“Che succede a volte nelle tempeste, eh, ‘Ndrja, che succede? Succede che alla fine la chiumma si dichiara vinta, tutti piegano il collo e da quel momento, di momento in momento, aspettano solamente l’ondata che li annegherà.

Però, quando l’ondata che pare mortale arriva, ed è un cavallone d’acqua e di vento che fischia e schiumeggia, alzato con le zampe per aria sopra la chiumma e ogni uomo già si speranza di mondo e si rincunea sotto, mentre il terribile cavallone si sdirupa sopra, li sconfonde, acceca e come per sempre gli leva il respiro, e tutti, inghiottendo acqua pensano: affogai, in quest’ultimo istante succede però, che il cavallone si ritira, la barca torna all’aria e ogni uomo cerca allora con gli occhi il compagno vicino, si contano l’uno con l’altro se ci sono tutti e, poi, subito, c’è chi ripiglia il timone, chi rimpugna il suo remo, chi svuota la barca dell’acqua imbarcata. Insomma, dopo quel terribile istante in cui vedettero la morte con gli occhi, fanno come avessero deciso di non arrendersi, e si direbbe che proprio lei, la morte vista con gli occhi, gli avesse ribellato il vivere che prima della morte, essi stessi, col loro scoraggiamento, avevano ormai mortificato: avanti, forza, sursincorda. Si spronano allora gli uomini in periglio. Vediamo quel è la situazione, vediamo se è proprio disperata o se ci possiamo mettere rimedio, vediamo, vediamo, se c’è modo d’uscirne. E se non era scritto che uscissimo, si scriva, se non altro, che ci ribellammo, e che maniammo, non solamente, maniammo d’ogni modo e maniera, smaniammo per potercela scapolare, e che la morte non ci pigliò a collo chino, con le mani al petto a dirci le preghierelle. Capisti, ‘Ndrja” (Stefano D’Arrigo, Horcinus Orca)