C’è nella musica, c’è nelle onde

Rimetto in gioco, solo per qualche frammento di struggente nostalgia, una cosarella d’una certa datatura.

«Fabbricare, fabbricare, fabbricare
Preferisco il rumore del mare
Che dice fabbricare fare disfare
Fare e disfare è tutto un lavorare
Ecco quello che so fare.
»
(Dino Campana)

Se ci sono parole giuste, messe in fila come devono stare, quale è il senso d’aggiungerne altre?
Se pure la musica non pare abbisognare d’altro che non sia se stessa, e le immagini raccontano d’infinito e basta, evocano terra di Lestrigoni, regni di Poseidone, pescatori Fenici, intemperanze di Ciclopi, perché scrivere ancora?

«Quando i miei pensieri sono ansiosi, inquieti e cattivi, vado in riva al mare, e il mare li trasforma con i suoi grandi suoni larghi, li purifica con il suo rumore, e impone un ritmo su tutto ciò che in me è disorientato e confuso.» (Rainer Maria Rilke)

A favor di vento, come frangiflutti

«Nella vita odierna, il mondo appartiene agli stupidi, agli insensibili e agli agitati. Il diritto di vivere e trionfare si conquista oggi praticamente con gli stessi procedimenti con cui si conquista il ricovero in manicomio: l’incapacità di pensare, l’amoralità e l’ipereccitazione.» (Fernando Pessoa)
C’è un tripudio di denti che digrignano, abnegazione vorace al risultato, qualunque sia, opprimente fardello d’inutile conquista. Primeggiare su cosa, su chi? Quando ancora non siamo stati capaci di occupare le nostre stesse coscienze, renderle qualcosa che somigli ad umanità desuete, farle semplicemente coscienze. Vanno così le cose, sfuggono tra le dita con la rapidità della folgore. Quella, almeno, illumina per un attimo il cielo di piombo del temporale, pure non si preoccupa del dopo, che sia fragore prossimo, brontolio lontano. Sollazzarsi del desiderio di conquista è dunque ciò che ci resta per chiamarci ancora vivi.

Eppure vissi il tempo di caccia a gettone, per telefonata improrogabile, o ci hai cento lire per ipotesi avveniristiche di contatto a tempo breve, comunicazione fugace. Ci hai na sigaretta, per una pausa sull’ultima panchina. E furibondi amori di gioventù ebbero necessità di appostamenti lunghi, quali se n’ebbero solo da pescatori di passo per lampughe e agugliate settembrine. Pure mischie di piazza, a suon di carica e livido conseguente, si fecero a chiamata collettiva per rotazione di manovella di antico ciclostile per sigillo di proclama a marchio di piombo tetraetile. Lettere ve ne furono, vergate a nero di Pelikan su carte di improbabile pregio, e si fece attesa fremente di risposta ad affrancatura per seguito ad imbuco di postino a divisa e pedale. Ve ne furono riparazioni di musicassette, rullino a sviluppo in puzzo d’acido a scantinato, roteare di vinili. Lettera 22, ad apposita fedele valigetta, fu compagna di viaggi lunghi, financo a mezzo di pollice in su. Che i tempi cambiano, non se ne stanno fermi, neppure paiono carichi di sofferenze per nostalgie d’occhi volti indietro, a sguardo a quelli che furono.

La notte provo a prendere sonno immaginando di svegliarmi ad oriente, più a sud ancora, a fare altro che non ebbe destino di rapida ascesa. Lo sguardo dentro, fisso ad un infinito che è l’ultimo viaggio, quello impossibile e necessario, l’unico che valga la pena di fare..

Tintinnii banditeschi

Ode al crucifige, al tintinnar di manette, pure al son garantista (per taluno, per altri m’aspetto impiccagione a pennone altissimo per doppia, tripla, quadrupla e multipla morale). L’urlo per giudice ad orologerie o con pendolo stonato. Il tintinnio di manette non m’affascina, non me ne frega niente che a dirla tutta conobbi masnade di farabutti che finiron ceppi ai piedi per rubar di sussistenza. Altri non conosceranno che raramente i grigi cancelli della non libertà. Il potente non merita di finir lì, non c’è abituato, tale ebbe a dire che soffre di più. S’abitua a sfarzo e non s’abituo ad altro.

Ma non auguro ad avversario di provar privazione di libertà, pur s’egli la volle fortissimamente volle per disgraziato ch’affoga e non rubò al collettivo cosmo. Non auguro prigione ch’egli non fu avversario mio ché avversario è colui che gioca sullo stesso campo ed io a terreni di palude mefitica mi sottrassi in illo tempore, non per pregiudizio, ma per post giudizio di prova comprovata come si fa a taglio di cocomero. Io ho condanna esatta per tal malfattore che non ebbe mai sazio d’aver potere, più potere, soldi oltre i soldi, con asticella di salto in alto che rimbalza un metro ed oltre, oltre il metro e più ancora. Mai si ferma come bestia vorace che non conobbe sazietà a pretender ed ottenere a gozzovigliare sul capo d’altri, financo a far privato il libero mare, la libera rena, il sommo scoglio che libero e porto salvo fu sempre d’ogni navigante colto dalla tramonta a bufera. Io ho la pena che non fu privazione di libertà, che quella non fu da uomini, io darei condanna definitiva di far vivere resto di giorni contati a lavoro con busta paga d’ultimo morto a lavoro precario, in attesa d’una pensione ch’ente di previdenza fissa a data di comune mortale e con dicitura precisa a «fine pena mai».

«È divertente ascoltarli, i ricchi, i giudici, i magistrati, divertente vederli predicare la virtù; é difficile, oh sì, proteggersi dal furto quando si possiede tre volte più di quanto può servire per vivere…..Ma noi Sophie… visti con disprezzo perché poveri, noi umiliati perché deboli, noi che infine sulla faccia della terra raccogliamo solo fiele e spine, come vuoi che ci asteniamo dal crimine, l’unica mano che ci apra la porta della vita, ci mantenga, ci conservi o ci impedisca di perderla! come vuoi che per noi eternamente sottomessi e umiliati mentre una classe di gente spadroneggia e ha per sé tutti i favori della fortuna…» (François de Sade, Le sventure della virtù)

Quanto son belle le elezioni

Quando mai ce la ricordiamo una campagna elettorale che ci diverte? Pare sempre la stessa recita a soggetto, al più c’è che all’apertura del libro dei sogni s’aggiunge lo sfogliare quello degli incubi. Non pare più manco singolar tenzone, scontro di prospettiva, è la calma piatta che si traveste di digrigno di denti, poltroncine semoventi, gioco delle parti. Sullo sfondo c’è martirio tremendo di interi popoli che paiono lontani. Ed a quelli c’è scarsa attenzione, manco votano, come si permettono. Eppure d’una campagna memorabile ho memoria trasmessa, e che rimpianto non essermela goduta se non di rimbalzo.

Il candidato Presidente, quello cui pare siano legate le sorti di pacificazione dell’intero pianeta, si rivolge alle folle, le arringa con un discorso memorabile. È il 1963, un alluvione d’anni sono passati. Pure, Kennedy, si rivolge a quegli ultimi che sono tali nel cuore stesso della superpotenza. Ma parvero parole cariche di retorica, povere di fatti, chiacchiere. Martin Luther King si fa aprifila della grande marcia, lui un sogno ce l’ha, lo dice, lo fa presente, lo rende sogno di tutti. Ma c’è qualcuno che pensa che quella folla non rispetti canoni estetici adeguati a rappresentare compiutamente società evolute e democratiche. S’ammazza, si continua in logiche di ghetto. La risposta non arriva, il sogno è inesausto. Eppure la risposta c’è. «Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un’espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C’è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra». (John Coltrane)

La fratellanza, è questo il punto, la fratellanza.

Il 21 settembre del 1963, dopo l’ennesima strage di afroamericani ad opera di razzisti del Ku Klux Klan, Dizzy (Gillespie), sale sul palco del Monterey Jazz Festival, ed urla al pubblico «Voglio diventare Presidente degli Stati Uniti perché ce ne serve uno!» Il cantante Jon Hendricks gli scrive pure l’inno: «Vote Dizzy! Vote Dizzy! You want a good president who’s willing to run / You wanna make government a barrel of fun (…) Your political leaders spout a lot of hot air / But Dizzy blows trumpet so you really don’t care.»

Ma senza lista di collaboratori né ministri non puoi fare il presidente. Così Dizzy si mette al lavoro per stilarla per bene: per Duke Ellington l’incarico deve essere adeguato alla sua grandezza, dunque, Ministro dello Stato. Max Roach, che coi botti ci sa fare, è Ministro della Difesa. Per Louis Armstrong c’è il Ministro dell’Agricoltura, e chi meglio di Charles Mingus può fare il Ministro della Pace?

Manco a dirlo c’è Malcolm X, ovviamente Procuratore Generale. Per le politiche sociali ci vuole qualcuno con lo sguardo giusto, la voce adatta, dunque Ella Fitzgerald. A Ray Charles tocca il posto di Direttore della Biblioteca del Congresso e Mary Lou Williams fa l’Ambasciatrice in Vaticano. Incarico delicatissimo per Thelonious Monk, Ambasciatore “in viaggio”. Manca solo un tassello per chiudere la formazione della squadra di Dizzy for President, ma anche per quello non ci sono dubbi, Miles Davis Capo della CIA!

E quando ci ricapita?

Radio Pirata 66 (concertone da lavoro per separazione chimica di classe)

Riecco Radio Piratissima che torna a sfarzo di concertone per festeggiamento di ricorrenza di articolo guida di Costituzione che fu cassato per improbabilità di esplicita applicazione. E si fa puntata di grande e solida kermesse musical-argomentativa come si compete a trasmissione che gode di favori indiscussi di pubblico innumerevolissimo e benevola accondiscendenza di critica. Ma a non far da meno con altra roba seria, redazione fa subito presente che molti ospiti previsti brillarono per assenza a detta puntata, che è numero Sessantasei, per sopraggiunta censura. Per cui non ve ne sarà traccia. Ma si va subito di musica di grande spessore.

Che lavoro è a dignitosissima rappresentazione a membro permanente di consesso di nazioni civili a suon di bombarda, che si fece lavoro nero a campo di nuovo cotone per conserva a prezzo convenientissimo di super mega impianto di smercio di prodotto a consenso di massa claudicante per arrivo a fine mese. Che morto ammazzato di lavoro, dice statistica – che la fa cervello asettico di matematica -, è a due al giorno da inizio d’anno.

Che è solo storia di distratto a distrazione mosso, che muore a metto piede in fallo mentre passa betoniera o caterpillar, pure scivola d’ascensore, inciampa da impalcatura, precipita da palazzo e ciminiera, non collaborò col dire son morto per destino cinico e baro. Che di tanti morti d’ammazzo pare guerra guerreggiata, ma è roba disfattista se oggi a bandiera colorata si dice basta con tale guerra, pure con altra che tuona di bomba. E io vado di suono giusto, che faccio colonna sonora

Che c’è polemica superlativa su esternazione per classe separata, ma io spezzo lancia, che pure io voglio classe separata, che a ricco con super monolito a sgaso per cambio climatico per costo di palazzina popolare a tre piani, tocchi – ora e per sempre in esclusiva – ristorantino a selezione di chef a stella plurima di firmamento. Ma ci fu improvvida segnalazione di tale illuminatissimo che disse che povero paradossalmente mangia meglio – che paradossalmente è dire esplicito che pure mangia – per cui ci fu assalto a bettola negletta che bettolaio ed oste per moribondi si fecero furbi e levarono prezzi al cielo per nuova avventura di business. Che da Franco il bollito ch’era a sette eurini ora si fece a centoventi che tale padrone del vapore per meno di duecento non si muove. E c’è povero chef di cui sopra che fu costretto a rinnovare arredo con acquisto ad Emmaus di piatto e mobilia ed importazione di muffa autentica per star a passo col tempo. Aridatece la separazione di classe.

E quanto tremai d’adorazione per Annette Peacock, che fu mio furibondo amore giovanile a dispetto di generazione. Ma tale ero, catturato a fascino di dette signore senza tempo che miei coetanei d’allora, molto «le freak, c’est chic» attribuivano certe mie pulsioni ad uso disinvolto di combustione di materiali di scarto orientale di produzioni vegetali. Ma detti fuochi aprirono finestre, e pur se smisi in tempi rapidi di godermene benefici, certo le finestre rimasero aperte su orizzonti d’utopia. Ora v’è invece ricorso a chimica pura ed allopatica per farsi fenomeno a sculettamento a destra e a manca, da mane a mane, e iniezione di coraggio per proferire a iosa minkiata a cottimo manco richiesta.

E chiudo col dire che buon lavoro pare ossimoro e, a cautela, faccio spiegare detta cosa da collaboratore subordinato con contratto di apprendistato, prima che faccio pure di lui censura che nacque in posto strano: “Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendere dalla sua schiena.” (Lev Tolstoj) Buon 1° Maggio a tutti, i belli e i brutti, di più a questi ultimi se in piazze deserte furono pure sporchi e cattivi.

Per chi… ancora!

Mi viene a sollecito di memoria cosa che ebbi a buttar giù ad impeto di stordimento, che tale stordimento ora pare tale e quale a quello d’allora, che c’è anche certa coincidenza di stagione e tempo bislacco che di vento porta via. E tale vento porta aria di mare lontano che, mare intendo, a non averlo accanto o dirimpetto, pare faccia amplificatore d’infinita stanchezza. Pure le perturbazioni che oggi lasciano posto a presunta primavera mi fecero salire temperatura, che adesso paio in pieno cambio climatico anch’io.

“C’è un tempo in cui devi lasciare i vestiti, quelli che hanno già la forma abituale del tuo corpo, e dimenticare il solito cammino, che sempre ci porta negli stessi luoghi. È l’ora del passaggio: e se noi non osiamo farlo, resteremo sempre lontani da noi stessi.” (Fernando Pessoa)

Quel tempo arriva nelle forme che vuole, quando desidera di farlo, mai si presenta a richiesta, finge di non essere stato invitato, pure se ad evocarlo è stata ogni stilla di sangue e sudore che puoi buttar fuori. Ci hai pensato a quel tempo, in un lasso di tempo infinito, indeterminato, non te ne serve altro. È roba che si consuma a gambe ferme, non quando ti muovi, nemmeno quando ti si muovono le consapevolezze doverose del quotidiano, quando l’abito da lavoro che t’è toccato pare così logoro che non c’è più spazio per immaginare il colore della carne che prova a nascondere. Che è dato a stupirsi pure per la scoperta d’essere colorato in qualche modo, non d’amorfo grigio, che era cosa che desumevi da stanchezze definitive. Si realizza di forme concrete un tempo ancora d’orizzonte, ch’è perso nel chiaro d’una luna, forse nelle cappe del sole di scirocco, nel rosso della sabbia del deserto che s’avvicina a trasporto di libeccio. C’è ancora quel profumo strano, acre, di vita vissuta come viene, pure dovrebbe non esserci, che non c’è distesa di posidonia nelle aule vuote, nemmeno nelle stanze a vista di terminale. Lo specchio pare gioca ogni giorno ad implacabile riflesso d’autore, non fornisce manipolazioni sghembe d’immagine, che non si riconosce mai d’acchito, non fa come riverbero azzurro di mare, che di distorsione fece solo virtù sua.

In quotidiano di lavorio indefesso c’è urlo ovunque, sgraziato e d’artificiosa perfetta fattura, che a natura è altro che frastuono, quando è tuono a spavento pare invece rimbrotto benevolo, strappa sorriso, fa regalo di libertà che non è d’acquisto a svendita. Risorsa da lavoro, si dice, pare compenso per acquisto di libertà, ma quella non è cosa d’un tanto a chilo, non merita che la fatica d’essere vissuta a pieno, che vuol dire avere occhi per compiacersene, non polmoni per respirare la merce che ne è surrogato. Ed è vero, poi, ed alla fine, che il lavoro rende liberi, liberi dal desiderio d’esser liberi, quando te ne sei assuefatto e quel tempo, quando arriva, ci sta che si palesa e non te ne accorgi, che hai dimenticato in fondo ad un cassetto di inutili memorie l’orologio che suona al suo passaggio.

Un giorno che è tutto l’anno

Di memoria ne ho che va a zonzo, pure ad antico, che ancora serba cose d’interesse. Ciascuna di quelle dette cose, come se ebbe a dotazione filtro di precisissimo brevetto, mi dice che oggi non c’è discussione, che detto giorno – a nomina precisa di Liberazione – che fu primo è a merito che è tale solo se è inizio.

C’era che, poco più che bimbo, calavo volantino a mosca nel fosso di parte esterna d’i’un molo, e mi tirai su ope e scorfani in un certo numero, buoni per brodetto. Dentro il porto salvo, che il mare pareva stirato a raso, don Angelo, a cima legata di lampara, sbrogliava la rete sua. Che il silenzio era tale da sobbalzo al mondo intero per motoscafo feroce di cavalli. Ch’io mi rivolsi al vecchio, e, giovane creatura, m’espressi di stupore per tale roboante manifestazione di potenza, che con quello ci poteva andare pure lui, senza perdere notte intera, alla secca del miracolo. Il vecchio nemmeno sollevò il capo per il suo “cu minchia si ni futti?” Forse per affezione alla barca di sussistenza, che più di tale non era. Poi mi invitò a far giro per cambiare darsena a bordo, pure rapido, mi disse che l’altro approdo, a borbottio di motore vetusto, si disponeva a mezz’ora almeno, e l’orizzonte, che il mare era calmo a piatto, presagiva cambio repentino per libecciata. Saltai a bordo, e non si fece che un chilometro o poco più, che il furibondo fuoribordo che scosse il mare, se ne giaceva a panne, che lassù, padre notabile e figlio, coetaneo mio, si sbracciavano che non c’era domani, neppure, dissero, il walkie talkie gli funzionava, e razzo a segnale, pareva petardino a santa patrona. Il vecchio si contrasse in sforzo di lancio di cima e, sbuffando col motore a scarburo di lampara, trainò a riparo certo, e a rinuncia di viaggio proprio, la belva pluricavallata mentre l’increspo, a previsione esatta, si fece cattivo. Appena in tempo toccammo porto salvo, che il tale del fulmineo scafo, a gratitudine, tirò fuori la grossa banconota per conferirla al vecchio salvatore.

Ma quello rifiutò a sdegno, manco alzò occhio, che la gente a mare si aiuta e non per compenso. Il ragazzo come me s’era allagrimato di paura, e io pure, a momenti, mi appellavo a preghiera per improvviso stravolgimento d’onde. Che sono passati anni, che quello coetaneo mio pure diventò notabile come l’avo, ed è ragione che io mi feci asociale, che mi dicono invoca cannoneggiamenti quotidiani per chi arriva da lido lontano a disperazione, che se annega, a dispetto d’età, è sempre buon cibo di pescecane.

E questo è fatto preciso che storiellina ebbe morale, appunto, che di 25 Aprile si ebbe a necessità di farne giorno lungo quanto anno in totale, pure se c’è taluno o talaltro che anche per giorno uno come rimase, pare di far passeggiata a piede nudo su scoglio puntuto, sabbia nelle mutande e ortica sotto le ascelle.

In morte del grillo

«Bada, Grillaccio di malaugurio!… se mi monta la bizza, guai a te!…».
«Povero Pinocchio! Mi fai proprio compassione!…».
«Perché ti faccio compassione?».
«Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno».
A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutto infuriato e preso di sul banco un martello di legno, lo scagliò contro il Grillo parlante.
Forse non credeva nemmeno di colpirlo; ma disgraziatamente lo colse per l’appunto nel capo, tanto che il povero Grillo ebbe appena il fiato di fare crì-crì-crì, e poi rimase lì stecchito e appiccicato alla parete.
” (Le avventure di Pinocchio, Collodi)

Se ne vede di gente spiaccicata alle pareti, a destra e manca, poveri scemi che non vollero far di sé burattini obbedienti. Di manganelli e fermi a ragazzetti ce n’è a iosa, pure a rango più elevato si cheta con il «non parli», che il momento è greve. E tutt’intorno è stessa solfa, se persino al greco illustre si tolse parola a patria di welfare, e cugini d’oltralpe fanno uguale, che è proibito si menzioni strage continua. Termini per massacro non sono cosa di società civile, gli affari sono affari e se c’è crisi, massacro, invece, quello diventa di persona dabbene, che massacro fa levitar vendite di bomba, economia si risana così. Se non c’è virus malvagio e con occhio a mandorla, si faccia almeno repulisti sinché ce n’è di tal questo e tal altro a suon di bombarda a saldo di vendita. Quelli, i cattivi, fanno di censura loro arma pregiatissima.

E noi rispondiamo con arma assai più potente, che non venga messaggio che civilissima civiltà sia da meno a far che d’aggressione tremenda si taccia, per non guardare, non vedere, che ebbe tradizione d’espletamento grande e divertente di gioco delle tre scimmiette. La piazza affollata per pace non esiste, se non ha follower e mi piace di sufficiente numero non fece tempo a costituirsi parte civile che venne sciolta. Ma fu colpa di cinici e spietati, oppure i burattini che non s’avvidero che bomba e strage è a un passo preciso da loro, non ebbero occhi per vedere e plaudirono a pallon che rotola o a racchetta a cacciar mosche? Povera itaglia, povero mondo, che non c’è più acqua da bere, ma tanta ne viene giù precisa, ad annaffiar albero di legno giusto per fabbrica di burattino.
«La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché ha in sé l’eterna rinuncia del “dare a Cesare” e perché i suoi princìpi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che “‘Sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura.» (E. Vittorini, Il Politecnico n. 1, 29 settembre 1945)

Radio Pirata 65 (settimana cruciale che viene, settimana cruciale che va)

Torna a furor di popolo Radio Pirata, che s’è fatta numero Sessantacinque, traguardo d’invidia autentica per chi non fa giro di boa nemmeno a sessantaquattro. E torna con convincimento ch’è di necessità assoluta far musica e notiziola in qua ed in là, per scovar talento dove talento c’è, a dar possibilità d’emergere a giovane che ha penna facile e vuole darlo a vedere al mondo intero. Che Radio ha volontà di talent scout e si da vetrina a giovane che vuol far di sua scrittura affermazione ad applauso. Ma andiamo subito con musica giusta che settimana comincia di lunedì e detto lunedì è di tali nebbie che ad allietarlo in nota non si fa etto di danno.

Che c’è settimana che si chiuse che odora di zolfo e piombo, per escalescione di guerra a parte del mondo che fu tutta. Che guerra fa a bombarda anche a chi non s’avvede che bomba casca su testa sua perché non sentì botto chiaro e si fece domenica a mangiar pizza tranquillo per scontrino da ecatombe. Che detta guerra è ‘ndo cojo cojo, ma sempre fa centro precisissimo a tale che ebbe a disgrazia di nascere di manto disgraziato, e se s’è fatto malato poi non trova cura che medico ed infermiere, pure medicina facile facile, non c’è per acquisto mancato a sottrazione di finanza, che quella, finanza, serve a far cosa buona e giusta che fu smercio di boma per guerra a dritta e manca.

Ambasciator non porta pena, si disse a saggezza antica, ma antica saggezza è superata e si bombarda ambasciata con tanto di morto e ferito, che se poi taluno che si vide recapitar ambasciator a modo di Attilio Regolo s’altera, – che già era ad alterazione permanente – fa a lancio di ogni cosa a modo pure lui per far morto e ferito. Ma che sia ora spazio a giovane virgulto di penna, ch’egli ritiene interessante messaggio suo, a speranza nostra che non faccia crollo di esagerata audience di Radio Pirata. «Quando i ricchi si fanno la guerra, sono i poveri a morire.» (Jean Paul Sartre) E meno male che fu sintetico, che se continuava a dirla lunga a fatto d’accumulazione di baggianata c’era rischio che audience di Radio Pirata si faceva colo a picco in un tempo di niente.

E quella che se ne andò fu anche settimana di strage che pare coazione a ripetere, in luogo di lavoro dove per sicurezza di risparmio non s’aggiunse troppa altra sicurezza. Che pare cosa non troppo a fatto occasionale che uno se ne va a lavoro, saluta a casa affetti o solitudini, a seconda dei casi, si accomoda a far fatica, poi non torna. E se affetti furono colti d’improvvisa devastazione, pure solitudini, che per cosa conclamata paiono d’anime migranti, pare urlino cose di disperazione. «Attraverso fitte di dolore, ore, squadre e livelle, il job diventava una realtà familiare, una sensazione nuova, brivido di uomini e pietre ed acciaio. Era un gioco, una corsa, una partita, in cui tutti erano attori muscolari, dal fischio del mattino a quello della sera, ed egli era uno di loro. Era giorno di paga e fra poche ore la busta avrebbe segnato un breve armistizio. Era la guerra per la vita, e Paolino era un soldato. Non era come al gioco delle biglie, dove giocava per divertirsi; era un vero assedio, un assedio condotto da uomini maturi e accaniti contro una fame sempre in agguato, contro il nemico ereditario.» (Cristo fra i muratori, Pietro Di Donato) E pure noi abbiamo dato l’obolo d’apparizione a quest’altro che anela a fama imperitura, ma se continua a scriver ad affondare successo di Radio Pirata con insopportabile retorica pauperista, più che fama si becca fame. Che noi, ad altra sorte adusi, mandiamo musica ch’è meglio assai.

E c’è grande isola che si fece matrigna di tenutario di direzione artistica di Radio, che pare essere a secco come piscio di cammello in deserto. E c’è ovvietà in questo che temporalone si ferma, che a traghettamento lento ed infingardo ci vuole tempo indefinito, così rinuncia ad attesa e scarica acqua ad un altrove a bidonata che fa danno, pure a chicco di grandine a strigliar tetto di decappottabile a lusso precisissimo. E prima che isola a forma di tre – che di perfezione fece a meno per esclusiva modestia – si boccheggia di sete, c’è fortuna che s’ebbe direttorio illuminatissimo di levatura cosmica che disse ponte sia, che tutto si sveltisce, pure tasca si piena assai e rapida e a pienare serbatoio poi ci si pensa, se me lo ricordo. E prima di cedere la parola ad altro giovane cercatore si sorti buone per minchiate scritte a cottimo, per non bombardare l’ultima speranza d’un qualche ascoltatore di Radio, andiamo di musica.

«Il ponte sullo Stretto? Personalmente mi sta benissimo, a patto di non sovrapporre metafore e simboli indebiti ad una operazione di semplice ingegneria. Voglio dire che non sarà il guadagno tecnico di poche ore nei tempi di traghettamento a modificare o a guarire la nostra vocazione claustrofila e il vizio di fare della solitudine un trono e una tana. Caso mai sono altre le conseguenze che l’ evento (se accadrà) si porterà dietro: di favorire lo smercio e la circolazione dei nostri vizi nel resto della penisola; e di aizzare le nostre virtù a degradarsi più velocemente nell’ omologia generale dei contegni e dei sentimenti. Poichè con le isole il punto è questo: sono di per sè parchi naturali e riserve dove lo “specifico” indigeno resiste più a lungo: sicchè rimane sempre da sciogliere il nodo se convenga tutelarle a costo di sequestrarne anche le più selvagge memorie, o spingerle verso una moderna ma ripetitiva e anonima identità. Insomma è la solita solfa del contenzioso tra passato e futuro, natura e cultura, lucciole del pre-industriale e chimiche del post-industriale… Il ponte ovviamente giocherà a vantaggio di questa seconda ipotesi, benchè non molto più, credo, di quanto abbiano già fatto l’ Alitalia e l’ Autostrada del Sole. Resta da vedere se e come esso possa contribuire a renderci più italiani. Qualcuno dubita che non lo siamo abbastanza o che desideriamo non esserlo più. Proprio su la Repubblica (31 agosto) Arbasino ci attribuiva una smania di staccarci dalla nazione e ce ne concedeva licenza. Obietto che, dai tempi di Salvatore Giuliano, fra le maschere sanguinose della mafia il fantasma del separatismo non è più ricomparso: e che oggi un eventuale referendum secessionista non raccoglierebbe in Sicilia più di mille o duemila suffragi… La verità è che fanatismo regionale e fermenti antiunitari sono da noi assai meno vigorosi e loquaci che non in tanti altri luoghi d’ Italia, dall’ Alto Adige alla Sardegna, dal Veneto alla Val d’ Aosta. Basterebbe, per appurarlo, una gitarella a Messina… Con tutto ciò, come negare l’ esistenza del tumore Sicilia e delle sue minacciose metastasi d’ esportazione? E’ un morbo vecchio di secoli, ma non saranno nè la segregazione nè l’ aggregazione a salvarcene: nè una chirurgia che ci amputi, nè un ponte che ci concilii. Occorrono cure diverse, e io dico timidamente: libri e acqua, libri e strade, libri e case, libri e occupazione. Libri.» (Gesualdo Bufalino, su La Repubblica, 19 settembre 1985 su la Repubblica)

Mercanti d’anime

«Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.» (Conversazione in Sicilia, Elio Vittorini)

Vorrei non parlarne, mi piacerebbe. Ma sono un vecchio delegato sindacale, uno di quelli che lo fa da vent’anni senza mai aver preso una lira. Mi occupo di sicurezza come rappresentante dei lavoratori. So cose, si direbbe. Mi formo e mi informo, ne ho la responsabilità, me la sono presa, non me l’ha ordinato il dottore. Sono pure uno che rompe abbastanza. Quello che è successo a Bologna mi crea faticosissima voglia di parlare. Ci sono le cose che i giornali riportano, il giochino del cordoglio, chiudere le stalle mentre i buoi già corrono per i campi. C’è la logica del subappalto, vite vendute a cottimo, un tanto al chilo per gran risparmio, lavoratori che si dicono «esterni». Corpi alieni nel ventre putrefatto della balena.

L’ho già raccontato, tempo fa, non troppo, proprio a vista di casa mia, un tale che conoscevo appena, giusto un ciao al bar per le sigarette ed il caffè la mattina, è finito in una tramoggia, ha lasciato famiglia, un ragazzino complicato. Ho sentito le ambulanze, un certo frastuono, l’elicottero che lo portava via quando non c’era nulla di più da fare. Dopo un paio di giorni la notizia è sparita, pure se già era solo roba da trafiletto. Come sparirà quella di Bologna, è sparita la strage di Firenze, come sono spariti gli altri mille trafiletti dell’ultimo anno. Ogni tanto il morto ci scappa, finisce nella tramoggia anche quella notizia. Non succederà niente oltre la retorica della commozione dell’istante, il cordoglio unanime, il parliamone. Ma cosa ci sia da parlare non mi è mai stato chiaro, o meglio, mi è chiaro l’oggetto del contendere, non capisco perché bisogna parlare di certe ovvietà. Lo scontro è ideologico, non c’è vittima che tenga. Si dirà che ci vuole più formazione, più informazione. Si investirà tre centesimi in più su quello, il resto, si dirà, non c’entra.
Ma questa tragedia di Bologna ha qualcosa che non è più particolare, non solo per il numero delle vittime. I templi della merce vanno costruiti, non ce n’è mai abbastanza per deificare il consumo. Ancora ci tocca guardare l’anagrafe delle vittime. Vengono da un altrove dove non torneranno, Non torneranno più a casa, per le festività, le vacanze estive, a salutare vecchi amici, i parenti. In certi luoghi d’opulenza gente così, ben disposta per una vita dignitosa a fatiche incerte, stipiendi così così, non se ne trovano.
Sotto le macerie ancora le anime degli ultimi, quelli attaccati alla ricerca disperata d’una vita dignitosa con le unghie e coi denti, che non hanno nome, quelli che non saranno mai in copertina se non come numeri, non vinceranno slam. Domani è un altro giorno, la fila alla cassa non si esaurisce, in attesa delle rovine del prossimo tempio, delle nuove vittime sacrificali immolate al nostro shopping domenicale.