C’è nella musica, c’è nelle onde

Rimetto in gioco, solo per qualche frammento di struggente nostalgia, una cosarella d’una certa datatura.

«Fabbricare, fabbricare, fabbricare
Preferisco il rumore del mare
Che dice fabbricare fare disfare
Fare e disfare è tutto un lavorare
Ecco quello che so fare.
»
(Dino Campana)

Se ci sono parole giuste, messe in fila come devono stare, quale è il senso d’aggiungerne altre?
Se pure la musica non pare abbisognare d’altro che non sia se stessa, e le immagini raccontano d’infinito e basta, evocano terra di Lestrigoni, regni di Poseidone, pescatori Fenici, intemperanze di Ciclopi, perché scrivere ancora?

«Quando i miei pensieri sono ansiosi, inquieti e cattivi, vado in riva al mare, e il mare li trasforma con i suoi grandi suoni larghi, li purifica con il suo rumore, e impone un ritmo su tutto ciò che in me è disorientato e confuso.» (Rainer Maria Rilke)

A favor di vento, come frangiflutti

«Nella vita odierna, il mondo appartiene agli stupidi, agli insensibili e agli agitati. Il diritto di vivere e trionfare si conquista oggi praticamente con gli stessi procedimenti con cui si conquista il ricovero in manicomio: l’incapacità di pensare, l’amoralità e l’ipereccitazione.» (Fernando Pessoa)
C’è un tripudio di denti che digrignano, abnegazione vorace al risultato, qualunque sia, opprimente fardello d’inutile conquista. Primeggiare su cosa, su chi? Quando ancora non siamo stati capaci di occupare le nostre stesse coscienze, renderle qualcosa che somigli ad umanità desuete, farle semplicemente coscienze. Vanno così le cose, sfuggono tra le dita con la rapidità della folgore. Quella, almeno, illumina per un attimo il cielo di piombo del temporale, pure non si preoccupa del dopo, che sia fragore prossimo, brontolio lontano. Sollazzarsi del desiderio di conquista è dunque ciò che ci resta per chiamarci ancora vivi.

Eppure vissi il tempo di caccia a gettone, per telefonata improrogabile, o ci hai cento lire per ipotesi avveniristiche di contatto a tempo breve, comunicazione fugace. Ci hai na sigaretta, per una pausa sull’ultima panchina. E furibondi amori di gioventù ebbero necessità di appostamenti lunghi, quali se n’ebbero solo da pescatori di passo per lampughe e agugliate settembrine. Pure mischie di piazza, a suon di carica e livido conseguente, si fecero a chiamata collettiva per rotazione di manovella di antico ciclostile per sigillo di proclama a marchio di piombo tetraetile. Lettere ve ne furono, vergate a nero di Pelikan su carte di improbabile pregio, e si fece attesa fremente di risposta ad affrancatura per seguito ad imbuco di postino a divisa e pedale. Ve ne furono riparazioni di musicassette, rullino a sviluppo in puzzo d’acido a scantinato, roteare di vinili. Lettera 22, ad apposita fedele valigetta, fu compagna di viaggi lunghi, financo a mezzo di pollice in su. Che i tempi cambiano, non se ne stanno fermi, neppure paiono carichi di sofferenze per nostalgie d’occhi volti indietro, a sguardo a quelli che furono.

La notte provo a prendere sonno immaginando di svegliarmi ad oriente, più a sud ancora, a fare altro che non ebbe destino di rapida ascesa. Lo sguardo dentro, fisso ad un infinito che è l’ultimo viaggio, quello impossibile e necessario, l’unico che valga la pena di fare..

Nostalgie fuori rotta

Parlar di cose che passano per quotidiana abiezione mi venne a noia. Pure prima ne avevo noia ma non frenai dita sui tasti a dir qualcosa. Che ad istante in cui lo feci ne ebbi quasi pentimento ché a struggersi per destini infami d’umanità sepolte, si finisce a scavar tombe insieme ad altri. Pratica che non mi fece mai troppo bene, ch’ebbi desiderio, piuttosto, d’altro che non fu altro che infinito e basta. Così, a rievocar altro mi faccio musica buona, tale che mi trascino da giovane età, pure dopo come conseguenza di lancio pregresso, musica altra rispetto al consueto mio che è a mono tema di jazz, ma che non si fece mai troppo in disparte nei miei pensieri. E l’accompagno con un pezzettino preso da qui, forse pezzo d’autobiografia, forse no. Ma che importa che lo sia o no, giacché è sempre perduto il tempo per scrivere autobiografie di nessuno.


«E giunse il tempo che desiderio di vertigine m’appare solo a sistemar chiappe a scoglio comodo, a favor di tenue brezza di ponente. Lì c’è posizione di sguardo ad altro tempo che andò via a rapidi scivolamenti. Feci collezione di pergamene e titoli a ceralacca, di timbri e pacche sulle spalle, inchiostri di stilografica raccolsi.

Mi ravvidi di saggezze elevatissime di fini accademici, sagaci elucubratori di teorie d’avanzo e professori mi professarono vie salvifiche di conoscenza.

Capitani coraggiosi m’imbellettarono narrazioni d’autentico infinito di profondità e preti e frati e paternostri m’illuminarono d’incenso, mi deliziarono d’omelie un tanto al chilo, pure in odore di santità mi parvero audaci pescatori di ghiozzi a tendenza d’eversione. Le madame dorè, le miti volontarie di misericordia e signori dabbene di circolo esclusivo, di fatta impeccabile doppiopettata e profumo millefiori, mi fecero di sé modello esclusivo e beato. Arguzia finanziaria mi trasmisero autentici scienziati di doblone ed a cure immaginifiche mi sottoposero per trattamento di deviazione.

Che però nacqui storto e storto rimasi, pur se mi sdoppiai a far finta d’assecondo. Che ora, a fase due, non m’è dato di adeguarmi all’immane trogolo di carni e sangue di sacrificio a conforto per Marte e Atena. Che però appresi di non apprendere, pur se assorbii finale convincimento che nemmanco le dame di San Vincenzo riusciranno a far del bene, ch’esse mai seppero cos’è la vita, che imbracciano sotto coscia, ad occulto, mitra e bomba.

Ch’io tutto imparai da puttane senza protettore, a quartiere miserabile dove misi dente da latte, e che, accademia autentica di bellezza, fu soffocato a rango di supermarket per saccheggio conclamato, con reparto d’onnisciente mammasantissima. Pure imparai da lambretta smarmittata di venditore di granchio per cattura a pietra celeste, da pazzo con canottiera su cappotto e camicia avvoltolata in testa, per posto a cappello in mano, a buco tappato per dammi cento lire, ci hai ‘na sigaretta.

Che mi venne ad aula di lezione autentica osteria perduta, di abitanti a perenne nostalgia di bicchiere pieno, e vecchio compagno che s’accompagna a miserabile scarpa rotta, pantalone logoro e mano di calli e calce viva, curvo di schiena ma mai domo a dir di padrone peste e corna. Pure non fu capace di sopravvivenza a quello, nemmanco per saggezza di mutua a scarso d’assistenza e forse per cicatrice di manganello per protesta di contro legge. Imparai dinamiche sofisticatissime d’universo da lavandaia a tempo perso, balia asciutta e odor di varechina. Altro seppi da pescatore silenzioso a barca a puzzo di cherosene e sangue di pesce raffermo, con ruga che solca il volto quale fiume di sale e fatica di sole.

Che nessuno dei secondi ebbe allora a far mai guerra a talaltro, mai tirò indietro la mano a soccorso per chi vien dopo. Pure, a gengie sfatte, non smisero a riso per bimbo che passa, ch’io mi ricordo, che a denti non m’ero provvisto ancora, di tali sdentature di pace, ora che vedo biancheggiare nobili fauci di squali.»

Dis(s)ertando

Ritirarsi non è scappare, e restare non è un’azione saggia, quando c’è più ragione di temere che di sperare. Non c’è saggezza nell’attesa quando il pericolo è più grande della speranza ed è compito del saggio conservare le proprie forze per il domani e non rischiare tutto in un giorno.” (Miguel De Cervantes) Fuggire non è solo disertare dalle armi, è andare oltre lo scontro contro un potere che non comprende altra parola se non quella della guerra, del silenziare la voce degli ultimi, ad ogni costo.

Quando lo strapotere delle forze in campo è tale da non ammettere che esista altro vincitore se non chi detiene gli strumenti della sopraffazione, la diserzione è necessità di vita, la resa a quella s’accompagna. Innalzo sul pennone più alto d’albero maestro la mia bandiera bianca, a segnalare la presa di posizione definitiva ed inderogabile, e che sventoli, perbacco, che sventoli. Mi decido sì per resa, che d’apparenza è a scanso di condizione, ma nasconde ritirata strategica, attacco pure su tutti i fronti. Se non partecipi al gioco, il giocatore che resta è già sconfitto, si ritrova senza trastullo. Il mondo dei padroni del vapore ha necessità di nemici ed io mi sottraggo al ruolo di parte, mi faccio a lato che è decisione spontanea, dunque odora di trionfo. La ritirata, così, non fu mai solo tale e basta, piuttosto attrezzo a vita altra che non guarda per vedere, che vede senza guardare con occhi di dentro, e fu disegno di ri-scoperta, di dimensione e-versiva del vivere. Conquisto, avanzo, in ritirata, m’approprio di non appropriazione, esproprio l’inappropriato, riprendo posizione in orizzonte aperto, in dettaglio sfuggito, che di quelli v’è traccia a campo di battaglia a devastazione, che parevano conquistati ed invece, liberati d’assillo di conquista, appaiono fioriture d’uomo libero.

Mi riprendo scogli dorati, colori spumeggianti d’abbandono, le diacronie del tempo, le note andate ed il respiro profondo della memoria fervida ed ininterrotta dei ricordi. Questi tamponano il presente ad ingorgo, sfrecciano come saetta spuntata e non di guerra oltre il presente, si fanno futuro di prospettiva. Ed il nemico che avanza è già fuggito in disfatta, ch’è schiavo di sua stessa guerra quotidiana, di libertà negata a prigionia autoinflitta per fila alla cassa, di direzione mai a linea sghemba. Procede a linea dritta, il nemico, che solo quella conosce, non ambisce a percorso lungo e panoramico, alla lentezza che vede tutto. Corre illimitato a velocità di logaritmo, che non v’è dettaglio nell’accelerazione a parossismo che narra di storia, spera solo a stazione celata da muro, in benedizione d’assoluzione, di conforto in sacre stanze di corruzione. La resa non è prevista, nessuno s’arrende, dunque sono finalmente nessuno, ho isola per diserzione ch’è sorta dal mare e nessuno vede, che l’uno qualunque non ne conosce esistenza nemmanco a binocolo o telescopio portentoso che occhi non ha, nemmeno prospettiva di deriva e approdo.

E allora:

«In piena facoltà egregio presidente
le scrivo la presente che spero leggerà
la cartolina qui mi dice terra terra
di andare a far la guerra quest’altro Lunedì

Ma io non sono qui egregio presidente
per ammazzar la gente più o meno come me
io non ce l’ho con lei sia detto per inciso
ma sento che ho deciso e che diserterò

Ho avuto solo guai da quando sono nato
e i figli che ho allevato han pianto insieme a me
mia mamma e mio papà ormai son sotto terra
e a loro della guerra non gliene fregherà

Quand’ero in prigionia qualcuno mi ha rubato
mia moglie, il mio passato la mia migliore età
domani mi alzerò e chiuderò la porta
sulla stagione morta e mi incamminerò

Vivrò di carità sulle strade di Spagna,
di Francia e di Bretagna e a tutti griderò
di non partire più e di non obbedire
per andare a morire per non importa chi

Per cui se servirà del sangue ad ogni costo
andate a dare il vostro se vi divertirà
e dica pure ai suoi se vengono a cercarmi
che possono spararmi io armi non ne ho» (Il disertore, di Boris Vian, trad. G. Calabrese, nell’album di Ivano Fossati Lindberg)

Rilanciate, se potete e volete, il testo di questa canzone. È un messaggio universale di pace.

Arim-Bomba

Mi pare che si faccia a grande sgomito per far botto grossissimo, che prima bombardo io ma è colpa tua se non abbozzi. E tutto è scoppiettio di suono sordo, sordo come pare chi sgancia ancora missile supersonico. Non si fa mancare niente in termini di boato. Semmai manca il resto, fatto che fummo donne, uomini, bambine e bambini, meritevoli per detto fatto di scuola e cure, ma quella è cosa che attiene debito, botto funesto è fuori quota, non si discute, semmai fa a sottrazione ad altro. Che cosa in sé ha significazione precisa, che bomba casca in testa anche se non casca, si fa lista d’attesa, buono libri esausto, penicillina a creatore. Che non manchi piuttosto messaggistica a spiano di social, per dire che bomba è santa e necessaria, presidio di civiltà, che quello è bene essenziale e non c’è tassa che tenga.

Ma se a tutta pletora di meritevoli d’ogni parte di mappa, a far cagnara a dire che io ho genia migliore d’altri, che bomba mia è assai più super e ve n’è a dimostrazione precisa che ho pure più grande sfilata di bombarda che non ve ne risparmio tremendo impatto, piace tanto la dea tra le dee, gliene rendo precisa interpretazione ad ode immaginifica che io, di mio, pure mi fornii benissimo di bomba adeguata.

“Incalzatrice della storia Freno del tempo Tu Bomba
Giocattolo dell’universo Massima rapinatrice di cieli Non posso odiarti
Forse che l’odio il fulmine scaltro la mascella di un asino
La mazza nodosa di Un Milione di A.C. la clava il flagello l’ascia
Catapulta Da Vinci tomahawk Cochise acciarino Kidd pugnale Rathbone
Ah e la triste disperata pistola Verlaine Puskin Dillinger Bogart
E non ha S. Michele una spada infuocata S. Giorgio una lancia Davide una fionda
Bomba sei crudele come l’uomo ti fa e non sei più crudele del cancro
Ogni uomo ti odia preferirebbe morire in un incidente d’auto per un fulmine annegato
Cadendo dal tetto sulla sedia elettrica di infarto di vecchiaia di vecchiaia O Bomba
Preferirebbe morire di qualsiasi cosa piuttosto che per te Il dito della morte è indipendente
Non sta all’uomo che tu bum o no La Morte ha distrutto da un pezzo
il suo azzurro inflessibile Io ti canto Bomba Prodigalità della Morte Giubileo della Morte
Gemma dell’azzurro supremo della Morte Chi vola si schianterà al suolo la sua morte sarà diversa
da quella dello scalatore che cadrà Morire per un cobra non è morire per del maiale guasto
Si può morire in una palude in mare e nella notte per l’uomo nero
Oh ci sono morti come le streghe d’Arco Agghiaccianti morti alla Boris Karloff
Morti insensibili come un aborto morti senza tristezza come vecchio dolore Bowery
Morti nell’abbandono come la Pena Capitale morti solenni come i senatori
E morti impensabili come Harpo Marx le ragazze sulla copertina di Vogue la mia
Proprio non so quanto sia terribile la MortePerBomba Posso solo immaginarlo
Eppure nessuna morte di cui io sappia ha un’anteprima così buffa Panoramo
una città la città New York che straripa a occhi desolati rifugio nel subway
Centinaia e centinaia Un precipitare di umanità Tacchi alti piegati
Capelli spinti indietro Giovani che dimenticano i pettini
Signore che non sanno cosa fare delle borse della spesa
Impassibili distributori automatici di gomma Ma 3° rotaia pericolosa lo stesso
Ritz Brothers del Bronx sorpresi sul treno A
La sorridente réclame del Schenley sorriderà sempre
Morte Folletto Bomba Satiro Bombamorte
Tartarughe che esplodono sopra Istanbul
La zampa del giaguaro che balza
per affondare presto nella neve artica
Pinguini piombati contro la Sfinge
La cima dell’Empire State
sfrecciata in un campo di broccoli in Sicilia
Eiffel a forma di C nei Magnolia Gardens
S. Sofia atletica Bomba sportiva
I templi dell’antichità
finite le loro grandiose rovine
Elettroni Protoni Neutroni
che raccolgono capelli Esperidi
che percorrono il dolente golf dell’Arcadia
che raggiungono timonieri di marmo
che entrano nell’anfiteatro finale
con un senso di imnodia di tutte le Ilio
annunciando torce di cipressi
correndo con pennacchi e stendardi
e tuttavia conoscendo Omero con passo aggraziato
Ecco la squadra del Presente in visita
la squadra del Passato in casa
Lira e tuba insieme congiunte
Odi e wurstel soda oliva uva
galassia di gala usciere togato
e in alta uniforme O felici posti a sedere
Applausi e grida e fischi eterei
La presenza bilione del più grande pubblico
Il pandemonio di Zeus
Hermes che corre con Owens
La Palla lanciata da Buddha
Cristo che picchia la palla
Lutero che corre alla terza base
Morte planetaria Osanna Bomba
Fa sbocciare la rosa finale O Bomba di Primavera
Vieni con la tua veste di verde dinamite
libera dalla macchina l’occhio inviolato della Natura
Davanti a te. li Passato raggrinzito
dietro dl te il Futuro che ci saluta O Bomba
Rimbalza nell’erbosa aria da tromba
come la volpe nell’ultima tana
tuo campo l’universo tua siepe la terra
Salta Bomba rimbalza Bomba scherza a zig zag
Le stelle uno sciame d’api nella tua borsa tintinnante
Angeli attaccati ai tuoi piedi giubileo
ruote di pioggialuce sul tuo scanno
Sei attesa e guarda sei attesa
e i cieli sono con te
osanna Incalescente gloriosa liaison
BOMBA O strage antifonia fusione spacco BUM
Bomba fa l’infinito una Improvvisa fornace
distendi il. tuo Spazzare che abbracci moltitudini
avviati orribile agenda
Stelle del Carro pIaneti carnaio elementi di carcassa
Fa’ cadere l’universo salta ciucciante coi dito in bocca
sui suo da tanto da tanto morto Neanche
Dal tuo minuscolo peloso occhio spastico
espelli diluvi dl celestiali vampiri
Dal tuo grembo invocante
vomita turbini di grandi vermi
Squarcia Il tuo ventre o Bomba
dal tuo ventre fa’ sciamare saluti di avvoltolo
incalza col tuoi moncherini stellati dl iena
lungo il margine del Paradiso
Bomba O finale Pied Piper
sole e lucciola valzeggiano dietro la tua sorpresa
Dio abbandonato zimbello
Sono la Sua rada falso-narrata apocalisse
Lui non può sentire le un-bel-giorno
profanazioni del tuo flauto
Lui è rovesciato sordo nell’orecchio pustoloso del Silenziatore
il Suo Regno un’eternità di cera vergine
Trombe tappate non Lo annunciano
Angeli sigillati non Lo cantano
Un Dio senza tuoni Un Dio morto
Bomba il tuo BUM la Sua tomba,
Che io mi chini su un tavolo di scienza
astrologo che guazza in prosa di draghi
quasi esperto dl guerre bombe soprattutto bombe
Che io sia incapace di odiare ciò che è necessario amare
Che io non possa esistere in un mondo che consente
un bimbo abbandonato in un parco un uomo morto sulla sedia elettrica
Che io sia capace di ridere di tutte le cose
dl tutte quelle che so e quelle che non so per nascondere il mio dolore
Che dica di essere un poeta e perciò amo ogni uomo
sapendo che le mie parole sono la riconosciuta profezia di ogni uomo
e le mie non parole un non minore riconoscimento,
che io sia multiforme
uomo che Insegue le grandi bugie dell’oro
poeta che vaga tra ceneri luminose
come mi immagino
un sonno con denti di squalo un mangia-uomini di sogni
Allora non ho bisogno di esser davvero esperto di bombe
Per fortuna perché se le bombe ml sembrassero larve
non dubiterei che diventerebbero farfalle
C’è un inferno per le bombe
Sono laggiù Le vedo laggiù
Stan li e cantano canti
soprattutto canti tedeschi
e due lunghissimi canti americani
e vorrebbero che ci fossero altri canti
specialmente canti russi e cinesi
e qualche altro lunghissimo canto americano
Povera piccola Bomba che non sarai mal
un canto eschimese io ti amo
voglio mettere una caramella
nella tua bocca forcuta
Una parrucca di Goldilocks sulla tua zucca pelata
e farti saltellare con me come Hansel e Gretel
sullo schermo di Hollywood
O Bomba in cui tutte le cose belle
Morali e fisiche rientrano ansiose
fiocco di fata colto dal
più grande albero dell’universo
lembo di paradiso che dà
un sole alla montagna e al formicaio
Sto In piedi davanti alla tua fantastica porta gigliale
Ti porto rose Midgardian muschio d’Arcadia
Rinomati cosmetici delle ragazze del paradiso
Dammi il benvenuto non temere, la tua porta aperta
né il grigio ricordo del tuo freddo fantasma
nè i ruffiani del tuo tempo incerto
il loro crudele sciogliersi terreno
Oppenheimer è seduto
nella buia tasca di Luce
Fermi è disseccato nei Mozambico della Morte
Einstein la sua boccamito
una ghirlanda di patelle sulla testa di calamari lunari
Fammi entrare Bomba sorgi da quell’angolo da topo gravido
non temere le nazioni del mondo con le scope alzate
O Bomba ti amo
Voglio baciare il tuo clank mangiare il tuo bum
Sei un peana un acmé dl urli
un cappello lirico del Signor Tuono
fai risuonare le tue ginocchia di metallo
BUM BUM BUM BUM BUM
BUM tu cieli e BUM tu soli
BUM BUM tu lune tu stelle BUM
notti tu BUM tu giorni tu BUM
BUM BUM tu venU tu nubi tu nembi
Fate BANG voi laghi voi Oceani BING
Barracuda BUM e coguari BUM
Ubanghi BANG orangutang
BING BANG BONG BUM ape orso scimmion
tu BANG tu BONG tu BING
la zanna la pinna la spanna
Si Si In mezzo a noi cadrà una bomba
Fiori balzeranno di gioia con le radici doloranti
Campi si inginocchieranno orgogliosi sotto gli halleluia del vento
Bombe-garofano sbocceranno Bombe-alce rizzeranno le orecchie
Ah molte bombe quel giorno intimidiranno gli uccelli in aspetto gentile
Eppure non basta dire che una bomba cadrà
sia pure sostenere che il fuoco celeste uscirà
Sappiate che la terra madonnerà in grembo la Bomba
che nel cuore degli uomini a venire altre bombe nasceranno
bombe da magistratura avvolte in ermellino tutto bello
e si pianteranno sedute sui ringhiosi imperi della terra
feroci con baffi d’oro.
(Gregory Corso)

Rim-Bomba

“Come più volte ho avuto occasione di dichiarare, considero i moderni residui di patriottismo un sentimento deleterio, incosciente, inattuale, nonché la causa diretta della maggior parte dei guai che affliggono l’umanità; un sentimento da annientare una volta per tutte, con ogni mezzo, con la collaborazione di ogni persona ragionevole. L’esercito, il denaro, la scuola, la religione, la stampa, tutto si trova nelle mani delle classi dirigenti: A scuola accendono l’amor di patria nei bambini, mediante storie nelle quali il proprio popolo è invariabilmente il migliore, da adulti questo sentimento viene confermato da spettacoli, festività, monumenti e, inutile dirlo, dalla stampa” (Lev Tolstoj)

A me sarebbe venuta a noia tutta sta sfilata muscolare, ancor più ché a me sfilare mi riesce male. Preferisco posture statiche ed assai poco propense a fatti d’azione con lancia in resta. Anche perché a bersi un bicchier di vino e farsi una fumatina è cosa che sottintende a starsene quieti e tranquilli, altrimenti, l’uno e l’altra, se ne vanno di traverso con venir meno di sommo gaudio. Comunque, a far competizione pure mi venne a rigurgito. Mi traggo vantaggio d’arrivare ultimo, che a scanso di annotazione m’acquatto preciso a scoglio. Del resto non mi feci mai Don Chisciotte, per cui nutro ammirazione autentica per gesta memorabili che follia è ad apparenza cosa più umana e divergente che sanguinaria normalità. A costo di sembrar pavido a me piacque sempre Sancho, pur se manco troppo m’attrezzo a servitore, ma a perla di saggezza non mi sottraggo nemmeno.

«– Perdonami, amico, di averti messo nella condizione di sembrar pazzo come me, facendoti cadere nell’errore in cui ero caduto io, che vi siano stati o che vi siano al mondo cavalieri erranti.

– Ah! – disse Sancho -. Non muoia la signoria vostra, signore; senta il consiglio mio, e viva molti anni; perché la pazzia più grande che può fare un uomo in questa vita è quella di lasciarsi morire, così, di punto in bianco, senza che nessuno lo ammazzi, e che non lo faccia perire nessun’altra mano fuorché quella della malinconia. Cerchi di non essere pigro, e si alzi da questo letto, e andiamocene in campagna a fare i pastori, come abbiamo combinato: chissà che dietro qualche cespuglio non troviamo la signora Dulcinea già disincantata, che non si potrebbe vedere nulla di più bello.» (Miguel de Cervantes Saavedra – Don Quijote de la Mancha – Capitolo LXXIV)

Aristocrazie di ritorno

«Nel giro di tre o quattro generazioni la gente non sarà più nemmeno in grado di scorreggiare da sola e l’essere umano regredirà all’età della pietra, alle barbarie medievali, ad uno stadio che la lumaca aveva già superato all’epoca del pleistocene. Il mondo non verrà distrutto da una bomba atomica, come dicono i giornali, ma da una risata, da un eccesso di banalità che trasformerà la realtà in una barzelletta di pessimo gusto.» (Carlos Ruiz Zafón, un saluto a chi è andato via troppo presto)

Qualche volta incombenze di burocrazie incomprensibili e autoreferenziali ci riportano in un certo indietro. Ieri mi hanno riportato nella mia vecchia città. Non ci mettevo piede da anni. Mi sono ricordato perché non appena sono arrivato. Semplicemente perché non c’è più, al suo posto c’è qualcosa che non conosco, che non è mai stata parte di me. C’è una gran folla festante, i vicoli paiono straripanti di vita, ma se ne sente l’olezzo di morte, camuffato dall’odore nauseante di cibo rancido, di mille bistrot, localini. Ho fatto quello che dovevo fare e sono scappato, non senza aver subito l’interminabile attesa d’una coda in auto, all’andata, pure al ritorno che pareva m’avessero occluso le vie di fuga. Sono quei casi in cui evito di fotografare, quindi niente immagini per questo breve, interminabile viaggio.
Qualcuno penserà che sono uno snob, che non mi sono mai attrezzato a condividere con il popolume turistico i fasti delle cartoline. Ebbene, comunico al mondo intero che è proprio così, sono uno snob, un aristocratico della bettola, l’elitario frequentatore di cantine dimenticate. Alla banalità del calice preferisco il bicchiere doppio vetro, vagamente sbeccato in basso, quello delle mescitorie d’annata. Dovevo farmi passare la sbornia urbana e, tempi alla mano, mi sono immerso nel dimenticato mondo che sta intorno la mia casetta di provincia, alla ricerca del vino del contadino, d’un silenzio riparatore, d’un profumo giusto, d’intonaci cadenti, d’aperture improvvise, la campagna lontana di muri a secco, carrubi, ulivi, d’una musica lontana ed indefinita. A dispetto d’un ginocchio che s’incapriccia ho percorso mille mila scalini, salutato anziane signore, scambiato due parole con un anziano scalpellino, fumato seduto su un muretto, sin quando ho trovato la scaccia adatta, pomodoro e prezzemolo, un rosso che sa di sale e di terra, poi, però, ho fatto due rossi. Senza chiavi d’auto in mano, senza fila alla cassa, nemmeno al casello, mi sono perso nel su e giù, ed ho avuto voglia di qualche foto, a ricordarmi che ancora c’è urbanità resistente, per quanto non so ancora, ma finché c’è ne approfitto.

Me lo sono fatto durare questo viaggio, perché è ancora di scoperta. Mi faccio sorprendere da un sottopasso che non ricordavo, un cortiletto tinto del viola d’una bouganville, del giallo d’un limone, del verde del cappero che respira primavera, da una fila di case che paiono reggersi a vicenda per scalare l’ultimo costone di roccia, lo sventolio dei panni colorati, bandiere che festeggiano l’impresa riuscita. Le porte sono chiuse, quelle poche oltre le quali c’è vita. Non c’è quel tanfo per cui c’è affezione nei turismifici, di graditissimo cibo da mensa d’azienda sotto le mentite spoglie di portata caratteristica, pure a prezzo da strozzo. Il profumo è lieve, ne avvertono di più i gatti, fieri gendarmi della derattizzazione, che s’affollano dietro le porte giuste. Le ciotole vuote dicono che presto si riempiranno di nuovo. Il lavoro prezioso va retribuito come si compete. Ed ora è tempo d’una sosta da Totò che ha aperto bottega adesso, poi un caffè da Piero ed a casa, m’è tornata voglia di scrivere.

Ed ancora vi posto «Il lungo viaggio»

Ieratici, eretici (Allonsanfàn parte venticinquesima: oltre il martirio con Raffaello De Vito e Sergio Poddighe)

Difficile metter insieme artisti differenti quando si concepisce una mostra, la collettiva è straniante, spesso non raggiunge obiettivi narrativi comuni, nemmeno li sfiora, sono solo immagini alle pareti. Talora si sceglie il tema, l’artista lo esegue, certo con la propria sensibilità, ma, appunto, lo esegue, non lo partorisce, non è roba sua. Rarissimo vedere espressioni artistiche che si completano, pare autentico miracolo trovarne maturate a distanza, da esperienze lontane, storie diverse, mestieri – nell’accezione più ampia del termine – a tratti persino alternativi.

Le biografie artistiche di Sergio Poddighe e Raffaello De Vito sono talmente altre da non presumere che si sia realizzato il «miracolo» della convergenza evolutiva, che i due abbiano potuto concepire produzioni artistiche procedendo parallelamente, trovando una sintesi narrativa che si esprime in un unicum sorprendente. I due dialogano, intrecciano una dialettica serrata, paiono completarsi in un gioco di rimandi che pare studiato e che in realtà è idem sentire. Consapevolezza personale – il personale è politico – che trova vie di fuga nell’espressione creativa, procede sino a quella sorta d’imbuto dove le produzioni si toccano, si completano, si intrecciano. «Ieratici, Eretici» non è una collettiva, nemmeno una doppia personale, è una mostra sola con due volti che si guardano, che si cercano producendo alchimie preziose, si avviluppano in un complexus mai scontato.
Come si dice in questi casi, cominciamo dal principio, da ciò che fu il verbo e poco importa se dai soggetti ieratici di Sergio Poddighe o dalle presunte eresie di Raffaello De Vito. Sergio crede in una sorta di connaturata dimensione angelica dell’essere umano, una propensione a librarsi in volo. L’angelo lo fa, l’infernale precipita, sceglie una direzione differente per esprimere se stesso. Il volo è il sogno, l’avere una prospettiva altra, ricongiungere il proprio sguardo con l’infinito. La metafora dell’angelo è perfetta, ma quanto c’è davvero di sacro nel desiderio di sollevarsi da terra, e quanto invece non è un desiderio naturale di fuga, come fu per Icaro, forse più come Dedalo che pretese un’ascesa ancor più completa? È nella natura umana spingersi oltre, valicare confini asfittici, tracciati per limitare l’istinto di vagare per la terra, la libertà di movimenti che ha spinto interi popoli ancora più in là, sino ad ogni anfratto conosciuto, come se approdassero dalle nuvole in una dimensione altra.

E quanto quel volo è interrotto, consumatosi nella voglia di oltre che è nel fanciullo, proibito dalle catene della convenzione? Il sogno si snatura, le ali divengono organo vestigiale, come una coda mancata, il cenno d’artiglio d’uno smalto sintetico su unghie laccate. Il resto è progressiva amputazione, la perfetta rappresentazione della perdita d’umanità nel cerchio stretto del concreto, l’atrofia dell’organo del volo coincide con quella del desiderio primigenio, conduce all’asfittico del quotidiano. I lavori di Poddighe sono la rappresentazione del contesto dei desideri umani e dell’uomo stesso come soggetti esclusivi dell’apparire, metafora della parzialità dell’essere. L’uomo, dunque, è entità incompleta, mutilata, che rincorre l’effimero come unica vacua speranza compensativa. Il volo del bambino lascia spazio al vuoto dell’adulto. E questi vuoti l’umanità riempie creandone di nuovi, rincorre le proprie ansie costruendone di ulteriori, mai definitivamente consapevole del proprio progressivo allontanamento dalla stessa concreta condizione umana. Proprio sulla condizione umana le opere suggeriscono una riflessione profonda, una riflessione ed un’analisi che possono essere affrontate da più punti di vista, poiché l’accettazione della complessità, quindi delle diverse angolazioni dell’osservazione, è l’unico strumento attraverso cui è possibile costruire una prospettiva di ricomposizione dell’essere umano. Mentre questa ricomposizione passa proprio dal tornare indietro all’organo vestigiale, la sua definitiva riscoperta come condizione salvifica. Al contrario l’eterodirezione dei comportamenti è il vicolo stretto della disgregazione, dell’annichilimento, il martirio di soggetti comuni che hanno semplicemente rinunciato ad essere, non hanno osato la fuga tra le nuvole, non sono più angeli fanciulli, levati in alto dal desiderio primordiale dell’infinito vertiginoso. Poddighe ci racconta questo mancato ricongiungimento con gli strumenti che gli sono più congeniali, un surrealismo post litteram che ammicca alle cose di Breton, alle copertine stralunate delle Mothers of Invention, si esprime con caratteri originalissimi, si riconosce nell’uomo qualsiasi, nel giovane, nella donna, nel vecchio, che consumano il proprio doloroso disumano nell’anaerobico quotidiano. I soggetti di Poddighe sono talmente comuni da risultare invisibili, eppure mostrano senza pudore le proprie parzialità, mancano del doveroso silenzio della consapevolezza della propria drammatica condizione, sostituita dalla disperazione del vacuo apparire.
E quel martirio di cui narra è dentro il dogma d’una società obbediente, il dettato è preciso, la prospettiva esatta. È il processo educativo che conta, le masse obbediscono, il martirio delle moltitudini invisibili è scelta imposta, cultura dell’abbandono della propria emancipazione, la salvezza è altrove, non è di questo mondo. Il volo avviene solo dopo che le spoglie mortali si sono consumate nella loro essenza vitale. Raffaello De Vito individua uno dei più potenti strumenti di coercizione culturale nel martirologio, lo trova nei «santini», il promemoria formato tascabile che indica la strada, l’unica percorribile, il sacrificio estremo come unica prospettiva di salvezza. Raffaello se ne accorge, interviene su quelli, li riarticola e sostituisce l’educatore con l’educato, il soggetto diviene moltitudine dimenticata, non è più venerabile santissimo, è quotidiano sterminio. L’idea è quella d’un fake che amplifica la natura mantrica dell’immagine originale, in cui il soggetto poco importa chi sia, è fondamentale che dia al dolore ed alla sofferenza una componente salvifica che seppellisca l’istinto primordiale.
Non c’è passaggio umano, cambiamento d’una qualche fatta che non abbia preteso martiri, vittime sacrificali. Il santo è sempre – o quasi – martire, il miracolo è la prospettiva che scaturisce da quel martirio. Ed il martirio è una sorta d’espiazione per una condizione che è già di per sé sacrificale, appartiene agli ultimi. La devozione più profonda, pure nella religiosità archetipica, nella sua simbologia, è la rievocazione del sacrificio, il martirologio è punto di riferimento della fede, in realtà nasconde prospettive di trasformazione, di subalternità al dettato.
I Santini, tweet ante litteram, che raccontano vicende di sopraffazione, di martirio, appunto, hanno rappresentato per tantissimi una sorta di protezione dalla stessa tragedia. In realtà non ne hanno nascosto affatto l’evenienza ch’essa si presenti, nel qual caso appare ineluttabile, premessa per una vita altra di compenso. Ogni categoria sociale ha il proprio riferimento nel santo che ha fatto da parafulmine, ha pagato per i posteri, in qualche modo li ha liberati dal patirne le stesse pene. Ed è protezione semplice, a portata di borsetta, portafoglio, l’avvertimento che il cambiamento può avvenire solo attraverso il sacrificio, con l’esempio. Hanno iconografie apparentemente semplici i santini, al tempo ricercate, ché ogni dettaglio non appare superfluo, è narrazione atipica, semplifìcata ma esaustiva. Il punto è che la categoria degli ultimi, in definitiva dei martiri, non pare esaurirsi nella iconografia classica. Raffaello De Vito coglie l’enorme portata simbolica della trasmissione del messaggio sacrificale che era nel «santino», ne amplia la rappresentazione all’infinita platea degli ultimi. La sua è ricerca anche fisica, negli ambienti più consueti di quella presenza, chiese, monasteri e negozi di ecclesiastica. A quei soggetti ridisegna i contorni e non v’è in questo alcuna volontà blasfema, al contrario coglie la formidabile dirompenza di immagini iconiche di farsi mappe concettuali per veicolare i nuovi martirologi. Cambia i volti dei santi, le loro effigi classiche, i protettori degli ultimi lasciano solo impronte delle proprie gesta, cedono il posto alle nuove vittime della società involuta, fanno spazio a nuove immaginette che, come le vecchie, presumono d’avere capacità esorcizzanti il declino d’umanità private della propria stessa essenza.
La tecnica che Raffaello usa è raffinata, egli è conoscitore abilissimo di grafiche, fotografie ed immagini. Subordina le sue competenze ad un processo di riscrittura autenticamente «umano», trasforma il mito religioso in quotidianità, compie il passaggio inverso rispetto al canonico: il santo, nella iconografia classica, ha un nome, è la parte per il tutto, s’identifica nell’ultimo che si sacrifica per il resto d’intorno, per dare una possibilità ancora col proprio sacrificio, con la propria testimonianza ed opera, a chi soffre condizioni di privazione, di vessazione, di prevaricazione, sfruttamento, violenza; in epoche in cui l’esempio virtuoso pare ombra fuggente, quasi violazione di norme comportamentali non scritte ma esattamente codificate, nei santi di Raffaello è la pletora degli ultimi che parla in prima persona, si fa soggetto collettivo che produce voce corale. Il martire non è più uno, si fa moltitudine, schematizzata nell’immagine mutuata dalla tradizione. Ed il martirologio mostra la sua vera essenza, quella della sopraffazione legittima, anzi auspicabile per il mantenimento d’una condizione gerarchica, in cui il potere si legittima nella disfatta degli ultimi.

Questa di Raffaello è operazione coraggiosa, straniante come poche, in divenire giacché i nuovi martiri sono elenco che non pare abbia fine, donne vittime di femminicidio, di regimi feroci, vittime dei cambiamenti climatici, migranti sfruttati, bambini sotto le bombe, preda di pedofili, ma anche schiavi delle nuove tecnologie, e poi lavoratori che muoiono sul posto di lavoro, medici ed infermieri che hanno contrastato il Covid e che da eroi divennero nessuno. Ognuno può aggiungerne altri, quelli che gli pare, ché ogni ladrone ha la propria devozione.
E questa mostra si concede a chiunque la voglia, basta chiedere per averla (magari all’A/telier di Modica Alta), non c’è da pagar nulla, solo verificare se ci sono le condizioni materiali per trasferirla dove si vuole.

Porti salvi

«…l’umore di quella moltitudine d’emigranti seguiva con fedeltà mirabile le variazioni
del mare. Come parlando con un personaggio potente, al quale domandiamo un favore, e che ci può nuocere, il nostro viso riflette inavvertitamente tutte le espressioni del suo, così i pensieri e i discorsi di tutta quella gente si facevan neri, gialli, grigi, azzurri, lucenti secondo che era il colore delle acque. Esattissimo è il dire “la faccia del mare” poiché lo spianarsi e il corrugarsi della sua
superficie, e le ombre che vi guizzano, e le tinte pallide o tetre che la coprono all’improvviso, rassomigliano in modo maraviglioso ai moti di una faccia umana, la qua le rispecchi l’agitazione d’un animo mobilissimo e mal fido. Quanti mutamenti si succedevano in poche ore, sempre rimanendo buon tempo!
» (Sull’oceano, Edmondo De Amicis)

Le correnti sotto traccia portano ricordi, le onde paiono libri spalancati che raccontano di memorie. Quella distesa bisogna guardarla con attenzione, non si può far finta che sia solo bella, che sia piena di fascino. È un approccio sbagliato, da cartolina mordi & fuggi. Non sei al cospetto d’una vetrina, d’uno spettacolo, per quanto portentoso, da circo. Sei davanti alla più grande delle epopee, il racconto più ardito. Infinite pagine, infiniti sguardi i cui occhi sono dappertutto. Non c’è infinito più infinito, e quello ti entra dentro rendendo te stesso infinito. La vertigine dentro quel blu cangiante diventa definitiva, ci si abitua, finisce che non ci si accorge nemmeno di provarla, come ci si abitua ai propri acciacchi, ai propri malanni, alle proprie sorti, pure a quelle nefaste. Lì c’è tutto l’uomo, con i suoi fardelli, le sue noiose steppe, i suoi vulcani d’intemperanza, le sue tragedie. I porti sono le librerie che raccolgono quelle narrazioni, sono salvi per forza, non si chiudono mai, come non si chiudono le rene sconfinate, gli scogli puntuti, le isole e i promontori. In mare è tutto aperto, chi non ci crede nega le sorti dell’uomo. Mai quelle furono sorti semplici, sono vicende d’afflati, d’abbracci, non negano mai braccia tese, mani pronte a ghermire una sorella, un fratello che tra l’onde ha deciso di sfidare tutto e tutti per speranze nuove, per semplice desiderio di vita. Chi non trova l’approdo non può essere solo, anche quando i flutti lo rendono particella del tutto. C’è la storia dell’uomo con lui, chi si volta altrove, chi desidera il martirio d’altri, chi non concepisce il porto salvo non è parte di quella storia, la inquina negando se stesso.

«“Mori? Mori ‘Ndrja?” singultarono gli sbarbatelli. “‘Ndrja, ‘Ndrja, ‘Ndrja.” lo chiamavano e singhiozzavano. Ma quanto a Masino, fu un momento e poi fu tutto un pensiero, quello di allontanarsi di là, sulla stessa lancia dove si trovava, riportare ‘Ndrja a casa, vogare, vogare, fare quella vogata di una diecina di miglia, riportare ‘Ndrja a casa, sullo scill’e cariddi. Si rigirò agli sbarbatelli:
“Oooh.oh. Oooh.oh.” e la lancia, pesante prima e poi sempre più leggera, ripigliò la corsa in avanti.
Masino pensò, pensava solo a portare ‘Ndrja al duemari: solo quel pensiero sentiva, pungente, doloroso, dominante e commosso, nella sua mente. E con quel pensiero, gli pareva di speronare e scavare il mare davanti alla lancia, con quel pensiero barbaro, pietoso, lo riportava al loro mare.
“Oooh.oh.” gridava: e gridava al mare medesimo, lui in persona spronava, speronava.
Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare.
» (Horcynus Orca, Stefano D’Arrigo)

Vi riposto qui il mio lungo viaggio, magari ve lo siete perso, che comunque non è cosa gravissima.

Dei colori perduti

«Il mare ha questa capacità: restituisce tutto dopo un po’ di tempo, specialmente i ricordi».(Carlos Ruiz Zafon) Un tempo fotografavo il mare con tutti i suoi colori, quelli dell’imbrunire, quelli dell’alba, il pieno giorno, il sale che si finge nebbia in istanti di bufera, il blu ed il verde, i mille altri di cui è capace di vestirsi. Poi le mie foto hanno cominciato ad ingrigirsi, appaiono bruciate, brandelli di memoria che si inseguono nella speranza di riportare tutto ad un originale iridescente che non emerge più dalle acque. Per questo, a meglio specificare, faccio riciclo di cosa vecchia, per una volta o due, e forse tre, ed è riciclo che si fa d’uopo, ancora per far bagaglio di memoria per chi, pare, non ha diritto a ricordo che non sia di rena d’abisso.

«Durante i miei viaggi, che non hanno ancora fine – solo l’Insondabile sa che cosa cerco e se un giorno mi sarà dato di trovarlo -, ho conosciuto tre specie di viaggiatori. Prima ci sono i devoti pellegrini. Che il Generoso vegli su di loro. Poi vengono i sereni commercianti, che seguono le tracce delle carovane. Che il Perfetto abbia cura dei loro beni e li moltiplichi. E infine ci sono coloro che sospirano contemplando il vago orizzonte del mare. Strani uomini senza alcun attaccamento ai beni che Allah dispensa loro. Preferiscono dipendere dalla sua volontà durante le terribili tempeste che godere dell’amorosa ospitalità del bazar. Le loro anime trovano maggiore pace nello spaventoso ruggito del vento, che nella pia voce dell’ iman quando dall’alto del minareto annuncia l’ora della preghiera. Che il Misericordioso allievi le loro pene, perché sento che questi sono i miei fratelli.» (Muḥammad ibn ʿAbd Allāh ibn Muḥammad al-Lawātī al-Ṭanǧī, noto come Ibn Battuta, dal romanzo «Un nome da torero», di Luis Sepulveda)

Cos’è diventato il mare? Quello di petto al quale stavo da ragazzino, su uno scoglio ad aspettare che all’amo ci fosse qualcosa di notevole, di gigantesco, pesante. La lampuga, che lo scirocco si porta via, ma qualche volta invece se la pensa così, vira dal largo e poi punta sotto costa, per capire se c’è roba da mangiare. Che finge d’essere altro, con quella pinnettina azzurro e argento, che strappa l’urlo a quei tre turisti tedeschi affacciati alla banchina del porto perché hanno sbirciato tra le pagine di Goethe, che c’è il pescecane, come in una canzone di Kurt Weill. Zitti, che magari ci casca e viene a fare colazione all’amo. O la ricciola che, meno pudica e più ingorda, s’appresta a lambire la
costa, come bestia famelica. Ma anche due sauri e quattro ope vanno bene. E quelli prendo.

Che fine ha fatto il mare del libeccio, che prima tartaglia giorni interi, poi s’arruffa il pelo e t’avverte col boato dell’onda, col ringhio della risacca, l’odore del sale, che con lui non si scherza. Poi si stanca, e se ne sta buono buono, quasi voglia farsi perdonare per l’ascesso d’ira, nascondendosi dietro forma di specchio, senza manco farti capire dove finisce lui e passa le consegne al cielo, laggiù in fondo, dove tutto curva e la vela fa capolino, mentre il resto della barca pare se lo siano inghiottito Scilla e Cariddi. E allora ti piglia quella specie di commozione per come s’appresta a farsi bello il tuttod’intorno. Non ti viene da fare nessun movimento, non tiri su la lenza e la lasci lì, sotto sotto sperando che nulla abbocchi. Che il tonfo della bestia che si divincola non spezzi l’incantesimo, che non ti costringa a far fatica per tirarla a secco distraendoti dal meravigliarti. Al limite ci pensa Pilu Rais a tirar su la cernia, con la sua barchetta e la faccia d’uomo senz’anni, cotta dal sole e scavata di rughe di sale, che somiglia ad una carta geografica di El Idrisi riemersa dalle intemperie delle biblioteche d’Alessandria. Che fine ha fatto il mare? Quello di Giovannina e Teresa che, tra un cliente e l’altro, s’affacciavano al bastione del sole che si leva e, i grandi seni sulle ringhiere rugginose, urlavano ai ragazzini di stare attenti che sugli scogli si scivola che c’è il lippo. Ma a noi non importava di scivolare, come fili di posidonia ci saremmo rialzati come niente fosse successo, con in mano il limone rubato all’albero del vescovo, e lo scollo da intingere nel riccio aperto a piatto di gran portata, ché piccolo com’è, pure, là dentro ci sta tutto il mare. Che fine ha fatto il mare? Che ora è tomba di disgraziati. Una volta quelli venivano a raccontarci le storie d’altre rive, d’altre facce come la nostra, e le ascoltavamo con lo stupore del fanciullo. Ora sembra che debbano starsene ad abisso, per farsi perdonare d’esistere. Che fine ha fatto il mare, che non è mai stato mio e basta, ma anche d’ogni cristo che ci si affaccia, ci nuota, e d’ogni creatura che ci respira dentro? Almeno lasciatecene un pezzo, quello dell’alba che la rena è umida e deserta, quello della luna che ci si tuffa dentro. A certi cosa importa di starsene lì, se poi si sono comprati un tanto all’etto il divertimento d’una notte? Non lo sentono il suono della risacca. Ci sono distese di capannoni che hanno tirato su, produttivi, mica come noi pigre creature del mare che abbassiamo il PIL. Dunque, se tanto vi piacciono le fabbriche dei soldi che vi servono per comprare felicità prêt-à-porter, perché non vi trovate uno spazietto lì per tracannare le vostre coppe di champagne? Il mare, anzi, quel che ne resta, lasciatelo semplicemente a chi si fa saltare il cuore in gola appena lo vede, anche fuori stagione e senza servizio in camera, a chi cerca solo un porto salvo sulla sua riva.

P.S. Ho visto che in molti avete scaricato il pdf del mio messaggio in bottiglia, allora ve lo rilancio qui, questa volta lo faccio con corredo di fotografie. Sono in un formato un po’ più definito di quello che può apparire sul web, persino si possono stampare se volete e ve ne piace qualcuna. Certo non sono grandissime, un po’ le potete allargare senza perdere troppa definizione. Di più non posso, la memoria non mi reggerebbe. Ed anzi fra qualche giorno mi toccherà togliere tutto poiché temo di poterla riempire troppo la memoria che mi tocca qui. Ce ne tocca sempre poca di memoria, e quanto ce ne tocca in un portale ne diventa metafora perfetta.