I giorni della lupa

«Lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.» (Horcinus orca, Stefano D’Arrigo)

Avviene che faccio lavare la macchina un paio di volte a decennio, e c’è ragione precisa in questa scelta di disimpegno igienico: quando prendo la decisione viene su lo Scirocco, si porta dietro una coltre di sabbia rossa e bollente. Dunque, l’operazione di nettezza viene vanificata. Detto questo, a brevi giorni di feria, a mare ci sono andato che c’era la lupa, una foschia densa che l’orizzonte s’immagina appena. In un tempo di scarsa tecnologia, le navi grosse facevano ululare le sirene, erano quelle che parevano lupe. Ma a certi pareva di sentire canti di sirena, bastava tendere orecchie d’immaginazione. Pescatori di piccolo cabotaggio in giro non ce n’è, quelli se ne stanno al riparo dei porticcioli. Il mare è calmo, ma non sai come se la pensa il vento. Non gli va di rischiare proprio sotto Pasqua di essere inghiottiti da quella coperta densa, nemmeno ci tengono che a certi motori – già arrancano per grazia ricevuta – la sabbia intasi il filtro dell’aria lasciandoli invisibili in mezzo al nulla infinito. Ed io il pesce lo prendo solo da loro. Pilu non c’è, mi dicono che non sta bene e spero non sia niente, solo male di stagione. Vuol dire che per un attimo Nettuno, di cui è sacerdote a tempo pieno, si scordò di garantirgli giusta protezione. Raffaele, che sacerdote non è, lui c’è almeno a rango di chierichetto, e s’è fatto un giro rapido. Ha tirato su seppie e sgombri, a me va bene. Le seppie se le acchiappano subito, è roba che serve per le feste, quelle assai benestanti, va a far ripieno di certe procaci scacce. Per gli sgombri non faccio fatica ad assicuramene abbastanza, è pesce con le «spine», si fa fatica a perder tempo per toglierle, non c’è pazienza. Io, invece, tempo ne ho, pure pazienza. Per chi non gode di risorse spietate ma ha ad occasione sporadica del tempo, c’è il presagio di poter fare la differenza. Che già per comprare pesce buono di tempo ne occorre, ci vuole conoscenza giusta di luoghi e distinzione delle rughe che fece il mare salato. Avere tempo è un lusso che ci si deve concedere, che certe categorie nemmeno sanno cosa sia il tempo. Il tempo è buono per lamentarsi, per preparare «macco di fave», avendo cura – e, ovvio, tempo – di farle seccare, sgusciarle per bene una una, lasciare che «spanzino» in ammollo e cuocerle sinché non si fanno sfaldo e basta, crema precisa. Serve tempo per pensare a rivoluzioni, immaginare d’attuarle, magari per fiducia mal riposta in chi tempo non ne ha. Che gran lusso il tempo, pure se appartiene più ai disgraziati, tempo che fu ed è spazio mentale, tempo per soggiacere ai padroni senza tempo del vapore, o sperare d’emanciparsi da quelli stessi. Persino la morte pare cosa diversa per chi mezzi non ne ha e, dunque, possiede tempo: può essere oscena iattura, ma anche elegante prospettiva.

Della morte di certi disgraziati bisogna parlarne, che non sempre pare cosa elegante e non se ne capisce la ragione d’un anticipo, buonuscita per vita goduta malamente, a suono di bomba, per catastrofe o per qualche naufragio di barca sgangherata, traghetto di misere anime. Per quella dello sgombro bisogna essere preparati, invece, con precisione, avere mani buone, dose di tempo e pazienza per lordarsele a sufficienza, aspettando meritati appagamenti. Premio giusto ce n’è per sé, pure per gli altri, ché cucinare per gli altri non è dono da poco, è cosa che non serve solo a sfamare, detto a chi capisce cos’intendo. Tralascio di parlare di valore nutrizionale, quello che fa dello sgombro il re senz’altri a pretenderne il trono. Mi soffermo, invece, su certe sue proprietà estetiche, che a giocar di parola si fa a parlare di sembianze estatiche. Quello, lo sgombro, è da prima di copertina, per livrea iridescente, il portamento a perfetta affusolatura, campione d’idrodinamica, al tempo d’elegante, raffinatissima argentatura. Per cucinarlo si impiega il tempo d’uno sbadiglio, al forno con sale e olio e basta più, tutt’intorno rondelle di patate, quelle, al più, con salvia e rosmarino, una quindicina di minuti in tutto. E se volete ci si fa con ancor meno, se si tolgono testa e lisca centrale, s’apre a libro, si passa in farina da una parte e l’altra e basteranno un paio di minuti per lato, in olio bollente. Credo che la Convenzione di Ginevra proibisca altro olio che non sia d’oliva. Se la creatura lascia il suo nuoto libero, allora val la pena abbia sepoltura degnissima, che la morte sempre va santificata. E se la rapidità di cottura pare contraddire il prendersi tempo, è nel trovar pazienza per spinarlo che se ne recupera quanto basta la sacralità. Vien sete per quei piccoli morsi di mare salato, a bere rossi giusti non si fa male, lo sgombro ha personalità tale da resistere senza affanni all’innaffiata, non teme d’esser passato per gusto in sordina. Dopo ci si sente liberi, perché quello – sempre lo sgombro intendo – trasmette libertà di movimento, non pascola a fondali limacciosi, ama la corrente, non si tira indietro se s’alzano libeccio o scirocco, neppure se soffiano grecale o tramonta. Lui cammina, cammina, sfiora l’orizzonte perché si presenta sempre oltre quello, con pinne che ne cercano uno nuovo. Per questo i borghesi lo evitano, dicono ch’è pesce povero, con disprezzo, e lo rifiutano pure allo sguardo. Come rifiutano con analogo disgusto lo sguardo a chiunque abbia la stessa aggettivazione, se non per misericordiosi oboli a distanza, conto terzi, che non si perda tempo manco per la carità. Ma che tristezza quei bistrot sul lungomare, più avanti, c’erano sui tavoli – giuro, li ho visti – cocktail di gamberi, qualcuno li ha ordinati.

L’antifuga

Mentre si fa vicina l’ora che mi dovrò ancora privare delle cose mie e metter su valigie e valigioni per condurne con me una manciata, mi sorge quella specie d’angoscia che si deve al viaggio mancato, meglio, interrotto, con quella fitta dentro che s’accompagna all’abbandono. Ancora mi concedo il rimasuglio di ciò che mi resta di tempo, per farmi esploratore del consueto, che mai mi parve finito di sorpresa. Quella forma lieve di ansia malcelata al cospetto della folla mi viene a soccorrimento per avventura. Mi fa guida per percorrenza dei miei stessi passi in ore impossibili, m’accompagna ancora verso le silenziose steppe del ricordo.

“Anche ora, anche questo, era come lo facesse in forza di sogno, per l’appunto come per un’ispirazione, e pensava che l’aria mezza da sonnambulo doveva proprio averla, l’aria di chi ripete di notte, a occhi chiusi , senza volontà né spirito, qualcosa che fece di giorno, un giorno, e un lontano giorno. Insomma, si muoveva come per un istinto, e si muoveva, faceva, come tentasse di combaciare, dopo tanti anni, col muccuso che lì, forse sulla stessa impronta di piede insabbiata, si metteva nudo e si gettava in acqua; ma la pelle del muccuso a lui gli andava ormai corta e stretta, ela sua, al muccuso, gli andava così larga, che l’infagottava tutto, e il suo pesce con la barba, tutto vero, di natura, al muccuso gli stava fuori misura, un affarecinese tanto spropositato per la sua taglia, che gli ingombrava i movimenti.

Anche la ‘Ricchia, anche quello specchietto d’acque rotte da scogli e sporgenze renose, finchè non si tuffò, ebbe l’impressione, dopo tanto, che gli sarebbe andato stretto e corto al nuotare.

Ma poi si piegò in avanti da una di quelle sporgenze di sabbia finafina, e dandosi una leggera spinta col piede come si varasse, s’infilò in acqua con le braccia, tese e strette, dietro la testa, scivolò giù slanciato, ma non scese profondo, subito riassommò e si sbracciò un poco, sbuffando dalle narici tutto trafficoso, per vincere il primo momento di freddo. Poi, cominciò a nuotare e dopo un po’ che nuotava, il corpo rioccupò la sua porzione di mare come ritornasse al suo naturale, dopo tanto stare a terra sulle sole gambe, col piacere e l’ebbrezza della prima volta quando gettato apposta in acqua da suo padre, si era scoperto a galleggiare e nuotare, mischiato all’acqua, tuttuno come un pesce. E allora sì, in questo, si trovò a combattere col muccusello di un tempo, perché nuotava e gli pareva di non avere più nuotato da quel tempo…” (Stefano D’Arrigo)

Il suono, la melodia

Ripubblico, ed ancora lo farò, che vale poco la pena riscrivere che detto che dissi pare uguale a se stesso. “Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro, dove il mare è mare.” (Stefano D’Arrigo, Horcynus orca)

Ero ragazzo, molto giovane, e sentivo storie da vecchi, quelli che avevano pelli bruciate di sole, rughe che parevano cave d’altopiano, dentro cui c’erano fiumi di sale a venir giù copiosi. Che tutti avevano barbe bianche che a me pareva che erano tali ché quei fiumi si buttavano in un lago d’intrecci. Erano storie di suoni e canti, di creature che non ci sono più, ma che allora pareva aspettassero barchette scalcagnate, spinte da motori a sbuffo e singhiozzo, o a semplice remo, per farsi gioco a paura d’orrido di quei disgraziati.

Che quelli però mai se ne lagnavano di tali fugaci apparizioni tra onda e scoglio, di voci strane, talora lamenti di strazio, tali altre melodie di vertigine. C’è chi disse d’aver visto qualcosa che non doveva stare lì, tra scogli d’aurora e chiaro di luna, che disse d’aver visto fere brontolare d’abisso, figure emergere a canzone soave.

Che ora nessuno ha barchette così, se non a favore di turista, che il mare si svuota a palamitare lunghe chilometri, e nasse di lampare sono cose di folklore e basta, che pure fossero abisso pare vuoto d’ogni creatura per chi ha lenze corte. Nessuno ci camperebbe più, meglio stipendio fisso di peschereccio che pare portaerei che congelo banchi di tonno e sardina direttamente a stiva. Lì c’è frastuono, che se c’è creatura che vuole lasciare ricordo di suono e vocalizio di delizia, sparisce e non torna più, che pare ninfa di fiume a metamorfosi in alga, Cola Pesce preferisce sostegno di terra per fatica sovrumana a brontolio di diesel, puzza di nafta, strage d’ogni fratello suo. Ch’era ancora notte e mi capitò che quei suoni li sentii anch’io, che forse fu più per fatto che a spiaggia arrivai a sangue che si fece vino la sera prima. Pure quei vecchi si facevano fiaschi a cacciar pellagra, tra calo di nassa e rete a parallelismo di promontorio, che quello, poi, era vino di vigna a radice sulla sabbia, a cercar acqua salmastra per sopravvivenza comunque, e che talora pareva distillato di forza e corpo, mentre virava a spuntatura per sciabordio d’onda. E che importa se ascoltarono solo ululato di vento a zufolo di scoglio, o corrente ed onda a caverna e scoglio, s’erano storie immaginifiche e vertiginose da raccontare. Pure, allora, tra quelle quattro barcacce sgretolate dalle onde, qualcuna se ne tornavano a casa un pezzo per volta, senza nocchiero. Me ne ricordo di nomi di quei nocchieri, non tutti certo, ma qualcuno ancora, che il fortunale avevano d’affrontare comunque, perché scadenza di cambiale di banca per acquisto di gozzo di mastro d’ascia, non aveva gran cura di meteo per vento ed onda. Poi era lancio di fiori da scogli, a speranza esausta, per ornare tombe d’abisso. Follia d’altri tempi, che ora è a gioia collettiva di natante che affonda a carico completo di disperazione per orizzonte di vita differente, mancato porto salvo. Pure è a digrignar gengie sfatte di bava rabbiosa se taluno allunga mano a salvezza di disgraziato, ed urla a crucifige, in attesa dell’ora di sgranar rosario, della domenica per battersi petto a favore di santo o Madonna. Si sceglie di fare a rimpinguare quella pletora genuflessa, o lanciare un fiore tra le onde, che quello sa dove deve andare, la corrente l’accompagna giusto.

La calce ed il cotto (parte seconda)

Pare che la natura s’attrezza a ripigliarsi il suo, che fece di terra che trema e vento di scirocco furibondo sue armi letali, a dispetto d’onnipotenza umana. Mi giunge voce, che son lontano assai in questo momento, che la fornace si sgretola malamente, a forza di bufera che non s’arresta. Mi sovviene che è poca cosa che pure anime migranti si misero a condizione d’inghiottimento per onda alta metri e metri. Ma è sempre cosa di miei ricordi che sparisce, e infonde tristezza di vertigine.

“Lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la faccia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmerìa o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s’è piazzato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presenza… Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nella memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tutto il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus orca) E a sommo di mestizia riprendo cosa antica.

“Mi dicono, taluni, ch’io vivo a nostalgia, che è cosa non rispondente al vero, poiché del bel tempo andato non ho affezione particolare, che fu tempo di travagli. Ma v’erano, tuttavia, marasmi di dettagli di solluchero allora, dunque – saggio di filosofia quale Epicuro – me li serbo ancora, che non sono più apparentati solo con quel tempo, rimangono nell’oggi, lontani, dunque, dall’essere esclusive rimembranze, come certe musiche che suonano ancora.

Talune di quelle cose si perdono, me ne dolgo e a quelle si, rivolgo rimpianto. Ozio e lentezze mi sono ancora cari, quali cenni di svago, pure cose di densità palpabile ancora m’appartengono. Preciso, invero, che mai mi rivolsi più di tanto ad affezionarmi alle cose di stretta proprietà, le tratto con svogliatezza, se escludo dal novero dischi e libri. Ma cose di legame ne conservo, che non sono mie, nemmeno mi sconvolge l’idea possano essere d’altri, che la bellezza rifiuta l’appartenenza, rifugge del concetto proprietario. Sempre, nella valutazione che non è bello ciò che è bello, che principio di bellezza, forse, non è fatto assoluto. Che di certe bettole che mi furono aule di scuola, sentii disquisire malissimo, in contrappunto non cantante con certe tavole apparecchiate a lusso. Di tali personaggi di cui m’innamorai, e che fecero storia contorta di sé, mi pare di ricordarne censura. Pure per certi vini, che sapevano di terra e sale, e mi vennero a conforto – financo d’economie approssimative – ricordo espressioni di disgusto.

La fornace, vecchia cattedrale che dalla punta si sdraia sulle onde, ghermisce di camino il cielo, e s’apparecchia al tramonto come quinta estatica sul tutto d’intorno, è una di quelle siffatte idee concrete che mi convive di simbiosi.

Seppure non me la godo quanto mi parrebbe, me ne faccio racconto, memoria presente, e il reincontro attendo con le ansie vaghe di chi ha caduca certezza delle cose. Consunta nelle malte incendiate, lei, s’è retta – capolavoro d’architetti che non pensarono alla storia – un secolo e più, d’equilibri precari di pietre, sottese a leggerezza, a sorreggersi l’un con l’altra, pare, a dispetto di leggi newtoniane, pure di convenzioni socio(il)logiche nelle contraddizioni dell’oggi. Ma ogni anno, il rinnovato afflato, mi pare che s’abbandoni al desiderio di sparire e, mentre mi rendo ancora nessuno al suo cospetto, lei adesso smunge, si compenetra con la sabbia generatrice, s’affolla di salsedini e si concede al vento, pietra su pietra. Mi dice, or ora, il maestro sulla punta del corvo, di pennelli e scalpelli assai edotto, che s’amputò un’ala, che quella mai rivedrò se non in cocci. Un po’ più monca, piano piano, la fornace pare s’arrende, forse al desiderio di divenire nostalgia, ricordo d’ozi e lentezze, sigarette rubate, in bilico di falesia. O forse issa bandiera bianca di calce e cotti sul comignolo più alto, per sopraggiunta noia e stanchezza di irruzioni cash & carry.

Il suono, la melodia

Allo scuro si sentiva lo scivolio rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli come l’eco di un rimbombo tenero e profondo, caldo e spezzato, dentro i petti. La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro, dove il mare è mare.” (Stefano D’Arrigo, Horcynus orca)

Ero ragazzo, molto giovane, e sentivo storie da vecchi, quelli che avevano pelli bruciate di sole, rughe che parevano cave d’altopiano, dentro cui c’erano fiumi di sale a venir giù copiosi. Che tutti avevano barbe bianche che a me pareva che erano tali ché quei fiumi si buttavano in un lago d’intrecci. Erano storie di suoni e canti, di creature che non ci sono più, ma che allora pareva aspettassero barchette scalcagnate, spinte da motori a sbuffo e singhiozzo, o a semplice remo, per farsi gioco a paura d’orrido di quei disgraziati.

Che quelli però mai se ne lagnavano di tali fugaci apparizioni tra onda e scoglio, di voci strane, talora lamenti di strazio, tali altre melodie di vertigine. C’è chi disse d’aver visto qualcosa che non doveva stare lì, tra scogli d’aurora e chiaro di luna, che disse d’aver visto fere brontolare d’abisso, figure emergere a canzone soave.

Che ora nessuno ha barchette così, se non a favore di turista, che il mare si svuota a palamitare lunghe chilometri, e nasse di lampare sono cose di folklore e basta, che pure fossero abisso pare vuoto d’ogni creatura per chi ha lenze corte. Nessuno ci camperebbe più, meglio stipendio fisso di peschereccio che pare portaerei che congelo banchi di tonno e sardina direttamente a stiva. Lì c’è frastuono, che se c’è creatura che vuole lasciare ricordo di suono e vocalizio di delizia, sparisce e non torna più, che pare ninfa di fiume a metamorfosi in alga, Cola Pesce preferisce sostegno di terra per fatica sovrumana a brontolio di diesel, puzza di nafta, strage d’ogni fratello suo. Ch’era ancora notte e mi capitò che quei suoni li sentii anch’io, che forse fu più per fatto che a spiaggia arrivai a sangue che si fece vino la sera prima. Pure quei vecchi si facevano fiaschi a cacciar pellagra, tra calo di nassa e rete a parallelismo di promontorio, che quello, poi, era vino di vigna a radice sulla sabbia, a cercar acqua salmastra per sopravvivenza comunque, e che talora pareva distillato di forza e corpo, mentre virava a spuntatura per sciabordio d’onda. E che importa se ascoltarono solo ululato di vento a zufolo di scoglio, o corrente ed onda a caverna e scoglio, s’erano storie immaginifiche e vertiginose da raccontare. Pure, allora, tra quelle quattro barcacce sgretolate dalle onde, qualcuna se ne tornavano a casa un pezzo per volta, senza nocchiero. Me ne ricordo di nomi di quei nocchieri, non tutti certo, ma qualcuno ancora, che il fortunale avevano d’affrontare comunque, perché scadenza di cambiale di banca per acquisto di gozzo di mastro d’ascia, non aveva gran cura di meteo per vento ed onda. Poi era lancio di fiori da scogli, a speranza esausta, per ornare tombe d’abisso. Follia d’altri tempi, che ora è a gioia collettiva di natante che affonda a carico completo di disperazione per orizzonte di vita differente, mancato porto salvo. Pure è a digrignar gengie sfatte di bava rabbiosa se taluno allunga mano a salvezza di disgraziato, ed urla a crucifige, in attesa dell’ora di sgranar rosario, della domenica per battersi petto a favore di santo o Madonna. Si sceglie di fare a rimpinguare quella pletora genuflessa, o lanciare un fiore tra le onde, che quello sa dove deve andare, la corrente l’accompagna giusto.

Il dettaglio esatto

Strisciando sulla rena sino in pizz’in pizzo, dalla spiaggetta si lasciò scivolare sotto, s’infilò in acqua liscio liscio, senza fare spruzzi né schiume, come un pesce, o come qualcuno, qualcosa più d’un pesce, perché sembrò che fosse il mare che s’apriva e subito si richiudeva dietro a lui, con dentro lui: poi, dopo che sembrava sparito come per sempre, riassommò e silenzioso, leggero come non fosse il corpo a muoversi, ma la sua ombra, pigliò a nuotare risalendo la ‘Ricchia per tutta la sua apertura.” (Stefano D’Arrigo, Horcinus Orca)

Mi feci persuaso col tempo che il mare appartiene a tutti, ma non è cosa per tutti a percezione perfetta, che mi pare che talune cose sfuggono di quello. Che sì, c’è che si possa dire che bello, ma se ti prendi posto a massa su spiaggia a densità di Striscia di Gaza, non è detto che poi hai capito bene cos’è. Se te ne godi presunte essenze a comodità con campanello c’arriva servizio a sdraio ed ombrellone, se ci hai bum bum a godimento mantrico di neurone, forse non c’è bisogno di mare, che medesima circolazione a divertimento è concessa pure a bordo piscina tra capannone a prefabbrico tutti uguali. Del mare ti sfugge il dettaglio esatto.

Il mare ha comunicazioni precise, non s’azzarda a dar libero sfogo ad essenza sua intima per chicchessia, pure se quello crede ch’è così. Appare parco di dono, che poi è ad evidenza che si mostra di bellezza assoluta quando s’appresenta sgombro di presenza, che cacciò tutti adirato a fulmicotone, attrezzato a bufera e tormenta, spazzolato di sabbia di Libeccio, sferzato da Scirocco. Che lì c’è fuggi fuggi, che non c’è tale alcuno ad ora di mattina che ancora melassa nottambula pesa su turistume vario, su ammarati della settimana, a costrizione di distanza dall’onda di risacca. Non c’è tale alcuno che non ne colse essenza precisa. Poche anime s’affollano a mare ad una certa ora, tal poche che nemmeno si potrà dire che s’affollano, al più si scrutano a distrazione da lontano, si percepiscono appena, che i sensi hanno altro cui rivolgersi. Che c’è odore di sale e posidonia, canto di sirena s’appalesa esatto, rumore di brontolio che viene da risacca d’agitazione che fu, che attende di rifare il verso di ferocia di vento di tormenta bollente. C’è colore unico che muta a piano, non si fa ora tutto cielo, ora tutto mare, a certe ore se la prende comoda, fa un po’ e un po’, si passano consegne, cielo e mare, in punto indefinito, all’alba che il giorno è giovane, a notte che morì ad attesa d’altro, a sbrilluccicare di riflesso di stella e di mezza luna, che mondo d’altro a quello volta le spalle.

A distrazione si corre sulla rena che è a conto giusto pensare a forma di fisico perfetto, che quello va esposto ad ora dopo, allorché il mare c’è ma sparisce di sua essenza, s’inabissa nei suoi abissi, fa appena quinta di scenografia di cartone, si finge tale. Riapparirà a vista giusta, non a vista di tutti, che colore, suono, odore, meritano stasi perfetta, non agitazione termica, lentezza inesorabile, postura di fermo di vertigine, che quello è punto di vista esatto di viaggio che il mare fa conto terzi, s’agita e ti profila il mondo intero, ti svela d’orizzonte la piega di terra, ti racconta storia che orecchio giusto ascolta e capisce s’è concentrato e cancella sovrapposizione d’altro pensiero. Il mare è così, s’affratella ai suoi figli, non si concede a Narciso se non a veste di camuffo, a parziale sua dimensione esatta. Il resto è di sensi giusti, assai più di quelli noti a pagina d’abbecedario.

La presa della Fera

Succede, soprattutto nei momenti di riflusso (non gastroesofageo), che incontri quegli sguardi ieratici, quelle espressioni estasiate, con gli occhi che pare esplorino l’infinito; poi, appena sussurrata, la frase che ti cattura – a me, invero, stranisce, persino mi inquieta -: “questo libro m’ha cambiato la vita”. È pure probabile che io sia un uomo rozzo, persona di sensibilità appena verificabile, tipo che inchiodo se un gatto mi taglia la strada, non tiro dritto incurante, cioè, questo sì, lo faccio, magari oltre non vado. A me, però, un libro non m’ha mai cambiato niente. Quando vi fu la riscoperta di Memorie d’Adriano, per buttarla in caciara, pareva che tutti non aspettassero altro per schierare occhi persi verso l’orizzonte, che quello dell’avvenir ormai pareva perso. Mi viene in mente che quel libro di vittime così ne fece parecchie. Posto che io non ce l’ho con la cosa della Yourcenar, m’è pure piaciuta (ho preferito Il Portico di Zenone), l’ho letta con affabile genio, come altri: però, ribadisco, “un” libro, la vita non me l’ha mai cambiata. Tanti libri assieme finiscono col farti buono o una pura schifezza, dipende da quello che leggi. Se non leggi, poi, forse va pure peggio. Ma uno, uno solo, intendo, con me non c’è riuscito. Anche perché, se ci si ferma a pensare un attimo, ognuno di noi è fatto da talmente tante pagine, che pure certe scritture strette e fitte come fanno a starci dentro senza perdersi come goccia nel mare? Tranne che, appunto, qualcuno di pagine sue ne abbia non troppe, e s’accontenta. Così mi pare che sia, anche se, proprio a dirla tutta, ce n’è stato uno di libro, che seppure non m’ha cambiato la vita, tuttavia…

Insomma, è storia antica, ed eravamo in mezzo ad una Sicilia di contraddizioni, intorno alla metà degli anni ’50, ma io non c’ero, non ancora, almeno. C’era Elio Vittorini, che faceva l’editor d’Einaudi. Fu il tempo che ricevette una stesura de Il Gattopardo. Si disse che la rifiutò sdegnosamente, e fu accusato perciò di feroci ideologismi. Pare, invece – e ho fonti certe ed attendibili in merito – che in realtà abbia solo evidenziato che l’opera pareva incompleta, che non c’era finale. Poi fu pubblicato da Feltrinelli. Chi l’ha letto avrà in effetti notato come il finale sia un po’ appiccicaticcio, quasi pareva non c’entrasse niente col resto, come ci avessero messo il primo che trovavano perché non se ne poteva fare a meno. Tanto che Visconti lo fece praticamente sparire dal suo film. Ma sto divagando, non è alla cosa del Lampedusa che mi riferisco. È che, quasi contestualmente, si presenta da Vittorini, un giovane ricercatore, siciliano anch’egli, tale Stefano D’Arrigo, con un libercolo che si chiama “I giorni della fera”. All’editor quel lavoro piace, ma consiglia benevolmente di rimpolparlo un tanticchia. Fu preso abbastanza sul serio poiché quel rimpinguare di pagine durò oltre vent’anni, si da trasformare il libretto embrionale nell’opera monumentale -1600 pagine fitte e strette come mai, da perderci fiumi di diottrie – Horcinus orca. Roba che poi, per rilassarti, leggi i classici russi. Così pensavo, tenendomene alla larga beatamente, pur se taluni che s’erano avventurati nella lettura li conoscevo. Gente reticente, che non raccontava niente di quello che avevano trovato in quelle 1600 pagine, e, senza troppi sguardi ieratici, a domanda rispondeva con fastidio che me le potevo anche leggere da solo. Pare che custodissero una sacra reliquia, un segreto estremo e definitivo, custodi di quello come cavalieri templari. Io non è che non ci dormissi la notte, e financo Mastro don Gesualdo Bufalino scrisse un Codicillo a D’arrigo, in cui, dopo aver elogiato l’opera, candidamente ammetteva di non essere nemmeno arrivato al giro di boa. Per cui mi sentivo confortato nella mia scelta. Sinché, una graziosa signora, col senno di poi, non so, se per affetto oppure per inconfessata antipatia, me ne fece gentile omaggio, pure in bella confezione. Lo deposi con cura in un angolo oscuro della mia libreria, e feci finta di dimenticarmene. Tuttavia, quella costa voluminosa, tanto larga quanto alta, pareva accendersi di fosforescenze ogni volta che vi passavo dinnanzi. C’era qualcosa che attirava la mia attenzione da quelle parti. Mi capitava di svegliarmi di soprassalto dai miei sogni giovanili, e tutto sudato andavo a verificare se il libro s’era acceso di nuovo, se s’era messo a vivere. Fu così che mi decisi di cominciarne la lettura. Dopo le prime duecento pagine, sofferte di contenuti, m’avvidi della vertigine che ne rimaneva. Così smisi una prima volta. Ma quello non demordeva, lampeggiava come certi catarinfrangenti autostradali, senza ritegno per l’oscurità d’intorno, sfavillando, persino. Io dissimulavo l’interesse, facevo finta di niente, mi mostravo indifferente. Ci ricascai, forse per altre trecento o quattrocento pagine, arrivai persino a superare Bufalino. Ma m’arresi ancora. Poi un lascia e piglia, e di resa in resa, arretramenti e incursioni, quella dialettica serrata maturò l’ultima pagina che acquietò la fera, e dopo quasi due anni. Quindi, sancì l’irrilevanza d’ogni altra cosa abbia letto sino ad allora o avrei letto da lì in poi. Qualcuno m’ha chiesto cosa ne pensassi, di cosa parlasse, me ne chiedevano un Bignami. Sempre risposi, ma perché non ve lo leggete?

Tempeste e tempeste

“Che succede a volte nelle tempeste, eh, ‘Ndrja, che succede? Succede che alla fine la chiumma si dichiara vinta, tutti piegano il collo e da quel momento, di momento in momento, aspettano solamente l’ondata che li annegherà.

Però, quando l’ondata che pare mortale arriva, ed è un cavallone d’acqua e di vento che fischia e schiumeggia, alzato con le zampe per aria sopra la chiumma e ogni uomo già si speranza di mondo e si rincunea sotto, mentre il terribile cavallone si sdirupa sopra, li sconfonde, acceca e come per sempre gli leva il respiro, e tutti, inghiottendo acqua pensano: affogai, in quest’ultimo istante succede però, che il cavallone si ritira, la barca torna all’aria e ogni uomo cerca allora con gli occhi il compagno vicino, si contano l’uno con l’altro se ci sono tutti e, poi, subito, c’è chi ripiglia il timone, chi rimpugna il suo remo, chi svuota la barca dell’acqua imbarcata. Insomma, dopo quel terribile istante in cui vedettero la morte con gli occhi, fanno come avessero deciso di non arrendersi, e si direbbe che proprio lei, la morte vista con gli occhi, gli avesse ribellato il vivere che prima della morte, essi stessi, col loro scoraggiamento, avevano ormai mortificato: avanti, forza, sursincorda. Si spronano allora gli uomini in periglio. Vediamo quel è la situazione, vediamo se è proprio disperata o se ci possiamo mettere rimedio, vediamo, vediamo, se c’è modo d’uscirne. E se non era scritto che uscissimo, si scriva, se non altro, che ci ribellammo, e che maniammo, non solamente, maniammo d’ogni modo e maniera, smaniammo per potercela scapolare, e che la morte non ci pigliò a collo chino, con le mani al petto a dirci le preghierelle. Capisti, ‘Ndrja” (Stefano D’Arrigo, Horcinus Orca)