I giorni della lupa
«Lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.» (Horcinus orca, Stefano D’Arrigo)
Avviene che faccio lavare la macchina un paio di volte a decennio, e c’è ragione precisa in questa scelta di disimpegno igienico: quando prendo la decisione viene su lo Scirocco, si porta dietro una coltre di sabbia rossa e bollente. Dunque, l’operazione di nettezza viene vanificata. Detto questo, a brevi giorni di feria, a mare ci sono andato che c’era la lupa, una foschia densa che l’orizzonte s’immagina appena. In un tempo di scarsa tecnologia, le navi grosse facevano ululare le sirene, erano quelle che parevano lupe. Ma a certi pareva di sentire canti di sirena, bastava tendere orecchie d’immaginazione. Pescatori di piccolo cabotaggio in giro non ce n’è, quelli se ne stanno al riparo dei porticcioli. Il mare è calmo, ma non sai come se la pensa il vento. Non gli va di rischiare proprio sotto Pasqua di essere inghiottiti da quella coperta densa, nemmeno ci tengono che a certi motori – già arrancano per grazia ricevuta – la sabbia intasi il filtro dell’aria lasciandoli invisibili in mezzo al nulla infinito. Ed io il pesce lo prendo solo da loro. Pilu non c’è, mi dicono che non sta bene e spero non sia niente, solo male di stagione. Vuol dire che per un attimo Nettuno, di cui è sacerdote a tempo pieno, si scordò di garantirgli giusta protezione. Raffaele, che sacerdote non è, lui c’è almeno a rango di chierichetto, e s’è fatto un giro rapido. Ha tirato su seppie e sgombri, a me va bene. Le seppie se le acchiappano subito, è roba che serve per le feste, quelle assai benestanti, va a far ripieno di certe procaci scacce. Per gli sgombri non faccio fatica ad assicuramene abbastanza, è pesce con le «spine», si fa fatica a perder tempo per toglierle, non c’è pazienza. Io, invece, tempo ne ho, pure pazienza. Per chi non gode di risorse spietate ma ha ad occasione sporadica del tempo, c’è il presagio di poter fare la differenza. Che già per comprare pesce buono di tempo ne occorre, ci vuole conoscenza giusta di luoghi e distinzione delle rughe che fece il mare salato. Avere tempo è un lusso che ci si deve concedere, che certe categorie nemmeno sanno cosa sia il tempo. Il tempo è buono per lamentarsi, per preparare «macco di fave», avendo cura – e, ovvio, tempo – di farle seccare, sgusciarle per bene una una, lasciare che «spanzino» in ammollo e cuocerle sinché non si fanno sfaldo e basta, crema precisa. Serve tempo per pensare a rivoluzioni, immaginare d’attuarle, magari per fiducia mal riposta in chi tempo non ne ha. Che gran lusso il tempo, pure se appartiene più ai disgraziati, tempo che fu ed è spazio mentale, tempo per soggiacere ai padroni senza tempo del vapore, o sperare d’emanciparsi da quelli stessi. Persino la morte pare cosa diversa per chi mezzi non ne ha e, dunque, possiede tempo: può essere oscena iattura, ma anche elegante prospettiva.
Della morte di certi disgraziati bisogna parlarne, che non sempre pare cosa elegante e non se ne capisce la ragione d’un anticipo, buonuscita per vita goduta malamente, a suono di bomba, per catastrofe o per qualche naufragio di barca sgangherata, traghetto di misere anime. Per quella dello sgombro bisogna essere preparati, invece, con precisione, avere mani buone, dose di tempo e pazienza per lordarsele a sufficienza, aspettando meritati appagamenti. Premio giusto ce n’è per sé, pure per gli altri, ché cucinare per gli altri non è dono da poco, è cosa che non serve solo a sfamare, detto a chi capisce cos’intendo. Tralascio di parlare di valore nutrizionale, quello che fa dello sgombro il re senz’altri a pretenderne il trono. Mi soffermo, invece, su certe sue proprietà estetiche, che a giocar di parola si fa a parlare di sembianze estatiche. Quello, lo sgombro, è da prima di copertina, per livrea iridescente, il portamento a perfetta affusolatura, campione d’idrodinamica, al tempo d’elegante, raffinatissima argentatura. Per cucinarlo si impiega il tempo d’uno sbadiglio, al forno con sale e olio e basta più, tutt’intorno rondelle di patate, quelle, al più, con salvia e rosmarino, una quindicina di minuti in tutto. E se volete ci si fa con ancor meno, se si tolgono testa e lisca centrale, s’apre a libro, si passa in farina da una parte e l’altra e basteranno un paio di minuti per lato, in olio bollente. Credo che la Convenzione di Ginevra proibisca altro olio che non sia d’oliva. Se la creatura lascia il suo nuoto libero, allora val la pena abbia sepoltura degnissima, che la morte sempre va santificata. E se la rapidità di cottura pare contraddire il prendersi tempo, è nel trovar pazienza per spinarlo che se ne recupera quanto basta la sacralità. Vien sete per quei piccoli morsi di mare salato, a bere rossi giusti non si fa male, lo sgombro ha personalità tale da resistere senza affanni all’innaffiata, non teme d’esser passato per gusto in sordina. Dopo ci si sente liberi, perché quello – sempre lo sgombro intendo – trasmette libertà di movimento, non pascola a fondali limacciosi, ama la corrente, non si tira indietro se s’alzano libeccio o scirocco, neppure se soffiano grecale o tramonta. Lui cammina, cammina, sfiora l’orizzonte perché si presenta sempre oltre quello, con pinne che ne cercano uno nuovo. Per questo i borghesi lo evitano, dicono ch’è pesce povero, con disprezzo, e lo rifiutano pure allo sguardo. Come rifiutano con analogo disgusto lo sguardo a chiunque abbia la stessa aggettivazione, se non per misericordiosi oboli a distanza, conto terzi, che non si perda tempo manco per la carità. Ma che tristezza quei bistrot sul lungomare, più avanti, c’erano sui tavoli – giuro, li ho visti – cocktail di gamberi, qualcuno li ha ordinati.