Protezione navale
C’è stata stragettina, qualche giorno fa, una decina, forse più, si fecero cogliere da tormenta di mare e la barchetta non resse. Taluno fu superstite e raccontò i fatti. Non è dato a sapere a chi, c’era grande interesse d’altro, televoto a contestazione multipla, polemica su quale fa canzone che suona meglio. Nemmeno si parla del suicidio di Ousmane Sylla, di bimba che chiede aiuto per bomba in testa. E nemmeno io voglia di parlarne ne ho, pensate se ne ho di scrivere. E prendo cosa vecchia, a dedica di chi fugge, a dedica di chi non esiste se non per propria esclusiva consapevolezza di disperazione.
“C’è non si sa quale soave mistero in questo mare, le cui movenze delicatamente tremende paiono dir d’una qualche anima che là sotto si celi… Ed è appropriato che sopra questi pascoli marini, sopra il vasto rollio di quest’acquee praterie, sopra questi campi del vasaio dei quattro continenti, le onde s’alzino e s’abbassino e fluiscano e rifluiscano incessantemente, poiché qui milioni d’ombre e di parvenze si mescolano, sogni annegati, sonnambulismi, fantasticherie e tutto ciò che chiamiamo vite e anime qui giacciono sognando, sognando, sempre…” (Herman Melville)
Pare che si faccia contraddizione autentica quella lastra piatta piatta che ho davanti stamattina. Non sono ancora le otto, qui, coi piedi a mollo sulla rena, mi guardo intorno e non vedo nessuno. Non soffia niente, non c’è un alito di niente. Pare tutto fermo.
Non c’è un suono che sia uno, nemmeno di risacca, corrente di marea. Fermo, tutto pare fermo. C’è solo quella piatta superficie che arriva all’infinito, e laggiù un’ombra che copre l’orizzonte, per tutta la sua lunghezza. Forse è libeccio che cerca uno spiraglio per passare, per tirare per aria sabbia rossa, farsi bufera e farla finita con tutto sto stare fermo, immobile.
Sto zitto, e con chi devo parlare che non c’è nessuno. Lontano c’è una nave, una di quelle grosse, s’è confusa con la macchia scura in fondo. Forse è una portacontainer, una di quelle cariche ad uovo, che non affondano mai tanto sono grosse, nemmeno se il fortunale la prende a sberle. Quella porta merce e la merce è sacra. Per quella si spende a metterla al sicuro, deve arrivarci dentro, farsi respiro, entrarci nel sangue e nei polmoni. Per quella c’è rigore, un tanto al chilo per protezione, e se il fortunale non intende ragioni, rema contro ché non conosce vizi obbligati, c’è qualche assicurazione che paga per un altro sbarco, a distanza breve dal previsto precedente. Che la merce mai ci deve mancare, quella la paghiamo a debito di sangue e sudore, che chi ce la vende non abbia a patirne assenza. La merce sempre ci arriva. E se non sei merce, e provi ad arrivare non ce la fai, pure se sei un bimbo da niente, che quella lastra piatta sempre così non è, ti rovescia la barca a colpo di tempesta, che quella manco a brezzolina leggera regge. C’è il caso che manco parti, che c’è ad impedimento di ultimo viaggio accordissimo di potenti, che a mare non s’annega, semmai crepa a sete e fame di deserto. E se ti scappa lo schiribizzo che arrivi, allora non sfuggi a destino esatto che diventasti merce pure tu, a far da schiavo fuori da occhio indiscreto.
Poi arrivò gente, fecero rumore di parlottio. Me ne vado.
“Il dramma è finito. Perché allora qualcuno si fa avanti?… Perché uno scampò al naufragio.
Capitò che dopo la sparizione del Parsi, io fui quello che i Fati destinarono a prendere il posto del prodiere di Achab, quando questo prodiere assunse il posto vacante; e io fui quello che, quando l’ultimo giorno i tre furono sbalzati in acqua dall’urto, cadde a poppa.
Così, galleggiando sul margine della scena che seguì, e dominandola tutta, quando il risucchio semispento della nave affondata mi prese, fui allora tirato, ma lentamente, verso il vortice che si chiudeva. Quando ci arrivai, s’era placato in un pantano di spuma. Torno torno, allora, e sempre attratto dal nero bottone della bolla, all’asse di quel cerchio che roteava lento, girai come un altro Issione. Finché, nel toccare quel centro vitale, la bolla nera esplose; e ora, sganciata dalla sua molla ingegnosa, e saltando a galla con forza per essere così leggera, la
cassa da morto-salvagente balzò quant’era lunga dal mare, ricadde, e mi galleggiò accanto. Sostenuto da quella bara, per quasi tutto un giorno e una notte, galleggiai su un mare morbido e funereo. Senza toccarmi, i pescicani mi guizzavano accanto come avessero lucchetti alle bocche; i falchi selvaggi del mare passavano coi becchi inguainati. Il secondo.210
giorno, una vela mi venne vicina, sempre più vicina, e mi raccolse alla fine. Era la Rachele che andava bordeggiando, e che nel rifare la sua rotta in cerca dei figli perduti, trovò solo un altro orfano.” (Herman Melville)