Tintinnii banditeschi

Ode al crucifige, al tintinnar di manette, pure al son garantista (per taluno, per altri m’aspetto impiccagione a pennone altissimo per doppia, tripla, quadrupla e multipla morale). L’urlo per giudice ad orologerie o con pendolo stonato. Il tintinnio di manette non m’affascina, non me ne frega niente che a dirla tutta conobbi masnade di farabutti che finiron ceppi ai piedi per rubar di sussistenza. Altri non conosceranno che raramente i grigi cancelli della non libertà. Il potente non merita di finir lì, non c’è abituato, tale ebbe a dire che soffre di più. S’abitua a sfarzo e non s’abituo ad altro.

Ma non auguro ad avversario di provar privazione di libertà, pur s’egli la volle fortissimamente volle per disgraziato ch’affoga e non rubò al collettivo cosmo. Non auguro prigione ch’egli non fu avversario mio ché avversario è colui che gioca sullo stesso campo ed io a terreni di palude mefitica mi sottrassi in illo tempore, non per pregiudizio, ma per post giudizio di prova comprovata come si fa a taglio di cocomero. Io ho condanna esatta per tal malfattore che non ebbe mai sazio d’aver potere, più potere, soldi oltre i soldi, con asticella di salto in alto che rimbalza un metro ed oltre, oltre il metro e più ancora. Mai si ferma come bestia vorace che non conobbe sazietà a pretender ed ottenere a gozzovigliare sul capo d’altri, financo a far privato il libero mare, la libera rena, il sommo scoglio che libero e porto salvo fu sempre d’ogni navigante colto dalla tramonta a bufera. Io ho la pena che non fu privazione di libertà, che quella non fu da uomini, io darei condanna definitiva di far vivere resto di giorni contati a lavoro con busta paga d’ultimo morto a lavoro precario, in attesa d’una pensione ch’ente di previdenza fissa a data di comune mortale e con dicitura precisa a «fine pena mai».

«È divertente ascoltarli, i ricchi, i giudici, i magistrati, divertente vederli predicare la virtù; é difficile, oh sì, proteggersi dal furto quando si possiede tre volte più di quanto può servire per vivere…..Ma noi Sophie… visti con disprezzo perché poveri, noi umiliati perché deboli, noi che infine sulla faccia della terra raccogliamo solo fiele e spine, come vuoi che ci asteniamo dal crimine, l’unica mano che ci apra la porta della vita, ci mantenga, ci conservi o ci impedisca di perderla! come vuoi che per noi eternamente sottomessi e umiliati mentre una classe di gente spadroneggia e ha per sé tutti i favori della fortuna…» (François de Sade, Le sventure della virtù)

Radio Pirata 66 (concertone da lavoro per separazione chimica di classe)

Riecco Radio Piratissima che torna a sfarzo di concertone per festeggiamento di ricorrenza di articolo guida di Costituzione che fu cassato per improbabilità di esplicita applicazione. E si fa puntata di grande e solida kermesse musical-argomentativa come si compete a trasmissione che gode di favori indiscussi di pubblico innumerevolissimo e benevola accondiscendenza di critica. Ma a non far da meno con altra roba seria, redazione fa subito presente che molti ospiti previsti brillarono per assenza a detta puntata, che è numero Sessantasei, per sopraggiunta censura. Per cui non ve ne sarà traccia. Ma si va subito di musica di grande spessore.

Che lavoro è a dignitosissima rappresentazione a membro permanente di consesso di nazioni civili a suon di bombarda, che si fece lavoro nero a campo di nuovo cotone per conserva a prezzo convenientissimo di super mega impianto di smercio di prodotto a consenso di massa claudicante per arrivo a fine mese. Che morto ammazzato di lavoro, dice statistica – che la fa cervello asettico di matematica -, è a due al giorno da inizio d’anno.

Che è solo storia di distratto a distrazione mosso, che muore a metto piede in fallo mentre passa betoniera o caterpillar, pure scivola d’ascensore, inciampa da impalcatura, precipita da palazzo e ciminiera, non collaborò col dire son morto per destino cinico e baro. Che di tanti morti d’ammazzo pare guerra guerreggiata, ma è roba disfattista se oggi a bandiera colorata si dice basta con tale guerra, pure con altra che tuona di bomba. E io vado di suono giusto, che faccio colonna sonora

Che c’è polemica superlativa su esternazione per classe separata, ma io spezzo lancia, che pure io voglio classe separata, che a ricco con super monolito a sgaso per cambio climatico per costo di palazzina popolare a tre piani, tocchi – ora e per sempre in esclusiva – ristorantino a selezione di chef a stella plurima di firmamento. Ma ci fu improvvida segnalazione di tale illuminatissimo che disse che povero paradossalmente mangia meglio – che paradossalmente è dire esplicito che pure mangia – per cui ci fu assalto a bettola negletta che bettolaio ed oste per moribondi si fecero furbi e levarono prezzi al cielo per nuova avventura di business. Che da Franco il bollito ch’era a sette eurini ora si fece a centoventi che tale padrone del vapore per meno di duecento non si muove. E c’è povero chef di cui sopra che fu costretto a rinnovare arredo con acquisto ad Emmaus di piatto e mobilia ed importazione di muffa autentica per star a passo col tempo. Aridatece la separazione di classe.

E quanto tremai d’adorazione per Annette Peacock, che fu mio furibondo amore giovanile a dispetto di generazione. Ma tale ero, catturato a fascino di dette signore senza tempo che miei coetanei d’allora, molto «le freak, c’est chic» attribuivano certe mie pulsioni ad uso disinvolto di combustione di materiali di scarto orientale di produzioni vegetali. Ma detti fuochi aprirono finestre, e pur se smisi in tempi rapidi di godermene benefici, certo le finestre rimasero aperte su orizzonti d’utopia. Ora v’è invece ricorso a chimica pura ed allopatica per farsi fenomeno a sculettamento a destra e a manca, da mane a mane, e iniezione di coraggio per proferire a iosa minkiata a cottimo manco richiesta.

E chiudo col dire che buon lavoro pare ossimoro e, a cautela, faccio spiegare detta cosa da collaboratore subordinato con contratto di apprendistato, prima che faccio pure di lui censura che nacque in posto strano: “Siedo sulla schiena di un uomo, soffocandolo, costringendolo a portarmi. E intanto cerco di convincere me e gli altri che sono pieno di compassione per lui e manifesto il desidero di migliorare la sua sorte con ogni mezzo possibile. Tranne che scendere dalla sua schiena.” (Lev Tolstoj) Buon 1° Maggio a tutti, i belli e i brutti, di più a questi ultimi se in piazze deserte furono pure sporchi e cattivi.

Un giorno che è tutto l’anno

Di memoria ne ho che va a zonzo, pure ad antico, che ancora serba cose d’interesse. Ciascuna di quelle dette cose, come se ebbe a dotazione filtro di precisissimo brevetto, mi dice che oggi non c’è discussione, che detto giorno – a nomina precisa di Liberazione – che fu primo è a merito che è tale solo se è inizio.

C’era che, poco più che bimbo, calavo volantino a mosca nel fosso di parte esterna d’i’un molo, e mi tirai su ope e scorfani in un certo numero, buoni per brodetto. Dentro il porto salvo, che il mare pareva stirato a raso, don Angelo, a cima legata di lampara, sbrogliava la rete sua. Che il silenzio era tale da sobbalzo al mondo intero per motoscafo feroce di cavalli. Ch’io mi rivolsi al vecchio, e, giovane creatura, m’espressi di stupore per tale roboante manifestazione di potenza, che con quello ci poteva andare pure lui, senza perdere notte intera, alla secca del miracolo. Il vecchio nemmeno sollevò il capo per il suo “cu minchia si ni futti?” Forse per affezione alla barca di sussistenza, che più di tale non era. Poi mi invitò a far giro per cambiare darsena a bordo, pure rapido, mi disse che l’altro approdo, a borbottio di motore vetusto, si disponeva a mezz’ora almeno, e l’orizzonte, che il mare era calmo a piatto, presagiva cambio repentino per libecciata. Saltai a bordo, e non si fece che un chilometro o poco più, che il furibondo fuoribordo che scosse il mare, se ne giaceva a panne, che lassù, padre notabile e figlio, coetaneo mio, si sbracciavano che non c’era domani, neppure, dissero, il walkie talkie gli funzionava, e razzo a segnale, pareva petardino a santa patrona. Il vecchio si contrasse in sforzo di lancio di cima e, sbuffando col motore a scarburo di lampara, trainò a riparo certo, e a rinuncia di viaggio proprio, la belva pluricavallata mentre l’increspo, a previsione esatta, si fece cattivo. Appena in tempo toccammo porto salvo, che il tale del fulmineo scafo, a gratitudine, tirò fuori la grossa banconota per conferirla al vecchio salvatore.

Ma quello rifiutò a sdegno, manco alzò occhio, che la gente a mare si aiuta e non per compenso. Il ragazzo come me s’era allagrimato di paura, e io pure, a momenti, mi appellavo a preghiera per improvviso stravolgimento d’onde. Che sono passati anni, che quello coetaneo mio pure diventò notabile come l’avo, ed è ragione che io mi feci asociale, che mi dicono invoca cannoneggiamenti quotidiani per chi arriva da lido lontano a disperazione, che se annega, a dispetto d’età, è sempre buon cibo di pescecane.

E questo è fatto preciso che storiellina ebbe morale, appunto, che di 25 Aprile si ebbe a necessità di farne giorno lungo quanto anno in totale, pure se c’è taluno o talaltro che anche per giorno uno come rimase, pare di far passeggiata a piede nudo su scoglio puntuto, sabbia nelle mutande e ortica sotto le ascelle.

8 Marzo (ancora non basta)

Che m’accingo a 8 Marzo che riprendo cosa antica che oggi è lotta, domani pure, festa poca.

Pure ne faccio riferimento per fatto che fu lotta di donna, ma che a tramonto d’aspettativa si vide riflesso che tutto pare vano. Parto di musica, però.

E faccio a recupero d’omaggio per donna che lottò per suoi diritti, non si fece a sgomito per arrivo prima io ad imitazione esatta di maschio coatto e basta. Oggi tale donna è a farsi morto d’ammazzo e d’annego, scioglie suoi capelli come fosse atto eversivo e a chioma sciolta insegnò a tutti – soprattutto a noi maschietti – significato esatto di rivoluzione, che non fu comando io, fu non comanda nessuno.

Le donne dei “Fasci”

Fra il 1893 e il 1894 la Sicilia fece molto parlare di sé per dilagare in città e campagne di grandissima agitazione sociale senza precedenti e rapido diffondersi dei Fasci siciliani delle lavoratrici e dei lavoratori, organizzazione quale mai si era vista prima, capillarmente strutturata, dotata di efficiente coordinamento regionale, ispirata a socialismo, guidata da dirigenti per lo più giovani, intelligenti, colti e determinati. Adolfo Rossi, giornalista d’inchiesta, si reca in Sicilia per studiare il movimento. Ne intervista i protagonisti nelle campagne e coglie esterrefatto il ruolo di donne – un terzo del movimento, che per farne a metà di quelle, ora ci vuole doppia quota rosa ex legis – e della loro capacità di esprimere concetti politicamente elevati, con proprietà di linguaggio e consapevolezza di condizione e prospettive di loro lotta.

Noi non andiamo più in chiesa, ma al Fascio.

Là dobbiamo istruirci, là organizzarci per la conquista dei nostri diritti.

Vogliamo che, come lavoriamo noi, lavorino tutti, e non vi siano più né ricchi né poveri. Che tutti abbiano del pane per sé e per i figli. Dobbiamo essere eguali. Io ho cinque bambini e una sola cameretta, dove siamo costretti a mangiare, a dormire, tutto, mentre tanti signori hanno dieci o dodici camere, dei palazzi interi (…)

Vogliamo mettere in comune le terre e distribuire con giustizia quello che rendono.

Ci deve essere la fratellanza, e se qualcheduno mancasse ci sarebbe il castigo.

Gesù era un vero socialista e voleva appunto quello che chiedono i Fasci, ma i preti non lo rappresentano bene, specialmente quando fanno gli usurai. Alla fondazione del Fascio i nostri preti erano contrari e al confessionale ci dicevano che i socialisti sono scomunicati. Ma noi abbiamo risposto che sbagliavano, e in giugno, per protestare contro la guerra ch’essi facevano al Fascio, nessuno di noi andò alla processione del Corpus Dammi. Era la prima volta che avveniva un fatto simile.

I signori prima non erano religiosi e ora che c’è il Fascio hanno fatto lega coi preti e insultano noi donne socialiste come se fossimo disonorate. Il meno che dicono è che siamo tutte le sgualdrine del presidente.

Quando un reato è commesso da un ricco, nessuno se ne cura, mentre il povero che ruba un pugno di grano per sfamarsi va subito in prigione.

Vedete che per i poveri non c’è giustizia in Piana dei Greci! I signori dicono apertamente che ci vogliono ammazzare ad uno ad uno. (…) Per ora i nostri consiglieri non potranno far altro che impedire gli abusi e le prepotenze dei signori i quali finora comandavano anche nel Comune. Ma i Fasci nomineranno anche i consiglieri provinciali e i deputati, e quando alla Camera avremo maggioranza socialista….

Noi speriamo che sorgano presto anche nel continente. Voi vedete come si moltiplicano qui. Possibile che nel resto d’Italia i nostri fratelli che soffrono seguitino a dormire? Basterà che qualcheduno cominci a predicare anche là l’unione del proletariato. Anche noi fino alla primavera scorsa non sapevamo che cosa fossero i Fasci. Morivamo di fame e tacevamo. Eravamo ciechi. Non ci vedevamo.

Maria Occhipinti

Che ricordo di lei, a tempo di muscolo a palestra d’armi e doppi petti di migliori tronfi di boria maschile, è più letale d’atomica, pure se non fa morti. Che fece il Non si parte! di Ragusa, che lottò contro arruolamenti forzati a ricostituzione d’esercito di Badoglio e Bonomi. A Ragusa, il 4 gennaio del 1945, a far fuggire giovani rastrellati, si fece tappeto in strada per bloccare il mezzo delle reclute, che era al quinto mese di gravidanza. E per quel gesto fu insurrezione, per giorni quattro, con esercito patrio a sparar sulla folla, ad uccidere ragazzo e sagrestano. E Maria, cattiva maestra per odio a guerra, si fece anni da carcere in carcere. Pure prigioniera da suore rimase, per volontà imperitura di stato democratico. Il suo racconto a dramma l’ho trovato scritto da Maricla Boggio.

Ragusa Ibla ci mandò San Giorgio a incontrare il nostro San Giuanne…

San Giorgio a cavallo, terribile! armato di lancia e vittorioso contro il drago…

Lasciate i nostri figli! Per carità lasciateli! Siamo stanchi di guerre! Non vogliamo più servire i Savoia! Ridate i figli a queste madri! Per carità lasciateli andare! Mi ucciderete, ma voi non passate!

VOCI di donne – E’ incinta! Incinta di cinque mesi! Non le fate male! Per carità!

L’esercito sabaudo chiedeva di andare a combattere al nord, contro i tedeschi e i fascisti… Ma non erano già arrivati gli americani a liberarci? E quell’esercito, dei Savoia, non era ancora dei fascisti? Niente a che fare con i partigiani del nord. Ho deciso di impedire con tutte le mie forze che si parta per la guerra! E ci sono riuscita, ma a quale prezzo! Per me tanti ragazzi erano sfuggiti alla trappola e le madri e i padri mi abbracciavano… Ma nel pomeriggio si cominciò a sparare, i soldati erano armati e organizzati, Caddero molti ragazzi. Tanti i feriti, li curai come potevo, incoraggiando le madri ad aiutarmi. Il terrore durò una settimana. I nostri giovani vennero arrestati, e io con loro. Non ci fu giustizia per la povera gente. Mentre centinaia di famiglie soffrivano per i figli catturati o uccisi, i fascisti continuavano a passeggiare indisturbati per la città. Gli arrestati, quasi tutti, erano comunisti e socialisti. Fui condannata insieme al gruppo dei ribelli (…) mi mandarono al confino. Dentro di me la mia creatura si muoveva. Mi confortava il pensiero che non partivo da sola. (…)

Non ho nemmeno una camicia per questa creatura! Non c’era neanche un pannolino.

Magra, le mani trasparenti le dita fini come artigli… un piccolo rapace… In viso era bella… graziosa… ma il corpo… lo spettro della fame. Piangeva piangeva per tre giorni non fece altro che piangere… Alla fine piegò la testina da una parte e chiuse gli occhi come per morire. Venne un compagno, non so come altro definirlo… un compagno perché pativa insieme a noi, ma non l’avevo mai visto prima… Prese la bambina fra le mani, la scaldò con la forza delle braccia. A poco a poco la bambina prese vita, il colore le apparve sulle guance… aprì gli occhi, ci guardò e sorrise. Era salva.

Franca Viola

A 17 anni e basta, fu presa dal mafioso Melodia, che agì con aiuto di dodici amici, tutti di gran coraggio da maschio vero. Franca fu violentata, malmenata, lasciata a digiuno, tenuta segregata per otto giorni; poi, i parenti del fenomeno Melodia contattarono il padre di Franca per la “paciata” e matrimonio riparatore a tanto di rito per parroco dabbene. Padre e madre di Franca giocarono a finta di “che bello” e fecero arrestare la banda. Che legge di repubblica proponeva che il matrimonio era gomma a matita per stupro, altrimenti c’era il “donna svergognata”.

Il giudice Giovanni Albeggiani, per fermo immagine di Franca, fece mannaia sulla banditaglia, ma la leggiastra fu abrogata dopo sedici anni, e altri quindici ne passarono per 1996, che poi stupro è contro persona non contro morale. Eccola Franca, che pure porta per cognome fiore.

Per me quella vicenda rappresentò una vera e propria disgrazia, ho dovuto attraversare momenti tristi, di sofferenza, è stata un’esperienza decisamente negativa. Ritenni quel gesto non un atto di grande coraggio, ma una normale scelta dettata dal cuore. Feci quello che mi sentivo di fare, furono i media, in seguito, a rendere la vicenda un evento storico.

La gente parla sempre a sproposito, nel bene o nel male, dicevano che mi vendevo le interviste ai giornali per soldi, mi mortificavano con le loro false affermazioni. Ero contenta quando sentivo di altre ragazze che si erano salvate facendo la mia stessa scelta, mi faceva piacere sapere che, anche se indirettamente, ero stata io ad aiutarle. Quella legge era ingiusta e andava cambiata, c’è sempre una prima volta, e io fui quella che diede inizio al cambiamento. Mi sposai e decisi di condurre una vita dedita alla normalità, lontana dai riflettori. Abitai tre anni a Monreale, dove mio marito lavorava, per poi trasferirmi di nuovo ad Alcamo quando ottenne il trasferimento. Abbiamo due figli, uno studia Scienze naturali e l’altro lavora come commercialista. Con loro non abbiamo mai affrontato a pieno la questione, sanno già tutto dagli altri, che mi descrivono sempre come una donna molto coraggiosa.

Mi sono sempre sentita molto serena, come se non fosse mai accaduto niente. Guardo a quei giorni come se avessi seguito bene e da vicino la cronaca che ha visto coinvolta un’altra persona. Per me non è stato facile allora riprendere la vita di tutti i giorni, ma quella scelta fu decisiva. Semplicemente non volevo sposarmi con un uomo che non amavo e preferivo restare tutta la vita da sola piuttosto che farlo. Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi donna: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti; non è difficile.

E a tutte le donne che hanno orecchie, dico mi dispiace, che d’ogni uomo, almeno un poco, è colpa di patriarcato. E faccio omaggio di musica.

Auguri – e fan tre – alla polvere

E per il terzo anno consecutivo, come si compete ai fine anno che questo bloghettino ha attraversato, faccio sommi auguri a tutta quella polvere che finirà sotto il tappeto delle memorie collettive di noi brava gente di mondo civilissimo e democratico. E pure faccio omaggio in musica.


Comincio dai primi granelli di polvere che spariscono come sono arrivati al primo salto di bottiglia di spumante a supermarket d’hard discount, ma anche a ristochef a superstella di firmamento. Auguri a tutta la gente di Gaza, a quella che oggi ancora è sotto le bombe che non scelse per togliersi mal di denti, che si vede casa rasa al suolo che certi tali non ebbero altro argomento che bomba su bomba in ogni parte della mappa, ad ammazzar ci provarono gusto, che se non è per ammazzo faccio morto comunque a togliere genere di conforto e cura per bimba e bimbo, ma pure per donna o uomo che sia. Auguri che siete prossimi venturi a divenir pulviscolo a gonfiare l’immondo tappeto a copertura di sfavillio di grande kermesse di rinascimento di potenza moderata a tiro fuori petroli per costruisco grattacielo.

Auguri ai già dimenticati, mai furono invero ricordati se non per pubblico ludibrio d’invasori, che s’aggrapparono a scialuppa a ricerca di porto salvo per miglior vita, ma forse solo per vita, a far fuga da bomba loro, da tetra miseria a mangiar sassi e sputar oro per altri, a sfrutto sino a sfinimento sinché a mar d’Africa non fecero ad affondare per vedere profondità d’abisso.

A tutti questi auguri ne faccio a iosa, ad ogni migrante, ad ogni pirata che scappa da casa sua invasa, ad ogni disgraziato che va via da inferni in terra, che non ebbe quiete nemmeno a mangiar solo tozzo di pane e cipolla. Tutti fecero polvere, sotto il tappeto e granelli di sabbia in fondo al mare, surrogato di cibo per pesce, inscatolati da prigionissime di grandi democrazie per progresso di diritto di più forte.

Auguri ad ogni donna che fece fine di topo in gabbia per volontà di possesso, e che ebbe ardire di dire no a maschietto impenitente di patriarca emulo a consapevolezza. Ed auguri anche a famiglie di queste che si sentirono dare del coglione che apriron bocca a dire che morte d’ammazzo è fatto di cultura e basta. Anche queste son sotto il tappeto già da un pezzo, il tempo di uno sbadiglio durò lo sdegno per loro dipartita. Oggi è divertimento, giornata di pallone torna a far sangue ed arena.

Auguri ai dimenticati che s’appresentarono al lavoro a far fatica per spacco schiena e fecero che non tornarono a casa a centinaia per stritolatura di tramoggia, asfissio di fuga di gas, imbufalimento di ruspa e trattore, crollo di ponteggio vario. Polvere siete e polvere ritornerete, sotto il tappeto per destino fulgido ed imperituro di sor padron da le bele braghe bianche.

Auguri anche ai miserabili che sotto un ponte od in fila per tre col resto di due chiedono carità di pasto caldo, che sono occupabili e non meritano aiuto di obolo di stato, che fanno ad ingrosso ad armata industriale di riserva, braccia per sfrutto ad libitum sino a che feci di polvere pulviscolo ancor più sottile che sotto l’angolo del grande tappetone c’è spazio.

Ed auguri a tutti noi che siamo qui a leggerci come piccola famigliola di giusti affetti, taluni, come me, non usiamo calici ma bicchieri di vino di cantina scalcagnata ma anche chi si concede piccolo vezzo di bollicine di dimenticanza va augurio mio ché so, che se è qui, già domani ricomincia a pensare che c’è tanta polvere sotto il tappeto, e non ce la fa a lasciarla lì senza muovere suo sguardo di cuore, nemmeno riesce a levarsi di dosso indignazione per fine compulsiva d’umanità.

Un tranquillo weekend banditesco

Domani, che a sveglia soccomberò a più del solito, circa alle cinque, ad acchiappare pullman per affratellarmi in coda ad altri per un lungo weekend, e passeggiata mano nella mano a qualche altro mille mila di villeggianti a prezzo di giorno intero di stipendiucolo, penserò sereno al sabato del villaggio, quando a sveglia soccomberò ad un’ora e mezzo dopo, per giornata di cinque orine di lavoro. Pare mi persi qualcosa, che a TG nazionale e locale mi dissero che invece feci festa a spreco di risata a ganascia in faccia a povero infelice deprivato d’essenza di servizio.

«È divertente ascoltarli, i ricchi, i giudici, i magistrati, divertente vederli predicare la virtù; é difficile, oh sì, proteggersi dal furto quando si possiede tre volte più di quanto può servire per vivere…..

Ma noi Sophie… visti con disprezzo perché poveri, noi umiliati perché deboli, noi che infine sulla faccia della terra raccogliamo solo fiele e spine, come vuoi che ci asteniamo dal crimine, l’unica mano che ci apra la porta della vita, ci mantenga, ci conservi o ci impedisca di perderla! come vuoi che per noi eternamente sottomessi e umiliati mentre una classe di gente spadroneggia e ha per sé tutti i favori della fortuna…» (François de Sade, Le sventure della virtù)

Memorie fragili di libertà

Il leone che fugge dalla gabbia è una storia su cui spenderò solo qualche rigo. Cerca la libertà, è quella che ha nel DNA. Posto che non penso sia una buona idea lasciare libero un leone per le strade d’una città, quella è e rimane una metafora potente dell’oggi. Ad essere narcotizzata in fondo è stata la ricerca della libertà. Mi ricorda una pantera che se ne andava in giro più di trent’anni fa. Forse il micione non è mai esistito, ma la voglia di libertà che gli si riconosceva – quella si – c’era. Fece humus per l’ultimo grande movimento di massa dal basso di questo paese. Poi, pure la probabilmente inesistente bestia fu narcotizzata. Rimangono solo memorie, memorie che petulano per inconsistenza, memorie inadeguate, memorie come la mia.

Cosa ho fatto ieri sera me lo ricordo, che pare impresa non troppo eroica ma lo è per me che ho memoria in disarmo da sempre. Ieri me ne sono andato in città, occasione per soddisfare desideri d’urbanità repressa. Ho brontolato cose inenarrabili mentre mi muovevo in cerchio per trovare un posto auto libero. Quindi me ne sono andato il libreria.

Avevo da assicurarmi un paio di libri, non compro on line, non mi riesce, non ce la faccio, fallisco ad ogni tentativo, ho desistito. Ho fatto quello che dovevo, sfangando un’ora buona in libreria. Ne sono uscito con i titoli che mi servivano, più un paio di cose che, di costa, m’avevano attirato attenzione. Poi mi sono visto con un vecchio amico che sta lì vicino, per una pizza, una chiacchiera, una bevuta. A lui la bevuta non riesce più bene come un tempo, un campanello d’allarme gli ha detto meglio non troppo. Io di campanelli non ne ho ancora avuti, pure se non ne escludo imminenti arrivi. Tuttavia dovevo guidare, quindi come se fossero arrivati a suon di campana.
Me lo ricordo quello che ho fatto ieri. C’erano lucine dappertutto, cose di Natale immagino. C’è da portarsi avanti. Mi ricordo pure quelle, col vendesi e siate buoni affisso ad ogni dove. Me lo ricordo. Quello che ho fatto l’altro ieri non me lo ricordo, forse se mi concentro ce la faccio. Per tre giorni fa non c’è verso. Non so se c’erano le lucine in giro. Pure nel mio borgo disabitato c’erano le lucine ieri. Ad illuminare la via deserta per quei quattro negozi che tengono la posizione, che fanno finta d’essere in città. Me lo ricordo. L’altro ieri no, non me lo ricordo, tre giorni fa nemmeno.
Ma se mi chiedete cosa ho fatto a corollario di quelle lucine impertinenti dodici anni fa, per Natale, questo lo so, me lo ricordo. Pure di quindici anni fa e ventitré anni fa mi ricordo, di diciotto e tredici pure, con tutti gli altri anni. Semplicemente ero a casa. Non so dirvi in quale casa, ne ho cambiato tante che non mi ricordo nemmeno dove siano gli interruttori della luce, inciampo. Forse ero in quella che è mia ed alla fine abito meno di tutte quelle che fecero toccata e fuga. Nel qual caso potrei dirvi anche cosa ho fatto dopo cena: mi sono consentito un paio di bicchieri buoni di qualche whisky di cui lì, almeno, ho buone scorte. Pure mi sono concesso un vinile o due, presumo un My Kind of Blue, lo tengo poggiato sul piatto. Posso persino dirvi che, in uno qualsiasi di quegli anni, è probabile mi sia cucinato un piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino e forse, in quell’anno che vi pare, non ero nemmeno solo. Forse avevo compagnia da un’occasionale presenza per un certo cenno di svago, o forse ero io un certo cenno di svago per quell’occasionale presenza che ha condiviso con me pure qualche bicchiere, spaghetti aglio, olio e peperoncino. Come avessi sfera di cristallo, so cosa farò il prossimo Natale, c’è desiderio di libertà in certe scelte tra quattro mura.

Strane coincidenze

Le coincidenze sono veramente tali? E chi lo sa che non m’avventuro mai a certe latitudini. Ma ce ne sono alcune che fanno strano, strano parecchio. Sulle porte dei locali, allora, che non sono passati parecchi secoli ma qualche «strano» decennio d’oblio, si leggeva «vietato l’ingresso ai cani ed agli Italiani». L’8 agosto del 1956 morirono molti di quegli epigoni dei randagi a Marcinelle. Mentre se ne celebra con tristezza il destino tremendo, quello che aveva condotto tanta gente a fuggire da fame e sfruttamento per cercare altra vita degna d’essere vissuta, ne crepano 41 nel Mar d’Africa, compresi donne e bambini. Parole non me ne vengono, come accade in questi casi. Me le prendo da cose che ho scritto. ma non qui.

“Si mossero a lentezza sinché ultimo baluardo di civiltà parve essere la stazione, con suo apparire di nulla senza scampo. Figlia disse che dovevano entrare per bottiglie d’acqua esauste e c’erano fontane d’abbondanza gratuita. Ella cominciò che ne riempì quattro, caricate in borsa. Primo aveva grado di insofferenza elevatissimo per denti mal in arnese, forse a causa d’uno del giudizio che voleva prender aria ma era cresciuto storto, e a movimento frenetico affidava compito di obliare sofferenza. C’era il grande treno steso sui binari ad attendere partenza e Primo ci salì che gli altri invece fecero sosta per caldo a lato delle due fontane, su panchina d’attesa sotto copertura per garanzia d’ombra prima della ripresa del cammino.

Il treno, dentro, puzzava d’anime morte, ch’era tanfo insostenibile. Talune c’erano già di quelle anime, a farne dormitorio per presa sicura di posto dal primo albeggiare. Era rischio che a carico pieno rimanessero in piedi, e caldo e fatica di viaggio parevano impossibili, senza seduta diventava autentico martirio raggiungimento di meta lontanissima. A Primo venne in testa ricordo di tale Antonio, più grande di lui d’anni due o tre, grande e grosso che manco pareva roba del quartiere. Gli passava accanto due volte o tre con il cesto del pesce e quello, che aveva ghigno selvatico di prepotenza: «Che ci hai di guardare male?» Primo rispondeva che non l’aveva guardato male, pure aggiungeva, ch’era cosa vera, che non l’aveva guardato proprio. E quel dire era peggio, si faceva ad interpretazione di mancanza di rispetto e quello se la prendeva a pretesto per picchiar duro. Primo aspettava che finisse e, senza buttar fuori manco ahi, tornava a casa a conteggio di livido. Poi ci fu giorno che quello sparì, che il treno se lo mangiò per partenza a servizio di patria, e tornava dopo tre mesi o quattro a licenza forse meritata. E grosso era sempre meno, la testa grande gli si infilava tra le spalle ogni volta un poco, pure era china e ad un certo momento pareva che suo orizzonte fosse solo la punta delle scarpe. Lo vide una volta per ultima che lui era allo scoglio per pesca. «Che hai preso?» A Primo quello parve solito pretesto a sfogo di rabbia e non sollevò sguardo alcuno ma chinò il secchio con le due scorfane a favore di vista. Quell’altro guardò dentro un poco, disse «grazie» ad appena sussurro ed a collo ingobbito di peso d’universo, poi sparì per sempre. Primo seppe che il treno se l’era caricato una volta di nuovo e chissà dove l’aveva vomitato.
Avevano ricominciato a camminare che sulla collina dietro la stazione c’erano le pecore, e si sentiva lontano il motore del treno che s’era acceso. Il treno pareva che si mangiava i cristiani, poi li cacava lontano. Pareva un budello di pecora. Ma almeno la pecora mangia da una parte e caca dall’altra, il treno mangiava e cacava dalla stessa bocca. Una volta, il padre di Primo, il budello di pecora l’aveva portato da mangiare, l’aveva procurato al mattatoio. Si mise a lavarlo per bene alla fontana e ci volle un’ora buona. Ma quello ancora puzzava che Primo quell’odore se lo sentiva fisso addosso. Sua madre lo mise a bollire con una carota e una cipolla e ci vollero altre due ore almeno. Suo padre lo mangiò di gusto, sua madre lo mangiò e basta, Primo nemmeno lo toccò che il puzzo lo faceva vomitare. Lui portava il pesce a casa, ch’era a profumo di mare, e quel tanfo non gli pareva normale.
…d’improvviso, ci fu rumore lontano di sferragliamento, uno sbuffo stanco ed ansimante che diceva che binario non era morto, pure se bene non stava. Rimasero a sedere sui blocchi delle mura robuste, aspettarono che l’evento ci fosse. Rumore di motore e lamiera a sobbalzo si faceva sempre più forte fino a che il treno non apparve. Era lungo, lunghissimo, nero, procedeva lento da far venire i nervi. I finestrini erano tutti aperti, dentro si vedeva che manco passava l’aria, che non c’era scomparto che non fosse a tutto pieno, bagagli su persone, persone su bagagli. Uomini e donne, solo i bimbi affacciati a finestrini da dove veniva veniva, che gli altri fuori non guardavano, a sguardo perso dentro, come se non volessero vedere luogo di distacco, cosicché distacco non doveva sembrare se non vedo da dove vado via.
Primo: «Questo arriva fino alla Germania, che lo prende una volta l’anno anche mio zio.»
Secondo (a Primo): «E quando ci arriva alla Germania questo?»
Primo (a Secondo): «Vero, assai ci sta.»
Figlia s’era spostata lo sguardo da parte opposta, e aveva attaccato gli occhi al ramarro che prendeva caldo al sangue, era verde di smeraldo. Non volle guardare il serpente grigio di ferro, forse che era terrore puro solo l’idea appena affiorata di salire un giorno lì, a far boccheggio come pesce fuori d’acqua, a bollore tremendo, ad ansia di partenza per sempre. Nemmeno guardava gli altri suoi compagni che invece non staccavano gli occhi dallo sferragliante che s’era mangiato tutta quella gente, e taluni pure parve che li conoscevano. Sollevò gli occhi e vide i cubi, grigi, pure quelli non consentivano respiro d’aria buona. Pareva scelta tra soffocamento e soffocamento, ch’ebbe a farne esorcismo col dire: «E con quel coso dobbiamo farcelo il viaggio?»
Terzo (risponde a Figlia): «Questo c’è.»
Figlia (ancora con sguardo a ramarro, risponde a Terzo ma parla a tutti): «Lì non ci salgo, meglio la barca, che almeno là sopra respiri se ti metti sul ponte.»
Non ebbe risposta che solo aspettarono che il binario si facesse di nuovo morto, finisse quel rumore ch’era ora a solo fastidio, tornasse il suono di vento e onda a frangersi sullo scoglio di sotto. Ce ne volle che passasse tutto. Ma quello, il treno, passò, che parve suo cammino sotto i loro occhi eterno. Passò che lasciò odore acre di bruciato ch’essi non sapevano se fosse a sfrego di sassi lanciati a suo passaggio, o forse era bruciato d’anime che v’erano stipate. Sperarono in cuor loro che ci fosse un momento d’accelerazione brutale, che quel tormento fosse a finire, pure se anche loro di velocità non erano a conoscenza esatta. Che viaggiasse veloce il treno facevano a speranza, a silenziosa preghiera di carità, che dai finestrini aperti ululasse vento di frescura, che mitigasse sofferenza di cottura che si leggeva a volto d’ogni passeggero. Speravano che questo s’avverasse a timore ch’essi stessi avrebbero dovuto patire tormento d’uguale brutalità, un giorno forse, forse più in là. Ravvidero in quello discreta certezza ché quello dov’erano nati era posto che non voleva più nessuno, forse nemmeno loro che parevano bravi ad ossequiarlo per la sua bellezza sepolta. Era posto che girava sguardo altrove, che non voleva ch’esso incontrasse quello di suoi figli, che diedero ad egli sofferenza di trasformazione brutale, che non ne ebbero cura ad assicurargli altro che abbandono definitivo. O forse non voleva vedere sorte negletta di suoi stessi figli, a sbranarsi come lupi l’uno con l’altro, o non voleva vedere lo sguardo loro per senso di colpa ad inadeguatezza che non diede, oltre a natali, altro che miserabile prospettiva d’esistenza. Ma passò il treno, con quel suo puzzo di gasolio e terra bruciata, con quel rumore ottuso di catena e ferraglia, sbuffò ridicolo di non ritorno. E tornò silenzio, silenzio come quello che fecero loro. Figlia vide, infine, la coda di ramarro farsi a sparizione dietro a sasso, dietro sterpi spinose, ché la bestiolina parve non più a riparo di fragore di mostro d’acciaio e amianto, e forse pensava che con chiasso simile nessuno si fosse accorto di sua verde livrea, lasciandola al sole a quiete di predatore vorace. Essa stessa non si sentì più a riparo, a minaccia incombente di certo futuro incerto, e guardò i suoi compagni, in ordine d’apparizione, Primo, Secondo, Terzo. Che si riempì suo cuore di pietas anche per loro, che d’apparenza parevano, dentro quei quattro cenci addosso su pelle e ossa, disarmati quanto lei d’avvenimento certo. Poi guardò davanti, oltre il binario tornato morto, verso quella linea scura d’orizzonte che pareva tingersi ancora più scura per la nuova libecciata imminente, sabbia sottile e rossa di deserto d’altro pianeta che però s’accomunò al loro, in un tutt’uno di sottile disperazione.”

Buon compleanno Satchmo

Un po’ in ritardo, ché se ne celebrava il compleanno il 4 agosto, ma avevo in archivio una cosarella per Satchmo, ve la ripropongo. Pure mi pare non sia abbastanza.

“Theodor Wiesengrund Adorno l’ho adorato e lo adoro, tanto che mi spilucco i suoi Minima moralia come una beghina si sgrana il rosario in modo acritico, capace d’esaltarsi financo all’apologetica sottolineatura mantrica d’un Sambudello. Poi m’arriccio e m’adombro, m’indispettisco stizzito se mi parla del jazz come cosa degradante, puro piacere estetico, alla stregua d’esperienze pornografiche e gastronomiche. Musica-merce, come certe canzonette volgari, lontana dalle dinamiche autentiche d’umanità oppresse, asservita ad una concezione dei rapporti sociali capitalistici, subdolamente veicolante i contenuti esiziali del consumo a prescindere. Mi faccio d’improvviso eretico al pensiero di Coltrane e Mingus seduti con espressione inebetita sui banchi d’un supermercato, mi ateizzo di botto se m’immagino Gillespie alla stregua d’un imbonitore per saldi di pentole e materassi. Poi, dopo il primo acchito di repulsa, l’abbattimento del totem ed il superamento d’una dipendenza liturgica in favore del vizio puro, mi rassereno, mi rifaccio razionale, e m’avvedo che tale critica furibonda, il tedesco se la concepiva in quel ventennio tra anni trenta e primi cinquanta in cui ancora Mingus non solleticava utilmente le corde del contraddittorio, della dialettica in controtempo. Ed è chiaro che Adorno adduceva le sue ragioni di negazione d’arte per il jazz allorché, al suo orecchio perfetto, s’avvicendavano, effimere e suadenti, le partiture semplici e ripetitive di certe orchestrine swing, con patinature che, senza porre questioni di discernimento particolare, sapevano della voce cavernosa e della tromba ruffiana di Louis Armstrong. Dunque, in siffatto modo rappacificato coi miei credi, pure m’azzardo ad avallare le critiche furibonde del Francofortese. E se le gote più gonfie del mondo riferivano di nostalgie profonde e malinconiche per i bei tempi andati in certi sobborghi di New Orleans, già mi prefiguro le corse dal dermatologo per certe eruzioni cutanee, sobbollenti sotto traccia, di uno qualsiasi dell’ampia tribù dei Marsalis. Che certo, lui, era rivendicativo e vertenziale, difensore della causa di ex – ma non troppo ex – schiavi, non più di quanto non lo fosse Pippo di Topolino, piuttosto pareva l’esatta riproduzione al maschile di Butterfly, la domestica di Rossella O’hara.

E allora pace fatta, tutto a posto? E no, che rimangono dubbi, che m’arrovello d’incertezze. Che se fino ad ora il ragionamento a me pareva non facesse una grinza, manco una pieghetta rasa rasa, se m’ero accodato nel derubricare le strombettate dell’omonimo del passeggiatore lunatico, a pura e semplice mercanzia d’asporto, più d’una cosa, a cinquant’anni dalla sua dipartita, non mi torna. Semmai mi sovviene che quando bambineggiavo intorno al giradischi della Selezione del Reader Digest, dalla puntina abbassata senza garbo dalla mamma, gracchiava quella tromba, ed a me mi si muovevano le gambe. Era come se ci fosse qualcosa di magico e misterioso in quella roba, prima che l’età della ragione m’inducesse ad espellerla a lungo per consapevolezze – quanto spontanee non saprei dire -, che non m’evitava di ridere come se mi facessero il solletico sotto i piedi. E il “No, Satchmo no”, piano piano, lentamente, s’è spento, né più mi viene di saltare al brano successivo d’una compilation quando quel tappeto di velluto si fa suono. Pure mi si allarga il riso se mi prefiguro il faccione da palla da basket che campeggiava sulla copertina d’un vinile, più d’uno, anzi. Pare proprio vero che quando s’invecchia si torna bimbi.

Forse era un conformista Armstrong, e sottolineo il forse, che ormai non ne sono manco più così sicuro. Che certo non rilasciava dichiarazioni roboanti a difesa della sua gente. Ma all’apice del successo, durante i disordini razziali degli anni ’50, non esitò a mandare a quel paese il governo americano dopo aver visto un bianco sputare in faccia ad una studentessa nera. Quindi non staccò nemmeno il biglietto per un tour in Russia organizzato dal dipartimento di stato, ed in piena guerra fredda, se non significava esattamente “mi scelgo io qual’è il mio paese”, certo somiglia parecchio ad un “so comunque chi è la mia gente”. Ed è difficile non ammettere che il suo stile, così apparentemente semplice e ripetitivo, alla fine ha consentito di creare i presupposti perché il jazz divenisse musica libera ed universale, persino entrando nelle viscere e rivoltandole di chi apparve come il perfetto contraltare del Nostro. Non credo sia così scontato che, senza quell’esperienza Ragtime, avremmo ascoltato un giorno le furibonde tirate di Ornithology, nemmeno le ovattate atmosfere di Ascenseur pour l’échafaud. Pure, nell’evidenza che i dischi comunque li incidevano i bianchi, lui fa d’aprifila, abbatte una frontiera che non era scontato che in una certa America potesse crollare. Se poi non s’è messo a rivendicarlo per se e per altri, al limite, chi se ne frega, se quel faccione m’ha fatto ballare e sorridere, e qualche volta lo fa ancora. E manco stavo nella pelle quando, ad un paio d’anni dalla sua scomparsa, ho scoperto che il vecchio amico inglese, assiduo frequentatore d’ogni jazz club minimamente rispettabile d’Oltremanica, e con cui dividevo fiaschi di vino e jazz nella bettola sotto casa, prima del suo ultimo viaggio, aveva dato disposizioni che mi si recapitassero tutti i suoi vinili e centinaia di musicassette dell’ “odiato” jazz dell’adorato Adorno. E, fatto ovvio che ve n’erano parecchie di Satchmo, non ho resistito alla tentazione di procurarmi un vecchio mangianastri in un mercatino di vecchiumi che, premi un tasto, poi un altro, fa pendant con le atmosfere fumose di casa mia, e colonna sonora per certi whisky torbati, mentre mi scappa quello strano fenomeno che le gote mi si gonfiano a pallone da basket.”

De profundis

Dinnanzi al volo del Grande Tacchino, ultimo per definizione, tutti siamo chiamati al cordoglio definitivo ed imperituro.

Poiché polvere siamo e polvere ritorneremo, a scanso d’equivoci lascio preciso testamento cantato.