Protezione navale

C’è stata stragettina, qualche giorno fa, una decina, forse più, si fecero cogliere da tormenta di mare e la barchetta non resse. Taluno fu superstite e raccontò i fatti. Non è dato a sapere a chi, c’era grande interesse d’altro, televoto a contestazione multipla, polemica su quale fa canzone che suona meglio. Nemmeno si parla del suicidio di Ousmane Sylla, di bimba che chiede aiuto per bomba in testa. E nemmeno io voglia di parlarne ne ho, pensate se ne ho di scrivere. E prendo cosa vecchia, a dedica di chi fugge, a dedica di chi non esiste se non per propria esclusiva consapevolezza di disperazione.

C’è non si sa quale soave mistero in questo mare, le cui movenze delicatamente tremende paiono dir d’una qualche anima che là sotto si celi… Ed è appropriato che sopra questi pascoli marini, sopra il vasto rollio di quest’acquee praterie, sopra questi campi del vasaio dei quattro continenti, le onde s’alzino e s’abbassino e fluiscano e rifluiscano incessantemente, poiché qui milioni d’ombre e di parvenze si mescolano, sogni annegati, sonnambulismi, fantasticherie e tutto ciò che chiamiamo vite e anime qui giacciono sognando, sognando, sempre…” (Herman Melville)

Pare che si faccia contraddizione autentica quella lastra piatta piatta che ho davanti stamattina. Non sono ancora le otto, qui, coi piedi a mollo sulla rena, mi guardo intorno e non vedo nessuno. Non soffia niente, non c’è un alito di niente. Pare tutto fermo.

Non c’è un suono che sia uno, nemmeno di risacca, corrente di marea. Fermo, tutto pare fermo. C’è solo quella piatta superficie che arriva all’infinito, e laggiù un’ombra che copre l’orizzonte, per tutta la sua lunghezza. Forse è libeccio che cerca uno spiraglio per passare, per tirare per aria sabbia rossa, farsi bufera e farla finita con tutto sto stare fermo, immobile.

Sto zitto, e con chi devo parlare che non c’è nessuno. Lontano c’è una nave, una di quelle grosse, s’è confusa con la macchia scura in fondo. Forse è una portacontainer, una di quelle cariche ad uovo, che non affondano mai tanto sono grosse, nemmeno se il fortunale la prende a sberle. Quella porta merce e la merce è sacra. Per quella si spende a metterla al sicuro, deve arrivarci dentro, farsi respiro, entrarci nel sangue e nei polmoni. Per quella c’è rigore, un tanto al chilo per protezione, e se il fortunale non intende ragioni, rema contro ché non conosce vizi obbligati, c’è qualche assicurazione che paga per un altro sbarco, a distanza breve dal previsto precedente. Che la merce mai ci deve mancare, quella la paghiamo a debito di sangue e sudore, che chi ce la vende non abbia a patirne assenza. La merce sempre ci arriva. E se non sei merce, e provi ad arrivare non ce la fai, pure se sei un bimbo da niente, che quella lastra piatta sempre così non è, ti rovescia la barca a colpo di tempesta, che quella manco a brezzolina leggera regge. C’è il caso che manco parti, che c’è ad impedimento di ultimo viaggio accordissimo di potenti, che a mare non s’annega, semmai crepa a sete e fame di deserto. E se ti scappa lo schiribizzo che arrivi, allora non sfuggi a destino esatto che diventasti merce pure tu, a far da schiavo fuori da occhio indiscreto.
Poi arrivò gente, fecero rumore di parlottio. Me ne vado.

“Il dramma è finito. Perché allora qualcuno si fa avanti?… Perché uno scampò al naufragio.
Capitò che dopo la sparizione del Parsi, io fui quello che i Fati destinarono a prendere il posto del prodiere di Achab, quando questo prodiere assunse il posto vacante; e io fui quello che, quando l’ultimo giorno i tre furono sbalzati in acqua dall’urto, cadde a poppa.

Così, galleggiando sul margine della scena che seguì, e dominandola tutta, quando il risucchio semispento della nave affondata mi prese, fui allora tirato, ma lentamente, verso il vortice che si chiudeva. Quando ci arrivai, s’era placato in un pantano di spuma. Torno torno, allora, e sempre attratto dal nero bottone della bolla, all’asse di quel cerchio che roteava lento, girai come un altro Issione. Finché, nel toccare quel centro vitale, la bolla nera esplose; e ora, sganciata dalla sua molla ingegnosa, e saltando a galla con forza per essere così leggera, la
cassa da morto-salvagente balzò quant’era lunga dal mare, ricadde, e mi galleggiò accanto. Sostenuto da quella bara, per quasi tutto un giorno e una notte, galleggiai su un mare morbido e funereo. Senza toccarmi, i pescicani mi guizzavano accanto come avessero lucchetti alle bocche; i falchi selvaggi del mare passavano coi becchi inguainati. Il secondo.210
giorno, una vela mi venne vicina, sempre più vicina, e mi raccolse alla fine. Era la Rachele che andava bordeggiando, e che nel rifare la sua rotta in cerca dei figli perduti, trovò solo un altro orfano.” (Herman Melville)

Nella musica, nelle onde

«Fabbricare, fabbricare, fabbricare
Preferisco il rumore del mare
Che dice fabbricare fare disfare
Fare e disfare è tutto un lavorare
Ecco quello che so fare.
»
(Dino Campana)

Se ci sono parole giuste, messe in fila come devono stare, quale è il senso d’aggiungerne altre?
Se pure la musica non pare abbisognare d’altro che non sia se stessa, e le immagini raccontano d’infinito e basta, evocano terra di Lestrigoni, regni di Poseidone, pescatori Fenici, intemperanze di Ciclopi, perché scrivere ancora?

«Quando i miei pensieri sono ansiosi, inquieti e cattivi, vado in riva al mare, e il mare li trasforma con i suoi grandi suoni larghi, li purifica con il suo rumore, e impone un ritmo su tutto ciò che in me è disorientato e confuso.» (Rainer Maria Rilke)

Le cose sono cambiate…

Mio padre era un ragazzo allora, se ne andò in una grande città del nord. Si usava così. Ci rimase un paio d’anni, io ancora non c’ero. Nei portoni c’era scritto «non si affitta ai meridionali». Lui, in fondo, non c’era andato con la valigia di cartone come tanti altri. Era in una posizione, diciamo, più comoda. Divise la casa che trovò con un ragazzo romagnolo con cui strinse sincera e lunghissima amicizia. La madre di lui, saputa di quella anomala convivenza, passava le giornate a piangere. Le sorti del figlio le parvero segnate. Poi lo conobbe, mio padre intendo. Cambiò umore e le si affezionò. Non le era chiaro come fossero le cose. Quando sono nato lui era già tornato, ma quel tale di Romagna mi tenne a battesimo. Ne sono passati di anni. Le cose paiono cambiate, forse, forse sono cambiate.

Un giorno sono partito anch’io, con un paio di valigie. Mi sono lasciato alle spalle il Mare d’Africa, salato come quella certa lacrima che versai. Lo salutai senza dire niente – tanto lui capisce – dallo scoglio dove torno spesso.

Dove sono arrivato, cartelli come quelli che trovava mio padre non ce n’erano, magari non ci sono mai stati, credo. Trovare casa però mi risultò difficile, i prezzi parevano altissimi, roba che col mio stipendio non mi potevo permettere. Mi accomodai a più di un’ora dalla scuola dove insegnavo, da un amico fraterno di quel posto. Fu lui che mi trovò casa. Partì una mattina con me, io me ne andai a lavorare e ad ora di pranzo aveva già concordato tutto. La sera ero bello che accomdodato. le cose cambiano, e si che cambiano, forse, forse sono cambiate. Ero così appagato che prima che pensare alla cena m’ero comprato un libro in una libreria che ora non c’è più. Ne sono rimaste poche librerie in giro. Qui nessuna. Ma quella sera lessi, finché non tornò l’alba.

“Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero.

Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito.” (Jose Saramago)

Buon viaggio, oggi si annega!

C’è non si sa quale soave mistero in questo mare, le cui movenze delicatamente tremende paiono dir d’una qualche anima che là sotto si celi… Ed è appropriato che sopra questi pascoli marini, sopra il vasto rollio di quest’acquee praterie, sopra questi campi del vasaio dei quattro continenti, le onde s’alzino e s’abbassino e fluiscano e rifluiscano incessantemente, poiché qui milioni d’ombre e di parvenze si mescolano, sogni annegati, sonnambulismi, fantasticherie e tutto ciò che chiamiamo vite e anime qui giacciono sognando, sognando, sempre…” (Herman Melville)

Pare che si faccia contraddizione autentica quella lastra piatta piatta che ho davanti stamattina. Non sono ancora le otto, qui, coi piedi a mollo sulla rena, mi guardo intorno e non vedo nessuno. Non soffia niente, non c’è un alito di niente. Pare tutto fermo.

Non c’è un suono che sia uno, nemmeno di risacca, corrente di marea. Fermo, tutto pare fermo. C’è solo quella piatta superficie che arriva all’infinito, e laggiù un’ombra che copre l’orizzonte, per tutta la sua lunghezza. Forse è libeccio che cerca uno spiraglio per passare, per tirare per aria sabbia rossa, farsi bufera e farla finita con tutto sto stare fermo, immobile.

Sto zitto, e con chi devo parlare che non c’è nessuno. Lontano c’è una nave, una di quelle grosse, s’è confusa con la macchia scura in fondo. Forse è una portacontainer, una di quelle cariche ad uovo, che non affondano mai tanto sono grosse, nemmeno se il fortunale la prende a sberle. Quella porta merce e la merce è sacra. Per quella si spende a metterla al sicuro, deve arrivarci dentro, farsi respiro, entrarci nel sangue e nei polmoni. Per quella c’è rigore, un tanto al chilo per protezione, e se il fortunale non intende ragioni, rema contro ché non conosce vizi obbligati, c’è qualche assicurazione che paga per un altro sbarco, a distanza breve dal previsto precedente. Che la merce mai ci deve mancare, quella la paghiamo a debito di sangue e sudore, che chi ce la vende non abbia a patirne assenza. La merce sempre ci arriva. E se non sei merce, e provi ad arrivare non ce la fai, pure se sei un bimbo da niente, che quella lastra piatta sempre così non è, ti rovescia la barca a colpo di tempesta, che quella manco a brezzolina leggera regge. C’è il caso che manco parti, che c’è ad impedimento di ultimo viaggio accordissimo di potenti, che a mare non s’annega, semmai crepa a sete e fame di deserto. E se ti scappa lo schiribizzo che arrivi, allora non sfuggi a destino esatto che diventasti merce pure tu, a far da schiavo fuori da occhio indiscreto.
Poi arrivò gente, fecero rumore di parlottio. Me ne vado.

“Il dramma è finito. Perché allora qualcuno si fa avanti?… Perché uno scampò al naufragio.
Capitò che dopo la sparizione del Parsi, io fui quello che i Fati destinarono a prendere il posto del prodiere di Achab, quando questo prodiere assunse il posto vacante; e io fui quello che, quando l’ultimo giorno i tre furono sbalzati in acqua dall’urto, cadde a poppa.

Così, galleggiando sul margine della scena che seguì, e dominandola tutta, quando il risucchio semispento della nave affondata mi prese, fui allora tirato, ma lentamente, verso il vortice che si chiudeva. Quando ci arrivai, s’era placato in un pantano di spuma. Torno torno, allora, e sempre attratto dal nero bottone della bolla, all’asse di quel cerchio che roteava lento, girai come un altro Issione. Finché, nel toccare quel centro vitale, la bolla nera esplose; e ora, sganciata dalla sua molla ingegnosa, e saltando a galla con forza per essere così leggera, la
cassa da morto-salvagente balzò quant’era lunga dal mare, ricadde, e mi galleggiò accanto. Sostenuto da quella bara, per quasi tutto un giorno e una notte, galleggiai su un mare morbido e funereo. Senza toccarmi, i pescicani mi guizzavano accanto come avessero lucchetti alle bocche; i falchi selvaggi del mare passavano coi becchi inguainati. Il secondo.210
giorno, una vela mi venne vicina, sempre più vicina, e mi raccolse alla fine. Era la Rachele che andava bordeggiando, e che nel rifare la sua rotta in cerca dei figli perduti, trovò solo un altro orfano.” (Herman Melville)

La strada giusta

“Cos’è quella sensazione che si prova quando ci si allontana in macchina dalle persone e le si vede recedere nella pianura fino a diventare macchioline e disperdersi? – è il mondo troppo grande che ci sovrasta, è l’addio. Ma intanto ci si proietta in avanti verso una nuova folle avventura sotto il cielo.” (Jack Kerouac)

Io strade ritte non ne percorro, mi pare che la traiettoria scontata mi neghi cose che non vorrei perdere, non mi aggradano le indicazioni per convenzione. Ma talora commetto errori che poi fanno a camuffarsi in danni irreparabili. L’unica cosa che danni non ne fa è la musica buona, quella resta a prescindere.
Insomma, a farla breve, io me ne torno a casa sempre per vie traverse ché la coda al casello non è cosa che mi si confà, nemmeno la brodaglia d’autogrill, il Camogli di sostentamento. Io – e mi pare che già ne parlai – mi faccio le vie traverse, quelle che salgono e scendono, si fanno crinale e vallata, guadano fiumi remoti e frescure boschive, s’affacciano ad impervie scogliere o scelgono chete acque di lago. Arrivo quando arrivo, mi dico sempre, che scopo del viaggio – e pure questo vi raccontai – non pare quello, almeno a me. Mi fermo a barettini dimenticati di borghi spopolati, bettole al margine di foreste, e se ho voglia d’andare vado, faccio come mi pare.

Stavolta, causa astinenza da scoglio, feci azzardi autostradali, pure se m’attrezzai di pane e pecorino buoni per evitare tentazioni da stazione di servizio. Imbottigliato a cantiere, a sole cocente, preda d’incidente per idiota a sorpasso tutti e arrivo primo, mi feci sedici ore piene di guida che, a congiungimento di terra natia, si trasformarono in tormenti di sciatica. Dunque, oggi, causa abietto male e deambulazione negata, niente scoglio.

Fortuna volle che taluni d’affetto mantengono comprensione e contatto. E vecchio amico si propose d’andarmi a prender pesce buono da pescator cortese, fornitore ufficiale d’ogni specie ittica. Che quello, appena seppe che il bottino d’abisso era per me, tirò fuori pacchettone di surra di tonno che ad altri non aggrada, forse nemmeno seppero che esistette. Tale denominazione appartiene al grasso puro ch’avvolge la cavità addominale, allo scarto di pesce che si butta. Non per me, nemmeno per raffinatissimo conoscitore di gusto profondo di mare, intenso di sale, negletto d’emarginazione. Ed io seppi approfittarne e vi dico pure come che magari faccio scuola e, se vi capita d’aver complice di pesca, fatevi mettere da parte la surra (poiché ho idea che si chiami così solo da queste parti, dite ventresca).
Le fettine sottili le saltai in padella con delicatissima cipolla di Giarratana, e basta. Il sale, giustappunto, ed un peperoncino rosso da palato incatramato, a far capolino tra foglioline di menta raccattate superstiti in un vaso da balcone. Le parti a bocconcino le feci ancor più piccole, per la pasta. Ma vi do gli ingredienti in ordine di come mi viene: per prima la surra di cui sopra, appunto, ospite d’onore; una bella melanzana non plasticosa da supermercato, fortuna che sotto il balcone ci ho Nino col carrettino che vende quello che coltiva lui stesso medesimo, che ad impedimento di deambulazione Nino è praticamente un presidio terapeutico, bisognerebbe lo passasse la mutua, per qualità gli facessero Nobel dedicato; aglio q.b. (pure quello di Nino); peperoncino rosso da treccia, q.b. che nello specifico vuol dire assai; il cappero solitario di timpa fatto da Agata del mercato contadino, ne avevo giusto un vasetto in salamoia intonso in dispensa; due bicchieri di vino rosso e corposo, pure quello a sapore di terra e sale; menta; tagliatelle fatte in casa (queste me le feci portare dalla sorellina che s’accomodò anch’essa al desco). Dapprima si buttano a calor bianco d’olio contadinesco – spremuto a freddo da oliva giustissima e finito a fiamma d’inferno – tocchetti piccoli d’una melanzana intera, con spicchio d’aglio campagnolo. Non so se avete presente l’aglio da supermercato, com’è precisissimo nella sua camicia di forza, come si pulisce bene e si spoglia d’abbigliamenti interi. Talora manifesta un’anima verde, che serve a finzione di una qualche vita presunta ed indigesta. Quello contadino è, invece, monello, piccolo, grinzoso, zozzo di terra, si scamicia difficile, pare ancora abbarbicato al suolo, vende cara la pelle. A farne un trito si fatica pure di vista. Ma al contrario del primo dona gusti ed effluvi che pare d’essere a banchetto d’Olimpo. A bronzatura quasi completa dell’ortaggio, si aggiunge capperi e peperoncino, quindi si fa matrimonio perfetto con quadratini a iosa della suddetta surra. In attesa che tutti gli ingredienti completino lo sposalizio a formar famiglia promiscua – questa m’è scappata, che rischio censure per chi detiene indicatori di merito e permesso esclusivo di crocettare risposta giusta e sbagliata – si versa a gargarozzo il primo bicchiere di vino. Si butta pure giù la pasta, che essendo fresca fa a cuocere rapida. La scolo un attimo prima che faccia il suo corso di cottura per completarla insieme al resto della banda a padellone, con un goccio d’acqua di cottura. Infine, nel mentre butto giù anche il secondo bicchiere, impiatto, che è operazione complicatissima, da funambolo far le due cose insieme, e completo con spolvero di foglioline di menta così da spargere profumi fino allo scoglio mio, che sappia che sono nelle vicinanze e non mancherò, a deambulazione precisa riacquistata, di raggiungerlo.

Del tempo che fu ce ne rimase

Nostalgia del tempo che fu? Non so, non credo, non so rispondere. Certo ci penso, poi non trovo risposte. Ché fu tempo di miseria autentica, mica quella si può rimpiangere. Ma a scanso d’equivoco, anche per correttezza nei confronti di chi si troverà qui, per scelta o per sbaglio, a leggiucchiare miei sproloqui, dirò che non so se sarò breve. Vi prometto, qualora decideste di rimanere, che mi farò più lieve di musica, pure di qualche immagine.

Saranno passati vent’anni e mio padre se n’era appena andato. M’ero rimesso in auto per tornare in lidi di Mar d’Africa per una breve vacanza. Mia sorella mi chiamò, mi disse che dovevo andare da quel tal notaio per una firma, una cosa che riguardava parenti del paese d’origine di mio padre, parenti che a stento conoscevo, con cui i rapporti erano sporadici, diluiti, meglio, inesistenti. Non ebbi tempo di sapere altro, la comunicazione s’interruppe e non vi fu verso di chiarire l’inghippo oltre al fatto che lei aveva già provveduto. Tirai il collo alla vecchia Citroen che già da tempo sbuffava di stanchezza, chiedeva l’eutanasia della meritata rottamazione, ma arrivai ad orario tale che mi resi conto di farcela a sbrigare la faccenda di famiglia. Mi toglievo il pensiero, ché l’indomani era destino di mare e pesce fresco che mi volevo garantire. Sfatto da quindici ore di guida mi presentai allo studio che stava quasi per smobilitare per la cena. Mi fecero accomodare ed il notaio mi parve simpatico. L’avrei ritrovato quindici anni dopo per firmare l’acquisto della mia casa di giù, la prima in vita che potevo permettermi, pure se ancora mi tocca di pagare. Era di proprietà di 46 persone, eredi tutti ultra ottuagenari del vecchio proprietario. All’atto ce n’erano diciassette, ciascuno con la delega di qualcun altro. Il vecchio notaio, smilzo e sorridente, pareva divertito per quel vociare scomposto. “Che lavoro faccio? – disse – Non è granché metter bolli e ceralacche, ma certe scene mi ripagano.” Nell’occasione precedente, invece, tirò fuori un librone d’atti e mi chiese se volevo che me lo leggesse. In realtà m’andava un bicchier di vino ed una scaccia, poi di andare a letto, dunque dissi che già era passata mia sorella per quanto di sua pertinenza e che avrei firmato quel che c’era da firmare, mi fidavo. Così feci, poi mi chiese se avessi due Euro. Gliele diedi distrattamente, pensando ad una qualche parcella. Quello me ne rese cinquanta tirati fuori da una busta. “L’eredità – aggiunse – fa quarantotto Euro, lei è l’ultimo”. A quel punto, perplesso, chiesi lumi, più per curiosità che per interesse autentico. Per farla breve, tal architetto del settentrione aveva notato certi vani aggrottati e diruti, lì, da quelle parti, e ci voleva far qualcosa. Per cui aveva incaricato di cercare eredi di quell’abituro e, dopo complesse ricerche ed opportune valutazioni catastali, se n’erano reperiti in numero di quasi duecento, nessuno dei quali consapevole d’essere possessore d’un rifugio neolitico. Mi misi a ridere, la stessa cosa fece lui, salutandomi con un “non li spenda tutti insieme, mi raccomando.” Ci lasciammo così. Tornai a casa e pensai a fatti di dopo guerra, roba che leggi e che, a spizzichi e bocconi, qualcuno ti racconta. Lì molti vivevano nelle grotte, pure parenti miei se ne stavano come le bestie, e non nel medioevo o nella preistoria, in un’Italia già repubblicana. S’erano assommati gli abbandoni fascisti di borghi poveri e antichi, le macerie delle battaglie del grano, i bombardamenti d’acqua sul bagnato degli alleati. Ma ci fu movimento di grandi intellettuali, da Brancati a Guttuso, Pasolini, pure Quasimodo e Vittorini, financo Montale e la Morante, mi pare, ci fossero che si diedero convegno lì, a denunciare al mondo intero che a Scicli – così si chiama il paese, oggi una cartolina illustrata a favore di Montalbano – la gente viveva nelle grotte. E fu cosa che indusse a rapide ricostruzioni, come accadde anche a Matera per illuminata volontà d’Adriano Olivetti.

Perché vi racconto questa cosa? Perché mi sovviene a mente un fatto di cronaca, proprio d’un paio di giorni fa. Una giovane donna, gravemente malata, muore di freddo dentro una canadese sotto un ponte di Firenze, Si chiamava Rossella, aveva quarant’anni, soffriva ai reni, entrava ed usciva dall’ospedale per dialisi sempre più frequenti. Dormiva lì col suo fidanzato, un senegalese più giovane di lei. Morta lì, di stenti, di malattia, non d’altro, circondata da un tappeto degli unici farmaci che potevano darle un qualche sollievo, i pacchetti di sigarette, i cartoni di vino. Morta d’indifferenza. Non m’aspetto molto da politicume che pare assai attento a farsi social, a cercar sgambetto al prossimo proprio, ma nemmeno c’è pletora di intellettuali a dichiarare che, nel 2022, quasi 2023, ancora c’è chi vive e muore in una tenda sotto un ponte. Parecchi, piuttosto, s’affermano tali a far cagnara in certe baraccopoli tirate su abusive in salotti TV.

A specchio, lo sguardo mancato

Non c’è progresso fermo e irreversibile in questa vita; non avanziamo per gradi fissi verso l’ultima pausa finale: attraverso l’incanto inconscio dell’infanzia, la fede spensierata dell’adolescenza, il dubbio della gioventù (destino comune), e poi lo scetticismo, e l’incredulità, per fermarci alla fine, maturi, nella pace pensosa del Forse. No, una volta arrivati alla fine ripercorriamo la strada, e siamo eternamente bambini, ragazzi, uomini e Forse. Dov’è l’ultimo porto da cui non salperemo mai più? In quale etere estatico naviga il mondo, di cui i più stanchi non si stancano mai?” (Herman Melville)

Che questa è terra che di bellezza fece sua condanna inesausta, che di figli che sono suoi e che tali si sentono, farà per forza a meno, che non c’era scampo a partenza. E come fratello, padre, madre, sorella, Lui è a sommo d’arguzia di sapere, di temere destino d’altri prossimi, che ad esorcismo esatto dell’io so, sostituisce il non dico che sarà strappo furibondo, mancanza di vertigine. Questa è terra che di bellezza fece condanna suprema, che mai vi fu a goderne senza patimento estremo di chi seppe coglierla. Fu terra che accolse pure chi non meritava accoglimento, che ricambiò cortesia d’ospitalità con violenza di fare sorprendente d’inumano. Quelli rimasero, a perpetrare l’orrore della trasformazione d’abbrutimento. Chi seppe che doveva stare a goderne non ebbe strumento di sopravvivenza, quale esiliato dovette muoversi a cercare tesori d’effimero, porto salvo, come per veleggiare di barcaccia fenicia di pescatori di tormente, rossi di sangue e di porpore di murici. Terra che respinse i suoi figli d’altra sponda che Lui voleva salvare da deriva. Talora, Lui se ne fece carico, ch’è dato meglio una sofferenza d’istanti, tra le braccia di sale generatore che l’orrenda, eterna, reprimenda dei vivi già morti, ad accusar d’essere nati a sponda diversa da quella data per giusta. Questa fu, è, sarà terra che fa a prezzo di strozzo prestito di bellezza, e pretende pagamento esoso per essersene imbattuti a coincidenza d’esservi nati.


E quelli che vi giunsero non furono accolti se non per essere vilipesi, quando non vi giunsero armi in pugno, a dettar legge del più forte sono io, che detti vennero blanditi. Ed altri che noi fummo andarono e non si fermarono se non per voltarsi a riempire ogni vena, ogni arteria, il più piccolo capillare d’eterna, infinita nostalgia. Eppure fummo noi a dire nave non salpa a salvar vite, a far ciò che serve a nave che si fece varo, abbracciare altre terre, altre genti, sollevare da flutto, e non per cima tesa ad ancoraggio a porto salvo per bufera, ma per diktat a rifiuto di sguardo a specchio.

In poche parole

Cercava un’anima che meritasse di partecipare all’universo…” (Jorge Luis Borges, Le rovine circolari)

Rimane rassegnazione per la perdita del senso di meraviglia, che pure chi sostiene di averla, talora, confonde quella con sussieguoso adeguarsi. Senza meraviglia è solo lotta intestina di tutti contro tutti. Nella sua riscoperta si gioca il desiderio di trasferire se stessi in identità invisibili. Diventare nessuno, riscoprirsi nessuno, è passo necessario per sottrarsi alla barbarie, diventare nessuno è parte del viaggio verso l’essere nel tutto.

Poi, non sono necessarie nemmeno parole giuste, solo sguardi vertiginosi.

Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta.” (Cesare Pavese)

Battigie (e migranti che – a volte – tornano)

Ché ci sono corsi e ricorsi storici, conviene tener presente quando si ripresenta cosa gradita, senza aggiungere altro a ciò che s’è detto. E siccome ricapita ciò che già accadde, ve lo racconto come già lo raccontai, semmai d’aggiorno a musica.

“A quell’ora di mattina a mare non c’è nessuno, o se qualcuno c’è è incontro pregiato, che non puoi fare se quel qualcuno è pure troppi. In troppi non c’è silenzio, nemmeno senti il mare che mugola, e si capisce che non gradisce la folla, ama rapporti esclusivi, comunque un po’ per volta. Gli altri, in troppi, sono soli. Stamattina, che il sole s’era messo appena l’abito da giorno, c’era un bluesman che vendeva granite col suo furgoncino. Mi dice che le fa con i limoni del suocero mentre mi offre un caffè freddo (caldo non lo fa). Poi si mette a suonare una Telecaster con un piccolo Marshall. Mi spiega che ha imparato una scala di Fa, anche se a me pareva che un mezzo tono di scordatura la facesse più Fa diesis. Ma suonava bene lo stesso, e se lo poteva permettere, che i clienti ancora per un paio d’ore non si sarebbero visti. C’era una schiena scura al largo, un attimo, poi è sparita, pareva un delfino, o forse era un gioco d’onde.

Mi racconta – l’aveva già fatto altre volte, ma mi faceva piacere ascoltarlo – che prima lavorava in Germania, sacrifici per i figli, “ora sono grandi e sistemati”, e lui può fare quello che gli pare, anche suonare il blues. “Sto prendendo lezioni, ma in estate preparo anche le pizze, e mi tocca che suono la mattina presto qua, se no mia moglie mi butta fuori di casa”. Un migrante, come me, che poi torna, perché si torna sempre. Mi bevo il caffè lentamente, poi pure mi faccio la sigaretta, con uno standard di Bessie Smith che suona dai vecchi altoparlanti sopra il frigo delle granite, mentre la chitarra è finita in un angolo del furgoncino. M’è sopravvenuto un pensiero in testa, pure mi serve a guadagnarmi qualcosa ancora lì di spettacolare e marino, prima che i pinguini non compiano i loro rituali d’assembramento (e non me ne vogliano i pinguini, che hanno molta più fantasia).

Migranti si è per forza, solo che si nasca in cima a un monte, oppure sullo scoglio più basso che d’alghe e sonno si riempie con la marea. Solo che ti affacci da una finestra e gli occhi se ne vanno fin dove possono – loro – per istinto, e non dove gli viene detto che possono andare. Migranti si nasce, dunque, non ci diventi solo se ti devi mettere a camminare. Se hai mare davanti, per forza sei migrante, anche se non ti piace, perché qualcuno o un’onda, che s’è contrariata di vento o bufera, lì ti ci ha portato, pure prima che tu nascessi. Hai voglia di metterti a costruire frangiflutti, tanto l’onda arriva comunque, come sorge il sole e cala la notte. Perché l’onda è ignorante, mica le puoi dire “questa è casa mia”. Non capisce, s’arrabbata un poco lì per d’intorno, prima senza dare nell’occhio, poi – se le prendono i cinque minuti – si schianta col tonfo e la schiuma sullo scoglio. Forse ti dà il tempo di scansarti, ma certe volte pure t’acchiappa di risacca. E lì è deriva, e dove ti porta lo sa il Cielo.

Questa è la storia dell’uomo. Si gioca su un’onda che scavalchi, come argonauta, sfiorando la cresta di Scilla, ballando un tanghettino stonato con Cariddi, tanto, più che un tanghero non sei, così diranno, se te ne stai su uno scoglio ad aspettare l’onda giusta. Che poi ci sta che quella non arriva mai. E pari Penelope che ricama la tela, la cuce e la riscuce, sotto sotto, è mia opinione, poi compiacendosi del reiterarsi del gesto. Magari pensa ad Ulisse che torna, e le viene da pensare “ma che gli dico a questo, dopo tutto questo tempo, se mi s’appresenta d’improvviso?”. Il fatto è che l’attesa, tanto più su uno scoglio, non è più attesa, diventa condizione dell’esistere, t’allunga pure la vita. Vedi Argo, che quando smette d’aspettare si fa il volo del Grande Tacchino nel giorno del ringraziamento, pure dopo ch’è campato quanto mai altri, praticamente tutta un’Iliade ed un’Odissea. Quindi, l’onda, quella giusta intendo, forse arriva, forse no. Ma se non arriva che ci fa? Basta che lo scoglio su cui ti sei seduto ad aspettare sia bello comodo, non di quelli unghiosi che non trovi mai la posizione. Ma che non ci sarà uno scoglio comodo davanti a tutta quell’acqua? Che poi anche tutta quell’acqua, pure salata, che ci pensi e ci ripensi, a che ti serve tutta quell’acqua salata? Di bere non si beve e ti tocca portarti un fiasco di vino rosso che è fatto con l’uva là dietro, che s’è innaffiata di salmastro, così sa di terra e pure di mare. E te ne puoi stare là tutta una vita a spiare l’orizzonte, per capire se laggiù qualcosa si muove, visto che non ti puoi muovere tu che l’onda giusta ancora non l’hai vista. Però sempre migrante resti, che t’è partita già l’anima oltre l’orizzonte, s’è fatta più d’un giro e poi è tornata. Che soddisfazione starsene fermi sullo scoglio, t’allunga la vita, mi pare l’ho detto questo”.

Radio Pirata 20 (pesce d’aprile)

Radio Pirata si fa Venti per pesce d’aprile, che è tempo di scherzo a celia elevatissima, che forse domani taluno, a reti unificate, comunica che fu gioco, giusto per due risate, che ora ci saremmo anche divertiti. Che forse comunica che domani diritto di lavoro, non a sfrutto a sangue, si riconosce a donna e uomo di pianeta intero, che è scuola per tutti, che cura è gratis, che bellezza è legge, orrore bandito, pure bomba è bandita, guerra anche a divieto, financo a sputacchio più lontano, che cambio climatico è ricordo di passato che ora non si consuma schifezza d’inutile per foresta lussureggiante spazzata a colpo di spugna, manco mare patisce ad acqua bollente per calo di spaghetti a glifosato e pomodoro a glutammato. Che quello sarebbe scherzo vero, che a sorpresa di sghignazzo si risponde a musica a tutto tondo per il mondo.

Che se è giorno di pesce, pesce sia a lisca esatta, mica a scatoletta a ricavo da bauxite.

Vedere il fondo dell’acqua
Che diventa così azzurro
Che discende tanto in basso
Con i pesci
I calmi pesci
Pascolanti sul fondo
Che si librano sopra
I capelli delle alghe
Come uccelli lenti
Come uccelli azzurri
” (Boris Vian)

Che siamo a tempo di scherzo a parecchio tanto al chilo, che conto è a rosso per bolletta, ma non vorremo noi sottrarci a gioco? Che a tempi grami risposta è a riso, che risata seppellirà financo i becchini, pure se non ce la fa, quella non è a sequestro se già l’hai fatta.

Indovina se ti riesce:
La balena non è un pesce,
Il pipistrello non è un uccello;
E certa gente, chissà perché,
Pare umana e non lo è.
” (Gianni Rodari)

Dovete sapere che prima, per questi paraggi, non l’ebbimo mai il bene di vederla morta, la fera, ma sempre e solo viva, e viva, poi, che non si contentava di essere solo viva ma viva vitaiola, che faceva la gran vita, che sarebbe divertimento e sterminio: perché capite, arrivando qua, cadeva nell’oro, pesce ne trovava d’ogni grandezza e sapore (…) che le usciva dagli occhi.

Che bisogno aveva, dopo che s’addobbava come una troia, di venirci a rovinare le reti a noi? Nessun bisogno, bisogno solo della sua natura barbara.” (Stefano D’Arrigo)

Che è stato solo gioco e scherzo, che un altro ve lo volevo fare io, che mi veniva facile oggi che è giorno deputato. Ci avevo pensato – allo scherzo, intendo – pure me l’ero appuntato su un post-it verde bile. Ma chissà perché – che devo patire d’attacchi iracondi inspiegabili – mi passo la gana, lo accartocciai e gli diedi fuoco. Che do commiato di musica, che quello non è ancora ad indice d’alto tradimento, come invece pare è pace.