A furor di vento
Che pare, di questi tempi, che tutto proceda in direzione univoca, scivolamento verso barbarie quando non di palesato inebetimento. Che se c’è cosa che potrà andar storta, per linea dritta ci andrà a prescindere, e l’ottimismo pare roba da caratteristi di cinema anni ’70, fa scappar riso, talora amaro. Pure m’accorgo che a remar contro si fa fatica parecchia a remo senza pala, come a cacciar fumo con battipanni a sfondo d’uso eccessivo. Faccio musica a parzial conforto, pure mi ci dedico con ricerca a grande impegno per regine autentiche.
Che mi venne voglia di tempesta, a cambio di bonaccia a direzione precisa, vento che spiazza piuttosto, che non ti fa apparire direzione chiara, che smuove le carte, si fa scompiglio di pensieri, che se ne faccia pila nuova, ad ordine inverso e criterio di divergenza. Nostalgia c’è di scogli e rene, ma non di beati tramonti, desiderio invece ho di fortunali a schiocco di tempesta, onda che s’alza a cielo, precipita a tonfo, marea che si riveste di maremoto, gorgo di Scilla e Cariddi, vento possente ed incerto di Scirocco. Che “lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus orca)









Che me ne frega ormai della brezzolina leggera e rinfrescante, che di noia mi portò all’esausto, che non mi feci persuaso affatto che quella passa se non a colpi d’incedere inesorabile di folata a tutto sfare, a scoperchio case e mi porto via ogni cosa. Che non fu terribile come la noia dell’attesa d’un giorno dopo l’altro, che il primo pare uguale al secondo e pure a quello che viene, se non nella stanchezza che s’accumula e diventa sgomento d’ignavia del tutto d’intorno. Anelo bufera, che quella sia, che di cartolina a fronte d’azzurro nitido non me ne faccio niente, voglio scuro di sorpresa che fece notte pure il giorno fitto di luce: “Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare.”