E di cosa dovrei scrivere oggi, di quegli altri morti d’annego che ormai ad assuefazione collettiva non paiono più qualche decina ma solo trafiletto a cronaca locale, di bomba che diventa superbomba per partecipazione corale a guerra di corsa ad arma, di acqua che s’asciuga per termosifone acceso, o ad imbarazzo per sovvenzione a banca di speculo forte? Scrivo solo che fra poco smetto di scrivere per qualche giorno che c’è spiegazione precisa a questo. Pure, però, a voi vi leggo e se posso lascio commento. Ma io, adesso non posso più di tanto che altro me m’ha catturato a castigo di suo imperituro impegno tutto a fronte di tutto.
Insomma, egli – altro me dico – s’è messo su calendario cose da tremore di vene ai polsi che s’affatica a sindacato, a comizionzo e conferenzuccia a dove lo chiamano, si presenta libro suo (che almeno si paga qualche spesa per il resto che sempre fu gratis et amore dei), scribacchia per questa e quella rivista di cosa serissima, si affanna per lavoro di scuola che pare si versa tale lavoro da cornucopia degli abissi, pure se pare tela di Penelope che non v’è né fine nemmeno costrutto per scuola a similitudine d’ufficio disbrigo pratiche. Ed io, che m’ero ricavato spazio di nessunitudine definitiva per libertà conclamata a bloghettino di sassi che parlano, vengo trascinato in siffatto modo ad affanno imperituro. Ma egli pure, a girar come trottola, a mangiar panino al volo a fronte di consumo di fegato e riverso di bile, a non farsi fermo se non a semaforo per trasbordo da parte ad altra, a ricavar spazio a muraglione di tempo per caffè e sigaretta al massimo, pure non sposta virgola, al più mette punti ad esclamazione di disfatta autentica. E io, a notte che fu inoltrata, gli dissi che va bene, che mi limito a scrittura a quando passò la buriana e lo seguo, ma feci appuntino preciso preciso, che riporto qui tale a come lo concepii. A vedere bene – che mi rivolsi ad egli con tu perentorio di confidenza, crescemmo e convivemmo insieme, financo in corpo medesimo sì da che venne vagito a nascita in illo tempore – ti sbatti e ti risbatti a consapevolezza che il mondo mai cambiasti, nemmanco mi pare ce la farai di pelo appena, di più t’accollasti tale mole d’incombenza a costo esattamente zero, pure con carico di debito conto terzi che finisti quasi a far fame. Ma non t’avvedesti di fatto che c’è capitalismo brutale e cinico? E se tale energia a spreco si volge, pure a tempo determinato, ad accumulo di doblone, si può poi mollare tutto e farsi bilocale frontemare a località deserta, magari isolonza a scarsa o nulla di popolazione. E ci si va ad armo di canna, e zampirone, che a lanciar lenza con boccone amaro per sfratto di sfrattante Bernardo l’eremita c’è speranza che ci si consola con cena di cerniotto e sarago.
Che a contorno ci si pensa con armo d’orto a produzione di pomodoro che per sale di vento si fece a meno di condimento. E unico contatto con mondo fu con corriere per consegna di librino ogni tanto e per arrivo di grande nave cisterna per consegna di vino rosso. Che musica ce n’è e pure abbastanza da recar con noi e il resto fu pace, scoglio, sale e vento, infinito di sguardo, silenzio di tempesta.
Manco a dirlo, mi ignorò. E comunque, se ce la faccio torno tra qualche giorno. Fate cose buone voi che passate di qui, che io mi dimenticai come si fa.
E visto che si fa festa grande, che ponte farà a cessazione di cosa d’isola, vi riciclo cosa antica, per memoria di perduto amor di terra matria che s’appresta a diventar cosa altra, praticamente ferma a gancio, incementata che non ebbe abbastanza disgrazia, pare, che non gliene si doveva affibiare altra.
“Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio”. (Manlio Sgalambro)
Mi capita tutte le volte che me ne vado da lì, a valigie non ancora pronte che strugge d’essere isola forse pure io.
Aveva voglia Nisticò a classificare i siciliani in siciliani di scoglio e di mare, gli uni abbarbicati al substrato come una cozza, un dattero, un riccio spinoso, incuranti della natura claustrofobica dell’appartenenza. Gli altri, con la valigia in mano, fermi non ci stanno, e appena la prima brezza lo consente, prendono il largo a vele gonfie. Ma tutti si portano dentro la stessa insularità, che è condanna del viaggio e nostalgia struggente per il porto di partenza. Solo che ai primi arriva subito, ci soffrono di più, basta che si mettano poco fuori l’uscio di casa, si vadano a sbrigare un documento nel capoluogo. I secondi, al più, con la lacerazione del distacco ci si sono abituati a convivere. Ma tanto tornano, prima o poi vedi se tornano e non passa minuto che con la testa non si organizzano per farlo. Mi pare che questo desiderio di ritorno sia proprio il risultato della paura atavica che l’isola non la ritrovi più, che qualcuno, mentre ti allontani giusto un attimo, se la possa portare via. Forse lo tsunami o li turchi, anche se – ed è evento inconfutabile -, qualunque cosa arriva, dopo un primo attimo di sgomento, gli si apre la porta di casa e, passati al più cinque minuti, ti scordi che è arrivata allora allora, e ti pare che sia lì da sempre, ci fai l’abitudine. Tuttavia, poiché non si sa mai ed a scanso di equivoci, metti in giro strane voci, che lì ci sono i Lestrigoni, i Lotofagi, forse Circe, che giù per lì Scilla e Cariddi hanno un brutto carattere, che quei sassi, isole essi stessi, ce li lanciano Ciclopi a basso tasso di socievolezza, e che le figlie di Kokalos avvelenano gli ospiti. Di più, se per ragioni di modernità te ne devi andare per qualche giorno, che ne so, a Poggibonsi, San Giovanni in Persiceto o a Cormano, saluti parenti e amici, fazzoletto in mano, come se stessi andando a sfidare i cannibali del Borneo.
Ad ogni buon conto, mettetela come vi pare, uno che nasce su un’isola sta già viaggiando. Perché il mare, tutto intorno, fermo non ci sta, e si muove di correnti e flutti, in definitiva, viaggia conto terzi. Non merita citare chissà chi per comprendere che il viaggio è una precisa connotazione antropologica, e pure se ha talune accezioni di ingegneria nautica, non è solo uno spostamento da e per. Alla fine “basta aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha niente, avere il mare – il mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)
Nell’insularità è connaturata la pigrizia più atavica, quella persino trascendente, che si fa connotazione definitiva ed archetipo illustrativo di genti. E del resto che ti agiti a fare se sei proprio dentro il gorgo più gorgo, il tutto che si muove permanentemente? Fatica sprecata. Per altri quella è ignavia, accidia, in realtà è saggia contemplazione del mondo che non sta fermo, dunque perché inseguirlo nell’apoteosi dell’operatività? Il mare vortica così tanto che ti fa dono ora del primato di paradiso terrestre, ora d’inferno in terra, né fu creato per compiacere chi vi si trova circondato senza scampo; inutile cercare di opporvisi. Se serve qualcosa, servissero tre secoli e più, prima o poi un’onda bislacca te la schiaffa davanti, spiaggiata a pancia rivolta al sole. Né si tratta d’un fiume che scorre in un unico verso, cosicché sai già cosa t’arriva a valle se conosci il monte. Il turbinio è pluridirezionale, dipende dalle stagioni, talora dall’umore nero della burrasca o talaltra accondiscendente d’un venticello virato a bonaccia. Sfidare quel tutto che si muove per provare a spostarsi in altra direzione è atto temerario. Ed in tutto quel bailamme agitato meglio star fermi giacché, prima o poi, da qualche parte arrivi, e se non arrivi – quella data parte, intendo – presto o tardi, t’arriva lei. Ma l’isola, quella, da dentro non te la togli nemmeno se ti metti a pizzo di montagna. Non c’è niente da fare, t’entra in valigia, col sale e tutto il resto.
Mai fu bastevole starsene a contemplare l’infinito, coi trabocchi d’altro che si frappongono tra esso e lo sguardo, se non si intrattenesse col tutto d’intorno amabile conversazione. Se non si cogliesse che in quello ci sono suoni e parole che scivolano lente, tali altre s’agitano di moti compulsivi che fremono di desiderio di racconto. Pure non valse la pena d’annoiarsi su una sedia volta all’indecifrato se non vi fu volontà d’ascolto per la nuova narrazione che si ricompone nei meandri antichi delle solitudini definitive. Dette solitudini, però, s’ebbe a concretezza d’osservazione, mai furono davvero tali, piuttosto si prefigurarono come brulichio permanente, quale onda di marea che s’alterna a risacca di rimbalzo, tempesta e bufera che si fanno a soverchianti forze a scontro finale con bonaccia e calma piatta. Davvero ci si fonde con l’infinito e con tutto ciò che fu strada verso d’esso quando sapori e suoni, colori e profumi non paiono più darsi confine preciso, s’impelagano a fusione perfetta, piuttosto, paiono ragazzini che scivolano verso la palla che rotola all’unisono, ad un tutto insieme che non prevede geometria di gioco, precisa programmazione. Ma che meraviglia farsi strada nel kaos della percezione, nel quel che viene viene. E se comincio a metter punto qua e là, non fu tale per definire l’accapo del ricomincio, ma solo momento di fermata a godimento, che me ne feci concessione con bicchiere pieno e musica che mai si fece così giusta nel rilasciare effluvio potente.
Vabbè, a scanso d’equivoco, “imitazione di Empedocle. Troveranno sull’Etna, a tre metri dal cratere, una scarpa Varese numero 42…” (Gesualdo Bufalino)
“Per arrivare all’infinito, e credo vi si possa arrivare, abbiamo bisogno di un porto, di uno soltanto, sicuro, e da lì partire verso l’Indefinito.” (Fernando Pessoa)
Così è il viaggio di scoperta, pure che tu lo faccia standotene fermo. Quello si consuma solo se non hai meta, il progetto è trasformazione, l’itinerario si sorprende di non essere tale, si spiazza da sé, si pasce d’indeterminazione. Ma il porto, quello è necessario, qual punto di partenza, certezza irrinunciabile, quello d’arrivo vattelapesca dov’è, che fu fortuna che non si conobbe. Il porto sicuro non è mai meta finale, si fa tappa intermedia per forza, il luogo del tirar fiato, ritemprarsi alla banchina che si camuffa da trampolino per l’infinito, per un nuovo salto incognito.
Porti salvi e sicuri solo si perdono nei vicoli diradati dell’attesa d’una nuova partenza, nel tempo che non esiste, che mai fu perso per la certezza dell’altro viaggio. Quello che arriverà sarà di vertigine pura se il porto che hai dietro comprendi ch’è solo ennesimo approdo, e te ne propone altro pari a sé stesso in un altrove che non sa di esistere se non al confine dell’immaginazione, in una mappa sbiadita e cangiante dove la rotta si è persa nel rivolo delle mille e mille derive, tra altrettanti sbarchi fortunati. Un porto c’è sempre, ché dove finisce il mare il mare ricomincia. C’è chi arriva, chi va via, tutti hanno una storia che raccontano, che ti dice che c’è anche altro. Quella, l’immaginazione, si veste d’abito scarlatto, come certe vele al tramonto, si fa porpora di murice, blu cobalto d’abisso, ed ogni altro colore si troverà financo in tutte le sfumature raffinatissime di grigi, dentro le linee d’ombra. “A quel punto mi ero accorto che cercare era il mio destino, l’emblema di coloro che escono la notte senza alcuna precisa intenzione, lo scopo degli assassini di bussole.” (Julio Cortázar)
Pare che la natura s’attrezza a ripigliarsi il suo, che fece di terra che trema e vento di scirocco furibondo sue armi letali, a dispetto d’onnipotenza umana. Mi giunge voce, che son lontano assai in questo momento, che la fornace si sgretola malamente, a forza di bufera che non s’arresta. Mi sovviene che è poca cosa che pure anime migranti si misero a condizione d’inghiottimento per onda alta metri e metri. Ma è sempre cosa di miei ricordi che sparisce, e infonde tristezza di vertigine.
“Lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus orca) E a sommo di mestizia riprendo cosa antica.
“Mi dicono, taluni, ch’io vivo a nostalgia, che è cosa non rispondente al vero, poiché del bel tempo andato non ho affezione particolare, che fu tempo di travagli. Ma v’erano, tuttavia, marasmi di dettagli di solluchero allora, dunque – saggio di filosofia quale Epicuro – me li serbo ancora, che non sono più apparentati solo con quel tempo, rimangono nell’oggi, lontani, dunque, dall’essere esclusive rimembranze, come certe musiche che suonano ancora.
Talune di quelle cose si perdono, me ne dolgo e a quelle si, rivolgo rimpianto. Ozio e lentezze mi sono ancora cari, quali cenni di svago, pure cose di densità palpabile ancora m’appartengono. Preciso, invero, che mai mi rivolsi più di tanto ad affezionarmi alle cose di stretta proprietà, le tratto con svogliatezza, se escludo dal novero dischi e libri. Ma cose di legame ne conservo, che non sono mie, nemmeno mi sconvolge l’idea possano essere d’altri, che la bellezza rifiuta l’appartenenza, rifugge del concetto proprietario. Sempre, nella valutazione che non è bello ciò che è bello, che principio di bellezza, forse, non è fatto assoluto. Che di certe bettole che mi furono aule di scuola, sentii disquisire malissimo, in contrappunto non cantante con certe tavole apparecchiate a lusso. Di tali personaggi di cui m’innamorai, e che fecero storia contorta di sé, mi pare di ricordarne censura. Pure per certi vini, che sapevano di terra e sale, e mi vennero a conforto – financo d’economie approssimative – ricordo espressioni di disgusto.
La fornace, vecchia cattedrale che dalla punta si sdraia sulle onde, ghermisce di camino il cielo, e s’apparecchia al tramonto come quinta estatica sul tutto d’intorno, è una di quelle siffatte idee concrete che mi convive di simbiosi.
Seppure non me la godo quanto mi parrebbe, me ne faccio racconto, memoria presente, e il reincontro attendo con le ansie vaghe di chi ha caduca certezza delle cose. Consunta nelle malte incendiate, lei, s’è retta – capolavoro d’architetti che non pensarono alla storia – un secolo e più, d’equilibri precari di pietre, sottese a leggerezza, a sorreggersi l’un con l’altra, pare, a dispetto di leggi newtoniane, pure di convenzioni socio(il)logiche nelle contraddizioni dell’oggi. Ma ogni anno, il rinnovato afflato, mi pare che s’abbandoni al desiderio di sparire e, mentre mi rendo ancora nessuno al suo cospetto, lei adesso smunge, si compenetra con la sabbia generatrice, s’affolla di salsedini e si concede al vento, pietra su pietra. Mi dice, or ora, il maestro sulla punta del corvo, di pennelli e scalpelli assai edotto, che s’amputò un’ala, che quella mai rivedrò se non in cocci. Un po’ più monca, piano piano, la fornace pare s’arrende, forse al desiderio di divenire nostalgia, ricordo d’ozi e lentezze, sigarette rubate, in bilico di falesia. O forse issa bandiera bianca di calce e cotti sul comignolo più alto, per sopraggiunta noia e stanchezza di irruzioni cash & carry.
Radio Pirata si fa Cinquantadue tondi tondi, pure a contromanifestazione che diventa tale di grandezza e forma che altra pare ella contromanifestazione. Qui e ora facciamo a meno di comici, che tutti scelsero altra platea, pure quelli a distacco ad altra mansione che se non fosse che fanno piangere farebbero ridere a bomba. Qui a Radio si fa cosa seria che si scelgono migliori promesse musicali e si esaltano grandi virtù di giovani musicisti che si faranno ossa proprio a questa prestigiosissima kermesse che ancora una volta risulta prima negli ascolti a casa mia. Per non far delusione a nessuno cominciamo subito con ascolto sensato e breve dichiarazione di detto autore.
“La morte non è la più grande perdita nella vita. La perdita più grande è quello che muore dentro di noi, mentre viviamo, quando rifiutiamo di affrontare i nostri demoni. Quando costruiamo muri invece che ponti, ci alieniamo, diventiamo estranei” (Chet …)
Che ponte pare quello che toglie isola dall’essere isola, ma mai ci fu pensiero di più grande distanza da ponte che unisce, ponte è a concezione di cosa che distrugge e basta, pure se non crolla non affratella, si fece a maggiore segregazione che ciò non fu possibile nemmeno ad immaginazione contorta e deviata.
E dopo assaggio di nuovissima ed intensa cosa di giovane talento a batter tasti in bianco e nero, discernendo il suono dell’uno da quello dell’altro per farne fusione perfetta, mi piglia schiribizzo di darvi notiziona in anteprima assoluta: a me non mi viene da ridere, pure se c’è cose che farebbero scompisciar dal ridere fossero film dei Monty Python, ma ebbi idea che talune sono vere.
Fu fortuna che, con atto di scaltrezza, m’assicurai nuova ed intonsa bottiglia d’Oro Pilla ad accompagno di note di Radio Pirata Controfestival che comincia, a parer mio, ad essere cosa di spessore importante. Forse non rido, ma almeno non piango e vado di cose preferite.
“La creatività consiste nel rendere meravigliosamente semplice ciò che è complicato.” (Charlie…) Qui in Radio Pirata facciamo solo cose semplici, ché quelle complicate non sappiamo bene come sono fatte, sono cose che appartengono a gente illuminatissima, gente meritevole e migliorissima, gente che sa come sparacchiare bombe e che fa festival di grandissima audience. È roba per persone che muovono PIL, che affogano nel rendiconto bancario, che sanno bene chi fare affogare a lontananza prescrittiva da porto salvo.
“Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra.” (John…) Che, anche se sono giovani e non si conoscono così bene, a noi ci piace che certi musicisti dicono queste cose, che ci facciamo per benino a curatori loro, certo confusi, ma quando mai a Radio Pirata abbiamo aspirato ad ordine e cose così?
M’ero dato, ch’ero poco più che un bambino, un rigore di vita preciso, a scoglio tra i più solitari sin dall’alba, al più, per scavalco abusivo, ed ancora a scarse frequentazioni, mi concedevo resa d’omaggio alla tomba del poeta tedesco e negletto di cui mai lessi un solo verso. Non ci fu giorno che non facessi del mio tempo occasione di sguardo sotteso sull’onda, a sgamo di barca che fa capolino ad oltre orizzonte, nemmeno pensai un attimo a far di me cosa che tanti dissero, che parevo strano a buttar pezzo di mia gioventù ad apparenza di gianfanniente. Mai considerai perso quel tempo di scarsa presenza umana. Che quel poco era gioco di cime, pure io mi trovai a reggerne taluna, per dar mano d’aiuto a barcarella che s’apprestava a moletto con onda che si faceva ostacolo a preciso riparo. Altre e tante volte tirai – a far cosa d’istinto – a secco di rena o scoglio puntuto nuotatore non provetto. Altri vidi fecero uguale, che a star fronte mare s’apprende cosa semplicissima, che è a tendere braccia a chi nuota a fatto di difficoltà. Pure l’onda pare t’aiuta a presa di quella decisione. Che non mi feci mai abbastanza edotto di come si può dire non tendere braccia a braccia che affonda. Forse che la cosa più semplice è proprio così tale da risultare di difficoltà manifesta a chi rinunciò ad avere pensiero suo che non fosse d’automa a radiocomando.
“Che uomini sono quelli che preferiscono la monotonia del mare? Mi sembra che siano di quelli che hanno scrutato troppo a lungo, troppo profondamente nel groviglio delle cose interiori, per non cercare in quelle esteriori una cosa sola, la semplicità…” (Thomas Mann)
Non è che uno sceglie di essere minoranza, semmai anela il contrario. Ci credo poco – ma ne ammetto pure l’esistenza – che c’è un taluno che sceglie di essere sempre e comunque minoranza. È cosa degli uomini affratellarsi con milioni di altre creature, pure lontane e diverse. Ma l’evidenza dell’essere minoranza mi sopraffà sinché sono stato investito dall’età della ragione, cosa peraltro non richiesta. Che poi essere nell’età della ragione non per questo impone d’avere “ragione”. Si può dissimulare il proprio torto, nel profilo basso del parziale fraintendimento, nella diplomatica accettazione del volere altrui, nel mugugno a bassi decibel. Ma sempre dentro la riserva indiana, poi, ci si ritrova, senza se e senza ma, spesso con un solito irrisolto perché.
C’è che uno non se lo sceglie da che parte stare, mi sono persuaso che gli tocca. Si può cambiare il corso degli eventi, ammettere che esiste il libero arbitrio, comunque ci si porta dietro la propria ineluttabile condizione esistenziale. Almeno penso, che non ne sono manco così sicuro, pasciuto nel dubbio, forse nel sonno della stessa ragione. Così, predestinato, per origini e censo, a rapinare le vecchiette davanti alla posta, mai m’avvidi di come ciò possa non essere successo, spiattellato a fare un profino qualsiasi, financo a godermi certe smanie piccolo borghesi, talora pure a montare librerie Ikea. Però ho passato tutta la vita nel desiderio d’omologazione maggioritaria, d’adesione agli immaginari collettivi, che sono convinto che ti toglie pensieri, il contrario t’arrovella. E ciò m’è accaduto in ogni frangente che vissi, cosa di cui non vi terrò edotti né nel dettaglio, nemmeno nelle sue linee generali, poiché è cosa di poco conto.
Il punto è che, seppure t’asciuga i criticismi, dunque ti solleva di certi gravami d’insonnia, l’essere maggioranza non è a costo zero, richiede tributi che taluni pagano con nonchalance, per altri è compito delicato, che impone fatiche e ti induce a scegliere di quali fatiche puoi fare a meno, quali altre sei in grado di sopportare. A me, lo dico francamente, dell’essere maggioranza mi preoccupa l’essere rapido e preciso. Eppure ci avevo sperato, come montagna inamovibile, in attesa del profeta, che la triste reclusione dei distanziamenti sociali, potesse stravolgere il senso delle cose, stralciare paradigmi, ridurre davvero le distanze. Invece!
È dai tempi della scuola, da quando la frequentavo dall’altra parte della barricata, intendo, che mi sento ripetere, se non esplicitamente almeno nelle indicazioni generali, che occorre essere rapidi, puntuali, efficienti, efficaci, in definitiva, meritevoli. Poi l’università, il lavoro, la musica non cambia, inno imperituro, richiamo costante alla mitica perfezione dell’agire, del produrre. Bisogna apparire decisi, vincenti, volitivi, esprimersi in modo sintetico ed esaustivo, non indugiare, accelerare, non tergiversare, perfezionarsi sino all’eccellenza, dimostrare volontà ferree, strategie definitive, risultare impeccabili, al di sopra d’ogni sospetto di lassismo, rinnegare il dubbio, compiacersi delle proprie granitiche certezze. Eleganti, ma senza pacchianerie – questo, invero, anche alla maggioranza, non è che proprio… -, in forma scultorea, frequentare i luoghi giusti, le giuste compagnie. Rapidi, dunque fast food, apericene, sushi, musiche con ritmi definiti, bum bum senza sorprese, rime baciate, brevi, che si ricordino, niente dissonanze e asimmetrie; il jazz è morto, l’improvvisazione sepolta. E io, se mi guardo intorno, se mi affaccio dai miei anni con lo sguardo indietro, la storia che vedo è un’altra.
Quanti progetti, quante cose iniziate e lasciate lì, in attesa di chissà cosa. Quante incompiute, quante risoluzioni fallite, quante approssimazioni. Non ho mai avuto una visione circolare del tempo come gli orientali, mi sono crogiolato di memorie, facendo in modo che il futuro si muovesse con “lentezza” sino a toccarsi col presente, ed insieme si mettano ad aspettare il passato per un tamponamento a catena che li faccia coincidere in un unico punto temporale indefinito ed infinito. Poi, col tempo, continuerò ad esplorare lo “spazio breve che suggerisce l’infinito” (Jean Grenier), e sceglierò in un viaggio sghangherato la mia “Itaca, la terra fedele, il pensiero audace e frugale, l’azione lucida, la generosità dell’uomo che sa” (Albert Camus). Perché quante approssimazioni, per fortuna, possono restituirci almeno uno scorcio di quella bellezza infinita che è nella nostra irredimibile natura umana di creature lente, di strateghi della lentezza, in competizione con le più ostinate lumache nel contemplare i dettagli più insignificanti di questa terra, per cogliervi dentro la suadente poesia. Di converso, quante brucianti accelerazioni, pragmatismi risolutivi, decisionismi improcrastinabili, precisioni burocratiche, successi epocali, ci hanno lasciato l’eredità d’un condono edilizio…!
“Sul far della sera tornarono in paese, aprirono il circolo e si misero a giocare a carte. Dìaz rimase tutta la sera senza parlare, gettando all’indietro i capelli bianchi e duri finché dopo mangiato s’infilò lo stuzzicadenti in bocca e disse:
– Constante li tira a destra.
– Sempre, – disse il presidente della squadra.
– Ma lui sa che io so.
– Allora siamo fottuti.
– Sì, ma io so che lui sa, – disse el Gato.
– Allora buttati subito a sinistra, – disse uno di quelli che erano seduti a tavola.
– No. Lui sa che io so che lui sa, – disse el Gato Dìaz e si alzò per andare a dormire”. (Osvaldo Soriano)
Che io con le cose di Soriano mi ci ritrovo, ché c’è autentica passione d’accalorarsi a tavolo d’osteria, sino a sfinimento di parziale ubriacatura senza desiderio di menar le mani. Io, lì, a osteria e bettola consunta, in genere a retroporto, crebbi ed imparai tanto. A slamare pesce grosso, per esempio, a dov’è spiaggia di delizia anche, ad attenzione e guardia alta per evito rosso allungato causa spuntatura a devianza verso aceto. Detta gente che tali luoghi affolla e di cui feci parte, poco capisce che taluno a piani molto alti ha chiaramente a disprezzo che esista umanità varia che non s’appassiona a volere guerra, che già piange per disgrazia sua e magari si fa briscola pazza a gioco d’azzardo per in palio bicchierino. Anela, al più, di farsi il secondo e poi due o tre passi a vedere se Pilu Rais tirò a secco una rete con pesce giusto per la matalotta della sera. Ma mondo civile non funzionava a volere di popolo, che così si disse? E chi chiese, a sondaggio preciso, che detto popolo abbia tal desiderio di partecipazione di grande tenzone universale a bombarda definitiva che grandi e civilissimi governi fanno a rincorsa a dire io ci sto? Non sono sicuro, che forse a fatto di detto sondaggio passò qualcuno meritevolissimo a chiedere, e a me sfuggì di dar risposta ch’ero già a fronte mare dopo terzo o quarto bicchiere. E si sa che chi non partecipa fa suo il torto. Ma mi venne pensiero che quella che si fa a gioco pare partita di pallone a porta serrata da ottomiliarducci di portieri scadenti, che cannoniere a tirar rigore non sgancia grande pallonata a destra o a manca, ma fa far botto a tutti insieme con petardo robusto. E l’arbitro, di grande illuminazione, tirò fuori cartellino rosso ad espulsione di squadra numerosa ad intero, che quella ebbe a scarso senso di sport di sporcar terreno di gioco. E poi palla al centro che campionato ebbe fine.
Che c’è a più di ieri gioco di risiko che ho carrarmato tanto grosso che tuo trema di brutto, che pare gioco d’i studentato’adolescente a chi ha orpello a sovradimensione di miglior dotazione. E c’è corsa a chi spara la cosa più grossa che si spende tanto che a metà basta a sfamare intero creato. Ma quale dio è a prima di menzione di patria e famiglia – che poi a parlar di famiglia a mammasantissima a caduta di rete pare cosa strana – che non capisco? Pure si spende tanto di quella cassa di doblone a far morto d’ammazzo, a far che non ti curo, nemmeno che ti sfamo e disseto, pure a cercar vita – questa la lessi, me ne approprio impropriamente – ad altra parte di universo, mentre qua si fa a decremento demografico coatto. Ch’io spero sempre che viene ad emozione guardar la luna, che ci si dimentica d’altro nefasto intendimento. Così rifaccio questa cosa, che a me piace assai.
“I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare senz’aver finito d’estrarre le tante casse di zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar la calcara. Cacciagallina, il soprastante, s’affierò contr’essi, con la rivoltella in pugno, davanti la buca della Cace, per impedire che ne uscissero.
– Corpo di… sangue di… indietro tutti, giù tutti di nuovo alle cave, a buttar sangue fino all’alba, o faccio fuoco!
– Bum! – fece uno dal fondo della buca. – Bum! – echeggiarono parecchi altri; e con risa e bestemmie e urli di scherno fecero impeto, e chi dando una gomitata, chi una spallata, passarono tutti, meno uno.
Chi? Zi’ Scarda, si sa, quel povero cieco d’un occhio, sul quale Cacciagallina poteva fare bene il gradasso. Gesù, che spavento! Gli si scagliò addosso, che neanche un leone; lo agguantò per il petto e, quasi avesse in pugno anche gli altri, gli urlò in faccia, scrollandolo furiosamente:
– Indietro tutti, vi dico, canaglia! Giù tutti alle cave, o faccio un macello!
Zi’ Scarda si lasciò scrollare pacificamente. Doveva pur prendersi uno sfogo, quel povero galantuomo, ed era naturale se lo prendesse su lui che, vecchio com’era, poteva offrirglielo senza ribellarsi. Del resto, aveva anche lui, a sua volta, sotto di sé qualcuno più debole, sul quale rifarsi più tardi: Ciàula, il suo caruso.
Quegli altri… eccoli là, s’allontanavano giù per la stradetta che conduceva a Comitini; ridevano e gridavano:
– Ecco, sì! tiènti forte codesto, Cacciagallì! Te lo riempirà lui il calcherone per domani!
– Gioventù! sospirò con uno squallido sorriso d’indulgenza zi’ Scarda a Cacciagallina.
E, ancora agguantato per il petto, piegò la testa da un lato, stiracchiò verso il lato opposto il labbro inferiore, e rimase così per un pezzo, come in attesa.
Era una smorfia a Cacciagallina? o si burlava della gioventù di quei compagni là?
Veramente, tra gli aspetti di quei luoghi, strideva quella loro allegria, quella velleità di baldanza giovanile. Nelle dure facce quasi spente dal bujo crudo delle cave sotterranee, nel corpo sfiancato dalla fatica quotidiana, nelle vesti strappate, avevano il livido squallore di quelle terre senza un filo d’erba, sforacchiate dalle zolfare, come da tanti enormi formicai.
Ma no: zi’ Scarda, fisso in quel suo strano atteggiamento, non si burlava di loro, né faceva una smorfia a Cacciagallina. Quello era il versaccio solito, con cui, non senza stento, si deduceva pian piano in bocca la grossa lagrima, che di tratto in tratto gli colava dall’altro occhio, da quello buono.
Aveva preso gusto a quel saporino di sale, e non se ne lasciava scappar via neppur una.
Poco: una goccia, di tanto in tanto; ma buttato dalla mattina alla sera laggiù, duecento e più metri sottoterra, col piccone in mano, a ogni colpo gli strappava come un ruglio di rabbia dal petto, zi’ Scarda aveva sempre la bocca arsa: e quella lagrima, per la sua bocca, era quel che per il naso sarebbe stato un pizzico di rapè.
Un gusto e un riposo.
Quando si sentiva l’occhio pieno, posava per un poco il piccone e, guardando la rossa fiammella fumosa, della lanterna confitta nella roccia, che alluciava nella tenebra dell’antro infernale qualche scaglietta di zolfo qua e là, o l’acciajo del paolo o della piccozza, piegava la testa da un lato, stiracchiava il labbro inferiore e stava ad aspettar che la lagrima gli colasse giù, lenta, per il solco scavato dalle precedenti.
Gli altri, chi il vizio del fumo, chi quello del vino; lui aveva il vizio della sua lagrima.
Era del sacco lacrimale malato e non di pianto, quella lagrima; ma si era bevute anche quelle di pianto, zi’ Scarda, quando, quattr’anni addietro, gli era morto l’unico figliolo, per lo scoppio d’una mina, lasciandogli sette orfanelli e la nuora da mantenere. Tuttora gliene veniva giù qualcuna più salata delle altre; ed egli la riconosceva subito: scoteva il capo, allora, e mormorava un nome:
– Calicchio.
In considerazione di Calicchio morto, e anche dell’occhio perduto per lo scoppio della stessa mina, lo tenevano ancora lì a lavorare. Lavorava più e meglio di un giovane; ma ogni sabato sera, la paga gli era data, e per dir la verità lui stesso se la prendeva, come una carità che gli facessero: tanto che, intascandola, diceva sottovoce, quasi con vergogna:
– Dio gliene renda merito.
Perché, di regola, doveva presumersi che uno della sua età non poteva più lavorar bene.
Quando Cacciagallina alla fine lo lasciò per correre dietro agli altri e indurre con le buone maniere qualcuno a far nottata, zi’ Scarda lo pregò di mandare almeno a casa uno di quelli che ritornavano al paese, ad avvertire che egli rimaneva alla zolfara e che perciò non lo aspettassero e non stessero in pensiero per lui; poi si volse attorno a chiamare il suo caruso, che aveva più di trent’anni (e poteva averne anche sette o settanta, scemo com’era); e lo chiamò col verso con cui si chiamava le cornacchie ammaestrate:
– Tè, pà! tè, pà!
Ciàula stava a rivestirsi per ritornare al paese.
Rivestirsi per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quella che un tempo era stata forse una camicia: l’unico indumento che, per modo di dire, lo coprisse durante il lavoro. Toltasi la camicia, indossava sul torace nudo, in cui si potevano contare a una a una tutte le costole, un panciotto bello largo e lungo, avuto in elemosina, che doveva essere stato un tempo elegantissimo e sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia, che a posarlo per terra stava ritto). Con somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei quali ciondolavano, e poi se lo mirava addosso, passandoci sopra le mani, perché veramente ancora lo stimava superiore a’ suoi meriti: una galanteria. Le gambe nude, misere e sbilenche, durante quell’ammirazione, gli si accapponavano, illividite dal freddo. Se qualcuno dei compagni gli dava uno spintone e gli allungava un calcio, gridandogli: – Quanto sei bello! – egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un riso di soddisfazione, poi infilava i calzoni, che avevano più d’una finestra aperta sulle natiche e sui ginocchi: s’avvolgeva in un cappottello d’albagio tutto rappezzato, e, scalzo, imitando meravigliosamente a ogni passo il verso della cornacchia – cràh! cràh! – (per cui lo avevano soprannominato Ciàula), s’avviava al paese.
– Cràh! cràh! – rispose anche quella sera al richiamo del suo padrone; e gli si presentò tutto nudo, con la sola galanteria di quel panciotto debitamente abbottonato.
– Va’, va’ a rispogliarti, – gli disse zi’ Scarda. – Rimettiti il sacco e la camicia. Oggi per noi il Signore fa notte.
Ciàula non fiatò; restò un pezzo a guardarlo a bocca aperta, con occhi da ebete; poi si poggiò le mani sulle reni e, raggrinzando in su il naso, per lo spasimo, si stirò e disse:
– Gna bonu! (Va bene).
E andò a levarsi il panciotto.
Se non fosse stato per la stanchezza e per il bisogno del sonno, lavorare anche di notte non sarebbe stato niente, perché laggiù, tanto, era sempre notte lo stesso. Ma questo, per zi’ Scarda.
Per Ciàula, no. Ciàula, con la lumierina a olio nella rimboccatura del sacco su la fronte, e schiacciata la nuca sotto il carico, andava su e giù per la lubrica scala sotterranea, erta, a scalini rotti, e su, su, affievolendo a mano a mano, con fiato mòzzo, quel suo crocchiare a ogni scalino, quasi un gemito di strozzato, rivedeva a ogni salita la luce del sole. Dapprima ne rimaneva abbagliato; poi col respiro che traeva nel liberarsi del carico, gli aspetti noti delle cose circostanti gli balzavano davanti; restava, ancora ansimante, a guardarli un poco e, senza che n’avesse chiara coscienza, se ne sentiva confortare.
Cosa strana: della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava in agguato la morte, Ciàula non aveva paura, né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in uno stagno d’acqua sulfurea: sapeva sempre dov’era; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno.
Aveva paura, invece, del bujo vano della notte.
Conosceva quello del giorno, laggiù, intramezzato da sospiri di luce, di là dall’imbuto della scala, per cui saliva tante volte al giorno, con quel suo specioso arrangolio di cornacchia strozzata. Ma il bujo della notte non lo conosceva.
Ogni sera, terminato il lavoro, ritornava al paese con zi’ Scarda; e là, appena finito d’ingozzare i resti della minestra, si buttava a dormire sul saccone di paglia per terra, come un cane; e invano i ragazzi, quei sette nipoti orfani del suo padrone, lo pestavano per tenerlo desto e ridere della sua sciocchezza; cadeva subito in un sonno di piombo, dal quale, ogni mattina, alla punta dell’alba, soleva riscuoterlo un noto piede.
La paura che egli aveva del bujo della notte gli proveniva da quella volta che il figlio di zi’ Scarda, già suo padrone, aveva avuto il ventre e il petto squarciato dallo scoppio della mina, e zi’ Scarda stesso era stato preso in un occhio.
Giù nei varii posti a zolfo, si stava per levar mano, essendo già sera, quando s’era sentito il rimbombo tremendo di quella mina scoppiata. Tutti i picconieri e i carusi erano accorsi sul luogo dello scoppio; egli solo, Ciàula, atterrito, era scappato a ripararsi in un antro noto soltanto a lui.
Nella furia di cacciarsi là, gli s’era infranta contro la roccia la lumierina di terracotta, e quando alla fine, dopo un tempo che non aveva potuto calcolare, era uscito dall’antro nel silenzio delle caverne tenebrose e deserte, aveva stentato a trovare a tentoni la galleria che lo conducesse alla scala; ma pure non aveva avuto paura. La paura lo aveva assalito, invece, nell’uscir dalla buca nella notte nera, vana.
S’era messo a tremare, sperduto, con un brivido per ogni vago alito indistinto nel silenzio arcano che riempiva la sterminata vacuità, ove un brulichio infinito di stelle fitte, piccolissime, non riusciva a diffondere alcuna luce.
Il bujo, ove doveva essere lume, la solitudine delle cose che restavan lì con un loro aspetto cangiato e quasi irriconoscibile, quando più nessuno le vedeva, gli avevano messo in tale subbuglio l’anima smarrita, che Ciàula s’era all’improvviso lanciato in una corsa pazza, come se qualcuno lo avesse inseguito.
Ora, ritornato giù nella buca con zi’ Scarda, mentre stava ad aspettare che il carico fosse pronto, egli sentiva a mano a mano crescersi lo sgomento per quel bujo che avrebbe trovato, sbucando dalla zolfara. E più per quello, che per questo delle gallerie e della scala, rigovernava attentamente la lumierina di terracotta.
Giungevano da lontano gli stridori e i tonfi cadenzati della pompa, che non posava mai, né giorno né notte. E nella cadenza di quegli stridori e di quei tonfi s’intercalava il ruglio sordo di zi’ Scarda, come se il vecchio si facesse ajutare a muovere le braccia dalla forza della macchina lontana.
Alla fine il carico fu pronto, e zi’ Scarda ajutò Ciàula a disporlo e rammontarlo sul sacco attorto dietro la nuca.
A mano a mano che zi’ Scarda caricava, Ciàula sentiva piegarsi, sotto, le gambe. Una, a un certo punto, prese a tremargli convulsamente così forte che, temendo di non più reggere al peso, con quel tremitìo, Ciàula gridò:
– Basta! basta!
– Che basta, carogna! – gli rispose zi’ Scarda.
E seguitò a caricare.
Per un momento la paura del bujo della notte fu vinta dalla costernazione che, così caricato, e con la stanchezza che si sentiva addosso, forse non avrebbe potuto arrampicarsi fin lassù. Aveva lavorato senza pietà tutto il giorno. Non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora; ma sentiva che, proprio, non ne poteva più.
Si mosse sotto il carico enorme, che richiedeva anche uno sforzo d’equilibrio. Sì, ecco, sì, poteva muoversi, almeno finché andava in piano. Ma come sollevar quel peso, quando sarebbe cominciata la salita?
Per fortuna, quando la salita cominciò, Ciàula fu ripreso dalla paura del bujo della notte, a cui tra poco si sarebbe affacciato.
Attraversando le gallerie, quella sera, non gli era venuto il solito verso della cornacchia, ma un gemito raschiato, protratto. Ora, su per la scala, anche questo gemito gli venne meno, arrestato dallo sgomento del silenzio nero che avrebbe trovato nella impalpabile vacuità di fuori.
La scala era così erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all’ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto.
Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava di sopra, e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva su, su, su, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassù lassù si apriva come un occhio chiaro, d’una deliziosa chiarità d’argento.
Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
Possibile?
Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.
Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna… C’era la Luna! la Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.” (Ciàula scopre la luna, Luigi Pirandello)
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