Radio Pirata 64 (grande è il disordine sotto il cielo)

Ed arriva a farsi Sessantaquattresima puntatissima pure Radio Pirata che fa concorrenza durissima a grande kermesse che tutto paese di suonatori mette in fila appassionatamente a far tifo per capolavoro immortale, e questo forse vince, ma forse no, ma se si fa passaggio a passerella floreale è roba da commozione comunque che comunque vada è successo conclamato da critica e pubblico. Che c’è chi piange d’adorazione e chi invece piange ch’è allergico a fiore ad oltranza, pure c’è chi piange per grande disordine cosmico. Radio non teme sfida d’Auditel che ha pacchetto solido d’ascoltatore e per puntata in corso s’attrezza a palmares per consegna di premio per taglio di traguardo a man bassa d’ascoltatore.

E si comincia subito che si fece fuori buona parte di giovani collaboratori che si cerca nuove leve da lanciare in produttivissimo mondo di spettacolo che Radio Pirata è, a detta d’estimatori competentissimi ed esperti marketing pure social, trampolino perfetto per carriera bruciante ed aspirazione di diventare numero nessunissimo. Ecco che da cast emerge tal giovane talento cui si concede parola e si spera bene: «Non tutte le prigioni hanno le sbarre: ve ne sono molte altre meno evidenti da cui è difficile evadere, perché non sappiamo di esserne prigionieri. Sono le prigioni dei nostri automatismi culturali che castrano l’immaginazione, fonte di creatività.». (Henri Laborit)
Mi scuso con radioascoltatori che beccammo un altro che ha testa a favore di vento di scirocco, che straparla. Esperto di casting per Radio ha giorni contati che contratto cococo glielo faccio ad uso di doppio velo morbido ed avvolgente e lo metto ad addetto di pulizia WC a cottimo. Per far perdono collettivo vado di musica.

Si procede subito con notiziola che c’è blocco totale ad opera di cingolato che non fu carrarmato sovietico come a temenza passata bensì cosa semovente da campo. Fortuna è che c’è saggezza d’istituzione che dice che protesta è cosa buona e giusta e si fa concessione che s’usa pesticido ed ogni altro orpello che fa venir su zucca a forma di pallone tensiostatico. Così consumatore viene dissuaso a far passeggiata a favor d’aria buona e non lesina presenza sua a grande e grosso supermarket energivoro per acquisto ad oltranza, che passeggiata boschiva mai influenzò PIL. Che saggio governante capisce meriti di crescita economica a tutto spiano e pure a spiano tutto. E se taluno protesta per cambio di clima con lancio di zuppa precotta e blocco di striscia pedonale si fa ergastolo che non si blocca servizio. Che blocco di servizio non è assedio di detto cingolato, al più è ferrotramviere che fa a protesta che arrivo a fine mese pare più complicato che mezzo nuovo a prossima fermata. Per pretesa tale merita precetto di «ti presenti al lavoro o vai a pena d’ammenda pari a stipendio stesso moltiplicato per anni ad arrivare a pensione che è a fine pena mai.»

Sentiamo quest’altro che ce lo porti buono e non dica minkiate come ormai pare d’uopo a chi vuol successo facile con passaggio a Radio Pirata. «Io spero sinceramente per amore della posterità che, se la terra dovesse perdere quella beltà che deve alle cose, che un’accrescimento illimitato di ricchezze (…) farebbe estirpare onde alimentarne una quantità maggiore, cosa aderirebbe a rimanersi stazionaria assai prima che la necessità ve la obbligasse. (…) Vi sarebbe sempre un altro scopo per ogni specie di cultura mentale, e pei progressi morali e sociali; vi sarebbe luogo, come prima, a perfezionare l’arte della vita e vi sarebbe eziandio più facilità per farlo.» (John Stuart Mill) Niente, non ce la possiamo fare, pure questo pare ha cambiato spacciatore.

Va beh, si continua che pare non c’è scampo a delirio vario, ‘sti giovani non hanno più voglia di lavorare a mondo dello spettacolo con sacrifico di preparazione. Speriamo nelle donne. «Qualche volta ho la sensazione di non essere un vero e proprio essere umano, ma appunto qualche uccello o un altro animale in forma di uomo; nel mio intimo mi sento molto più a casa mia in un pezzetto di giardino come qui, oppure in un campo tra i calabroni e l’erba, che non… a un congresso di partito.

A lei posso dire tutto ciò: non fiuterà subito il tradimento del socialismo. Lei lo sa, nonostante tutto io spero di morire sulla breccia: in una battaglia di strada o in carcere. Ma nella parte più intima, appartengo più alle mie cinciallegre che ai “compagni”. E non perché nella natura io trovi, come tanti politici intimamente falliti, un rifugio, un riposo. Al contrario, anche nella natura trovo ad ogni passo tanta crudeltà, che ne soffro molto.» (Rosa Luxemburg) Ecco, un uccello si sente, ma io glielo dico ai giovani di lasciare stare le cose pesanti, fanno male.

Che vi devo dire, mi dispiace per ospite irrequieto e con poco sale. Ma non è che ad altra parte per megalitica kermesse c’è meglio assai. Vi lascio però con rinfreschino e musica che abbiamo budget elevatissimo. «È indispensabile che tutti gli esseri e tutti i popoli saggi della terra capiscano che pane e pomodoro è un paesaggio fondamentale dell’alimentazione umana. Piatto peccaminoso per eccellenza perché comprende e semplifica il peccato rendendolo accessibile a chiunque. Piatto peccaminoso in quanto può significare un’alternativa a tutto ciò che è trascendente, a tutto ciò che è pericolosamente trascendente, se diventa cultura della negazione. Non fate la guerra ma pane e pomodoro. Non votate per la destra ma mangiate pane e pomodoro. No alla NATO e sì al pane e pomodoro. Ovunque e sempre. Pane. Pomodoro. Olio. Sale. E dopo l’amore, pane e pomodoro e un po’ di salame». (Manuel Vasquez Montalban) Il vino lo offre la casa🍷🍷.

Una partenza

«Il mattino era caratteristico di quella costa. Tutto era muto e calmo, tutto era grigio. Il mare, percorso dai lunghi rigonfiamenti delle ondate, pareva tuttavia immobile ed era lustro come in superficie come piombo ondulato, raffreddato e depositato nello stampo di fusione. Il cielo sembrava un mantello grigio. Stormi di uccelli grigi, irrequieti, parenti stretti degli stormi di vapori grigi irrequieti ai quali erano mescolati, sfioravano bassi e repentini le acque, come rondini sui campi prima del temporale. Ombre presenti, adombranti più cupe ombre future.» (Benito Cereno, Herman Melville)

Pare che quando vado via il tutto d’intorno se ne accorga, mi tiene musi lunghi, non fa esibizioni cromatiche, si ammutolisce piuttosto, vira a colore funereo. Ora, mi rendo conto che, a verità piena e provata, il tutto d’intorno se me ne vado se ne fa una ragione, sempre se ne accorga. Ha altro cui pensare. Ma da che mondo e mondo si parte e a me va anche bene, tanto torno. Forse un giorno smetto di partire e rimango, a restituire i colori a quel che c’è nella mia testa all’atto d’andar via. Ognuno fa una vela con quel che gli pare, la piazza verso dove vuole, ma a me preme anche dar forma ad un’ancora, e quella me la costruisco da me, senza metallo pesante. La rendo solo tavolozza di colori, nemmeno tutti, al più quelli che bastano. E mentre il motore sottocoperta sbuffa, la vela si gonfia, io penso a dove lanciare l’ancora. Per fortuna ho musica e scorte in cambusa perché la permanenza oltre porto si possa protrarre senza eccesso di patimenti, non troppo però, quanto basta a rimettere insieme i colori. Semmai vi lascio un ricordino di chi partì e non tornò che, incredibile a memoria rimossa, eravamo noi.

«Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già cominciato da un’ora, e il Galileo, congiunto alla calata da un piccolo ponte mobile, continuava a insaccar miseria: una processione interminabile di gente che usciva a gruppi dall’edifizio dirimpetto, dove un delegato della Questura esaminava i passaporti. La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti che avevano ancora attaccata al petto la piastrina di latta dell’asilo infantile passavano, portando quasi tutti una seggiola pieghevole sotto il braccio, sacche e valigie d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materassi e di coperte, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra. Delle povere donne che avevano un bambino da ciascuna mano, reggevano i loro grossi fagotti coi denti; delle vecchie contadine in zoccoli, alzando la gonnella per non inciampare nelle traversine del ponte, mostravano le gambe nude e stecchite; molti erano scalzi, e portavan le scarpe appese al collo. Di tratto in tratto passavano tra quella miseria signori vestiti di spolverine eleganti, preti, signore con grandi cappelli piumati, che tenevano in mano o un cagnolino, o una cappelliera, o un fascio di romanzi francesi illustrati, dell’antica edizione Lévy. Poi, improvvisamente, la processione umana era interrotta, e veniva avanti sotto una tempesta di legnate e di bestemmie un branco di bovi e di montoni, i quali, arrivati a bordo, sviandosi di qua o di là, e spaventandosi, confondevano i muggiti e i belati coi nitriti dei cavalli di prua, con le grida dei marinai e dei facchini, con lo strepito assordante della gru a vapore, che sollevava per aria mucchi di bauli e di casse. Dopo di che la sfilata degli emigranti ricominciava: visi e vestiti d’ogni parte d’Italia, robusti lavoratori dagli occhi tristi, vecchi cenciosi e sporchi, donne gravide, ragazze allegre, giovanotti brilli, villani in maniche di camicia, e ragazzi dietro ragazzi, che, messo appena il piede in coperta, in mezzo a quella confusione di passeggieri, di camerieri, d’ufficiali, d’impiegati della Società e di guardie di dogana, rimanevano attoniti, o si smarrivano come in una piazza affollata. Due ore dopo che era cominciato l’imbarco, il grande piroscafo, sempre immobile, come un cetaceo enorme che addentasse la riva, succhiava ancora sangue italiano.» (Sull’Oceano, Edmondo De Amicis)

La nave dei folli (per un viaggio ancora)

Passai la domenica febbricitante, a dolore ad ogni tipo d’ossa e ancora non sono a guarigione completa. Ebbi però, ad inganno di tempo per sequestro in casa, volontà di farmi endovena di notizia con morto ennesimo d’ammazzo a far fatica per non torno a casa, stragettina di qua e di là per uso assai convenzionale di bomba, accordo lontano per dire basta a cambio di clima. Ed anzi mi veniva a mente tale cosa che questi che dissero no a trovo soluzione a cambio di clima sono quelli moderati, magari impicchicchiano, lapidicchiano, si tengono donne a catena e capo fasciato a ghisa, ma sono moderati, lo fanno con garbo, ci mettono soldo abbastanza per apparir civilissimi, mica se ne stanno ammassati in topaia di Striscia, che è cosa assai disdicevole. Che quelli che se ne stanno ammassati a topaia di Striscia dovrebbero fare autocritica che non si fecero nababbi abbastanza e poi a pretesa dicono non m’ammazzare E mi pare che siamo tutti matti assai. Ma forza di scrivere altro, adesso, non ho. Vado di riesumazione di cose da pazzi.

«Mentre della nave che va non v’è traccia, si palesa che, se non ci fu affogo a massa, taluno abbia restituito anime vaganti di speranza ad aguzzini certi, ché occhio non vede cuore non duole. Io vado a banale ripubblicazione di cosa vecchia per lieve sensazione di nausea sopraggiunta ad impedimento di scrittura nuova e compiaciuta.

“…la nave dei folli non era, poi, totalmente un parto della fantasia. Al contrario, era piuttosto comune la prassi di allontanare i matti dalla comunità dei normali, eventualmente proprio affidandoli a gente di mare. Accadeva spesso che venissero affidati a battellieri, a Francoforte, nel 1399, alcuni marinai vengono incaricati di sbarazzare la città di un folle che passeggiava nudo. Le città europee hanno spesso dovuto veder approdare queste navi di folli”. (Michel Foucault)

La follia arriva e batte bandiera sconosciuta. Non ha patria né dio, nemmeno padre e madre, pare tale, la follia, intendo, che non si palesa con documento d’imbarco, s’allontana e basta, a cerca di porto salvo per disperazione d’essere niente e nessuno. La cittadella fortificata del mondo dei sani se ne difende, invita a respingimento, con accordo tra tiranno e tiranno a far che pure accoglienza di pazzo è cosa da folli. D’avanzata sanità di mente si tinge distruzione e guerra, parve laurea a saggezza affondare nave dei folli, bombardo di città di dissenso, ripiegare a tasso d’umanità pari a curva concava.

Orizzonte scruta non per vertigine di visione, solo per scorgo a vista nemico che arriva, che se poi non si palesa ad esodo qual vien dichiarato, che importa, che semplice attesa d’invasione è a generazione di paura e fremito di pelle di popolume a suddito di illuminatissimi, che immantinente si tinge di vessillo patrio a nome noto, sotto egida di tiranno a difendere belle, armate sponde, a sventolar bandiera di grande savio di giustezza conclamata. Il resto è dago, pazzo, diverso per colpa ed essenza di sua scelta, che non nacque né a colore giusto, né a terra di saggezza. Pazzo più pazzo è a sostegno d’idea che pazzia fu per causa di mondo di giusti che non s’avvidero che pazzi fecero a furor di tempesta, a fulmine di guerra, a sfrutto a schiavo creatura e natura. Egli attende anche per sé medesimo imbarco coatto – che presto arriva – di chi, pazzo tra i pazzi, ricerca altra sponda per vita, anziché schiantare a terra desolata senza far rumore a non disturbo saggissimo manovratore.»

Silenzi d’autodifesa

Esiste la linea del silenzio, quella che al fragore assordante della strage permanente in forme di manifesta spietatezza, pure in quelle occulte della barbarie sepolta all’attenzione, preferisce il non rumore, evita la pervicace presenza della parola che non basta. Esiste la logica del silenzio, il contraltare esatto al boato ed al rumore di fondo dello sterminio di moltitudini che ebbero sorte avversa di nascere sopra lo strumento d’opulenza d’altri, bulimici del sangue dei vinti. Esiste la strategia del silenzio come ipotesi militante per la legittima difesa.

«Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era.» (José Saramago)

Il già visto non è mai tale, se non si ha desiderio di scoperta. L’universo è cangiante, come noi che ne osserviamo il mutare dei piccoli dettagli. Pure il silenzio non è mai lo stesso, è nota al margine d’una ricerca imperfetta. Decide di parlarci, di raccontare storie che per definizione non sono mai state ascoltate.

C’è forse uno scoglio, la vecchia fornace, un granello di sabbia o di sale che s’è levato in aria che non è lì a farsi osservare. Capita che siamo noi l’oggetto della loro osservazione, in un momento di vertigine che cambia le prospettive. C’è il gusto del vedere tutto trasformarsi, istante dopo istante, in una ricerca che non ha tregua, in quell’apparenza di assenza d’un nuovo evento, quando invece una miriade infinita ne susseguono. Dentro quel movimento convulso la metamorfosi ci appartiene, da noi ad altri noi, da me ad altro me. Basta accettare l’idea d’essere nessuno, un punto invisibile dentro una successione d’altri punti, quelli che creano il tutto, una scia di schiuma sul mare, il margine dello scoglio, la linea ritta del bagnasciuga che appare e scompare. E nel creare il tutto ogni punto prende posizione nuova e desueta, non si cura s’è venuto bene quel disegno finale, non importa.

«Così cambia il volto delle cose di questo mondo; così il centro degli imperi, e il catasto delle fortune, e la mappa dei prestigi, tutto ciò che sembrava definitivo è continuamente rimescolato, e gli occhi di un uomo che abbia vissuto possono contemplare il mutamento più completo proprio là dove gli sembrava più impossibile». (Marcel Proust)

La recherche

«Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era.» (José Saramago)

Il già visto non è mai tale, se non si ha desiderio di scoperta. L’universo è cangiante, come noi che ne osserviamo il mutare dei piccoli dettagli. Pure il silenzio non è mai lo stesso, è nota al margine d’una ricerca imperfetta. Decide di parlarci, di raccontare storie che per definizione non sono mai state ascoltate.

C’è forse uno scoglio, la vecchia fornace, un granello di sabbia o di sale che s’è levato in aria che non è lì a farsi osservare. Capita che siamo noi l’oggetto della loro osservazione, in un momento di vertigine che cambia le prospettive. C’è il gusto del vedere tutto trasformarsi, istante dopo istante, in una ricerca che non ha tregua, in quell’apparenza di assenza d’un nuovo evento, quando invece una miriade infinita ne susseguono. Dentro quel movimento convulso la metamorfosi ci appartiene, da noi ad altri noi, da me ad altro me. Basta accettare l’idea d’essere nessuno, un punto invisibile dentro una successione d’altri punti, quelli che creano il tutto, una scia di schiuma sul mare, il margine dello scoglio, la linea ritta del bagnasciuga che appare e scompare. E nel creare il tutto ogni punto prende posizione nuova e desueta, non si cura s’è venuto bene quel disegno finale, non importa.

«Così cambia il volto delle cose di questo mondo; così il centro degli imperi, e il catasto delle fortune, e la mappa dei prestigi, tutto ciò che sembrava definitivo è continuamente rimescolato, e gli occhi di un uomo che abbia vissuto possono contemplare il mutamento più completo proprio là dove gli sembrava più impossibile». (Marcel Proust)

La nave dei folli (ancora in viaggio)

Mentre della nave che va non v’è traccia, si palesa che, se non ci fu affogo a massa, taluno abbia restituito anime vaganti di speranza ad aguzzini certi, ché occhio non vede cuore non duole. Io vado a banale ripubblicazione di cosa vecchia per lieve sensazione di nausea sopraggiunta ad impedimento di scrittura nuova e compiaciuta.

“…la nave dei folli non era, poi, totalmente un parto della fantasia. Al contrario, era piuttosto comune la prassi di allontanare i matti dalla comunità dei normali, eventualmente proprio affidandoli a gente di mare. Accadeva spesso che venissero affidati a battellieri, a Francoforte, nel 1399, alcuni marinai vengono incaricati di sbarazzare la città di un folle che passeggiava nudo. Le città europee hanno spesso dovuto veder approdare queste navi di folli”. (Michel Foucault)

La follia arriva e batte bandiera sconosciuta. Non ha patria né dio, nemmeno padre e madre, pare tale, la follia, intendo, che non si palesa con documento d’imbarco, s’allontana e basta, a cerca di porto salvo per disperazione d’essere niente e nessuno. La cittadella fortificata del mondo dei sani se ne difende, invita a respingimento, con accordo tra tiranno e tiranno a far che pure accoglienza di pazzo è cosa da folli. D’avanzata sanità di mente si tinge distruzione e guerra, parve laurea a saggezza affondare nave dei folli, bombardo di città di dissenso, ripiegare a tasso d’umanità pari a curva concava.

Orizzonte scruta non per vertigine di visione, solo per scorgo a vista nemico che arriva, che se poi non si palesa ad esodo qual vien dichiarato, che importa, che semplice attesa d’invasione è a generazione di paura e fremito di pelle di popolume a suddito di illuminatissimi, che immantinente si tinge di vessillo patrio a nome noto, sotto egida di tiranno a difendere belle, armate sponde, a sventolar bandiera di grande savio di giustezza conclamata. Il resto è dago, pazzo, diverso per colpa ed essenza di sua scelta, che non nacque né a colore giusto, né a terra di saggezza. Pazzo più pazzo è a sostegno d’idea che pazzia fu per causa di mondo di giusti che non s’avvidero che pazzi fecero a furor di tempesta, a fulmine di guerra, a sfrutto a schiavo creatura e natura. Egli attende anche per sé medesimo imbarco coatto – che presto arriva – di chi, pazzo tra i pazzi, ricerca altra sponda per vita, anziché schiantare a terra desolata senza far rumore a non disturbo saggissimo manovratore.

Storie qualunque

“Ciò che rende la mia vita ancora più insopportabile è l’incapacità che ho a soddisfare il desiderio di potere e attenzione. Qualche volta mi rintano per settimane e sto da solo. Dopo un po’ capisco perché l’ho fatto. D’istinto, sono scivolato via dal campo di battaglia, fino a quando le mie ferite spirituali guariscono. Qualcuno riesce a curarsi in pubblico. Se fossi in grado di farlo in modo eroico, anch’io farei pubbliche esibizioni di riabilitazione. Ma non guarisco mai in maniera nobile. Come un cane ferito, ringhio e guaisco. E ciò è male per la mia reputazione, allo stato attuale, quindi voglio stare da solo.” (John Fante)

“Fecero poi per prendere vicolo dopo vicolo, e decisero di far puntata ad altra parte di borgo, che a orientamento d’approssimazione poteva essere a direzione precisa di porticciolo. Lì arrivarono che il sole s’era messo assai di traverso, e ora sperava pure quello in riposo dietro linea d’orizzonte ché aveva fatto fatica di calor bianco per giorno intero. C’era silenzio e il barettino pareva smantellasse, non c’era cliente manco a far caffè a gratis.

Solo botteguccia pareva aperta, piccola e di pittore a gengie sfatte, su sedia parecchio a sganghero. Barche a foglio di cartone s’erano incorniciate di pietra di muro, e fatte a pennello d’acquarello e china non si muovevano. Solo c’era quel fil di fumo di sigaretta tra quattro capelli bianchi e barba che pareva schiuma di mare. La ciurma intera s’avvicinò vinta a curiosità che artista male in arnese cominciò a parlare come se altro non avesse a ragion di vita, mentre mozzicone di sigaretta sparì in grande ciotola di rame a compagnia beata d’altra moltitudine, mano a dispetto di deformità si mosse per nero su foglio bianco, pure disse: «E giunse il tempo che desiderio di vertigine m’appare solo a sistemar chiappe a scoglio comodo, a favor di tenue brezza di ponente. Lì c’è posizione di sguardo ad altro tempo che andò via a rapidi scivolamenti. Feci collezione di pergamene e titoli a ceralacca, di timbri e pacche sulle spalle, inchiostri di stilografica raccolsi. Mi ravvidi di saggezze elevatissime di fini accademici, sagaci elucubratori di teorie d’avanzo e professori mi professarono vie salvifiche di conoscenza. Capitani coraggiosi m’imbellettarono narrazioni d’autentico infinito di profondità e preti e frati e paternostri m’illuminarono d’incenso, mi deliziarono d’omelie un tanto al chilo, pure in odore di santità mi parvero audaci pescatori di ghiozzi a tendenza d’eversione. Le madame dorè, le miti volontarie di misericordia e signori dabbene di circolo esclusivo, di fatta impeccabile doppiopettata e profumo millefiori, mi fecero di sé modello esclusivo e beato. Arguzia finanziaria mi trasmisero autentici scienziati di doblone ed a cure immaginifiche mi sottoposero per trattamento di deviazione. Che però nacqui storto e storto rimasi, pur se mi sdoppiai a far finta d’assecondo. Che ora, a fase due, non m’è dato di adeguarmi all’immane trogolo di carni e sangue di sacrificio a conforto per Marte e Atena. Che però appresi di non apprendere, pur se assorbii finale convincimento che nemmanco le dame di San Vincenzo riusciranno a far del bene, ch’esse mai seppero cos’è la vita, che imbracciano sotto coscia, ad occulto, mitra e bomba. Ch’io tutto imparai da puttane senza protettore, a quartiere miserabile dove misi dente da latte, e che, accademia autentica di bellezza, fu soffocato a rango di supermarket per saccheggio conclamato, con reparto d’onnisciente mammasantissima. Pure imparai da lambretta smarmittata di venditore di granchio per cattura a pietra celeste, da pazzo con canottiera su cappotto e camicia avvoltolata in testa, per posto a cappello in mano, a buco tappato per dammi cento lire, ci hai ‘na sigaretta. Che mi venne ad aula di lezione autentica osteria perduta, di abitanti a perenne nostalgia di bicchiere pieno, e vecchio compagno che s’accompagna a miserabile scarpa rotta, pantalone logoro e mano di calli e calce viva, curvo di schiena ma mai domo a dir di padrone peste e corna. Pure non fu capace di sopravvivenza a quello, nemmanco per saggezza di mutua a scarso d’assistenza e forse per cicatrice di manganello per protesta di contro legge. Imparai dinamiche sofisticatissime d’universo da lavandaia a tempo perso, balia asciutta e odor di varechina. Altro seppi da pescatore silenzioso a barca a puzzo di cherosene e sangue di pesce raffermo, con ruga che solca il volto quale fiume di sale e fatica di sole. Che nessuno dei secondi ebbe allora a far mai guerra a talaltro, mai tirò indietro la mano a soccorso per chi vien dopo. Pure, a gengie sfatte, non smisero a riso per bimbo che passa, ch’io mi ricordo, che a denti non m’ero provvisto ancora, di tali sdentature di pace, ora che vedo biancheggiare nobili fauci di squali.» A farsi cheto sollevò foglio un tempo bianco, che ora era a raffigurazione precisissima di Figlia, e ad ella lo porse con una specie di smorfia che forse era un sorriso. Figlia ebbe esitazione: «non ho soldi» disse. Che il vecchio ancora parlò: «Già mi pagasti, già mi faceste regalo grande che qui vi fermaste. Faceste silenzio ed ascolto donaste al pazzo che, ad attimo esatto di vostra presenza, non più parve tale.» Si alzò, altro non disse scivolando dentro bottega a chiudere porta ad esterno che non fu vigliacco per una volta. Figlia guardò disegno di sé, si riconobbe per come si vedeva ad uno specchio e preziosa opera fece che scivolasse dentro la sacca a posizione che non si spiegazzasse.”

La patente

Tutti, tutti ci credono! E ci son tante case da giuoco in questo paese! Basterà che io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per farmi andar via! Mi metterò a ronzare attorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti, tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell’ignoranza? io dico la tassa della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d’avere ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città!” (Luigi Pirandello – La Patente) Che a tanto mi pare che a sbraito perdo un tanto a zero, e mi merita che vado di musica giusta, che con quella porto a casa risultato sicuro.

Che bollettino di guerra di bombarda ormai è ad assuefazione, finisce a trafiletto di giornalettume tra tempo non troppo, che piano piano si scopre che guerra pare ovunque, che c’è figlio che strippa genitore, genitore che ammazza figlio, uomo assai fenomeno che ammazza compagna che non fece a giusto suo dovere. Pure c’è fiume che pareva a navigazione di petroliera a trasformazione lenta ed inesorabile a sputacchio per attraversamento a ciabatta d’infradito per bollitura di pianta di piede. E grandi banchieri fanno a quadrato su ring, che tutti, ad un tratto in coro, paventano crisi definitiva e collasso, che c’è poco da ridere che non si trova chi ad elezione, che votano manco amici e parenti di candidato, fa squadra per alleanza. Che è vento di guerra a grande accadimento, che è necessario intervento di migliorissimi che ad Oriente Express fanno pompiere con spengo incendio a tanica di benzina raffinatissima, che acquisto con bonus a chiedo rimborso di stato che pago pure io e pagate pure voi.

Ch’io mi faccio portavoce di proposta modesta, che è progetto d’adesione, forse financo d’annessione, ma non a stato oligarchico che non fu uno solo, che è tale di solitudine per conclamazione di giornalaio a prezzo un tanto a chilo di minchjata, nemmeno a grande, gloriosa e giusta comunità d’eletti per civiltà elevatissima di democrazia d’asporto. Io voglio annessione di tutto territorio di palla terracquea ad unico stato che ha bandiera senza bandiera, inno a quel che mi pare canticchio la mattina, e che si chiama come ci pare ma che ha cittadinanza per chi detiene carne, sangue, sudore e lacrime, e s’affratella ad altri qual lui a giorno per giorno. Ma per progetto tale, come Luigino chiese per iettatore, voglio istituzione di patente di pazzo per conclamata eversione autentica. Per progetto tale pretendo per me patente di pazzo a scadenza di tutto globo terracqueo, che faccio esame e dimostro a fatto di pensiero espresso che io sono pazzo, che non ho altro da aggiungere che derogo a normalità, che confine m’è dato pensare sia a squadra e riga d’inutilità per vertigine. Che confine m’avvedo – ma da pazzo non ho credibilità istituzionale quale migliorissimo di governo – che confine è tra casa e casa di medesimo condominio, tra collega di lavoro e collega di lavoro, fianco a fianco, che è tra dirimpettaio di bottega e cugino di primissimo grado o fratello e sorella. Confine di separazione è pure a salto fila ad ufficio postale, a blocco di semaforo rosso, a inquadramento a cassa di supermarket. Confine è a resa d’invisibilità di trave nell’occhio che per pagliuzza ci pensa a segnalare con strillo d’autentico perbene giornalettume di scrittura a cottimo.

Papillon

Gliel’ho detto a quell’altro me che così non va più bene. Che tra quarantene, lockdown et similia, pare che siamo diventati Papillon per quanto ci piacerebbe scappare da qui, portandoci dietro solo la musica.

Però, capisco lui, – o meglio, cerco di capirlo, pure se non mi riesce – ma io che c’entro? Che sono nessuno conclamato tale? Io, poi, che sono incline alla solidarietà, gli sto pure accanto, ma se è troppo stroppia. Glielo avevo detto, financo implorato, di rimanere a fare i pescatori, ma pure di frodo, s’era necessario. Ma lui niente, che pare non volesse deludere il mondo, quello stesso che lo imprigiona e butta via la chiave, che poi non solo di quarantena si tratta. C’è, pure, che la convivenza forzata tracima di dialettiche serrate, che a me non m’aggradano, m’annoiano, di più, mi irritano. E irritato io, irritato lui, finisce che chiedo la separazione, almeno pro tempore. Me ne vado, scappo di casa, mi viene l’egoismo compulsivo, che io d’anagrafica d’altri non rispondo, non ci ho mica la tessera sanitaria, a nessuno non la rilasciano. Mi faccio le valigie – sporta di pane e pomodoro, e fiasco, a lui gli lascio la parmigiana che Stefano, che ha banchino a mercato sotto casa mia, m’ha lasciato a uscio melanzane fuori stagione dignitose – e mi faccio un viaggio, dove mi pare e come mi pare, che a lui lo lascio con le sue prescrizioni, pure morali, corpo e mente. Se ha spirito lo porto con me, al guinzaglio, come si compete a chi nasce schiavo e tal vuol rimanere. Mi metto a seguire il fiume tra trote e carpe che saluto con riverenza, niente contro di loro, ma non mi fermo più di tanto.

Raggiungo il mare in fretta, mi seguo corrente, pure corrente mi faccio, talora scoglio, che di riverbero di sole e d’onda traslucido d’immenso. D’abisso mi dipingo, e prendo un caffè con sirene astemie, di cicchetti mi finisco con pirati fenici, mi scaldo al fuoco d’Argonauti, doppio Zanzibar, le Bermude le triangolo, e nel Borneo colleziono Monsoni che metto in agenda per il viaggio prossimo venturo. Spiego vele e le accartoccio, sia di bonaccia, sia di tempesta, m’approdo a deserti marini, di cristalli di sale m’adorno le barbe, telefono con le conchiglie e m’agghindo di stelle di firmamento e di fondo.

Di derive mi faccio approdo, e ogni isola che non c’è mi diventa casa che un Venerdì che m’offre una sigaretta ed un frittino di pesce ce lo trovo sicuro. E cavalco ippocampi, m’accendo un cubano, mi prescrivo rum antibiotici e strascico il cammino di Patagonia. Di ghiacciai m’acceco al tramonto, con pinguini vestiti a prima alla Scala, e ballo coi delfini, griglio con le orche, ed ogni fiera d’oceano sfido a tressette. Carambolo su tappeti verdi d’asfodelo e ruchetta, m’addormento in terra di Lotofagi, dentro caverne scavate da Lestrigoni. Con ciclopi a tre occhi canto canzoni perdute e tratteggio storie sul fondo d’un pozzo, accanto al riflesso di luna. Poi mi fermo, sull’ultimo scoglio, che non vè altra libertà se non quella di starsene a fronte d’orizzonte, che t’apre lo sguardo, pure mentre chiudi gli occhi.

I quarantenati

Insomma, m’appare chiaro che mi riquarantenano, che, di tante volte capitò, trattasi piuttosto di cinquantena, pure sessantena, forse, di m’incatena. Ci ho musica, per fortuna, ed all’uopo.

Che gli insegnanti, che comincia la stagione, si sta come d’autunno cadono le foglie, a scavare trincee che poi ci tocca di riempire, così, per tenere alto il morale della truppa, che di Armando Diaz all’orizzonte non v’è traccia. Fatte le scorte per affrontare il gelido isolamento, mi appaio come certi tipi che s’attrezzavano il rifugio antiatomico, solo con la certezza della bomba, attesa senza armatura cementizia e contatore geiger. Che poi non si punta più a quel che sarà, che del doman non v’è certezza, semmai si lancia sguardo nostalgico a ciò che fu, assai più di conforto, che almeno quello ce lo siamo presi. Uno scoglio lontano, così, per dire. Se torna torna, altrimenti ci s’è goduto e si può raccontare, che raccontare è forma di suadente consolazione, o così mi pare che sia, ora, che domani è un altro giorno, si vedrà.

E che racconto, che non mi sovviene, nella pressione degli eventi, quasi nulla alla ricerca del tempo perduto? Mi tocca di trovar conforto nell’angolo più fascinoso di casa, quello cottura, che vi racconto d’un piatto che tutti conoscete, ma credo meriti ribalta che mai ve lo serviranno in luoghi con soffitti a firmamento e conti da trasfusione: spaghetti, aglio e olio. Posto che, nonostante la sua essenzialità, il piatto si presenta come paradigma antidepressivo, è altresì poverissimo, sicché non si può sbagliare poiché, il miserando, non può permettersi di rinunciare al prodotto finito, con la deposizione del fallimento in pattumiera, e, deluso dall’insuccesso, giammai opterà per ben altre ricchezze gastronomiche di cui è, per definizione, sprovvisto. Neppure il quarantenato, quale io sono e fui, costretto alla reclusione, potrà, in vista dell’insuccesso, rallegrarsi del brasato in trattoria. Gli ingredienti sono fondamentali, che si derubrica alla complessità, mai all’essenza del gusto. Aglio (non di quello che ha spicchi da microscopia elettronica), olio (vero, mi raccomando, di contadino), prezzemolo freschissimo, pecorino d’autentica pecora di pascoli non diossinici, pure spaghetti trafilati al bronzo, che non s’incupiscono d’intingolo, lo accolgono suadenti, piuttosto, lo stringono in morbido abbraccio. E mentre l’acqua bolle, si buttan giù quelli, – se siete in quarantena, dunque ad un passo dalla depressione, se ne consigliano almeno due etti e mezzo – che, in padella ampia a parte, fuoco lento che non bruci, olio ed aglio abbondante, a pezzi grossolani, consumano già amplessi memorabili, arrovellandosi al calor bianco, stimolandosi reciprocamente passioni antiche, insopite. E venne il tempo che, a far da incomodo terzo, si getta in mischia il peperoncino, non uno quale che sia, che piccanteggi appena, ma il frutto prezioso per palati incatramati, che se cade in terra ustiona il pavimento, linea la ceramica, corrode il marmo. Lo scontro inizia a divenire cruento, che la temperatura sale, ma non può protrarsi troppo a lungo, occorre ricondurre alla pace, alla delizia della convivenza, creare le condizioni per un nuovo afflato che abolisca convenzioni borghesi. V’è il candido strumento nella pentola che bolle, lì dove la trafilatura rilascia amidi delicatissimi. Pescandoli con cautela, solo quelli, intendo, si rilasciano nell’olio bollente dove sublimano col tutto d’intorno, emulsionando e avvolgendo, derubricando l’ambiente arroventato ad alcove vellutate. Un minuto – ma solo quello – prima che gli spaghetti raggiungano l’al dente perfetto (assaggiateli, assaggiateli, non fidatevi dei tempi di cottura indicati), il trito finissimo del prezzemolo, produrrà freschezze e discontinuità cromatiche. E la pasta saltatela al calor bianco della padella, lasciando che poveri ingredienti s’arricchiscano della loro solida alleanza, attendendo la felice mantecatura col pecorino, come i proletari di tutto il mondo uniti, a fronte alta e determinata ostinazione, anelano al sol dell’avvenire. Mi dimenticavo – non per me, si intenda – per costrutto narrativo, che è piatto che mette sete, e dateci di rosso, aspro e cattivo come certuni da sud pieno, quasi d’Africa, d’Oriente perduto.