Incipit

Prima o poi doveva capitare che mi tocca di rimettermi a scrivere cose lunghe a destino fulgido di pagina frusciante. Ma capita, abbastanza spesso d’ultimo, che ho storie a far frullato in testa, con tanto di finale già scritto, anzi, a dirla con sincerità, storie con finale e basta, che mi manca tutta la parte prima del botto a chiusura. Che poi, chissà perché, manco mi viene mai l’incipit. Allora faccio esperimento antropologico, che prendo altra cosarella già ospite per conversazione coi sassi, e ve la ripubblico che, a colpo d’illuminazione e cambio di nome di protagonisti, mi pare essere incipit giusto. La rubo ad altro me come esproprio proletario ch’egli, a distrazione, secondo me non se ne avvede.

“Ce n’erano state di domeniche così, che pareva che tutti i colori del mondo si fossero dati convegno in paese, pure sui panni al sole che si fanno a specchio sul mare, una lastra di metallo lucente che in fondo, sulla linea d’orizzonte, diventava cielo senza che si capisse in quale punto esatto avveniva il passaggio di consegne. Dentro i cortili e nei vicoli che scivolavano verso gli approdi, le donne spazzavano dinnanzi alle porte dei dammusi, i bambini si rifacevano le ginocchia dietro le palle di pezza, e qualcuno faceva partire le lenze dal molo. Il vecchio professore se ne stava seduto al sole d’una terrazzina, provando a leggere qualcosa su un libro dalla copertina consunta.

La rue assourdissante autour de moi hurlait.
Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,
Une femme passa, d’une main fastueuse
Soulevant, balançant le feston et l’ourlet ;

Agile et noble, avec sa jambe de statue.
Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,
Dans son oeil, ciel livide où germe l’ouragan,
La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.

Un éclair… puis la nuit ! – Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité ?

Ailleurs, bien loin d’ici ! trop tard ! jamais peut-être !
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
Ô toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais !

Cercava nella sua memoria il senso di parole un tempo assai più chiare, ora oscure per neuroni in disarmo anagrafico. Mentendosi spudoratamente dissimulava il buio di comprensione con altri difetti organici emotivamente più sopportabili, cambiando e rinforcando lenti altre sul naso aguzzo proteso verso il centro della terra.

Cominciavano a muoversi come processionarie le file lente di quelli che raggiungevano la parrocchiale per la messa di mezza mattina, spiate da occhi neri dietro persiane socchiuse, pronti a cogliere dettagli nascosti male sotto i vestiti di festa. Era l’ora in cui i sughi cotti dalla mattina evaporavano per raggiungere la piazza di basole verso il caffè più centrale, popolato degli uomini a sedere che si scambiavano i due quotidiani a disposizione. Più giù, sul molo, erano le barche e le reti tirate in secco, con le casse del pesce stoccato a riva pronte per le tavole dei tre ristoranti della zona, già in fibrillazione per l’invasione di quelli di città in divisa da villeggianti. Arrivavano a frotte quando c’erano giornate così, e quelli del posto non è che ne avvertissero la presenza con gioia, se si escludevano i titolari dei bar, delle trattorie sul lungomare e di quel paio di bettole che dalle verande apparecchiate con tovaglie a quadri bianchi e rossi, offrivano alla vista solo fette di mare e muri scheggiati in cambio di prezzi a buon mercato.

“Gaetano”. Chiamò la donna nel grembiule nero di sovrapposizioni luttuose. “Gaetano”. Ripeté ancora, affacciata al balcone. Gaetano non è che subito rizzava le orecchie. Aveva cose altre per la testa, mentre saltellava tra i frangiflutti che correvano paralleli a ponente del molo più importante del porticciolo. Doveva ritirare la nassa con le quattro scorfane pescate e si accarezzava il gomito contuso colorato del livido, nero come l’occhio destro, mordicchiandosi il labbro tumefatto per capire se ancora faceva male. “Sono caduto con la bici”. Ripeteva alla zia e all’amico Mimmo. Si vergognava a dire che l’avevano pestato quei quattro che facevano banda, sempre pronti a farsi scattare i nervi quando lo vedevano arrivare. Perché a loro proprio quel tipo con cui erano cresciuti non era mai andato a genio. “È troppo strano Palmisano”. Uno che non parlava mai, e se ne stava ore a fissare chissà che cosa. Uno che non raccontava niente, che aveva la pelle attaccata alle ossa e sembrava più piccolo dei suoi dodici anni. Che pareva che viaggiasse su un altro pianeta, con quella testa troppo grossa, non in dimensioni assolute, piuttosto per l’illusione ottica dell’essere troppo “siccu, e poi si move ca pari nu ‘nvertebratu”. Con quell’espressione di sofferenza che si portava dietro da quand’era ancora più bambino, quando se ne stava perennemente allettato perché le malattie le prendeva tutte lui. Così, quei quattro, qualche volta, provavano a tirargli fuori qualcosa, lo chiamavano per nome, cercavano una reazione qualunque. Niente. Quello pareva alienato e gli faceva venire una rabbia che poi alla fine gli veniva di caricarlo di botte. Gaetano se le prendeva e non reagiva, tornandosene a casa come se sulle spalle avesse il mondo. “Ma sempre dalla bicicletta cadi?” Diceva zia Lucia. Un’altra volta la scusa buona era che era scivolato sul “lippo” degli scogli, quando ci era passato sopra per calare la lenza. L’unico ragazzo del borgo a cui non davano noia quelle sue cose strane era Mimmo. Lui ci parlava con Gaetano, e riusciva anche a strappargli più di qualche monosillabo. Quando era con Mimmo gli altri lo lasciavano in pace. Si limitavano a guardarlo male da lontano. Mimmo era d’altra pasta, come tutta la sua famiglia. Tutti comunisti, “ncazzusi”. Quelli, gli Scandurra, non si tenevano niente, e se gli mollavi una sberla te ne restituivano trecento. Il padre era una specie d’istituzione. Faceva l’avvocato e difendeva tutti i disgraziati del paese, facendosi pagare una volta si e chissà quante altre no. Per cui la gente gli portava rispetto.

“Gaetano”. Si sgolava zia Lucia. Poi Gaetano sentì. Più che altro aveva finito di fare quello che stava facendo e si era messo a correre verso casa. Era il giorno del suo compleanno e magari, pensava, qualcuno se lo sarebbe ricordato con un regalo. Gli sarebbe stata utile una canna da pesca nuova, col mulinello possibilmente, per pescare “a lancio” un po’ più a largo, che sotto costa cominciava ad esserci poca roba. Doveva essere arrivato lo zio Carmelo che faceva l’usciere al tribunale in città, e magari la canna l’avrebbe portata lui. Affrontò la leggera salita con la nassa che sembrava un lume, in quel modo che faceva ridere ed arrabbiare gli altri ragazzi, e si beccò una pietra ad una coscia. “Talia come curri”. Lui non si fermò nemmeno a vedere chi gliela aveva tirata, ma sbiascicò un “ahi!”, piano piano, per non dare a nessuno la soddisfazione di dire che gli aveva fatto male, e continuò a correre claudicando pure per l’ultima botta. A quel punto l’obiettivo era la canna nuova ed era sicuro che lo zio gliel’aveva portata, da uno di quei negozi di città. Una canna con un mulinello di quelli “spaziali”, che lanciano ami, esche e galleggianti a più di cento metri.

“Auguri beddu! Guarda cosa ti ho portato”. E in quel pacchetto quadrato venti per venti doveva starci una canna da pesca? E che razza di canna da pesca era quella che stava lì dentro? C’era qualcosa di sbagliato. Ma come, pensò, uno fa il compleanno, e per non disturbare troppo si limita a farlo una sola volta l’anno, e poi non si concede il giusto riconoscimento a quella delicatezza con una canna da pesca nuova? Eppure con lo zio ne aveva discusso che la sua canna da pesca era messa male. “Volevo portarti una canna nuova, ma poi la zia, giustamente, mi ha fatto notare che quando vai sugli scogli caschi e ti fai male, che torni a casa che sembri un Lazzaro”. Ma la zia, gli affari suoi, mai…

“Aprilo, vedi che c’è dentro”.

E che roba è questa? Pensò scartando la confezione di carta blu. Ma anche quando l’oggetto fu totalmente nudo in suo possesso non capì. Sollevò gli occhi verso lo zio, che per lui era come domandare ossessivamente. “Minchia! È una macchina fotografica, una Polaroid”. Sbottò quello a mezzo riso comprensivo.

“Che devi dire per forza queste parole vastase davanti o picciriddu. Spieghici comu funziona inveci di fari u cretinu o solitu to”. Sbraitò zia Lucia.

“E come funziona… Si prende la mira da qua – prese in mano l’oggetto misterioso, ed indicò il mirino – si inquadra quello che si vuole fotografare e si preme questo bottone. Poi si aspetta che esce la fotografia, e dopo mezzo minuto, come per magia, c’è la foto”. E lo disse tutto d’un fiato, ondulando la testa soddisfatto per quella abile docenza sostenuta senza la benché minima esitazione, proprio come fa un professionista serio che istruisce il suo ragazzo di bottega. “Ne puoi fare dieci per volta. La prossima volta ti porto anche un paio di ricariche, così fai pratica. Ci sono fior fiori di fotografi che usano la Polaroid. Anzi, fai una cosa Tano, visto che fra poco si mangia, qua ci sono i soldi. Vai al bar da Nuzzo, prendi i cannoli per tutti, e già che ci sei fai un paio di foto che poi vediamo se hai talento”.

Era ora di pranzo, a quell’ora per strada praticamente non c’era nessuno, e con l’oggetto misterioso Gaetano entrò al bar. Lì c’era soltanto Nuzzo che stava servendo un paio di aperitivi a due che dovevano essere di città. A Gaetano quelli di città andavano giù ancor meno che agli altri perché arrivavano lì per pescare con barche pazzesche che poi scaricavano nafta a mare e il pesce puzzava. In estate si mettevano tutti a fare il bagno come pinguini ed il pesce scappava. Poi avevano quelle canne sofisticatissime, e c’era pure chi usava la “pietra celeste”, anche se era vietato. La buttava sugli scogli sciolta nell’acqua, così i polpi si sentivano avvelenati ed uscivano fuori dalle tane e li raccoglievano a mezze dozzine per volta. Non era così che si faceva. Quella non era pesca.

Lui l’aveva detto al padre di Mimmo che gli aveva dato una risposta che non è che aveva capito tutta, ma il senso almeno gli pareva d’averlo afferrato. “Insomma, questi di città vengono qua e fanno col solfato di rame al nostro pesce quello che gli Americani facevano col Napalm ai Vietnamiti. Li stanano per mangiarseli. Ma la storia ci insegna che qualche volta chi fa certi calcoli poi può anche rimanersene digiuno, oppure finisce pure lui avvelenato”.

Visto che quelli nel bar erano di città, Gaetano, per non farsi turbare la scelta dei dolci, aspettò fuori che se ne andassero, seduto su uno scalino dietro l’angolo a rigirarsi tra le mani la Polaroid. Piroettando quell’escrescenza d’occhi e memoria si esercitava nelle inquadrature. Finì per fermarsi, puntandolo col mirino, su un gatto che faceva la festa ad un sacchetto di spazzatura abbandonato con dentro i resti di pesce le cui parti nobili a quell’ora dovevano essere stati serviti su ben altra tavola. Capì pure come si inseriva il flash. Poi sentì un rombo. Altri di città che avevano una moto, una tuta nera ed il casco in testa. Come fanno questi a tenersi in testa quella cosa pesante con questo caldo che non è nemmeno obbligatorio? Pensò. Il gatto scappò, e, pensò Gaetano, che aveva fatto bene con tutto quel chiasso che facevano. Ma quello che sentì dopo, altro che chiasso. Sembrava la guerra, una Lambretta smarmittata peggio di quella di suo cugino Stefano. Una cosa insopportabile ma che veniva da dentro il bar. Se ne rimase lì paralizzato, con gli occhi sbarrati, tenendosi la Polaroid stretta al petto. Quindi quei due della moto saltarono in sella e ripartirono a velocità sventolando qualcosa di scuro e metallico sbucato fuori da chissà dove. Rimase ancora qualche secondo lì, gli occhi fissi verso tutto quello che aveva visto, in un silenzio che non era certo ci fosse davvero. Poi si alzò, lentamente, ed entrò nel bar. I tre che ci aveva lasciato prima c’erano ancora, i due di città e Nuzzo. Solo che non erano più ritti al bancone, ma se ne stavano a terra, e di Nuzzo si vedeva solo la testa, in un lago rosso di cui un affluente zampillava ancora dalla gola. Chissà perché quel tremore che l’aveva accompagnato sino a quel momento cessò di colpo, e si trovo a sollevare la sua macchinetta, a spingerne, come se non avesse fatto altro per tutta una vita, il pulsante del flash per poi scaricare anche lui il suo caricatore su quei corpi martoriati.

Dieci foto, dieci. La sua prima collezione che valesse la pena di chiamare tale, perché quella di conchiglie era assai incompleta, senza tutte quelle specie di lontano che aveva visto in qualche negozio della città. E ne sarebbe passato di tempo prima di capire come era che tutti quelli che sino ad allora l’avevano preso in giro e menato perché era così “siccu, e si move ca pari nu ‘nvertebratu”, smettessero di colpo di farlo. Semplicemente perché adesso lui era uno che sapeva cose della vita che gli altri della sua età nemmeno si immaginavano, ed avevano capito che lui, anche se si muoveva strano, era uno che arrivava sempre prima degli altri.”

Codicillo in forma di paese

Pure a disagio di dover fare cose s’aggiunge l’orrenda febbriciattola sfiancante che non mi concesse tregua. Vi rilancio una cosa vecchia che le cose nuove pare me le hanno messe all’ergastolo ostativo. Cosa vecchia che rinverdii di frequentazione a tempo recentissimo eppure già vira a nostalgia struggente.

Non ho nostalgie ricorrenti per i bei tempi andati, giustappunto perché v’era da far fatica e della fatica me ne intendo, tant’è che, qualora se ne presenti l’occasione, desisto dal frequentarla. Ma di certe cose m’avvedo come di tesori perduti, che il tempo s’è portato via senza chiedere il permesso. Le pescosità marine, per buttarla lì, mi perdurano dentro, certe coste intonse e disperate d’approdi a falesia a strabocco sul blu. Pure, indugio a struggermi del ricordo del quartiere, storico e ben piantato sulle fondamenta antiche. Certe ricorrenze di memoria mi paiono messe lì a bella posta per indispettirmi della loro assenza. Ma vi è una sorta di destino ineluttabile nei centri storici. Mi sa che è per questo, ovunque vada e nel mio pellegrinaggio a destra, pure a manca (in senso geografico, che per altre nature ho fatto radici), da nord a sud e viceversa, che ho deciso di non rinunciare ad abitarvi. Ma la scelta, ch’è, immagino – un tantino sperandolo -, definitiva, cade sempre su una delle due possibili evoluzioni che ci è dato di conoscerne, pur con qualche eccezione in quanto tale straordinaria. O diventano supermercati/eventifici, per la gioia ed il solluchero di certi boiardi non di vedute amplissime, popolosi di signore contesse leopardate e marchesi merlettati di coppale e coccodrilli, con monolocali che costano quanto castelli sulla Loira, e ristostelle ad ogni piè sospinto; oppure, piano piano, s’abbandonano a se stessi, che chi li ha animati nei secoli è fuggito necessitato nel farlo (gli casca il tetto in testa e le muffe lo aggrediscono fisicamente, così s’accordano per la deportazione nei cubi cementifici 30×30 della Suburbia), o perché il quinto piano termoascensorato semplicemente più li aggrada. Pur nella dolorosa nostalgia di odori di fritto, bimbi più o meno calzati che strapiombavano per le stradine scoscese, mercanti a bandezzo, donne vestite di salsedine, abbondanti d’esposizione di preziose merci d’antiche artigiane, adoro il silenzio della decadenza di quelli diruti e spopolati. Me ne approprio, talora, come fosse respirazione d’ossigeno puro, e li attraverso ferocemente gaudente, pronto a sguainare l’obiettivo, non per cristallizzare l’istante, renderne permanente la narrazione, piuttosto per la ricerca inversa, che riporta alla luce una sequenza temporale dinamica. La natura corruttibile delle cose, infatti, ritiene in sé le orme del tempo, che si sovrappongono, si stratificano diacronicamente; e così la traccia più recente non cancella le precedenti, le opacizza soltanto, per un periodo effimero. Lo stesso tempo gioca con le cose degli uomini e, graffiando via gli strati superiori deposti al suo passaggio, ne scopre i precedenti, in un gioco cromatico che l’obiettivo disvela in un unicum narrativo che va oltre l’istante dello scatto. Questa ricerca non può che consumarsi dentro un percorso di riscoperta identitaria, dunque, che non rinuncia a ripartire da qualcosa che, profittando dell’estinzione di massa, si riprende i suoi colori anche quando il senso d’abbandono appare ad occhi distratti prevalente e fastidioso. Effetto sublime e collaterale di questo cammino, è la messa a fuoco del dettaglio che sfugge a chi è vittima inconsapevole del gioco d’inganno del tempo, a chi ha scelto la disillusione dell’accelerarsi quale pratica quotidiana.

Appare, invece, quale irrinunciabile taumaturgia agli occhi di chi non venne irretito dalla consuetudine. “Vi fu sempre nel mondo assai più di quanto gli uomini potessero vedere quando andavano lenti, figuriamoci se lo potranno vedere andando veloci” (John Ruskin), e questo impone il viaggio lento, dentro i silenzi che in una condizione “urbana” e convenzionale non sono previsti, appartengono, semmai e nell’immaginario, solo a certe valli antiche e remote, ai più profondi dei boschi. Silenzi in cui però si avverte profondo il respiro del tempo che è passato, rotto solo da qualche richiamo lontano ed ancestrale che proviene da un luogo indefinito, da dietro persiane serrate dietro un occhio scuro che spia il transito inatteso, allarmato forse dallo scalpiccio, ormai desueto, lungo scalinate labirintiche, dentro il profumo di intingoli che sanno di memoria. Si dipanano – pure compiacendosene – le attese lunghe e pazienti, sinché i raggi sghembi del sole d’una certa ora, o qualche goccia di occasionale pioggia, non vivificano le coloriture di vernici dismesse, frammenti di intonaci, infissi scorticati. Dettagli d’umanità senza presenze, che riconciliano con certe dimensioni perdute, alternative ed ostili al mordi e fuggi, all’unica prospettiva dell’ora e subito. E del dedalo dimenticato, non rimase che l’opera collettiva di popolo e tempo, bellezza che riesce a farsi vanto delle sue rughe più profonde, senza riguardo, invero, per l’estetista.

La città perduta

V’è qualcosa d’ideologico, di ancestrale e fatto di paure nella voglia d’armarsi a difesa delle cittadelle fortificate del proprio quotidiano. L’appello a sparar cinghiali, abbattere il lupo, scannare l”orso, non è dissimile dall’affondare la nave che fugge da disperazione, che è a preferenza morto per annego che accoglienza. Tutto pare ricondursi a terrore puro d’invasione, invasione d’orrenda fiera a saccheggio di rifiuto, d’orrendo altro e reietto a rimetto in discussione stile di vita. Eppure l’uno venne a bussar alle porte della città che non ebbe più bosco per fare spazio a cemento, l’altro fu a condizione di schiavo e carne da macello per benessere di cittadino di posto civile, che casa sua fu messa ferro e fuoco da monocoltura e scavo di miniera per diletto d’altri che n’ebbero – a mistero fitto – paura. Or dunque quelli è ad invito ad imbracciar arma, a difesa di magione, presa d’assalto dal proprio agire d’inconsapevole parassita. E la città da difendere diventa il simbolo più elevato del vero assedio che fu di paura e null’altro. E della città parlai, ed ora riparlo par pari, che a tentacolo s’estende a spazzar via residuo di civiltà umana e di natura.

“Più per angoscia che per celia, m’appartiene la vista lontana della città presa d’assalto, dalle torme dei resilienti – non resistenti – in griffe gratta e vinci. Lo spazio urbano assembrato diventa fantasma della sua crescita indiscriminata, sempre più privato, sempre meno pubblico, sociale, definitivamente distanziato, come nei giochi d’ossimori si compete, tanto più è affollato. Il reale, trasformato in immagine spettacolare, è quinta scenografica d’una rappresentazione farsa, in cui le mura cingono d’assedio gli assedianti, non più le mura di Campanella dov’è la storia della scienza, il progetto educativo condiviso dei destini magici e progressivi dell’uomo. Le mura s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, sovvertendo l’ordine mentale costituito, quello che cerca l’orizzonte libero e di vertigine dello sguardo dell’animale in gabbia.

Dunque, l’animale in gabbia, alla catena, ha qualcosa di più umano dell’umanità stessa, poiché invoca per sé lo spazio aperto, rifugge dal pericolo mortale dell’assalto all’unisono alla stessa preda. Le immagini degli eloquenti muri della città ideale di Platone, sono ora grate elettrificate e luminescenti, gli orrori della merce che trabocca dalla caricatura d’una cornucopia di svendite morali e materiali. Pure l’effimero, in quanto concetto, sparisce nelle celle delle fiumane umane, diventa superfluo necessario, vocazione definitiva alla barbarie annichilente. Le architetture/prigioni delle periferie commerciali, e di dormitori, pure quelle di centri storici mercatizzati, non sono innocenti oggetti devitalizzati, ma espressione urlante del potere sociale che reclama le sue vittime. E se l’agnello o l’orrendo porco, s’avvedono del loro imminente sacrificio all’altare della tavola imbandita, con lacrima ed urlo straziante, il residuo umano vi s’immola con fanciullesca indifferenza. La progressione verso la forma estrema del mercato, il narcisismo individualista, ha soppiantato persino le oscene gerarchie dei rapporti di produzione convenzionali. Ed il consumo diventa religione di stato, di sovrastato, religione della religione. Solo il lavoro rende liberi in quanto apre la via alla speranza redentiva del consumo, del consumo d’una merce, purché sia, pure solo nella sua percezione virtuale e fuggente. Le città assaltate hanno perso ormai persino quel flebile richiamo al modernismo, financo superato le creazioni monolitiche della dittatura ceauseschiana, le volontà di Marinetti di deviare canali per affogare la vetusta Venezia, o Le Corbusier che anelava l’autostrada che spaccasse in due Parigi. Gli spazi vitali non esistono se non nel sentire, ormai folle, di chi deraglia dalla “normalità” di chi è persona e non gente. La follia è solo di quei pochi che s’avvedono della malattia come dolorosa e furente.

La normalità – contrappeso di massa alla pazzia -, che osannava un tempo Davide e la sua povera pietra per millenni, ora è di giganteschi Golia splendenti d’armature invincibili, il cui unico desiderio è cancellare la memoria della fionda sotto il pesante tallone della propria poderosa ed indiscutibile stazza. Guai ai vinti, soprattutto se s’atteggiano a ultimi, tanto più se proclamano la propria deviazione standard dal numero medio, se s’appigliano, resistenti, alla propria follia premeditata.

Dopo quello per Cola Pesce, non resta che recitare il de profundis pure per Giufà, che s’aggirava per le campagne, e negli occhi aveva la meraviglia per il tutto d’intorno, financo per un piatto di fagioli, con la pentola in testa, che non gli scappasse da quella l’innata sua passione per la follia che l’accomunava agli infiniti colori d’una umanità perduta.”

L’Arcivernice (rilancio)

Dalla creazione del mondo, la barbarie umana non ha fatto un solo passo verso il progresso. Nel corso dei secoli, l’abbiamo soltanto ricoperta con una mano di vernice, nient’altro.” “(Il vagabondo delle stelle”, Jack London, gennaio 1876) Che pure a me tocca di scrostare qualche patina per un po’ di musica che mi ricordo.

“Che abbiamo questo straordinario lusso di essere clienti del tempo, magnifico, unico, abilissimo, inimitabile imbianchino. Che copre le vergogne, e, pure tra le croci a perdere di memoria per chi s’arrende, ci regala l’immagine a patina splendente di chi resta, che ci viene voglia d’andare a vedere – in talune, di recente assai numerose, circostanze – dov’è la data di scadenza che ci tocca, se in marsupio di DNA, o scritto a neon sull’ultima stella a destra, quella accanto al magazzino delle scope.

Che di voli del Grande Tacchino, in un anno, m’è parso d’averne visti, a me di canto, tanti di quei tanti che la metà mi bastavano a gloria futura, né m’aggrada più di dire che io c’ero, mi vien d’aggiungere semmai, si, partecipai, ma con somma cautela. Che se rimpianto m’è dato è dell’adamantina figura di Pier Cloruro da Lambicchi, di cui m’aggraderebbe in uso l’Arcivernice, di ritratti da ripassare a patina nuova ne ho a iosa. Ci ho però sospetto, a tratti fondato su fatti comprovati – ed ho qui la fotocopia a testimonio di documentazione bibliografica – che non farei eccessivi favori se ricoprissi la prima mano con la seconda. Dunque, dilaniato dall’incertezza se impugnare pennellessa e rullo, saluto gli andati, che non ho fretta di raggiungerli, neppure però mi dispiacerà più di tanto quando ciò dovesse avvenire.

E, a sommo di superbia, faccio presente che Marx è morto, pure Brecht – che tutti siamo avvolti in opera da meno di tre soldi – e tanti ancora, a ricoprire intonaci scrostati, e perciò m’insospettisce un certo mal di testa che m’attanaglia da stamattina. Poi mi riannullo, mi rifaccio signor nessuno, che m’è dato di riconoscermi tale, che più prosaiche spiegazioni ho in fondo al bicchiere quali cause o concause, e d’aspirima confido di rimaner tra il peggio ancora un po’, non foss’altro che per prendermi il lusso di vedere come va a finire.”

Il fotografo di frodo

Che mi sconfinfera, oggi, che domenica s’appresta di villaggio altro di villaggio mio antico, di farvi regalino di vecchio racconto, che m’evito di scrivere per stanca di settimana di peso che me ne tolse una certa gana – ad attesa che ritorna -, pure faccio omaggio per lettura a chi non meglio ha da fare.

“Ce n’erano state di domeniche così, che pareva che tutti i colori del mondo si fossero dati convegno in paese, pure sui panni al sole che si fanno a specchio sul mare, una lastra di metallo lucente che in fondo, sulla linea d’orizzonte, diventava cielo senza che si capisse in quale punto esatto avveniva il passaggio di consegne. Dentro i cortili e nei vicoli che scivolavano verso gli approdi, le donne spazzavano dinnanzi alle porte dei dammusi, i bambini si rifacevano le ginocchia dietro le palle di pezza, e qualcuno faceva partire le lenze dal molo. Il vecchio professore se ne stava seduto al sole d’una terrazzina, provando a leggere qualcosa su un libro dalla copertina consunta.

La rue assourdissante autour de moi hurlait.
Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,
Une femme passa, d’une main fastueuse
Soulevant, balançant le feston et l’ourlet ;

Agile et noble, avec sa jambe de statue.
Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,
Dans son oeil, ciel livide où germe l’ouragan,
La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.

Un éclair… puis la nuit ! – Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité ?

Ailleurs, bien loin d’ici ! trop tard ! jamais peut-être !
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
Ô toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais !

Cercava nella sua memoria il senso di parole un tempo assai più chiare, ora oscure per neuroni in disarmo anagrafico. Mentendosi spudoratamente dissimulava il buio di comprensione con altri difetti organici emotivamente più sopportabili, cambiando e rinforcando lenti altre sul naso aguzzo proteso verso il centro della terra.

Cominciavano a muoversi come processionarie le file lente di quelli che raggiungevano la parrocchiale per la messa di mezza mattina, spiate da occhi neri dietro persiane socchiuse, pronti a cogliere dettagli nascosti male sotto i vestiti di festa. Era l’ora in cui i sughi cotti dalla mattina evaporavano per raggiungere la piazza di basole verso il caffè più centrale, popolato degli uomini a sedere che si scambiavano i due quotidiani a disposizione. Più giù, sul molo, erano le barche e le reti tirate in secco, con le casse del pesce stoccato a riva pronte per le tavole dei tre ristoranti della zona, già in fibrillazione per l’invasione di quelli di città in divisa da villeggianti. Arrivavano a frotte quando c’erano giornate così, e quelli del posto non è che ne avvertissero la presenza con gioia, se si escludevano i titolari dei bar, delle trattorie sul lungomare e di quel paio di bettole che dalle verande apparecchiate con tovaglie a quadri bianchi e rossi, offrivano alla vista solo fette di mare e muri scheggiati in cambio di prezzi a buon mercato.

“Gaetano”. Chiamò la donna nel grembiule nero di sovrapposizioni luttuose. “Gaetano”. Ripeté ancora, affacciata al balcone. Gaetano non è che subito rizzava le orecchie. Aveva cose altre per la testa, mentre saltellava tra i frangiflutti che correvano paralleli a ponente del molo più importante del porticciolo. Doveva ritirare la nassa con le quattro scorfane pescate e si accarezzava il gomito contuso colorato del livido, nero come l’occhio destro, mordicchiandosi il labbro tumefatto per capire se ancora faceva male. “Sono caduto con la bici”. Ripeteva alla zia e all’amico Mimmo. Si vergognava a dire che l’avevano pestato quei quattro che facevano banda, sempre pronti a farsi scattare i nervi quando lo vedevano arrivare. Perché a loro proprio quel tipo con cui erano cresciuti non era mai andato a genio. “È troppo strano Palmisano”. Uno che non parlava mai, e se ne stava ore a fissare chissà che cosa. Uno che non raccontava niente, che aveva la pelle attaccata alle ossa e sembrava più piccolo dei suoi dodici anni. Che pareva che viaggiasse su un altro pianeta, con quella testa troppo grossa, non in dimensioni assolute, piuttosto per l’illusione ottica dell’essere troppo “siccu, e poi si move ca pari nu ‘nvertebratu”. Con quell’espressione di sofferenza che si portava dietro da quand’era ancora più bambino, quando se ne stava perennemente allettato perché le malattie le prendeva tutte lui. Così, quei quattro, qualche volta, provavano a tirargli fuori qualcosa, lo chiamavano per nome, cercavano una reazione qualunque. Niente. Quello pareva alienato e gli faceva venire una rabbia che poi alla fine gli veniva di caricarlo di botte. Gaetano se le prendeva e non reagiva, tornandosene a casa come se sulle spalle avesse il mondo. “Ma sempre dalla bicicletta cadi?” Diceva zia Lucia. Un’altra volta la scusa buona era che era scivolato sul “lippo” degli scogli, quando ci era passato sopra per calare la lenza. L’unico ragazzo del borgo a cui non davano noia quelle sue cose strane era Mimmo. Lui ci parlava con Gaetano, e riusciva anche a strappargli più di qualche monosillabo. Quando era con Mimmo gli altri lo lasciavano in pace. Si limitavano a guardarlo male da lontano. Mimmo era d’altra pasta, come tutta la sua famiglia. Tutti comunisti, “ncazzusi”. Quelli, gli Scandurra, non si tenevano niente, e se gli mollavi una sberla te ne restituivano trecento. Il padre era una specie d’istituzione. Faceva l’avvocato e difendeva tutti i disgraziati del paese, facendosi pagare una volta si e chissà quante altre no. Per cui la gente gli portava rispetto.

“Gaetano”. Si sgolava zia Lucia. Poi Gaetano sentì. Più che altro aveva finito di fare quello che stava facendo e si era messo a correre verso casa. Era il giorno del suo compleanno e magari, pensava, qualcuno se lo sarebbe ricordato con un regalo. Gli sarebbe stata utile una canna da pesca nuova, col mulinello possibilmente, per pescare “a lancio” un po’ più a largo, che sotto costa cominciava ad esserci poca roba. Doveva essere arrivato lo zio Carmelo che faceva l’usciere al tribunale in città, e magari la canna l’avrebbe portata lui. Affrontò la leggera salita con la nassa che sembrava un lume, in quel modo che faceva ridere ed arrabbiare gli altri ragazzi, e si beccò una pietra ad una coscia. “Talia come curri”. Lui non si fermò nemmeno a vedere chi gliela aveva tirata, ma sbiascicò un “ahi!”, piano piano, per non dare a nessuno la soddisfazione di dire che gli aveva fatto male, e continuò a correre claudicando pure per l’ultima botta. A quel punto l’obiettivo era la canna nuova ed era sicuro che lo zio gliel’aveva portata, da uno di quei negozi di città. Una canna con un mulinello di quelli “spaziali”, che lanciano ami, esche e galleggianti a più di cento metri.

“Auguri beddu! Guarda cosa ti ho portato”. E in quel pacchetto quadrato venti per venti doveva starci una canna da pesca? E che razza di canna da pesca era quella che stava lì dentro? C’era qualcosa di sbagliato. Ma come, pensò, uno fa il compleanno, e per non disturbare troppo si limita a farlo una sola volta l’anno, e poi non si concede il giusto riconoscimento a quella delicatezza con una canna da pesca nuova? Eppure con lo zio ne aveva discusso che la sua canna da pesca era messa male. “Volevo portarti una canna nuova, ma poi la zia, giustamente, mi ha fatto notare che quando vai sugli scogli caschi e ti fai male, che torni a casa che sembri un Lazzaro”. Ma la zia, gli affari suoi, mai…

“Aprilo, vedi che c’è dentro”.

E che roba è questa? Pensò scartando la confezione di carta blu. Ma anche quando l’oggetto fu totalmente nudo in suo possesso non capì. Sollevò gli occhi verso lo zio, che per lui era come domandare ossessivamente. “Minchia! È una macchina fotografica, una Polaroid”. Sbottò quello a mezzo riso comprensivo.

“Che devi dire per forza queste parole vastase davanti o picciriddu. Spieghici comu funziona inveci di fari u cretinu o solitu to”. Sbraitò zia Lucia.

“E come funziona… Si prende la mira da qua – prese in mano l’oggetto misterioso, ed indicò il mirino – si inquadra quello che si vuole fotografare e si preme questo bottone. Poi si aspetta che esce la fotografia, e dopo mezzo minuto, come per magia, c’è la foto”. E lo disse tutto d’un fiato, ondulando la testa soddisfatto per quella abile docenza sostenuta senza la benché minima esitazione, proprio come fa un professionista serio che istruisce il suo ragazzo di bottega. “Ne puoi fare dieci per volta. La prossima volta ti porto anche un paio di ricariche, così fai pratica. Ci sono fior fiori di fotografi che usano la Polaroid. Anzi, fai una cosa Tano, visto che fra poco si mangia, qua ci sono i soldi. Vai al bar da Nuzzo, prendi i cannoli per tutti, e già che ci sei fai un paio di foto che poi vediamo se hai talento”.

Era ora di pranzo, a quell’ora per strada praticamente non c’era nessuno, e con l’oggetto misterioso Gaetano entrò al bar. Lì c’era soltanto Nuzzo che stava servendo un paio di aperitivi a due che dovevano essere di città. A Gaetano quelli di città andavano giù ancor meno che agli altri perché arrivavano lì per pescare con barche pazzesche che poi scaricavano nafta a mare e il pesce puzzava. In estate si mettevano tutti a fare il bagno come pinguini ed il pesce scappava. Poi avevano quelle canne sofisticatissime, e c’era pure chi usava la “pietra celeste”, anche se era vietato. La buttava sugli scogli sciolta nell’acqua, così i polpi si sentivano avvelenati ed uscivano fuori dalle tane e li raccoglievano a mezze dozzine per volta. Non era così che si faceva. Quella non era pesca.

Lui l’aveva detto al padre di Mimmo che gli aveva dato una risposta che non è che aveva capito tutta, ma il senso almeno gli pareva d’averlo afferrato. “Insomma, questi di città vengono qua e fanno col solfato di rame al nostro pesce quello che gli Americani facevano col Napalm ai Vietnamiti. Li stanano per mangiarseli. Ma la storia ci insegna che qualche volta chi fa certi calcoli poi può anche rimanersene digiuno, oppure finisce pure lui avvelenato”.

Visto che quelli nel bar erano di città, Gaetano, per non farsi turbare la scelta dei dolci, aspettò fuori che se ne andassero, seduto su uno scalino dietro l’angolo a rigirarsi tra le mani la Polaroid. Piroettando quell’escrescenza d’occhi e memoria si esercitava nelle inquadrature. Finì per fermarsi, puntandolo col mirino, su un gatto che faceva la festa ad un sacchetto di spazzatura abbandonato con dentro i resti di pesce le cui parti nobili a quell’ora dovevano essere stati serviti su ben altra tavola. Capì pure come si inseriva il flash. Poi sentì un rombo. Altri di città che avevano una moto, una tuta nera ed il casco in testa. Come fanno questi a tenersi in testa quella cosa pesante con questo caldo che non è nemmeno obbligatorio? Pensò. Il gatto scappò, e, pensò Gaetano, che aveva fatto bene con tutto quel chiasso che facevano. Ma quello che sentì dopo, altro che chiasso. Sembrava la guerra, una Lambretta smarmittata peggio di quella di suo cugino Stefano. Una cosa insopportabile ma che veniva da dentro il bar. Se ne rimase lì paralizzato, con gli occhi sbarrati, tenendosi la Polaroid stretta al petto. Quindi quei due della moto saltarono in sella e ripartirono a velocità sventolando qualcosa di scuro e metallico sbucato fuori da chissà dove. Rimase ancora qualche secondo lì, gli occhi fissi verso tutto quello che aveva visto, in un silenzio che non era certo ci fosse davvero. Poi si alzò, lentamente, ed entrò nel bar. I tre che ci aveva lasciato prima c’erano ancora, i due di città e Nuzzo. Solo che non erano più ritti al bancone, ma se ne stavano a terra, e di Nuzzo si vedeva solo la testa, in un lago rosso di cui un affluente zampillava ancora dalla gola. Chissà perché quel tremore che l’aveva accompagnato sino a quel momento cessò di colpo, e si trovo a sollevare la sua macchinetta, a spingerne, come se non avesse fatto altro per tutta una vita, il pulsante del flash per poi scaricare anche lui il suo caricatore su quei corpi martoriati.

Dieci foto, dieci. La sua prima collezione che valesse la pena di chiamare tale, perché quella di conchiglie era assai incompleta, senza tutte quelle specie di lontano che aveva visto in qualche negozio della città. E ne sarebbe passato di tempo prima di capire come era che tutti quelli che sino ad allora l’avevano preso in giro e menato perché era così “siccu, e si move ca pari nu ‘nvertebratu”, smettessero di colpo di farlo. Semplicemente perché adesso lui era uno che sapeva cose della vita che gli altri della sua età nemmeno si immaginavano, ed avevano capito che lui, anche se si muoveva strano, era uno che arrivava sempre prima degli altri.”

Osso, Mastrosso e Carcagnosso (prima parte)

Mi decido, quasi per celia, a pubblicare una serie d’appunti, derubando studi assai più precisi in qui e in là. Roba per ragazzi delle scuole, mica per grandi scienziati sociali e politologi, nemmeno per giuristi raffinatissimi. Come sarà chiaro a chi legge, non si tratta d’uno scritto che ha respiro storico fondamentale, che io quello non lo so produrre. Nemmeno voglio intromettermi in una discussione che riguarda fatti recenti e su cui ognuno può farsi l’idea che gli pare. Io la mia ce l’ho, ed è tale che, quanto accaduto appena qualche giorno fa, non m’è affatto di stupore. Mi pare, invero, sia solo la conseguenza di una storia lunga e complessa. E se Giovanni Falcone sosteneva che la mafia è una cosa degli uomini, e che quindi ha un inizio ed una fine, io certo non mi permetto di dissentire. Tuttavia mi permetto di sussurrare, sommessamente, per quello che ho visto ed ascoltato – e mica da una sola campana – che mi pare più probabile che la mafia finirà proprio insieme a tutte le altre cose degli uomini. Vi propongo questa cosa a spizzichi e bocconi, forse manco tutti uno dietro l’altro, pur se proverò a seguire un qualche filo temporale, sempre nei limiti del me “nessuno”, che non sono nessuna delle cose di cui sopra, manco un accademico di un qualche miserrimo rango. Come ben potete immaginarvi, non godo di pulpiti, che sempre nessuno resto.

Dapprincipio fu il verbo

La mafia è un fenomeno complesso, mica un’accolita di teppistelli, ma nemmeno un’orda di barbari incapaci di intendere e volere, piuttosto un insieme di organizzazioni criminali che operano all’interno di un sistema di rapporti, che svolgono attività violente e illegali, ma anche formalmente legali, finalizzate all’accumulazione di ricchezze e all’acquisizione e gestione di posizioni di potere. Ha un codice culturale e gode di un certo consenso sociale.

La storia della mafia è fatta di continue metamorfosi, trasformazioni radicali che l’hanno adeguata ad altrettanto mutevoli contesti storici, culturali, sociali, politici ed economici. Si passa dai fenomeni embrionali, tra il XVI ed il XIX sec., alla mafia agraria, attiva dall’Unità sino agli anni ’50 del XX sec.; negli anni ’60 del secolo scorso diventa urbano-imprenditoriale, quindi si arriva all’oggi d’una penetrazione capillare nel mondo finanziario.

Ai tempi di Federico II si parlava già di “bravi” (grosso modo ascrivibili a quelli di cui parla il Manzoni) ingaggiati dai baroni per seminare terrore nelle campagne. Continuarono a farlo per feudatari e latifondisti in epoche più recenti, al cui soldo stavano gabellotti e picciotti vari, con i quali si tenevano d’occhio i contadini perché non protestassero troppo, ma pure per darsele tra loro.

Nel 1531, un funzionario scrive a Carlo V, poiché aveva questa strana sensazione che la giustizia colpisse solo i “panni bassi” mentre i delitti più gravi vedevano i responsabili passarla liscia. Allora vi fu il “curioso” accadimento di un magistrato ucciso da sicari che godevano della protezione del vicerè, e pare che questi ricevesse regalie varie per intercedere in favore di criminali. Ovvio che tutti se ne stavano zitti davanti ai crimini, diventando omertosi, che avevano abbastanza eloquentemente la percezione di una giustizia che, più che dea bendata, pareva ninfetta ciecata.

Nel 1543, qualcuno si sveglia, si rende conto che le cose non vanno proprio per il verso giusto, e decide di peggiorarle, istituendo le compagnie d’armi: queste erano composte da un capitano e da dieci uomini, all’uopo selezionati con cura tra violenti e pregiudicati. Tali masnade di “benemeriti” della società, avevano il compito di perseguire i delitti. Nel 1563, un documento ufficiale recita che il “Regno si sente molto gravato dal comportamento di questi”. E proprio tra questi s’appresenta come temibile certo Mario de Tomasi, che accumula ingenti fortune e s’offre in sposo a una nobildonna con cui darà vita alla stirpe dei Gattopardi. “Tutto cambia perché niente cambi”, scrive Tomasi di Lampedusa, e, aggiunge, con l’Unità d’Italia gli sciacalli, cioè i borghesi, hanno preso il posto degli aristocratici. Chissà se s’era avveduto del suo avo.

Nel 1576 un documento, riferendosi alle attività della “Vucciria” di Palermo, recita: “nelli macelli non si macella quasi carne alcuna… dandosi commodità alli mali homini che arrobano detti animali di potere coprire i loro latrocinii per questa via”. Dette carni venivano vendute in monopolio con la complicità delle autorità locali. Ancora nel 1773 si scrive: “… nel caso che i proprietari delle bestie accettino di pagare un riscatto per le bestie rubate, soglonsi dividere tutto tra ladri e capitani”. Girolamo Colloca, il “re della Vucciria” vanta tra i suoi protettori il Duca di Medina ed il Duca di Terranova. Nel 1675, un certo Francesco Greco, denunciò fatti di crimine legati a questi traffici illeciti. I sicari che lo indussero al silenzio più definitivo godettero di assoluta impunità.

Pari pari procedeva l’Inquisizione, una vera e propria organizzazione mafiosa, che ha avuto un ruolo fondamentale nell’istituzione della prassi dell’impunità. L’organizzazione contava in Sicilia su un esercito di circa 30.000 “familiari”, un corpo “scelto bene” di “santissimi ed onorati” uomini di fede, che godevano di un foro privilegiato e che misero su un produttiva fabbrica di delinquenti. Verrà abolita da Caracciolo sulla strada delle sue riforme contro il potere feudale e mafioso nel 1782.

Ovvio che se non ti comporti proprio bene bene, e qualcuno te lo fa notare, magari togliendoti quell’impunità di cui godevi, allora ti metti a dire che sei stato frainteso, che quello che fai è per il bene della società, che sei un filantropo, ti cerchi alleati, consenso, che le bastonate che davi non ti sono sufficienti (cose d’altri tempi, no?)

Così, questi protomafiosi, attingono, che ne so, al mito dei Beati Paoli per spacciare la propria organizzazione come nata per rendere giustizia ai poveri ed agli oppressi. Si racconta, allora, in un mito che mescola delitti d’onore, omertà e religione, che tali Osso, Mastrosso e Carcagnosso, rappresentanti di Cristo, San Michele e San Pietro, braccati da infame sbirraglia, si rifugiano a Favignana dopo aver vendicato una sorella violentata, e lì, travolti da questo desiderio benefattorio, fondano mafia, ndrangheta e camorra.

Caracciolo lascia memoria delle sue riforme agrarie che, in talune parti di Sicilia, cominciano a far vedere i loro frutti, e arrivano peraasino all’abolizione dei privilegi feudali. Questo, certo, non è che faccia un gran piacere ai poveri ricchi latifondisti, che a colpi di gabellotti e, sempre godendo di certa accondiscendenza da parte delle autorità locali borboniche, si difendono come possono. Comunque, contenti non sono. S’aspettano di essere liberati dall’infame giogo. A questo si aggiunge che bande eversive scorrazzano qui e là. Ce n’è una, di cui si parla già nel 1838, che si faceva chiamare Sacra Unione, la cui beatitudine era garantita dal fatto che a guidarla fosse un prete, e che praticava l’abigeato su vasta scala, protetta da autorità e proprietari. A questo punto la Sicilia si prepara ad affrontare lo sbarco dei Mille, che davvero non se ne poteva più. A sancire la nuova era, tra le fila dei Garibaldini sono anche Giovanni Corrao e Giuseppe La Masa, che arruolano i “picciotti” per la conquista della Sicilia. Le richieste dei bistrattati possidenti trovano accoglienza presso i capi garibaldini che, a Bronte, soffocano nel sangue la rivolta contadina contro i latifondisti. Il nostro eroe nazionale Nino Bixio in persona, ordina di sparare sui contadini che s’aspettavano d’essere liberati dal giogo feudale del Duca di Bronte, tale Nelson, erede dell’ammiraglio. Questi s’era acchiappato il posto, spaparanzandosi in una stupenda abbazia, poiché Ferdinando IV gli era riconoscente assai per aver ordinato l’impiccagione d’un altro Caracciolo, tale Francesco, abile navigatore e un poco troppo idealista, che coi Borbone aveva un qualche dissidio. Bixio, in quell’occasione, fece fucilare pure lo scemo del villaggio che, incautamente, s’era messo a gridare “Libertà, libertà” alla vista dei garibaldini. Ce l’ha raccontata Verga questa storia, in una novella che si chiamava proprio “La Libertà”. Ma se qualcuno si permette di rimettere in discussione la natura etica del Risorgimento, in tutte le sue componenti, ivi compreso sottintendendo malevolmente che un eroe quale Nino Bixio fosse una specie di mercenario al soldo degli inglesi, come sostengono certe malelingue, lo impicco ad un pennone più alto di quello destinato a Francesco Caracciolo.

I Savoia, comunque, dopo l’obbedisco, decisero, per spirito unitario, di non far rimpiangere i Borbone, scavalcandoli persino in talune scelte a sostegno dei poveri latifondisti e dei picciotti al loro soldo. Cominciarono a sparare ad alzo uomo sulle riforme agrarie di Caracciolo (il vicerè), e proibirono ogni genere di coltura fosse pure di puro sostentamento ai piccoli proprietari contadini, a favore della monocoltura cerealicola. I generosi latifondisti si poterono riprendere cosi con generosi tozzi di pane le terre a loro “ingiustamente” sottratte dal vil volgo bracciantile. Se era il caso qualche osso spezzato o, nei casi più ostinati, qualche strategica sparizione nelle vaste campagne incolte ai margini dei poderi, serviva a garantire il passaggio di proprietà meglio d’un atto notarile. Ma i contadini, rozzi quali sono, anziché abbozzare, ammettendo la propria inferiorità umana, morale e materiale, cominciano ad organizzarsi e creano le Leghe dei “Fasci” (che nulla hanno a che vedere, se non nel nome, con certi ventenni). Un movimento vastissimo, per un terzo costituito da donne (altro che quote rosa, queste spudorate) che si organizza per resistere al sopruso mafioso ed istituzionale. Il 4 gennaio 1894, il capo del governo italiano, l’ascaro Francesco Crispi, già eroe dei Mille, decretò lo stato d’assedio, violando lo Statuto Albertino (non ci sono testimonianze che i Savoia si siano stracciate le vesti) che lo prevedeva solo in caso di presenza di invasore straniero, e diede pieni poteri civili e militari al generale Morra di Lavriano per mettere a ferro e fuoco l’Isola e sciogliere i Fasci Siciliani. Centinaia di persone furono trucidate dal fuoco incrociato di mafia e forze dell’ordine, migliaia incarcerate e decine di migliaia fuggirono dalla Sicilia. Scrive Antonio Labriola (Roma, 10 aprile 1894): “Fino ad ora la parola di un italiano non poteva essere che modesta, anzi modestissima, nei rapporti del socialismo internazionale. Tutto al più avea valore di convincimento personale, o di promessa e di speranza da parte di pochi precursori liberamente o spontaneamente associati. Mancava il fermento della massa proletaria, che risultasse dal sentimento si una determinata situazione economica.

Ora ciò e cambiato. Coi tristi casi di Sicilia il proletariato è venuto su la scena. Questa è la prima volta in Italia che il proletariato, con la sua coscienza di classe oppressa e la sua tendenza al socialismo, s’è trovato di fronte alla borghesia.

Alla prima mossa è succeduta rapida la repressione. Ma ciò non rimarrà senza effetto. Gli stessi errori commessi serviranno di ammaestramento. La stessa borghesia, che per difendersi ha bisogno di reprimere, fa da maestra.

D’ora innanzi non ci sarà che progresso. Il socialismo, come forza impulsiva, investirà la massa proletaria.

Cinquant’anni fa C. Marx ha detto (- ripeto il senso non le parole -) che non importa guardare a quello che il singolo proletario pensa o dice, né a quello che tutti i proletari pensano o dicono, ma a quello a cui sono necessariamente portati dalla loro stessa situazione. L’Italia di ora lo conferma”.

Parole a vuoto quelle di Labriola.

Sul finire dell’800, i delitti di mafia rimasti impuniti, riguardavano anche rappresentanti delle istituzioni. Tra questi, nel 1893, quello di Emanuele Notarbartolo, già sindaco di Palermo che, da direttore del Banco di Sicilia, si era opposto a certe poco chiare manovre speculative. Viene incriminato come mandante dell’omicidio Raffaele Palizzolo, deputato legato ai mafiosi. La sentenza contro di lui venne annullata a Firenze per un vizio di forma. Al suo rientro fu accolto come un eroe per la mobilitazione dell’associazione Pro-Sicilia, di cui faceva parte e ne era tra i fondatori, l’antropologo Giuseppe Pitré. Nello stesso periodo il questore di Palermo Ermanno Sangiorgi pubblica una relazione in cui descrive nel dettaglio l’organizzazione criminale mafiosa. Quel rapporto rimarrà lettera morta e l’interpretazione della mafia come struttura unitaria, gerarchica e organizzata, con un vertice da cui dipendono le realtà locali, verrà ripresa solo dopo le dichiarazioni di Tommaso Buscetta.

E per ora mi fermo qui, che la storia è lunga assai. Alle prossime puntate il resto di questo avvincente (o avvilente, non mi ricordo più) racconto.

Bacio le mani a tutti

P.S., Domani è il 9 ottobre, c’è una ricorrenza di cui lascio traccia musicale.

Il fotografo di frodo

Ce n’erano state di domeniche così, che pareva che tutti i colori del mondo si fossero dati convegno in paese, pure sui panni al sole che si fanno a specchio sul mare, una lastra di metallo lucente che in fondo, sulla linea d’orizzonte, diventava cielo senza che si capisse in quale punto esatto avveniva il passaggio di consegne. Dentro i cortili e nei vicoli che scivolavano verso gli approdi, le donne spazzavano dinnanzi alle porte dei dammusi, i bambini si rifacevano le ginocchia dietro le palle di pezza, e qualcuno faceva partire le lenze dal molo. Il vecchio professore se ne stava seduto al sole d’una terrazzina, provando a leggere qualcosa su un libro dalla copertina consunta.

La rue assourdissante autour de moi hurlait.
Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,
Une femme passa, d’une main fastueuse
Soulevant, balançant le feston et l’ourlet ;

Agile et noble, avec sa jambe de statue.
Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,
Dans son oeil, ciel livide où germe l’ouragan,
La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.

Un éclair… puis la nuit ! – Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité ?

Ailleurs, bien loin d’ici ! trop tard ! jamais peut-être !
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
Ô toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais !

Cercava nella sua memoria il senso di parole un tempo assai più chiare, ora oscure per neuroni in disarmo anagrafico. Mentendosi spudoratamente dissimulava il buio di comprensione con altri difetti organici emotivamente più sopportabili, cambiando e rinforcando lenti altre sul naso aguzzo proteso verso il centro della terra.

Cominciavano a muoversi come processionarie le file lente di quelli che raggiungevano la parrocchiale per la messa di mezza mattina, spiate da occhi neri dietro persiane socchiuse, pronti a cogliere dettagli nascosti male sotto i vestiti di festa. Era l’ora in cui i sughi cotti dalla mattina evaporavano per raggiungere la piazza di basole, verso il caffè più centrale, popolato degli uomini a sedere che si scambiavano i due quotidiani a disposizione. Più giù, sul molo, erano le barche e le reti tirate in secco, con le casse del pesce stoccato a riva pronte per le tavole dei tre ristoranti della zona, già in fibrillazione per l’invasione di quelli di città in divisa da villeggianti. Arrivavano a frotte quando c’erano giornate così, e quelli del posto non è che ne avvertissero la presenza con gioia, se si escludevano i titolari dei bar, delle trattorie sul lungomare e di quel paio di bettole che dalle verande apparecchiate con tovaglie a quadri bianchi e rossi, offrivano alla vista solo fette di mare e muri scheggiati in cambio di prezzi a buon mercato.

“Gaetano”. Chiamò la donna nel grembiule nero di sovrapposizioni luttuose. “Gaetano”. Ripeté ancora, affacciata al balcone. Gaetano non è che subito rizzava le orecchie. Aveva cose altre per la testa, mentre saltellava tra i frangiflutti che correvano paralleli a ponente del molo più importante del porticciolo. Doveva ritirare la nassa con le quattro scorfane pescate, e si accarezzava il gomito contuso colorato del livido, nero come l’occhio destro, mordicchiandosi il labbro tumefatto per capire se ancora faceva male. “Sono caduto con la bici”. Ripeteva alla zia e all’amico Mimmo. Si vergognava a dire che l’avevano pestato quei quattro che facevano banda, sempre pronti a farsi scattare i nervi quando lo vedevano arrivare. Perché a loro proprio quel tipo con cui erano cresciuti non era mai andato a genio. “È troppo strano Palmisano”. Uno che non parlava mai, e se ne stava ore a fissare chissà che cosa. Uno che non raccontava niente, che aveva la pelle attaccata alle ossa e sembrava più piccolo dei suoi dodici anni. Che pareva che viaggiasse su un altro pianeta, con quella testa troppo grossa, non in dimensioni assolute, piuttosto per l’illusione ottica dell’essere troppo “siccu, e poi si move ca pari nu ‘nvertebratu”. Con quell’espressione di sofferenza che si portava dietro da quand’era ancora più bambino, quando se ne stava perennemente allettato perché le malattie le prendeva tutte lui. Così, quei quattro, qualche volta, provavano a tirargli fuori qualcosa, lo chiamavano per nome, cercavano una reazione qualunque. Niente. Quello pareva alienato e gli faceva venire una rabbia che poi alla fine gli veniva di caricarlo di botte. Gaetano se le prendeva e non reagiva, tornandosene a casa come se sulle spalle avesse il mondo. “Ma sempre dalla bicicletta cadi?” Diceva zia Lucia. Un’altra volta la scusa buona era che era scivolato sul “lippo” degli scogli, quando ci era passato sopra per calare la lenza. L’unico ragazzo del borgo a cui non davano noia quelle sue cose strane era Mimmo. Lui ci parlava con Gaetano, e riusciva anche a strappargli più di qualche monosillabo. Quando era con Mimmo gli altri lo lasciavano in pace. Si limitavano a guardarlo male da lontano. Mimmo era d’altra pasta, come tutta la sua famiglia. Tutti comunisti, “ncazzusi”. Quelli, gli Scandurra, non si tenevano niente, e se gli mollavi una sberla te ne restituivano trecento. Il padre era una specie d’istituzione. Faceva l’avvocato e difendeva tutti i disgraziati del paese, facendosi pagare una volta si e chissà quante altre no. Per cui la gente gli portava rispetto.

“Gaetano”. Si sgolava zia Lucia. Poi Gaetano sentì. Più che altro aveva finito di fare quello che stava facendo e si era messo a correre verso casa. Era il giorno del suo compleanno e magari, pensava, qualcuno se lo sarebbe ricordato con un regalo. Gli sarebbe stata utile una canna da pesca nuova, col mulinello possibilmente, per pescare “a lancio”, un po’ più a largo, che sotto costa cominciava ad esserci poca roba. Doveva essere arrivato lo zio Carmelo, che faceva l’usciere al tribunale in città, e magari la canna l’avrebbe portata lui. Affrontò la leggera salita con la nassa che sembrava un lume, in quel modo che faceva ridere ed arrabbiare gli altri ragazzi, e si beccò una pietra ad una coscia. “Talia come curri”. Lui non si fermò nemmeno a vedere chi gliela aveva tirata, ma sbiascicò un “ahi!”, piano piano, per non dare a nessuno la soddisfazione di dire che gli aveva fatto male, e continuò a correre claudicando pure per l’ultima botta. A quel punto l’obiettivo era la canna nuova, ed era sicuro che lo zio gliel’aveva portata, da uno di quei negozi di città. Una canna con un mulinello di quelli “spaziali”, che lanciano ami, esche e galleggianti a più di cento metri.

“Auguri beddu! Guarda cosa ti ho portato”. E in quel pacchetto quadrato venti per venti doveva starci una canna da pesca? E che razza di canna da pesca era quella che stava lì dentro? C’era qualcosa di sbagliato. Ma come, pensò, uno fa il compleanno, e per non disturbare troppo si limita a farlo una sola volta l’anno, e poi non si concede il giusto riconoscimento a quella delicatezza con una canna da pesca nuova? Eppure con lo zio ne aveva discusso che la sua canna da pesca era messa male. “Volevo portarti una canna nuova, ma poi la zia, giustamente, mi ha fatto notare che quando vai sugli scogli caschi e ti fai male, che torni a casa che sembri un Lazzaro”. Ma la zia, gli affari suoi, mai…

“Aprilo, vedi che c’è dentro”.

E che roba è questa? Pensò scartando la confezione di carta blu. Ma anche quando l’oggetto fu totalmente nudo in suo possesso non capì. Sollevò gli occhi verso lo zio, che per lui era come domandare ossessivamente. “Minchia! È una macchina fotografica, una Polaroid”. Sbottò quello a mezzo riso comprensivo.

“Che devi dire per forza queste parole vastase davanti o picciriddu. Spieghici comu funziona inveci di fari u cretinu o solitu to”. Sbraitò zia Lucia.

“E come funziona… Si prende la mira da qua – prese in mano l’oggetto misterioso, ed indicò il mirino – si inquadra quello che si vuole fotografare e si preme questo bottone. Poi si aspetta che esce la fotografia, e dopo mezzo minuto, come per magia, c’è la foto”. E lo disse tutto d’un fiato, ondulando la testa soddisfatto per quella abile docenza sostenuta senza la benché minima esitazione, proprio come fa un professionista serio che istruisce il suo ragazzo di bottega. “Ne puoi fare dieci per volta. La prossima volta ti porto anche un paio di ricariche, così fai pratica. Ci sono fior fiori di fotografi che usano la Polaroid. Anzi, fai una cosa Tano, visto che fra poco si mangia, qua ci sono i soldi. Vai al bar da Nuzzo, prendi i cannoli per tutti, e già che ci sei fai un paio di foto che poi vediamo se hai talento”.

Era ora di pranzo, a quell’ora per strada praticamente non c’era nessuno, e con l’oggetto misterioso, Gaetano entrò al bar. Lì c’era soltanto Nuzzo che stava servendo un paio di aperitivi a due che dovevano essere di città. A Gaetano quelli di città andavano giù ancor meno che agli altri, perché arrivavano lì per pescare con barche pazzesche che poi scaricavano nafta a mare e il pesce puzzava. In estate si mettevano tutti a fare il bagno come pinguini ed il pesce scappava. Poi avevano quelle canne sofisticatissime, e c’era pure chi usava la “pietra celeste”, anche se era vietato. La buttava sugli scogli sciolta nell’acqua, così i polpi si sentivano avvelenati ed uscivano fuori dalle tane, così li raccoglievano a mezze dozzine per volta. Non era così che si faceva. Quella non era pesca. Lui l’aveva detto al padre di Mimmo che gli aveva dato una risposta che non è che aveva capito tutta, ma il senso almeno gli pareva d’averlo afferrato. “Insomma, questi di città vengono qua e fanno col solfato di rame al nostro pesce quello che gli Americani facevano col Napalm ai Vietnamiti. Li stanano per mangiarseli. Ma la storia ci insegna che qualche volta chi fa certi calcoli poi può anche rimanersene digiuno, oppure finisce pure lui avvelenato”.

Visto che quelli nel bar erano di città, Gaetano, per non farsi turbare la scelta dei dolci, aspettò fuori che se ne andassero, seduto su uno scalino dietro l’angolo, a rigirarsi tra le mani la Polaroid. Piroettando quell’escrescenza d’occhi e memoria si esercitava nelle inquadrature. Finì per fermarsi, puntandolo col mirino, su un gatto che faceva la festa ad un sacchetto di spazzatura abbandonato, con dentro i resti di pesce le cui parti nobili a quell’ora dovevano essere stati serviti su ben altra tavola. Capì pure come si inseriva il flash. Poi sentì un rombo. Altri di città che avevano una moto, una tuta nera ed il casco in testa. Come fanno questi a tenersi in testa quella cosa pesante con questo caldo che non è nemmeno obbligatorio? Pensò. Il gatto scappò, e, pensò Gaetano, che aveva fatto bene con tutto quel chiasso che facevano. Ma quello che sentì dopo, altro che chiasso. Sembrava la guerra, una Lambretta smarmittata peggio di quella di suo cugino Stefano. Una cosa insopportabile ma che veniva da dentro il bar. Se ne rimase lì paralizzato, con gli occhi sbarrati, tenendosi la Polaroid stretta al petto. Quindi quei due della moto saltarono in sella e ripartirono a velocità sventolando qualcosa di scuro e metallico sbucato fuori da chissà dove. Rimase ancora qualche secondo lì, gli occhi fissi verso tutto quello che aveva visto, in un silenzio che non era certo ci fosse davvero. Poi si alzò, lentamente, ed entrò nel bar. I tre che ci aveva lasciato prima c’erano ancora, i due di città e Nuzzo. Solo che non erano più ritti al bancone, ma se ne stavano a terra, e di Nuzzo si vedeva solo la testa, in un lago rosso di cui un affluente zampillava ancora dalla gola. Chissà perché quel tremore che l’aveva accompagnato sino a quel momento cessò di colpo, e si trovo a sollevare la sua macchinetta, a spingerne, come se non avesse fatto altro per tutta una vita, il pulsante del flash per poi scaricare anche lui il suo caricatore su quei corpi martoriati.

Dieci foto, dieci. La sua prima collezione che valesse la pena di chiamare tale, perché quella di conchiglie era assai incompleta, senza tutte quelle specie di lontano che aveva visto in qualche negozio della città. E ne sarebbe passato di tempo prima di capire come era che tutti quelli che sino ad allora l’avevano preso in giro e menato perché era così “siccu, e si move ca pari nu ‘nvertebratu”, smettessero di colpo di farlo. Semplicemente perché adesso lui era uno che sapeva cose della vita che gli altri della sua età nemmeno si immaginavano, ed avevano capito che lui, anche se si muoveva strano, era uno che arrivava sempre prima degli altri.

La città ideale

Più per angoscia che per celia, m’appartiene la vista lontana della città presa d’assalto, dalle torme dei resilienti – non resistenti – in griffe gratta e vinci. Lo spazio urbano assembrato diventa fantasma della sua crescita indiscriminata, sempre più privato, sempre meno pubblico, sociale, definitivamente distanziato, come nei giochi d’ossimori si compete, tanto più è affollato. Il reale, trasformato in immagine spettacolare, è quinta scenografica d’una rappresentazione farsa, in cui le mura cingono d’assedio gli assedianti, non più le mura di Campanella dov’è la storia della scienza, il progetto educativo condiviso dei destini magici e progressivi dell’uomo. Le mura s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, sovvertendo l’ordine mentale costituito, quello che cerca l’orizzonte libero e di vertigine dello sguardo dell’animale in gabbia.

Dunque, l’animale in gabbia, alla catena, ha qualcosa di più umano dell’umanità stessa, poiché invoca per sé lo spazio aperto, rifugge dal pericolo mortale dell’assalto all’unisono alla stessa preda. Le immagini degli eloquenti muri della città ideale di Platone, sono ora grate elettrificate e luminescenti, gli orrori della merce che trabocca dalla caricatura d’una cornucopia di svendite morali e materiali. Pure l’effimero, in quanto concetto, sparisce nelle celle delle fiumane umane, diventa superfluo necessario, vocazione definitiva alla barbarie annichilente. Le architetture/prigioni delle periferie commerciali, e di dormitori, pure quelle di centri storici mercatizzati, non sono innocenti oggetti devitalizzati, ma espressione urlante del potere sociale che reclama le sue vittime. E se l’agnello o l’orrendo porco, s’avvedono del loro imminente sacrificio all’altare della tavola imbandita, con lacrima ed urlo straziante, il residuo umano vi s’immola con fanciullesca indifferenza. La progressione verso la forma estrema del mercato, il narcisismo individualista, ha soppiantato persino le oscene gerarchie dei rapporti di produzione convenzionali. Ed il consumo diventa religione di stato, di sovrastato, religione della religione. Solo il lavoro rende liberi in quanto apre la via alla speranza redentiva del consumo, del consumo d’una merce, purché sia, pure solo nella sua percezione virtuale e fuggente. Le città assaltate hanno perso ormai persino quel flebile richiamo al modernismo, financo superato le creazioni monolitiche della dittatura ceauseschiana, le volontà di Marinetti di deviare canali per affogare la vetusta Venezia, o Le Corbusier che anelava l’autostrada che spaccasse in due Parigi. Gli spazi vitali non esistono se non nel sentire, ormai folle, di chi deraglia dalla “normalità” di chi è persona e non gente. La follia è solo di quei pochi che s’avvedono della malattia come dolorosa e furente.

La normalità – contrappeso di massa alla pazzia -, che osannava un tempo Davide e la sua povera pietra per millenni, ora è di giganteschi Golia splendenti d’armature invincibili, il cui unico desiderio è cancellare la memoria della fionda sotto il pesante tallone della propria poderosa ed indiscutibile stazza. Guai ai vinti, soprattutto se s’atteggiano a ultimi, tanto più se proclamano la propria deviazione standard dal numero medio, se s’appigliano, resistenti, alla propria follia premeditata.

Dopo quello per Cola Pesce, non resta che recitare il de profundis pure per Giufà, che s’aggirava per le campagne, e negli occhi aveva la meraviglia per il tutto d’intorno, financo per un piatto di fagioli, con la pentola in testa, che non gli scappasse da quella l’innata sua passione per la follia che l’accomunava agli infiniti colori d’una umanità perduta.