A furor di vento

Che pare, di questi tempi, che tutto proceda in direzione univoca, scivolamento verso barbarie quando non di palesato inebetimento. Che se c’è cosa che potrà andar storta, per linea dritta ci andrà a prescindere, e l’ottimismo pare roba da caratteristi di cinema anni ’70, fa scappar riso, talora amaro. Pure m’accorgo che a remar contro si fa fatica parecchia a remo senza pala, come a cacciar fumo con battipanni a sfondo d’uso eccessivo. Faccio musica a parzial conforto, pure mi ci dedico con ricerca a grande impegno per regine autentiche.

Che mi venne voglia di tempesta, a cambio di bonaccia a direzione precisa, vento che spiazza piuttosto, che non ti fa apparire direzione chiara, che smuove le carte, si fa scompiglio di pensieri, che se ne faccia pila nuova, ad ordine inverso e criterio di divergenza. Nostalgia c’è di scogli e rene, ma non di beati tramonti, desiderio invece ho di fortunali a schiocco di tempesta, onda che s’alza a cielo, precipita a tonfo, marea che si riveste di maremoto, gorgo di Scilla e Cariddi, vento possente ed incerto di Scirocco. Che “lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus orca)

Che me ne frega ormai della brezzolina leggera e rinfrescante, che di noia mi portò all’esausto, che non mi feci persuaso affatto che quella passa se non a colpi d’incedere inesorabile di folata a tutto sfare, a scoperchio case e mi porto via ogni cosa. Che non fu terribile come la noia dell’attesa d’un giorno dopo l’altro, che il primo pare uguale al secondo e pure a quello che viene, se non nella stanchezza che s’accumula e diventa sgomento d’ignavia del tutto d’intorno. Anelo bufera, che quella sia, che di cartolina a fronte d’azzurro nitido non me ne faccio niente, voglio scuro di sorpresa che fece notte pure il giorno fitto di luce: “Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare.”

Confederazione d’anime

Piglio cosa vecchia che a farne nuove mi mancò tempo, pure prestanza fisica d’ultimo. E poi ho da metabolizzare che sono torto che nacqui tondo e quadrato non ci divento. Che se dico che c’è cambio di clima e piove che manco Giove Pluvio se la pensava così e faccio morto ad annego in zona commerciale e sfollato a massa in pieno centro, è colpa mia che dissi che c’è cambio di clima. Se c’è guerra e dico pace, pure c’è guerra per mia precisa responsabilità, che non volli grande sberla nucleare che ci si leva il dente e si fa la pace tra superstiti. Fortuna volle che morto d’annego per grande viaggio a fuga da guerra e fame non è colpa mia, è colpa sua che si fa morto d’annego per fuga da guerra e fame, che se stava dov’era al massimo crepava di guerra e fame, non certo d’annego che magari là da dove parte acqua non ce n’è, che serve tutta a miniera per gioiello prezioso di madama la marchesa. V’aggiungo musichina pure.

Credere di essere “uno” che fa parte a sé, staccato dall’incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un’illusione, peraltro ingenua, di un’unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot ed il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone. Il dottor Cardoso fece una piccola pausa e poi continuò: quella che viene chiamata norma, o il nostro essere, o la normalità, è solo un risultato, non una premessa, e dipende dal controllo di un io egemone che si è imposto nella confederazione delle nostre anime; nel caso che sorga un altro io, più forte e più potente, codesto io sposta l’io egemone e ne prende il posto, passando a dirigere la coorte delle anime, meglio la confederazione, e la preminenza si mantiene fino a quando non viene spodestato a sua volta da un altro io egemone, per un attacco diretto o per una paziente erosione. Forse, concluse il dottor Cardoso, dopo una paziente erosione c’è un io egemone che sta prendendo la testa della confederazione delle sue anime, dottor Pereira, e lei non può farci nulla, può solo eventualmente assecondarlo.” (Antonio Tabucchi, Sostiene Pereira)

Ad essere possessione di confederazione d’anime io non mi sottraggo, pure come farei ad essere contraltare di pensiero di siffatta elevatissima teoria? Ne riconobbi financo alcune di dette anime sin da che ebbi facoltà d’intendere e volere, che m’ero appena attrezzato di denti da latte. Un paio furono d’inizio – sempre anime, dico, non denti da latte – che poi si fecero a moltiplicazione. Talune, a radicalizzarsi d’originale, vennero fuori da quelle, che parevano escrescenza ectoplasmica; tali altre furono a nascita di sintesi tra differenti, orripilante incrocio tra oche di Lorentz e cani di Pavlov. E questo è quanto, che divennero ciurma numerosa ed io solo contenitore d’essa, nave espropriata. Semmai fui a problema d’aggiunta che nessuna di quelle ebbe a vocazione di far io egemonico, ad interesse di metamorfosi a guida convinta. Se ve ne fu una che, a scapito d’altre – o per intendimento d’altre, direi, meglio – si fece a virtù condottiera, fu solo per distrazione a gioco di resto d’equipaggio, che abbindolò l’ultimo a donazione di cerino in mano.

Così quella, anziché prendere redini e timone, passa tempo suo, pure il mio che ne fui coinvolto ob torto collo, a ciondolare distrattamente sulla tolda, ipotizzando di non farsi notare, a che altra anima si distragga, sì da scaricare su quella la patata bollente di indirizzo giusto di prua. Che le mie son anime oziose, cialtronesche, dedite più alle libagioni che a seria attività di cabotaggio, per vocazione di nullafacenza, a mal disposizione per indole di comando. Neppure sono compiacenti a delega, esse disdegnano comando per sé stesse, detestando chi se ne fece portatore insano proponendosi a metamorfosi d’esistenza.

Così traggo linfa vitale da conflitto non per prender potere, bensì per evitarlo, ignorarlo, annichilirlo, declassificarlo o, secondo dei casi, derubricarlo a facezia. Fu corsa a mio intimo ad arrivar ultimo, a rendermi irreversibilmente invisibile oltre linee d’orizzonte, che la ciurma ha pensiero attivo nel non guidare la nave, attende solo sorpresa di approdi per deriva che è a decisione di corrente a sballonzolare chiglia di robustezza sedicente.

La bellezza sepolta

La bellezza non è per tutti, pure se tutti dovrebbero pascersene, ma non è per tutti. E se l’arte t’attrezza ad arrivarci, manco l’arte è per tutti. Che v’è un mondo che ne è stato privato ex legis. Ci andate alle prime, voi? La percezione, quella che ti sta sotto la pelle come friccicorio pruriginoso, l’avevo già da un pezzo, le clausure (a)sociali tra quattro mura me ne hanno, al più, fatto il gentile omaggio della conferma, consegnato il responso diagnostico. Non è per tutti perché v’è stata, nel tempo, la consuetudine a nasconderla, la coazione a ripetere del celarla allo sguardo, che alla fine funziona. Poiché non interessa quello che non conosci, dunque, seppure la bellezza esiste, non è detto che tu la conosca. Nessuno t’obbliga ad accostarti a quello che non hai mai visto: della luna te ne viene meno la curiosità, se al suo posto t’hanno mostrato il pozzo dov’è caduta.

La bellezza è per i salotti buoni, li ce ne trovi un artefatto sintetico, quanto meno il passaporto (in)sanitario per farci un salto dentro, qualora te ne venisse voglia. Poi, mi pare, che lasciarne al salotto buono l’esclusiva sia una bella mossa per chi se l’è inventata. È così che rifanno le città, le riarticolano purché non si veda la bellezza intorno, nemmeno quella che c’è nelle loro viscere, nelle fondamenta. Sono prodotti ideologici, con cenni manifesti di patologie delicatissime, acute, gravi. Hanno solo vie d’uscita verso il consumo, vie di fuga murate, orizzonti occlusi. Le periferie di Suburbia sono anaidentitarie rispetto ad alfabeti evoluti d’umanità, coazioni a ripetere di costruzione di protoidentità subumane, cittadelle fortificate distese sul magma sconfitto della prospettiva creativa. Sono escrescenze ectoplasmiche che tendono a ricongiungersi, occupando i luoghi vitali che vi si inframezzano, procedendo con contaminazioni psicotiche di riqualificazioni architettoniche, per spazi capitalistici d’interdizione. L’architettura è l’alibi demiurgico per la creazione di un sistema sociale verticistico, che impone allontanamento ed esclusione. Produce l’atomizzazione dei sistemi di relazione e della comunicazione sociale. La frammentazione sociale rende il disagio non più collettivo, ma questione personale, esalta l’individuo anche nella sua condizione di malessere profondo, ne disvela le contraddizioni e le ambiguità come non patologiche, piuttosto banali effetti collaterali necessari. La percezione della propria malattia svanisce nella barbarie e nel rifiuto – per non accettazione, neppure conoscenza – delle forme più elementari d’articolazione del pensiero divergente dal dogma. La bellezza semplicemente non esiste più poiché non esiste più il progetto creativo, mentale, naturale, che la interpreta e la genera, pure a partire dalla sofferenza. Non esiste più poiché è forma relazionale pura e aggregativa.

Il salotto buono ne mantiene per sé brandelli funerari, esposti nel proprio spazio vitale. Si cinge del recinto protettivo dell’immensità periferica, e si nutre del totem dell’economia circolare, i cui rifiuti – che non esistono per dogma concepito da chi li produce, come nelle sacre scritture – si ammassano sotto i tappeti di Hyperpolis, provocando la mostruosa ed aberrante adesione postculturale al consumo felice e responsabile.

Il sistema è perfetto, non c’è complotto, non c’è regia, è il corpo che si autoinvolve in una direzione specifica, con le proprie staminali che rigenerano i tessuti cancellando la memoria di ciò che era. Risolve le sue patologie inglobandole, rendendole sistemiche, financo le trasforma in cura per la stessa malattia.

Ma scappa, talora, che qualcuno s’accorge d’essere malato, qualcuno che s’è fissato ch’esiste la bellezza, e se gliene precludi la vista se ne sta a cercarla in tondo, scansando il resto. Se non la trova, ma pure la cerca, si mette a frequentare il piccolo mondo antico di chi fa la stessa cosa, fa banda di pazzi con quello, si mette ad armeggiare con cose delicate, riannoda il cerchio spezzato, magari ne parla, rischia il contagio. E così s’avvede che il punto di vista è irrilevante. Ciò che è oggettivo non è opinabile, è soltanto tale e quale a se stesso. Scopre che il progetto circolare non ha solo una tangente, certo non solo in quel punto dov’è la prospettiva obliqua, angolare, bugiarda, il quid verso l’orbita scontata. Che quella è solo l’opinione diffusa, anche il punto d’accumulo orribilmente affollato. Solo l’ultima traccia dell’obbligo di tenere la destra o cosa volete che sia un po’ di coda al casello, al cestello, al carrello.

Roba da far gridare allo scandalo: in un momento come questo, mettersi a cercare la bellezza. Roba che nei salotti buoni sobbalzano, pure non hanno il vaccino, se quel male dilaga.

Weekend, di musica

Ci sono cose che facciamo che pretendono musica. A me capita per qualsiasi cosa, ho sempre una cosa che mi frulla per la testa. Quando affronto la tormenta del mare d’inverno, quando mi sobbarco le cartacce di burocrazie borboniche che si autorigenerano, paiono Araba Fenice. Pure se cucino, mangio o bevo, di più se mi concedo una sigaretta a fronte di tramonto, oppure una passeggiata lungo il fiume, quando spero che con l’acqua possa raggiungere anch’io l’oceano. Certe volte mi chiedo quale sia la mia musica preferita. Ne ho tanta per la testa che mi pare difficile trovarne una che ce la fa a portare il risultato a casa. E poi le cose cambiano, oggi c’è una tal cosa, domani ce n’è un’altra. Ma oggi è oggi, e ci provo, senza classifiche, a sceglierne qualcuna. Domani è un altro giorno, con soddisfazione non sarà lunedì.

“La mia cosa preferita”, è composizione antica, del 1959, scritta da Richard Rodgers e Oscar Hammerstein per il musical “Tutti insieme appassionatamente”. Ne esistono un numero impressionante di versioni, ma quella di Coltrane, con le sue furibonde sfuriate al sax, su cui si inseriscono le staffilate di Pharoah Sanders sul tappeto volante delle note al piano di Alice Coltrane, ci sono giorni che non mi molla un attimo. Coltrane chiarisce una cosa di questo pezzo, che è nato per durare all’infinito, ripetendosi in forme caleidoscopiche, ed ognuno si sceglie il suo frammento. Io li prendo tutti. Me la appiccico addosso quando capita, se sono in auto la mattina presto, ad esempio, per andare al lavoro, e mi faccio via crucis bar dopo bar, alla ricerca d’un caffè dignitoso, ma ammetto che davanti a bicchier di vino e sigaretta, luci spente, sul divano, la indosso meglio, in qualche modo mi dona.

A questa cosa sublime di Mingus gli schiaffò sopra un testo Joni Mitchell. Me la porto dietro, anzi, in testa, come necessario kit di sopravvivenza. Mi diverte, sconfinfera in modo patologico, ne sono dipendente. Scanzonata, irriverente, ipnotica, è musica notturna per definizione, fa compagnia e non ne pretende, ma pure invita a ballare, ma che la luce sia al massimo un neon fioco, meglio niente, però, un museo d’ombre e basta. Sta benissimo senza far niente, due tartine al pomodoro, due olive ed un bicchiere di whisky che sa di torbiere non troppo lontane dal mare.

Come certi vestiti di sartoria buona, ch’io non posseggo, Red Clay di Freddie Hubbard s’abbina bene a tutto. Financo se sei alla cassa d’un supermercato. Ma certe atmosfere meritano giusta cornice in illuminazioni di strade deserte, dove la sorpresa è persino un gatto che s’è fregato un sacchetto dell’immondizia. Brano che ha in sé un difetto fondamentale che lo accomuna ai precedenti, ad un certo punto finisce. Allora v’è il fastidioso compito di riavviarlo. Fortuna che non dura poco. Consiglio di sorbirselo con pane e salame, che fa venir sete, dunque, prima di procedere all’ascolto, valutate di avere scorte sufficienti di bibite giuste, che non sto a dirvi quali siano, in ciò si parrà la vostra nobilitate (parafraso, pure male)

Mi capita spesso di ascoltare questa versione immaginifica di Maiden Voyage quando sono in strade antiche, che percorri piano poiché la curva nasconde segreti imperscrutabili. Pezzo da viaggio in solitaria esplorazione per eccellenza, reca in sé anche qualcosa di profondamente peccaminoso, poiché s’avventura nei meandri più remoti dell’intimo. Forse va persino condiviso, ma rispettando il silenzio che si deve al già formidabile dialogo tra tasti. Con cautela, se non siete in altre faccende affaccendato, accompagnatelo con biscotti al miele ed un vino ambrato, forse anche un passito da uve d’isole perdute.

Ian Garbarek, quando fa questo pezzo pare ti dica fanne ciò che vuoi, ma ciò che è giusto è altro: devi metterti su uno scoglio, in quelle giornate grigie, quando cielo e mare si contendono a colpi di sfumature cangianti l’egemonia sull’orizzonte. Non dimenticare le sigarette, non puoi contare su un tempo limitato e dove sei non c’è tabacchi. Pure c’è un po’ di vento che sa di sale, mi raccomando il cappello, e la borraccetta con la grappa, qualora servisse.

E voi avete colonne sonore?

La riconquista della noia

Non mi pare di discernere più se d’infinita stanchezza ho da render responsabile strascichi del malanno che mi piombò in casa senza invito e che tali pare lascia, o di quell’essenza primordiale che fa la noia al cospetto del tutto solito e senza fine di coazione a ripetere.

Che pure di noia mi pascerei, pure a lungo, ma sol che sia io a sceglierne i confini esatti. Non di noia imposta m’aggrado, di quella insulsa noia operativa di mercenario che da trincea a trincea ha speranza che la prossima non sia l’ultima per ostilità di nemico, o d’avvitatore di bullone a catena di montaggio per catena lunga ed infinita a volontà di burocrate bizantino.

Pare che ad ora non vi sia che prender atto, attendere la sera per tiro inesausto di cicca e bicchiere di rosso senza fondo, a cancellare pensieri ostili, ché tanto quelli si ripresentano ad albeggiare proprio come seguono il ritmo che tocca a rotazioni terrestri. E ora s’accompagnano a fiacca che pare definitiva. E v’è in un gesto limitato solo desiderio profondo d’annoiarsi a modo di sé stessi, non per orgoglio produttivo, ch’io m’annoierei a rango di felicità sublime se m’acquietassi a semplice vista d’infinito da scoglio d’accoglienza, quale naufrago od esploratore che si cheta a meta conseguita, che non molla la presa quale mitilo tenace. E non di noia perirei in detto caso come per quella di reiterazione del gesto eterodiretto e constatazione del nulla che porta al nulla, con passaggio di consegna tra barbarie di merce e merce di barbarie che fa morto d’ammazzo che vendo di più e sfianco braccia e teste per sfruttamento ad libitum.

“La società, non per compassione, ma a causa delle proprie strane necessità, si era occupata di quei due uomini, vietando loro ogni pensiero indipendente, qualsiasi iniziativa, qualsiasi allontanamento dalla routine; e vietandoglielo pena la morte. Potevano vivere solo a condizione di essere macchine. E ora, sciolti dalla materna protezione di uomini con la penna dietro l’orecchio, o di uomini con galloni dorati sulle maniche, erano come quegli ergastolani che, liberati dopo molti anni, non sanno che farsene della libertà. I due non sapevano che farsene delle loro facoltà, essendo entrambi, per mancanza di pratica, incapaci di pensiero indipendente.” (Joseph Conrad)

Tempo perso

Sempre più affaccendato, con ancora tirata da leggero e persistente malessere per stanchezza, strascico di fatto che fu morbo d’infesto, ci si ritrova schiavi di tempo, che mai, pare, ve n’è abbastanza. Pure mi decido che non indugerò su ciò che non mi viene adesso, che ne guadagno a sufficienza per impiegarlo al meglio nel non far niente, che è cosa in cui ho talento autentico. E se mi viene di scrivere, ma non abbastanza, vi riciclo il già scritto che scriverei pure io così, ma senza meglio di certo. Nè vi manco di musica, spero buona, che aggradi ai più, che vi leggete il seguito con quella di fondo.

“Quante persone, lungo questo viaggio, stivano la barca fino a rischiare di farla affondare di cose sciocche che pensano essenziali al piacere e al comfort, ma che in realtà sono soltanto inutile zavorra? Come riempiono la povera piccola imbarcazione fino all’albero di bei vestiti e grandi case, di domestici inutili e di una miriade di amici alla moda ai quali non importa un fico secco di loro, e dei quali a loro importa ancora meno, di costosi divertimenti che non divertono nessuno, di formalità e mode, di finzioni e ostentazioni, e di – oh, la più pesante, la più folle delle zavorre! – della paura di che cosa penserà il vicino, di lussi che possono soltanto nauseare, di piaceri che annoiano, di vuote mostre di sé che, come la corona ferrea del criminale di un tempo, fanno sanguinare e tramortiscono il capo dolorante che la porta! È zavorra uomini… tutta zavorra! Gettatela fuoribordo.

Rende la barca così pesante che remare vi sfinisce. La rende così lenta e pericolosa da manovrare che l’ansia e la preoccupazione non vi concendono mai un attimo libero; e non avete mai un momento di riposo per sognare pigramente, mai un momento per osservare le nuvole che sfiorano le onde spinte dal vento, o i scintillanti raggi di sole che giocano con le increspature, o i grandi alberi sull’argine che si curvano per fissare la loro immagine riflessa, o il bosco tutto verde e oro, o i gigli bianchi e gialli, o i giunchi che ondeggiano oscuri o i falaschi, o le orchidee o gli azzurri non-ti-scordar-di-me. Liberatevi della zavorra, uomini!

Lasciate che l’imbarcazione della vostra vita sia leggera, carica soltanto di quello di cui avete bisogno: una casa accogliente e qualche semplice piacere, un paio di amici degni di questo nome, qualcuno da amare e che vi ami, un gatto, un cane, e una o due pipe, cibo e indumenti a sufficienza e da bere in abbondanza, perché la sete è una compagna pericolosa. La barca sarà più facile da governare, e non sarà tanto soggetta a capovolgimenti, e se si capovolgerà non sarà così grave; la merce semplice e di buona qualità sopporta un bagno. Avrete tempo per pensare oltre che per lavorare. Tempo per scaldarvi al sole della vita… tempo per ascoltare le melodie eoliche che il vento divino trae dalle corde del cuore umano tutt’intorno a noi… tempo per… Scusate tanto. Divagavo.” (Tre uomini in barca, per non tacer del cane, Jerome K. Jerome)

Mi faccio un totem

Ah i guru, che cosa magnifica i guru, quando cercano posizione corretta a favore di flash, di click o d’altro che immortali immagine loro e la renda a popolume adorante quale totem definitivo di bellezza insuperata. Quelli, i guru, tutto capirono della vita che si fecero pagare un tanto al chilo da mille mila persone a teatro strabordante per dire esattezza di come svolgimento debba essere di vita ad altri.

Che ruolo magnifico e specifico hanno i guru, leader di pensiero, totem di venerazione, che alleggeriscono peso di pensiero ad ognuno che lo serba così a far carico di lavoro esclusivo, a farsi sfruttamento per giiustificato motivo che guru seppe trovare tra le pieghe (pure le piaghe) della mente

Ascoltai santi guru, talora a soluzione di sorriso, tale altra volta a digrigno feroce di dente che offerta è vasta, ad imporre felicità a venti quattro. Chi non ebbe a goderne di detta gioia intrinseca d’ascolto si fece peggior nemico di sé stesso per mancati plasmi d’immagine esatta a precisa somiglianza. V’è pure guru che invoca dolore su dolore, ferma espiazione come fatto d’obbligo. E se non v’è dolore bastevole, metaforico cilicio sarà a colpire fedifrago che se ne sottrasse. E piccola borghesia dolente ebbe a ciascuno membro suo guru a scaffale di social o d’altro canale TV, pulpito amorevole, libro denso di fai ciò che dico a costo modesto. Io pure ebbi grande guru cui rimasi ad affezione autentica per portento di messaggio ch’egli trasmise. Ei fu Pilu Rais, grande navigatore con barca a sganghero e miserabile piega di sguardo a tempesta di sale. Egli, intriso di saggezza, a domanda precisa su destino d’umanità, elaborò risposta a scanso d’equivoco: non mi rompete i c…

Contrappasso a perdere, in un 25 Aprile d’un giorno qualunque dell’anno

Di memoria ne ho che va a zonzo, pure ad antico, che ancora serba cose d’interesse. Ciascuna di quelle dette cose, come se ebbe a dotazione filtro di precisissimo brevetto, mi dice che domani non c’è discussione, che detto giorno che fu primo è a merito che è tale solo se fu inizio.

C’era che, poco più che bimbo, calavo volantino a mosca nel fosso di parte esterna di molo, e mi tirai su ope e scorfani in un certo numero, buoni per brodetto. Dentro il porto salvo, che il mare pareva stirato a raso, don Angelo, a cima legata di lampara, sbrogliava la rete sua. Che il silenzio era tale da sobbalzo al mondo intero per motoscafo feroce di cavalli. Ch’io mi rivolsi al vecchio, e, giovane creatura, m’espressi di stupore per tale roboante manifestazione di potenza, che con quello ci poteva andare pure lui, senza perdere intera notte, alla secca del miracolo. Il vecchio nemmeno sollevò il capo per il suo “cu minchia si ni futti?” Forse per affezione alla barca di sussistenza, che più di tale non era. Poi mi invitò a far giro per cambiar darsena a bordo, pure rapido, mi disse che l’altro approdo, a borbottio di motore vetusto, si disponeva a mezz’ora almeno, e l’orizzonte, che il mare era calmo a piatto, presagiva cambio repentino di libeccio. Saltai a bordo, e non si fece che un chilometro o due, che il furibondo fuoribordo che scosse il mare, se ne giaceva a panne, che lassù, padre notabile e figlio, coetaneo mio, si sbracciavano che non c’era domani, neppure, dissero, il walkie talkie gli funzionava, e razzo a segnale, pareva petardino a santa patrona. Il vecchio si contrasse in sforzo di lancio di cima e, sbuffando col motore a scarburo di lampara, trainò a riparo certo, e a rinuncia di viaggio proprio, la belva pluricavallata, mentre l’increspo, a previsione esatta, si fece cattivo. Appena in tempo toccammo porto salvo, che il tale del fulmineo scafo, a gratitudine, tirò fuori la grossa banconota per conferirla al vecchio salvatore. Ma quello rifiutò a sdegno, manco alzò occhio, che la gente a mare si aiuta e non per compenso. Il ragazzo come me s’era allagrimato di paura, e io pure, a momenti, mi appellavo a preghiera per improvviso stravolgimento d’onde. Che sono passati anni, che quello pure diventò notabile come l’avo, ed è ragione che io mi feci asociale, che mi dicono invoca cannoneggiamenti quotidiani per chi arriva da lido lontano a disperazione, che se annega pure, a dispetto d’età, è sempre buon cibo di pescecane.

E questo è fatto preciso che storiellin ebbe morale, appunto, che di 25 Aprile si ebbe a necessità di far giorno lungo quanto anno in totale, pure se c’è taluno e talaltro che anche a giorno uno pare a camminamento con sabbia nelle mutande e ortica a sotto le ascelle.

Il centravanti è stato sostituito

“Perché avete usurpato il ruolo degli dèi che in altri tempi guidarono la condotta degli uomini, senza arrecare conforti soprannaturali, ma soltanto la terapia dell’irrazionale. Perché il vostro centravanti vi fa gestire vittorie e sconfitte dalla comoda poltrona di cesari minori: il centravanti verrà ucciso all’imbrunire.” (Manuel Vasquez Montalban)

Tra quella casa che mi comprai qualche anno fa e quella di mia sorella sarà un chilometro in linea d’aria. Ma c’è un dislivello da sentieri di capre, scalinate a mille mila gradini per una, e se piove pare che tutto diventa fiumana. Da dimora a dimora faccio comunque a meno d’auto, non ho fretta, pure diversi da incontrare. Giù, da me, è terra di cartoline e c’è tale bella gioventù che si sollazza ad ogni Bistrot che la metà basterebbe. A svolto d’angolo pare si torna a secolo fa, quando tutto era silenzio e suggestione di silenzio.

Ma c’è pure cosa che non dissi e dico ora, che non c’è che persona anziana, giovani si fecero valigie per fuga e taluno che si vede è solo eccezione o turista. Incontro con una vecchina carica di busta di spesa mi è spesso di conforto che mi aiuta a prender fiato a soffermarmi per conversazione del più e del meno. Pure m’offro per accompagno sino ad uscio di casa a privazione di soma. Una casa è abitata su tre che si susseguono. Le vecchine figli non ne vogliono fare più, che spinger passeggino a ottanta e passa su per erta via è cosa che non gli viene a sconfinfero. Non vi fu sostituzione, però, se non a fatto limitato.

E mi chiesi, qual certo d’incapacità a darmi soluzione, quale problema c’era a far che sostituzione ci fosse a quartiere di disabito definitivo? Che poi, lì – ed è cosa che mi risulta personalmente – c’è difficoltà ad assistenza a persona anziana che per far su e giù da scale ci vuole fisico che taluni a superata certa soglia d’età non ebbero. Pure per altro ci vorrebbe, ma ad elenco lunghissimo trovai risposta parziale che fu cosa assai preziosa che ancora non ebbi tempo elevatissimo per scrittura.

“Il dramma delle culture è consistito nel fatto che i loro primi contatti reciproci sono stati quasi sempre appannaggio di gente della peggior risma: predoni, soldataglie, avventurieri, criminali, mercanti di schiavi e via dicendo. Talvolta, ma di rado, capitava anche gente diversa, come missionari in gamba, viaggiatori e studiosi appassionati. Ma il tono, lo standard, il clima fu conferito e creato per secoli dall’internazionale della marmaglia predatrice che non badava certo a conoscere altre culture, a cercare un linguaggio comune o a mostrare rispetto nei loro confronti. Nella maggior parte dei casi si trattava di mercenari rozzi e ottusi, privi di riguardi e di sensibilità, spesso analfabeti, il cui unico interesse consisteva nell’assaltare, razziare, uccidere. Per effetto di queste esperienze le culture, invece di conoscersi a vicenda, diventavano nemiche o, nel migliore dei casi, indifferenti. I loro rappresentanti, a parte i mascalzoni di cui sopra, si tenevano alla larga, si evitavano, si temevano. Questa manipolizzazione dei rapporti interculturali da parte di una classe rozza e ignorante ha determinato la pessima qualità dei rapporti reciproci. Le relazioni interpersonali cominciarono a venir classificate in base al criterio più primitivo: quello del colore della pelle. Il razzismo divenne un’ideologia per definire il posto della gente nell’ordinamento del mondo.

Da una parte i Bianchi, dall’altra i Neri: una contrapposizione dove spesso entrambe le parti si sentivano a disagio.” (Ryszard Kapuścinski)

Storie qualunque

“Ciò che rende la mia vita ancora più insopportabile è l’incapacità che ho a soddisfare il desiderio di potere e attenzione. Qualche volta mi rintano per settimane e sto da solo. Dopo un po’ capisco perché l’ho fatto. D’istinto, sono scivolato via dal campo di battaglia, fino a quando le mie ferite spirituali guariscono. Qualcuno riesce a curarsi in pubblico. Se fossi in grado di farlo in modo eroico, anch’io farei pubbliche esibizioni di riabilitazione. Ma non guarisco mai in maniera nobile. Come un cane ferito, ringhio e guaisco. E ciò è male per la mia reputazione, allo stato attuale, quindi voglio stare da solo.” (John Fante)

“Fecero poi per prendere vicolo dopo vicolo, e decisero di far puntata ad altra parte di borgo, che a orientamento d’approssimazione poteva essere a direzione precisa di porticciolo. Lì arrivarono che il sole s’era messo assai di traverso, e ora sperava pure quello in riposo dietro linea d’orizzonte ché aveva fatto fatica di calor bianco per giorno intero. C’era silenzio e il barettino pareva smantellasse, non c’era cliente manco a far caffè a gratis.

Solo botteguccia pareva aperta, piccola e di pittore a gengie sfatte, su sedia parecchio a sganghero. Barche a foglio di cartone s’erano incorniciate di pietra di muro, e fatte a pennello d’acquarello e china non si muovevano. Solo c’era quel fil di fumo di sigaretta tra quattro capelli bianchi e barba che pareva schiuma di mare. La ciurma intera s’avvicinò vinta a curiosità che artista male in arnese cominciò a parlare come se altro non avesse a ragion di vita, mentre mozzicone di sigaretta sparì in grande ciotola di rame a compagnia beata d’altra moltitudine, mano a dispetto di deformità si mosse per nero su foglio bianco, pure disse: «E giunse il tempo che desiderio di vertigine m’appare solo a sistemar chiappe a scoglio comodo, a favor di tenue brezza di ponente. Lì c’è posizione di sguardo ad altro tempo che andò via a rapidi scivolamenti. Feci collezione di pergamene e titoli a ceralacca, di timbri e pacche sulle spalle, inchiostri di stilografica raccolsi. Mi ravvidi di saggezze elevatissime di fini accademici, sagaci elucubratori di teorie d’avanzo e professori mi professarono vie salvifiche di conoscenza. Capitani coraggiosi m’imbellettarono narrazioni d’autentico infinito di profondità e preti e frati e paternostri m’illuminarono d’incenso, mi deliziarono d’omelie un tanto al chilo, pure in odore di santità mi parvero audaci pescatori di ghiozzi a tendenza d’eversione. Le madame dorè, le miti volontarie di misericordia e signori dabbene di circolo esclusivo, di fatta impeccabile doppiopettata e profumo millefiori, mi fecero di sé modello esclusivo e beato. Arguzia finanziaria mi trasmisero autentici scienziati di doblone ed a cure immaginifiche mi sottoposero per trattamento di deviazione. Che però nacqui storto e storto rimasi, pur se mi sdoppiai a far finta d’assecondo. Che ora, a fase due, non m’è dato di adeguarmi all’immane trogolo di carni e sangue di sacrificio a conforto per Marte e Atena. Che però appresi di non apprendere, pur se assorbii finale convincimento che nemmanco le dame di San Vincenzo riusciranno a far del bene, ch’esse mai seppero cos’è la vita, che imbracciano sotto coscia, ad occulto, mitra e bomba. Ch’io tutto imparai da puttane senza protettore, a quartiere miserabile dove misi dente da latte, e che, accademia autentica di bellezza, fu soffocato a rango di supermarket per saccheggio conclamato, con reparto d’onnisciente mammasantissima. Pure imparai da lambretta smarmittata di venditore di granchio per cattura a pietra celeste, da pazzo con canottiera su cappotto e camicia avvoltolata in testa, per posto a cappello in mano, a buco tappato per dammi cento lire, ci hai ‘na sigaretta. Che mi venne ad aula di lezione autentica osteria perduta, di abitanti a perenne nostalgia di bicchiere pieno, e vecchio compagno che s’accompagna a miserabile scarpa rotta, pantalone logoro e mano di calli e calce viva, curvo di schiena ma mai domo a dir di padrone peste e corna. Pure non fu capace di sopravvivenza a quello, nemmanco per saggezza di mutua a scarso d’assistenza e forse per cicatrice di manganello per protesta di contro legge. Imparai dinamiche sofisticatissime d’universo da lavandaia a tempo perso, balia asciutta e odor di varechina. Altro seppi da pescatore silenzioso a barca a puzzo di cherosene e sangue di pesce raffermo, con ruga che solca il volto quale fiume di sale e fatica di sole. Che nessuno dei secondi ebbe allora a far mai guerra a talaltro, mai tirò indietro la mano a soccorso per chi vien dopo. Pure, a gengie sfatte, non smisero a riso per bimbo che passa, ch’io mi ricordo, che a denti non m’ero provvisto ancora, di tali sdentature di pace, ora che vedo biancheggiare nobili fauci di squali.» A farsi cheto sollevò foglio un tempo bianco, che ora era a raffigurazione precisissima di Figlia, e ad ella lo porse con una specie di smorfia che forse era un sorriso. Figlia ebbe esitazione: «non ho soldi» disse. Che il vecchio ancora parlò: «Già mi pagasti, già mi faceste regalo grande che qui vi fermaste. Faceste silenzio ed ascolto donaste al pazzo che, ad attimo esatto di vostra presenza, non più parve tale.» Si alzò, altro non disse scivolando dentro bottega a chiudere porta ad esterno che non fu vigliacco per una volta. Figlia guardò disegno di sé, si riconobbe per come si vedeva ad uno specchio e preziosa opera fece che scivolasse dentro la sacca a posizione che non si spiegazzasse.”