Del tempo che fu ce ne rimase

Nostalgia del tempo che fu? Non so, non credo, non so rispondere. Certo ci penso, poi non trovo risposte. Ché fu tempo di miseria autentica, mica quella si può rimpiangere. Ma a scanso d’equivoco, anche per correttezza nei confronti di chi si troverà qui, per scelta o per sbaglio, a leggiucchiare miei sproloqui, dirò che non so se sarò breve. Vi prometto, qualora decideste di rimanere, che mi farò più lieve di musica, pure di qualche immagine.

Saranno passati vent’anni e mio padre se n’era appena andato. M’ero rimesso in auto per tornare in lidi di Mar d’Africa per una breve vacanza. Mia sorella mi chiamò, mi disse che dovevo andare da quel tal notaio per una firma, una cosa che riguardava parenti del paese d’origine di mio padre, parenti che a stento conoscevo, con cui i rapporti erano sporadici, diluiti, meglio, inesistenti. Non ebbi tempo di sapere altro, la comunicazione s’interruppe e non vi fu verso di chiarire l’inghippo oltre al fatto che lei aveva già provveduto. Tirai il collo alla vecchia Citroen che già da tempo sbuffava di stanchezza, chiedeva l’eutanasia della meritata rottamazione, ma arrivai ad orario tale che mi resi conto di farcela a sbrigare la faccenda di famiglia. Mi toglievo il pensiero, ché l’indomani era destino di mare e pesce fresco che mi volevo garantire. Sfatto da quindici ore di guida mi presentai allo studio che stava quasi per smobilitare per la cena. Mi fecero accomodare ed il notaio mi parve simpatico. L’avrei ritrovato quindici anni dopo per firmare l’acquisto della mia casa di giù, la prima in vita che potevo permettermi, pure se ancora mi tocca di pagare. Era di proprietà di 46 persone, eredi tutti ultra ottuagenari del vecchio proprietario. All’atto ce n’erano diciassette, ciascuno con la delega di qualcun altro. Il vecchio notaio, smilzo e sorridente, pareva divertito per quel vociare scomposto. “Che lavoro faccio? – disse – Non è granché metter bolli e ceralacche, ma certe scene mi ripagano.” Nell’occasione precedente, invece, tirò fuori un librone d’atti e mi chiese se volevo che me lo leggesse. In realtà m’andava un bicchier di vino ed una scaccia, poi di andare a letto, dunque dissi che già era passata mia sorella per quanto di sua pertinenza e che avrei firmato quel che c’era da firmare, mi fidavo. Così feci, poi mi chiese se avessi due Euro. Gliele diedi distrattamente, pensando ad una qualche parcella. Quello me ne rese cinquanta tirati fuori da una busta. “L’eredità – aggiunse – fa quarantotto Euro, lei è l’ultimo”. A quel punto, perplesso, chiesi lumi, più per curiosità che per interesse autentico. Per farla breve, tal architetto del settentrione aveva notato certi vani aggrottati e diruti, lì, da quelle parti, e ci voleva far qualcosa. Per cui aveva incaricato di cercare eredi di quell’abituro e, dopo complesse ricerche ed opportune valutazioni catastali, se n’erano reperiti in numero di quasi duecento, nessuno dei quali consapevole d’essere possessore d’un rifugio neolitico. Mi misi a ridere, la stessa cosa fece lui, salutandomi con un “non li spenda tutti insieme, mi raccomando.” Ci lasciammo così. Tornai a casa e pensai a fatti di dopo guerra, roba che leggi e che, a spizzichi e bocconi, qualcuno ti racconta. Lì molti vivevano nelle grotte, pure parenti miei se ne stavano come le bestie, e non nel medioevo o nella preistoria, in un’Italia già repubblicana. S’erano assommati gli abbandoni fascisti di borghi poveri e antichi, le macerie delle battaglie del grano, i bombardamenti d’acqua sul bagnato degli alleati. Ma ci fu movimento di grandi intellettuali, da Brancati a Guttuso, Pasolini, pure Quasimodo e Vittorini, financo Montale e la Morante, mi pare, ci fossero che si diedero convegno lì, a denunciare al mondo intero che a Scicli – così si chiama il paese, oggi una cartolina illustrata a favore di Montalbano – la gente viveva nelle grotte. E fu cosa che indusse a rapide ricostruzioni, come accadde anche a Matera per illuminata volontà d’Adriano Olivetti.

Perché vi racconto questa cosa? Perché mi sovviene a mente un fatto di cronaca, proprio d’un paio di giorni fa. Una giovane donna, gravemente malata, muore di freddo dentro una canadese sotto un ponte di Firenze, Si chiamava Rossella, aveva quarant’anni, soffriva ai reni, entrava ed usciva dall’ospedale per dialisi sempre più frequenti. Dormiva lì col suo fidanzato, un senegalese più giovane di lei. Morta lì, di stenti, di malattia, non d’altro, circondata da un tappeto degli unici farmaci che potevano darle un qualche sollievo, i pacchetti di sigarette, i cartoni di vino. Morta d’indifferenza. Non m’aspetto molto da politicume che pare assai attento a farsi social, a cercar sgambetto al prossimo proprio, ma nemmeno c’è pletora di intellettuali a dichiarare che, nel 2022, quasi 2023, ancora c’è chi vive e muore in una tenda sotto un ponte. Parecchi, piuttosto, s’affermano tali a far cagnara in certe baraccopoli tirate su abusive in salotti TV.

A specchio, lo sguardo mancato

Non c’è progresso fermo e irreversibile in questa vita; non avanziamo per gradi fissi verso l’ultima pausa finale: attraverso l’incanto inconscio dell’infanzia, la fede spensierata dell’adolescenza, il dubbio della gioventù (destino comune), e poi lo scetticismo, e l’incredulità, per fermarci alla fine, maturi, nella pace pensosa del Forse. No, una volta arrivati alla fine ripercorriamo la strada, e siamo eternamente bambini, ragazzi, uomini e Forse. Dov’è l’ultimo porto da cui non salperemo mai più? In quale etere estatico naviga il mondo, di cui i più stanchi non si stancano mai?” (Herman Melville)

Che questa è terra che di bellezza fece sua condanna inesausta, che di figli che sono suoi e che tali si sentono, farà per forza a meno, che non c’era scampo a partenza. E come fratello, padre, madre, sorella, Lui è a sommo d’arguzia di sapere, di temere destino d’altri prossimi, che ad esorcismo esatto dell’io so, sostituisce il non dico che sarà strappo furibondo, mancanza di vertigine. Questa è terra che di bellezza fece condanna suprema, che mai vi fu a goderne senza patimento estremo di chi seppe coglierla. Fu terra che accolse pure chi non meritava accoglimento, che ricambiò cortesia d’ospitalità con violenza di fare sorprendente d’inumano. Quelli rimasero, a perpetrare l’orrore della trasformazione d’abbrutimento. Chi seppe che doveva stare a goderne non ebbe strumento di sopravvivenza, quale esiliato dovette muoversi a cercare tesori d’effimero, porto salvo, come per veleggiare di barcaccia fenicia di pescatori di tormente, rossi di sangue e di porpore di murici. Terra che respinse i suoi figli d’altra sponda che Lui voleva salvare da deriva. Talora, Lui se ne fece carico, ch’è dato meglio una sofferenza d’istanti, tra le braccia di sale generatore che l’orrenda, eterna, reprimenda dei vivi già morti, ad accusar d’essere nati a sponda diversa da quella data per giusta. Questa fu, è, sarà terra che fa a prezzo di strozzo prestito di bellezza, e pretende pagamento esoso per essersene imbattuti a coincidenza d’esservi nati.


E quelli che vi giunsero non furono accolti se non per essere vilipesi, quando non vi giunsero armi in pugno, a dettar legge del più forte sono io, che detti vennero blanditi. Ed altri che noi fummo andarono e non si fermarono se non per voltarsi a riempire ogni vena, ogni arteria, il più piccolo capillare d’eterna, infinita nostalgia. Eppure fummo noi a dire nave non salpa a salvar vite, a far ciò che serve a nave che si fece varo, abbracciare altre terre, altre genti, sollevare da flutto, e non per cima tesa ad ancoraggio a porto salvo per bufera, ma per diktat a rifiuto di sguardo a specchio.

In poche parole

Cercava un’anima che meritasse di partecipare all’universo…” (Jorge Luis Borges, Le rovine circolari)

Rimane rassegnazione per la perdita del senso di meraviglia, che pure chi sostiene di averla, talora, confonde quella con sussieguoso adeguarsi. Senza meraviglia è solo lotta intestina di tutti contro tutti. Nella sua riscoperta si gioca il desiderio di trasferire se stessi in identità invisibili. Diventare nessuno, riscoprirsi nessuno, è passo necessario per sottrarsi alla barbarie, diventare nessuno è parte del viaggio verso l’essere nel tutto.

Poi, non sono necessarie nemmeno parole giuste, solo sguardi vertiginosi.

Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno. Ricordare una cosa significa vederla – ora soltanto – per la prima volta.” (Cesare Pavese)

Battigie (e migranti che – a volte – tornano)

Ché ci sono corsi e ricorsi storici, conviene tener presente quando si ripresenta cosa gradita, senza aggiungere altro a ciò che s’è detto. E siccome ricapita ciò che già accadde, ve lo racconto come già lo raccontai, semmai d’aggiorno a musica.

“A quell’ora di mattina a mare non c’è nessuno, o se qualcuno c’è è incontro pregiato, che non puoi fare se quel qualcuno è pure troppi. In troppi non c’è silenzio, nemmeno senti il mare che mugola, e si capisce che non gradisce la folla, ama rapporti esclusivi, comunque un po’ per volta. Gli altri, in troppi, sono soli. Stamattina, che il sole s’era messo appena l’abito da giorno, c’era un bluesman che vendeva granite col suo furgoncino. Mi dice che le fa con i limoni del suocero mentre mi offre un caffè freddo (caldo non lo fa). Poi si mette a suonare una Telecaster con un piccolo Marshall. Mi spiega che ha imparato una scala di Fa, anche se a me pareva che un mezzo tono di scordatura la facesse più Fa diesis. Ma suonava bene lo stesso, e se lo poteva permettere, che i clienti ancora per un paio d’ore non si sarebbero visti. C’era una schiena scura al largo, un attimo, poi è sparita, pareva un delfino, o forse era un gioco d’onde.

Mi racconta – l’aveva già fatto altre volte, ma mi faceva piacere ascoltarlo – che prima lavorava in Germania, sacrifici per i figli, “ora sono grandi e sistemati”, e lui può fare quello che gli pare, anche suonare il blues. “Sto prendendo lezioni, ma in estate preparo anche le pizze, e mi tocca che suono la mattina presto qua, se no mia moglie mi butta fuori di casa”. Un migrante, come me, che poi torna, perché si torna sempre. Mi bevo il caffè lentamente, poi pure mi faccio la sigaretta, con uno standard di Bessie Smith che suona dai vecchi altoparlanti sopra il frigo delle granite, mentre la chitarra è finita in un angolo del furgoncino. M’è sopravvenuto un pensiero in testa, pure mi serve a guadagnarmi qualcosa ancora lì di spettacolare e marino, prima che i pinguini non compiano i loro rituali d’assembramento (e non me ne vogliano i pinguini, che hanno molta più fantasia).

Migranti si è per forza, solo che si nasca in cima a un monte, oppure sullo scoglio più basso che d’alghe e sonno si riempie con la marea. Solo che ti affacci da una finestra e gli occhi se ne vanno fin dove possono – loro – per istinto, e non dove gli viene detto che possono andare. Migranti si nasce, dunque, non ci diventi solo se ti devi mettere a camminare. Se hai mare davanti, per forza sei migrante, anche se non ti piace, perché qualcuno o un’onda, che s’è contrariata di vento o bufera, lì ti ci ha portato, pure prima che tu nascessi. Hai voglia di metterti a costruire frangiflutti, tanto l’onda arriva comunque, come sorge il sole e cala la notte. Perché l’onda è ignorante, mica le puoi dire “questa è casa mia”. Non capisce, s’arrabbata un poco lì per d’intorno, prima senza dare nell’occhio, poi – se le prendono i cinque minuti – si schianta col tonfo e la schiuma sullo scoglio. Forse ti dà il tempo di scansarti, ma certe volte pure t’acchiappa di risacca. E lì è deriva, e dove ti porta lo sa il Cielo.

Questa è la storia dell’uomo. Si gioca su un’onda che scavalchi, come argonauta, sfiorando la cresta di Scilla, ballando un tanghettino stonato con Cariddi, tanto, più che un tanghero non sei, così diranno, se te ne stai su uno scoglio ad aspettare l’onda giusta. Che poi ci sta che quella non arriva mai. E pari Penelope che ricama la tela, la cuce e la riscuce, sotto sotto, è mia opinione, poi compiacendosi del reiterarsi del gesto. Magari pensa ad Ulisse che torna, e le viene da pensare “ma che gli dico a questo, dopo tutto questo tempo, se mi s’appresenta d’improvviso?”. Il fatto è che l’attesa, tanto più su uno scoglio, non è più attesa, diventa condizione dell’esistere, t’allunga pure la vita. Vedi Argo, che quando smette d’aspettare si fa il volo del Grande Tacchino nel giorno del ringraziamento, pure dopo ch’è campato quanto mai altri, praticamente tutta un’Iliade ed un’Odissea. Quindi, l’onda, quella giusta intendo, forse arriva, forse no. Ma se non arriva che ci fa? Basta che lo scoglio su cui ti sei seduto ad aspettare sia bello comodo, non di quelli unghiosi che non trovi mai la posizione. Ma che non ci sarà uno scoglio comodo davanti a tutta quell’acqua? Che poi anche tutta quell’acqua, pure salata, che ci pensi e ci ripensi, a che ti serve tutta quell’acqua salata? Di bere non si beve e ti tocca portarti un fiasco di vino rosso che è fatto con l’uva là dietro, che s’è innaffiata di salmastro, così sa di terra e pure di mare. E te ne puoi stare là tutta una vita a spiare l’orizzonte, per capire se laggiù qualcosa si muove, visto che non ti puoi muovere tu che l’onda giusta ancora non l’hai vista. Però sempre migrante resti, che t’è partita già l’anima oltre l’orizzonte, s’è fatta più d’un giro e poi è tornata. Che soddisfazione starsene fermi sullo scoglio, t’allunga la vita, mi pare l’ho detto questo”.

Radio Pirata 20 (pesce d’aprile)

Radio Pirata si fa Venti per pesce d’aprile, che è tempo di scherzo a celia elevatissima, che forse domani taluno, a reti unificate, comunica che fu gioco, giusto per due risate, che ora ci saremmo anche divertiti. Che forse comunica che domani diritto di lavoro, non a sfrutto a sangue, si riconosce a donna e uomo di pianeta intero, che è scuola per tutti, che cura è gratis, che bellezza è legge, orrore bandito, pure bomba è bandita, guerra anche a divieto, financo a sputacchio più lontano, che cambio climatico è ricordo di passato che ora non si consuma schifezza d’inutile per foresta lussureggiante spazzata a colpo di spugna, manco mare patisce ad acqua bollente per calo di spaghetti a glifosato e pomodoro a glutammato. Che quello sarebbe scherzo vero, che a sorpresa di sghignazzo si risponde a musica a tutto tondo per il mondo.

Che se è giorno di pesce, pesce sia a lisca esatta, mica a scatoletta a ricavo da bauxite.

Vedere il fondo dell’acqua
Che diventa così azzurro
Che discende tanto in basso
Con i pesci
I calmi pesci
Pascolanti sul fondo
Che si librano sopra
I capelli delle alghe
Come uccelli lenti
Come uccelli azzurri
” (Boris Vian)

Che siamo a tempo di scherzo a parecchio tanto al chilo, che conto è a rosso per bolletta, ma non vorremo noi sottrarci a gioco? Che a tempi grami risposta è a riso, che risata seppellirà financo i becchini, pure se non ce la fa, quella non è a sequestro se già l’hai fatta.

Indovina se ti riesce:
La balena non è un pesce,
Il pipistrello non è un uccello;
E certa gente, chissà perché,
Pare umana e non lo è.
” (Gianni Rodari)

Dovete sapere che prima, per questi paraggi, non l’ebbimo mai il bene di vederla morta, la fera, ma sempre e solo viva, e viva, poi, che non si contentava di essere solo viva ma viva vitaiola, che faceva la gran vita, che sarebbe divertimento e sterminio: perché capite, arrivando qua, cadeva nell’oro, pesce ne trovava d’ogni grandezza e sapore (…) che le usciva dagli occhi.

Che bisogno aveva, dopo che s’addobbava come una troia, di venirci a rovinare le reti a noi? Nessun bisogno, bisogno solo della sua natura barbara.” (Stefano D’Arrigo)

Che è stato solo gioco e scherzo, che un altro ve lo volevo fare io, che mi veniva facile oggi che è giorno deputato. Ci avevo pensato – allo scherzo, intendo – pure me l’ero appuntato su un post-it verde bile. Ma chissà perché – che devo patire d’attacchi iracondi inspiegabili – mi passo la gana, lo accartocciai e gli diedi fuoco. Che do commiato di musica, che quello non è ancora ad indice d’alto tradimento, come invece pare è pace.

Non ce n’è più

In fondo al promontorio, oltre il borgo, Pilu Rais sgrana la rete. Il mio incubo peggiore è sempre stato quando il Mar d’Africa, all’orizzonte, si tinge di blu e rosso, il caldo soffoca ed il vento arriccia le onde che tutto pare che frigge e mugugna. Ti fai le sabbiature a caldo quando il tempo è così. Il Libeccio svuota la spiaggia non solo alle mie ore consuete, quelle piccole che il sole ancora è cauto, ma anche quando la torma barbara s’ammassa sulla rena, s’agghinda di tamburelli e si sente l’odore rancido della protezione solare per vichinghi dalla pelle in tintarella di luna. “E che pesce avete preso oggi?”, dico di solito quando il tempo è così. E lui s’alza un sopracciglio, s’arruffa i capelli di salsedine e sbotta: “Vossia mi cugghiunia sempri – io abbozzo mezzo sorriso, pure m’aspetto la risposta che non voglio, ma non ce la faccio a trattenermi -. C’è Libiciu, nun si nesci cu stu tempu”.

Il libeccio non te la fa passare liscia, che le onde paiono da surfisti, non da barchette e reti leggere, che non sono quelle dei transatlantici che sostengono palamitare occhi a mandorla, quelle che si perdono per chilometri e si grattano anche lo scoglio dell’abisso finché non c’è nulla. Mi tolgo il sorriso di bocca, gli porgo il caffè raccattato al chioschetto, e m’allontano mesto, di tanto in tanto bloccando al volo il panama che non ce la fa a starsene a posto in testa, che s’è vestito d’aquilone. Il pensiero di finire con una cotoletta mi rovina la giornata, mi riporta a tristi serate d’autunno-inverno. Roba che si rischia la depressione. Mi viene l’ansia e mi metto a scorrazzare per le campagne, fermo nel rifiuto del ritorno alla stagione grigia. Formaggio, olive, pagnotte calde e pomodoro secco, m’assecondano nel dimenticare le sfortune meteo. Questo succede se c’è il Libeccio, ‘u libiciu di Pilu Rais, che non s’affronta il mare se mugugna lui. Questo succede per due o tre giorni al massimo, poi tornano sgombri e occhibelli, che rientra il ponentino, e il peggio ti pare passato, ti riappropri del tutto all’acqua pazza, dei guazzetti, della griglia. Quest’anno è diverso, che il mare pareva una lastra di metallo tirata a lucido, che te ne puoi andare a pescare anche col canotto a remi. Soffia il ponentino e il Libeccio non sfonda. Se ne vede la striscia scura in fondo in fondo, che smorza il contrasto fitto dell’orizzonte marino col cielo. Ma non passa. Sto giro non ce la fa. Che uno se ne va al moletto, oltre il paese, fiducioso di riprendersi identità arcaiche, quelle che ti fanno dentro pirata fenicio o argonauta. “E che pesce avete preso ogg?i”. Stavolta non alza manco il sopracciglio, non s’arruffa i capelli di salsedine, quasi manco gli esce la voce quando risponde: “Triglie, quattro triglie, manco di scoglio”. “Ma ora siete voi che mi cugghiuniati. Con questo mare m’aspettavo che dovevate chiamare pure i vostri nipoti per svuotare le reti”. Nemmeno risponde subito, sempre a testa bassa che lui è abituato a guardarti negli occhi, quelli neri come l’abisso che quante volte ha conosciuto, che ha affrontato le tempeste, che certi pesci ha preso che il Vecchio di Hemingway pareva dilettante allo sbaraglio, pescatore della domenica. Le rughe di sale non sono più semplici pieghe bruciate dal sole, paiono scavi di sbancamento, aratura di campi. “Non ce n’è pesce, tutto l’inverno è stato così, e così continua, pure peggio”. Poi riabbassa gli occhi, e sgrana la rete, due o tre triglie ancora.

Battigie (e migranti che tornano)

A quell’ora di mattina a mare non c’è nessuno, o se qualcuno c’è è incontro pregiato, che non puoi fare se quel qualcuno è pure troppi. In troppi non c’è silenzio, nemmeno senti il mare che mugola, e si capisce che non gradisce la folla, ama rapporti esclusivi, comunque un po’ per volta. Gli altri, in troppi, sono soli. Stamattina, che il sole s’era messo appena l’abito da giorno, c’era un bluesman che vendeva granite col suo furgoncino. Mi dice che le fa con i limoni del suocero mentre mi offre un caffè freddo (caldo non lo fa). Poi si mette a suonare una Telecaster con un piccolo Marshall. Mi spiega che ha imparato una scala di Fa, anche se a me pareva che un mezzo tono di scordatura la facesse più Fa diesis. Ma suonava bene lo stesso, e se lo poteva permettere che i clienti ancora per un paio d’ore non si sarebbero visti. C’era una schiena scura al largo, un attimo, poi è sparita, pareva un delfino, o forse era un gioco d’onde. Mi racconta – l’aveva già fatto altre volte, ma mi faceva piacere ascoltarlo – che prima lavorava in Germania, sacrifici per i figli, “ora sono grandi e sistemati”, e lui può fare quello che gli pare, anche suonare il blues. “Sto prendendo lezioni, ma in estate preparo anche le pizze, e mi tocca che suono la mattina presto qua, se no mia moglie mi butta fuori di casa”. Un migrante, come me, che poi torna, perché si torna sempre. Mi bevo il caffè lentamente, poi pure mi faccio la sigaretta, con uno standard di Bessie Smith che suona dai vecchi altoparlanti sopra il frigo delle granite, mentre la chitarra è finita in un angolo del furgoncino. M’è sopravvenuto un pensiero in testa, salvo poi accorgermi che l’avevo già scritto, che la fantasia non m’arride. Però riciclo, che non si butta via niente, pure mi serve a guadagnarmi qualcosa ancora lì di spettacolare e marino, prima che i pinguini non compiano i loro rituali d’assembramento (e non me ne vogliano i pinguini, che hanno molta più fantasia).

“Migranti si è per forza, solo che si nasca in cima a un monte, oppure sullo scoglio più basso che d’alghe e sonno si riempie con la marea. Solo che ti affacci da una finestra e gli occhi se ne vanno fin dove possono – loro – per istinto, e non dove gli viene detto che possono andare. Migranti si nasce, dunque, non ci diventi solo se ti devi mettere a camminare. Se hai mare davanti, per forza sei migrante, anche se non ti piace, perché qualcuno o un’onda, che s’è contrariata di vento o bufera, lì ti ci ha portato, pure prima che tu nascessi. Hai voglia di metterti a costruire frangiflutti, tanto l’onda arriva comunque, come sorge il sole e cala la notte. Perché l’onda è ignorante, mica le puoi dire “questa è casa mia”. Non capisce, s’arrabbata un poco lì per d’intorno, prima senza dare nell’occhio, poi – se le prendono i cinque minuti – si schianta col tonfo e la schiuma sullo scoglio. Forse ti dà il tempo di scansarti, ma certe volte pure t’acchiappa di risacca. E lì è deriva, e dove ti porta lo sa il Cielo. Questa è la storia dell’uomo. Si gioca su un’onda che scavalchi, come argonauta, sfiorando la cresta di Scilla, ballando un tanghettino stonato con Cariddi, tanto, più che un tanghero non sei, così diranno, se te ne stai su uno scoglio ad aspettare l’onda giusta. Che poi ci sta che quella non arriva mai. E pari Penelope che ricama la tela, la cuce e la riscuce, sotto sotto, è mia opinione, poi compiacendosi del reiterarsi del gesto. Magari pensa ad Ulisse che torna, e le viene da pensare “ma che gli dico a questo, dopo tutto questo tempo, se mi s’appresenta d’improvviso?”. Il fatto è che l’attesa, tanto più su uno scoglio, non è più attesa, diventa condizione dell’esistere, t’allunga pure la vita. Vedi Argo, che quando smette d’aspettare si fa il volo del Grande Tacchino nel giorno del ringraziamento e pure dopo ch’è campato quanto mai altri, praticamente tutta un’Iliade ed un’Odissea. Quindi, l’onda, quella giusta intendo, forse arriva, forse no. Ma se non arriva che ci fa? Basta che lo scoglio su cui ti sei seduto ad aspettare sia bello comodo, non di quelli unghiosi che non trovi mai la posizione. Ma che non ci sarà uno scoglio comodo davanti a tutta quell’acqua? Che poi anche tutta quell’acqua, pure salata, che ci pensi e ci ripensi, a che ti serve tutta quell’acqua salata? Di bere non si beve e ti tocca portarti un fiasco di vino rosso che è fatto con l’uva là dietro, che s’è innaffiata di salmastro, così sa di terra e pure di mare. E te ne puoi stare là tutta una vita a spiare l’orizzonte, per capire se laggiù qualcosa si muove, visto che non ti puoi muovere tu che l’onda giusta ancora non l’hai vista. Però sempre migrante resti, che t’è partita già l’anima oltre l’orizzonte, s’è fatta più d’un giro e poi è tornata. Che soddisfazione starsene fermi sullo scoglio, t’allunga la vita, mi pare l’ho detto questo”.