilotina, feluca o transatlantico, se è mossa da sibilanti turbine, diesel borbottanti, vele o remi silenziosi. Me ne eviscera dimensioni e presumibile scopo sociale, colori e bandiera battente, talora financo targa e nome, se leggibili di crepuscolo, sollecitandomi a ricordarne la proprietà che a lui non sovviene. E manco a me sovviene. Né mi sottraggo dal fare ipotesi, non m’azzardo dal non dare risposte. Mi sovviene, invece, di quando eravamo complici d’ispezioni abissali, di come svuotavamo la cornucopia di tesori, in guscio, lische o spine che fossero.

Di quando non c’era domenica che non s’era sotto al bastione che dà sul mare aperto, dove lo scoglio non era ancora turismificio di lidi Belle Époque, di bicchieri ed ombrellini. Quando lui, asciutto ad acciuga, era dotato di lingua fluente, radicale di precisioni ittiche. Lo scoglio era vuoto se non di noi, che nessuno s’azzardava d’acqua gelida fuori stagione. E la domenica vuote erano pure le stanze delle tre grazie, che di piacere facevano economie a cottimo. Così stendevano seni prosperosi, disoccupate dalle campane a messa che quando suonano fanno a indicar peccato per certi lavori, occhio alle onde, in attesa. V’era anche per loro, gentile omaggio di zio e nipote, una parte del bottino, quello che andava consumato lì per lì, all’acqua di mare, prima che ne perdesse la linfa vitale, irrorato del succo di limone appena colto. Quella era incombenza mia di procurarne, sgusciante ad anguilla, nel furto all’albero d’oro del vescovo. S’era, il santo prelato, chiuso il giardino, per cristiana carità, di muraglione elevatissimo, con ferrei spioventi a dissuadere monellerie di espropriazione. Ma l’albero, blasfemo ed eretico, si protendeva un ramo carico di preziosi, oltre le puntute ferramente, che bastava l’elevazione del cassone di motoape di Turi il rigattiere, per socializzarne l’oro tra le foglie. Talora, immersi, sgusciava veloce la barca del signor Enzo, fiero di record, e lui sbiascicava a mezza voce – che aveva linguaggio dabbene in tutte le altre occasioni – l’improperio definitivo, che s’era fatto persuaso che lì su conoscessero il segreto della secca al largo, quella dove peschi cernie più grasse di Teresa, sospesa di petto alle ringhiere, nell’attesa del succo del riccio. Ne seguiva la scia sin verso dove l’occhio arrivava, poi, che l’inghiottiva la curvatura del pianeta, sommesso, riconquistava il fondale suo. E la griglia del pranzo mai rimase vuota, neppure di maestrale, libeccio o scirocco.

Ha telefonato anche ieri, che prima mi chiede notizia specifica sul numero esatto di capperi d’una ricetta, – che il concetto di “una manciata” non gli pareva adeguato – quindi m’illustraq le dimensioni di una nave da crociera ancorata al centro del porto. Prima dragavano il fondale – mi ricorda – e alle banchine ci stavano pure quelle. Ora, al massimo, attracca uno yacht di lusso, o un peschereccio malfermo, tutta roba che pesca poco di chiglia. Poi, si cheta, smette di sbiascicare confusioni, riacquista rigidità semantiche: “Che io sono stato un coglione, – mi dice – con l’oro in bocca che avevo ad ogni giro di sguardo, mi sono consumato di lavori forzati. Ma tu sei più coglione di me, che pure lo fai, con l’esempio di quello ch’è diventato tuo zio”.”

Solo un’isola

Nacqui su un’isola talmente piccola che per girarmela tutta mi bastava poco. Ma mai mi venne d’annoiarmi a far perimetri e perimetri. Pure, se m’allontanavo per altra terra, cascavo comunque su un’isola, grande per come ti pare, ma sempre isola era. Un’isola, più è piccola più sa d’infinito, più si fa centro di mondo intero, che tutto ciò che ti circonda è infinito, dunque, qualunque cosa è dentro quello sconfino, non può che esservi centro, è a sguardo d’infinito a destra e manca, a destra e manca di dove ti giri. Che dunque sarei a destino centro d’universo d’abisso? Che tale evidenza di vertigine mi fece nessuno che non ho altro da riportare che uno sguardo a ciò che non conosco.

Che quello sguardo mi rimase inesausto, non me ne venne a conoscenza mai di cosa è oltre l’orizzonte, tanto v’andai incontro, tanto quello si spostò. Mi feci ragione di ignoranza, pure mi feci ragione che quella era passione autentica di conoscenza. Mi faccio isola e m’esploro quello che mi viene, né mai mi parve d’aver finito, manco m’attrezzai a star fermo di pensiero pure quando mi depositai come delfino spiaggiato ancora su un’altra isola. Ma sono isola io, forse, che chi nasce isola non se n’avvede che è tale anch’egli, si porta uno scoglio dentro, a mare d’infinito ed infinito d’orizzonte, sia che lanci sguardo a destra, sia che lo fermi a manca.

Quale voce giunge sul suono delle onde
che non è la voce del mare?
E’ la voce di qualcuno che ci parla,
ma che, se ascoltiamo, tace,
perché si è ascoltato.

E solo se, mezzo addormentati,
senza sapere di udire, udiamo,
essa ci dice la speranza
cui, come un bambino
dormiente, dormendo sorridiamo.

Sono isole fortunate,
sono terre che non hanno sito,
ove il Re dimora aspettando.
Ma, se ci andiamo svegliando,
tace la voce, e c’è solo il mare.
” (Fernando Pessoa, “Le isole fortunate”)

Radio Pirata 29 (in fondo al gruppone)

Radio Pirata, oltre ragionevolezze, giunse a Ventinove, ch’è numero primo, ma radio preferisce ultima posizione e si contraddice, che quella – contraddizione, intendo – è in seno al popolo. Che, a tempi di guerra, sovrano dice e non dice, che il bel d’essere sovrano – pur talora basta migliore tra migliori – è dar promessa a mantenimento non tale e quale, che n’ebbe facoltà per accredito divino, mica per green pass qualsivoglia. Pure Re – o migliore tra migliori – può che promette, ad applauso e standing ovation, sangue, sudore e lacrime per fondo di fila, che primi chiedono a voce convinta. Che vado di non musica, all’uopo, che a brano di nota vado dopo.

Che fu a lavoro di collaboro con amico Sergio Poddighe

Che ad elmetto per armiamoci e partite s’attrezza elité di grande sovranità, per far fronte a crisi. Ancora insegue bomba che quella è di sacra liturgia di risoluzione di problema. Mi metto elmetto anch’io e parto per vacanza da parte opposta a guerra che ho vena a disobbedienza, prendo corriera e varco confine di disfattismo militante.

Disegno di Sergio Poddighe

Che parvero di disfattismo militante pure tali rider che beccarono manganello che a Primo Maggio si permisero a manifestazione, che dissero, a privazione di pudore, non trotto più per sgobbo a obolo di miseria. Parevano ingrati quali chi non ebbe a cuore destino d’imparo mestiere per sapere se lavo piatto – a giusto e a gratis – si fa a senso orario o antiorario di passo di spugna, ad olio di gomito vieppiù, che risparmi a detersivo, che forse è fatto con petrolio di zar e pare condizionatore acceso. Che povero ricco che sostiene a stampella PIL è costretto a ricatto di pago financo chi lavora, e che ad imparo non offrì sudore a cottimo. M’attrezzo a musica stavolta.

Che fu fortuna che governo d’illuminati veglia su nostri destini rosei con trovate d’altissimo ingegno quali ministro d(‘)istruzione che disse crisi è a dramma, che non c’è figlio per colpo d’amplesso a segno, e scuola trovasi a corto di cliente. Ma egli predisse destino fulgido come non mai, con trovata a colpo di genio che d’originalità spicca a firmamento, che pare, pure quella, stella di copertone: taglio classi ma con qualità elevatissima. Che a taluno pare cosa già detta, ma mettete che ora, a risparmio, finalmente si trova soldo per bomba in più che fa comodo. Ne mai ora, che manca natale, si può, a pensiero deviato, impedire che paese diventa reparto di geriatria con accolgo il morto annegato a luce di sole, che quello poi accampa diritto, e dove andiamo se tutti accampano diritto che ancora povero ricco è ad obbligo di pago per braccia forte di lavoro a litri di sudore? Meglio un tanto arriva a luogo di morto annegato, che d’arrivo è nascostamente e non si vede, così poi è a non pretende. Musica d’opportuno si faccia.

E ora vado a termine ultimo di puntata che a consueto do’ parola a giovane collaboratore che pago con onore di far parte di squadra prestigiosa di Radio Pirata, che così impara taluna cosa importante.

“Quando i governi opprimono e sfruttano fanno il loro mestiere e chiunque gli affida senza controllo la libertà non ha il diritto di meravigliarsi che la libertà sia immediatamente disonorata. Se la libertà è oggi umiliata o incatenata, non è perché i suoi nemici hanno usato il tradimento, ma perché i suoi amici hanno dato le dimissioni.” (Albert Camus)

Radio Pirata 20 (pesce d’aprile)

Radio Pirata si fa Venti per pesce d’aprile, che è tempo di scherzo a celia elevatissima, che forse domani taluno, a reti unificate, comunica che fu gioco, giusto per due risate, che ora ci saremmo anche divertiti. Che forse comunica che domani diritto di lavoro, non a sfrutto a sangue, si riconosce a donna e uomo di pianeta intero, che è scuola per tutti, che cura è gratis, che bellezza è legge, orrore bandito, pure bomba è bandita, guerra anche a divieto, financo a sputacchio più lontano, che cambio climatico è ricordo di passato che ora non si consuma schifezza d’inutile per foresta lussureggiante spazzata a colpo di spugna, manco mare patisce ad acqua bollente per calo di spaghetti a glifosato e pomodoro a glutammato. Che quello sarebbe scherzo vero, che a sorpresa di sghignazzo si risponde a musica a tutto tondo per il mondo.

Che se è giorno di pesce, pesce sia a lisca esatta, mica a scatoletta a ricavo da bauxite.

Vedere il fondo dell’acqua
Che diventa così azzurro
Che discende tanto in basso
Con i pesci
I calmi pesci
Pascolanti sul fondo
Che si librano sopra
I capelli delle alghe
Come uccelli lenti
Come uccelli azzurri
” (Boris Vian)

Che siamo a tempo di scherzo a parecchio tanto al chilo, che conto è a rosso per bolletta, ma non vorremo noi sottrarci a gioco? Che a tempi grami risposta è a riso, che risata seppellirà financo i becchini, pure se non ce la fa, quella non è a sequestro se già l’hai fatta.

Indovina se ti riesce:
La balena non è un pesce,
Il pipistrello non è un uccello;
E certa gente, chissà perché,
Pare umana e non lo è.
” (Gianni Rodari)

Dovete sapere che prima, per questi paraggi, non l’ebbimo mai il bene di vederla morta, la fera, ma sempre e solo viva, e viva, poi, che non si contentava di essere solo viva ma viva vitaiola, che faceva la gran vita, che sarebbe divertimento e sterminio: perché capite, arrivando qua, cadeva nell’oro, pesce ne trovava d’ogni grandezza e sapore (…) che le usciva dagli occhi.

Che bisogno aveva, dopo che s’addobbava come una troia, di venirci a rovinare le reti a noi? Nessun bisogno, bisogno solo della sua natura barbara.” (Stefano D’Arrigo)

Che è stato solo gioco e scherzo, che un altro ve lo volevo fare io, che mi veniva facile oggi che è giorno deputato. Ci avevo pensato – allo scherzo, intendo – pure me l’ero appuntato su un post-it verde bile. Ma chissà perché – che devo patire d’attacchi iracondi inspiegabili – mi passo la gana, lo accartocciai e gli diedi fuoco. Che do commiato di musica, che quello non è ancora ad indice d’alto tradimento, come invece pare è pace.

Il legno che vive

Le civiltà senza navi sono come i bambini i cui genitori non hanno un letto matrimoniale sul quale poter giocare. I loro sogni allora si inaridiscono; lo spionaggio si sostituisce all’avventura, e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari”. (Michel Foucault, “Utopie Eterotopie”) Le navi, le barche, ondeggiano sulle onde, disegnano piccoli punti sensati sul mare, come le note tracciano melodie su un pentagramma.

Pure quelle che paiono di meno fascino, i traghetti che fanno su e giù tra Scilla e Cariddi, o spola per qualsiasi terra, financo da sponda all’altra di canale o fiume, che hanno odore acre di vernice e olio rancido di frittura e motore, hanno chiglia che s’affacciano all’abisso, tolde che s’illuminano di firmamento o bruciano al sole.

Mi piacciono quelle piccole, di legno diseredato, barche che levi a favor di scoglio s’è tempesta di scirocco, che tirano il fiato coi denti, che le senti digrignar gengie di sforzo per non far di sovraccarico di disperati pasto di fiera famelica. Quelle che s’abbracciano a prua nome di papà morto, d’amata, di santo distratto. Che s’appigliano a calafati antichi per reggere, come mulo a soma, miserabili sussistenze di pescatore a lampare. Pure, mi piace che s’accollano destini di genti antiche e dimenticate, si trasformano di colori d’arcobaleno, arrossiscono d’emozione a bellezza di tramonto, s’abbracciano a cime sfilacciate scosse di bufera, si riposano a porto salvo, si fanno cullare e cullano di bonaccia, s’attrezzano al peggio quando di chiglia fragile fendono l’onda. Quando le vedo, le barche – che starei a guardarle per sempre, dallo scoglio che si schiera a alito caldo d’oriente – mi sovviene del viaggio ch’è sofferenza per chi ci campa, che lascia la certezza, e s’affratella di gioia ad altro che ritorna su legno ferito da scampata bufera. Che ci sono certe barche che campano nelle memorie, e mai muoiono, che le senti nominare ancora nei secoli dalla gente che ha rughe di sale a cottimo. Pare non s’arrendono mai, finché s’adagiano ad acqua, e di silenzio si mortificano quando cedono al fondo d’abisso, si piegano meste alla deriva o si spiaggiano da creature esauste. Che hanno ancora storie da raccontare che non s’ascoltano se non hai orecchie giuste, e ti pare che quella che hai davanti è solo vecchio legno corroso di sale, manco buono per farci fuoco. Che hanno occhi, le barche, vedono lungo, cuore che batte, pure dimenticate a secca o a pantano, si consumano piano, senza rumore, un pezzo alla volta, che loro sanno cos’è il pudore.

Cattivi maestri

Lo zio Antonio mi chiama due o tre volte al mese, s’intrattiene parecchio, pure se disarticola il verbo, che faceva lavoro che l’appensionò a tasche gonfie, ma che sfrangia neuroni, ne succhia a cannuccia linfa vitale. Sempre chiama per due cose, che la prima riguarda un vecchio libro assurto a Bibbia, d’un “ei fu” gastronomo, i cui appunti rimisi all’uopo in formazione leggibile per la editor cortese. Non gli sconfinferano taluni dettagli del prezioso scritto, quali, ad esempio, la mancanza di precisione nel riportare la grammatura del pompelmo da spremere, o la diametratura specifica del cucchiaio d’olio previsto. Me ne chiede lumi. che a nulla vale rispondere circa la fluidità dell’informazione, mi tocca di trovare – a memoria d’esperienze pregresse, adiranti per imperdonabile approssimazione – la giusta dose, a prescindere. Che quando squilla il telefono, pure, mi munisco di bilancia e squadra, sia mai mi trovi impreparato. Felice non legga qui – nessuno non ha patria né dio, figuriamoci zio – posso affermare la falsità ricercata con cui rifornisco l’esatto tassello mancante, che il q.b. non è cosa ch’attiene a chi perse l’occhio su rendiconti d’economie vertiginose. (v’intermezzo di musica, che non sono sicuro vi interessino i fatti miei, e vi rifate le orecchie fino in fondo)

Chiama anche quando se ne sta fronte porto, sul bastione del castello, per fornirmi, stavolta lui, il dettaglio esatto di chi attraversa la bocca, se pilotina, feluca o transatlantico, se è mossa da sibilanti turbine, diesel borbottanti, vele o remi silenziosi. Me ne eviscera dimensioni e presumibile scopo sociale, colori e bandiera battente, talora financo targa e nome, se leggibili di crepuscolo, sollecitandomi a ricordarne la proprietà che a lui non sovviene. E manco a me sovviene. Né mi sottraggo dal fare ipotesi, non m’azzardo dal non dare risposte. Mi sovviene, invece, di quando eravamo complici d’ispezioni abissali, di come svuotavamo la cornucopia di tesori, in guscio, lische o spine che fossero.

Di quando non c’era domenica che s’era sotto al bastione che dà sul mare aperto, dove lo scoglio non era ancora turismificio di lidi Belle Époque, di bicchieri ed ombrellini. Quando lui, asciutto ad acciuga, era dotato di lingua fluente, radicale di precisioni ittiche. Lo scoglio era vuoto se non di noi, che nessuno s’azzardava d’acqua gelida fuori stagione. E la domenica vuote erano pure le stanze delle tre grazie, che di piacere facevano economie a cottimo. Così stendevano seni prosperosi, disoccupate dalle campane a messa, che quando suonano fanno peccato certi lavori, occhio alle onde, in attesa. V’era anche per loro, gentile omaggio di zio e nipote, una parte del bottino, quello che andava consumato lì per lì, all’acqua di mare, prima che ne perdesse la linfa vitale, irrorato del succo di limone appena colto. Quella era incombenza mia di procurarne, sgusciante ad anguilla, nel furto all’albero d’oro del vescovo. S’era, il santo prelato, chiuso il giardino, per cristiana carità, di muraglione elevatissimo, con ferrei spioventi a dissuadere monellerie di esproriazione. Ma l’albero, blasfemo ed eretico, si protendeva un ramo carico di preziosi, oltre le puntute ferramente, che bastava l’elevazione del cassone di motoape di Turi il rigattiere, per socializzarne l’oro tra le foglie. Talora, immersi, sgusciava veloce la barca del signor Enzo, fiero di record, e lui sbiascicava a mezza voce – che aveva linguaggio dabbene in tutte le altre occasioni – l’improperio definitivo, che s’era fatto persuaso che lì su conoscessero il segreto della secca al largo, quella dove peschi cernie più grasse di Teresa, sospesa di petto alle ringhiere, nell’attesa del succo del riccio. Ne seguiva la scia sin verso dove l’occhio arrivava, poi, che l’inghiottiva la curvatura del pianeta, sommesso, riconquistava il fondale suo. E la griglia del pranzo mai rimase vuota, neppure di maestrale, libeccio o scirocco.

Ha telefonato anche ieri, che, prima mi chiede notizia specifica sul numero esatto di capperi d’una ricetta, – che il concetto di “una manciata” non gli pareva adeguato – quindi m’illustrò le dimensioni di una nave da crociera ancorata al centro del porto. Prima dragavano il fondale – mi ricorda – e alle banchine ci stavano pure quelle. Ora, al massimo, attracca uno yacht di lusso, o un peschereccio malfermo, tutta roba che pesca poco di chiglia. Poi, si cheta, smette di sbiascicare confusioni, riacquista rigidità semantiche: “Che io sono stato un coglione, – mi dice – con l’oro in bocca che avevo ad ogni giro di sguardo, mi sono consumato di lavori forzati. Ma tu sei più coglione di me, che pure lo fai, con l’esempio di quello ch’è diventato tuo zio”.